Soldi
Atena, una ragazza non parla di soldi. I soldi sono una cosa da uomini.
Mia nonna mi diceva così.
Le donne della mia famiglia non hanno mai toccato i soldi. Non li hanno mai contati, non se ne sono mai occupate. Non ho mai sentito domandare: quanto costa. Non le ho mai viste pagare. Non li avevano: ne disponevano. Come dello spazio e del tempo. I soldi - nei miei pensieri di bambina - non stavano neppure materialmente dentro la nostra casa. Li teneva mio padre da qualche parte fuori: forse nel granaio, o nella serra. Nascosti. A volte comparivano in uno scambio di attimi tra le sue mani e quelle del fattore. Altre volte qualcuno accennava, a tavola, a qualcosa da acquistare - un cavallo per me, quando ho compiuto dieci anni, propose la mamma - senza tuttavia mai nominarli. Venivano tenuti fuori dalla vista e dai discorsi. Qualcosa di illimitato e indecente. Indispensabile ma sporco. E da quando sono piccola che i soldi mi fanno schifo, e chi ne parla.
Mia nonna e mia madre erano identiche. Avevano quella pelle, quegli occhi blu. Quelle mani dipinte, fatte per suonare il piano e per adagiarsi una sull’altra in grembo. Bellissime, veramente. Donne bellissime, di giunco e d’acciaio. Mio fratello più grande somiglia a mia madre, io no.
Io ho il viso quadrato i capelli ricci e la pelle scura che si abbronza subito, come mio padre. Per questo mi hanno sempre imposto i cappelli, da piccola. Non dovevo prendere il sole. Anche la pelle scura, come i soldi, è una cosa da uomini. Mio fratello sembrava una ragazza. Io no.
A quattordici anni mi hanno mandata a studiare a Bologna. A quindici mi sono innamorata del mio professore di piano, Paolo, che ne aveva quasi trenta. A sedici abbiamo fatto l'amore. Sul divano rosso dell'aula di musica, il più bel posto del mondo. A Natale, quando per le vacanze sono tornata a casa in campagna, ho annunciato che mi sarei sposata con lui. Anche mia nonna si era sposata a sedici anni. Ho detto infatti: anche tu, nonna, ti sei sposata alla mia età. Lei, che era già così debole e si alzava di rado, solo nelle occasioni solenni, mi ha fatto uno strano sorriso. Mio padre ha sostenuto lo sguardo di mia madre in silenzio. Nessuno ha detto una parola. Solo mio fratello si è voltato verso di me e mi ha detto sottovoce, come uno schiaffo dato di nascosto: il professore di piano, un poveretto. Un uomo senza soldi non vale niente, no? Li ho odiati tutti, li ho sempre odiati. Sono stata felice quando mi hanno mandata via da casa. Mi sentivo una guerriera. Ero fiera di me, sola e fiera. A gennaio sono entrata in collegio a Firenze. Paolo non l'ho visto più. Scrivevo, e non mi rispondeva. A luglio, quando sono tornata a casa, mio fratello mi ha detto: lo hanno trasferito, non sta più a Bologna, è andato a vivere lontano non so dove. Sorrideva. Mi sono ammalata. Ho passato l'estate in camera mia. A settembre sono tornata a Firenze. Di queU’invemo non ricordo quasi niente. Ho finito il liceo, ho compiuto diciott'anni, a giugno sono tornata in villa per il funerale di mia nonna, a luglio sono partita per l’America.
In quattro anni i miei genitori non sono mai venuti a trovarmi e io non sono mai tornata. Mio padre, prima che partissi, mi aveva detto: avrai tutto quello di cui hai bisogno, un bonifico mensile coprirà tutte le tue spese a condizione che tu avanzi negli studi e finisca nei tempi. Ho lasciato l'università dopo tre mesi. Sono andata in Canada per seguire un maestro di sci conosciuto in un pub, a Boston. Ricky. Ho vissuto con lui, quell'inverno. Accompagnando un gruppo venuto a fare sci alpinismo ho incontrato Matthew, che insegna Fisica all'università di Winnipeg. Mi sono trasferita nella sua casa nel campus. Sono stati due anni belli. Matthew è molto più grande di me, già allora aveva quasi sessantanni. Era felice che tornassi la sera a casa da lui, ma voleva che fossi libera: tu esplora, Atena - mi diceva. Ci sono stati molti uomini, in quel periodo, e poi una ragazza. Quando ho detto a Matthew di Alicia lui mi ha detto: lo sapevo, stavo aspettando il momento, è stato un regalo il tempo con te. Con Alicia sono tornata in America, New York. Voleva subito sposarmi, mi sono un po’ spaventata. Voleva una famiglia, mi pareva presto. Ho cominciato ad aver bisogno di soldi, a lavorare qua e là nei locali. Tornavo stanchissima la notte. Mettevo i suoi vestiti, le sue scarpe. Lei mi ha trovato un piccolo incarico al suo centro di cultura yoga: un lavoro di contabilità, non molto eccitante certo, ma almeno era di giorno. Ho cominciato a praticare anche io, mi sono molto appassionata, nei weekend mi iscrivevo spesso ai seminari. Una domenica, per uno scambio di corsi fortuito, ho conosciuto Tommaso.
Tommaso è un maestro di yoga meraviglioso. E stato un attimo, l’amore: una scossa elettrica. Uno sguardo, poi la mano che si poggia sulla spalla per correggere un movimento: era già successo tutto. Dopo qualche settimana mi ha detto: torniamo, Atena. Torniamo in Italia e apriamo una scuola nostra. Ho chiesto ad Alicia di venire con noi, lei ha detto va bene, il tempo di chiudere casa e andiamo. Siamo partiti tutt'e tre. Bergamo, la città di Tommaso. E stata dura. Abbiamo resistito otto mesi, i pochi soldi sono finiti subito ma non c'importava, dei soldi: non è questo che conta ci dicevamo sempre. Un giorno ho chiamato mio padre. In fondo - ho pensato - magari ha voglia di sapere come vivo, magari ci aiuta. E venuto a trovarmi. Quando ha visto la casa, noi tre, la stanza attrezzata a palestra non si è neppure tolto il giaccone. Mi ha detto parliamone fuori. Siamo andati al bar dell'angolo, c'era il rumore forte dei videogiochi. Mi ha staccato un assegno, era la prima volta che mi metteva in mano dei soldi. Cinquemila euro, moltissimi. Mi ha detto: puoi scegliere. Se resti qui non chiedermi più niente, mai più. Se torni la tua casa è aperta. E ripartito per l'aeroporto con un taxi. L'ho visto l'ultima volta all'angolo di quel bar, dietro al finestrino.
Dopo la morte della nonna i miei si sono separati. Non so più niente di mia madre. Non chiamo, non mi chiama. Alicia è tornata in America, dice che possiamo andare da lei quando vogliamo. Ho provato ad amarvi entrambi, mi ha scritto, ma tu la verità la conosci: è solo con te che sono felice. Io e Tommaso ce la caviamo, ci basta pochissimo per vivere. Mio padre lo sento al telefono ogni tanto. Ha una nuova compagna che non conosco, aspettano un bambino. Da quando ho avuto la notizia del nuovo figlio, è strano ma è così, ho cominciato a pensare che anche io vorrei averne uno, adesso. Ne ho parlato con Tommaso, dice che sarebbe bello ma non possiamo permettercelo. Ha ragione. Quello che guadagniamo non ci basta per pagare le spese della casa. Ho ripreso a fare la cameriera la sera, pagano pochissimo e al nero ma va bene, sono quei trecento euro che servono. Però questo pensiero del bambino non mi lascia.
Penso sempre a mia nonna, al suo profumo sottile, alle sue mani sul piano. Era buona, mia nonna. Non si dava il permesso di abbracciarmi ma io lo so che avrebbe voluto. Aveva la voce gentile, con me. Anche un piano vorrei, per suonare. Tommaso per Natale ha comprato una tastiera elettronica ma non è la stessa cosa. Comunque al pianoforte posso benissimo rinunciare. A molte cose posso rinunciare, quasi a tutte.
Però un figlio non riesco a smettere di volerlo. I soldi - ecco a cosa mi servirebbero. Li userei per fare un figlio. Anche due. Ma non possiamo. Tommaso è un poveretto. Questo direbbe mia madre. Vuoi crescere un figlio da povera? La sogno, la odio, mi odio. No, non voglio crescere un figlio da povera. Poi voglio. Poi di nuovo non posso. È il vicolo cieco della mia vita. Dove vado, adesso?