Compiti

C'è soprattutto questo fatto che io pensavo che fosse colpa mia. Sentivo una rabbia tremenda contro me stessa perché non ero come volevano loro. Cercavo sempre di accontentarli di essere gentile, gli facevo tutti i compiti, cercavo in ogni modo la loro benevolenza ma niente. Postavo le foto su Facebook, mi mettevo dei vestiti corti e aderenti poi usavo quei programmi per modificare le immagini, le miglioravo. Speravo che mettessero «mi piace» ma niente. Mi dicevano che ero grassa, che ero bassa. Mi dicevano che ero lesbica, che nessun ragazzo mi avrebbe mai voluta perché ero così brutta che solo una donna avrebbe potuto amarmi. Mi chiamavano buzzicozza. E altre cose che non mi va di ricordare.

Soprattutto le ragazze. Erano soprattutto donne. Molto carine, magre, ammaliatrici. Avevano tutto. Amici, fama, soldi. Facevano le modelle per il negozio di abbigliamento più caro del mio paese, abiti di stilisti che poi usavano per farsi le foto su Instagram. Andavano anche bene a scuola.

I compiti glieli facevo io. C'erano anche i maschi, certo. Ma le ragazze erano molto più cattive. Crudeli. Per strada passavano in gruppo, anche quelle di altre scuole, e dicevano ad alta voce guarda quella è la lesbica, la grassona del Murialdo.

A sedici anni ho iniziato a non mangiare più. Ho perso venticinque chili. Poi le abbuffate e il vomito, ma a casa mia non se ne è mai accorto nessuno. Anzi, i miei erano contenti che fossi dimagrita. Mangiavo di nascosto e poi andavo in bagno ma non se ne accorgevano perché lo facevo quando non c'erano e poi pulivo tutto col disinfettante, e quando mia madre tornava le dicevo mi sono dedicata a pulire un po’ la casa, e lei brava, Sara, che brava che sei.

Mia madre è la persona più sicura e forte che conosco. Lei si considera una cattiva madre perché ha lavorato troppo, dice, ed è stata poco con me e mio fratello piccolo. Ma non è vero. Ha realizzato i suoi sogni, non deve screditarsi, ha fatto bene così. Mio fratello poi è venuto giusto. E spavaldo, ha molti amici. Se va male a scuola pazienza, è bravo nello sport.


Avevo quattordici anni, primo anno di liceo. Ero un po’ più timida, ci mettevo tanto per arrivare a scuola perché abitavo lontano, non ero come loro. Ero normale. Una volta una di loro mi ha detto se vuoi venire alla mia festa mi devi fare i compiti. Glieli ho fatti, e lei ha detto che la festa era stata annullata. Non era vero, ho visto le foto su FB due giorni dopo ma non ho detto niente. Ho pensato che forse non le avevo fatto i compiti abbastanza bene. Da allora hanno cominciato tutte a chiedermeli, e io glieli facevo. Stavo fino a notte, con calligrafie diverse, poi la mattina presto gli restituivo i quaderni. Loro erano furbissime perché non si facevano mai vedere dai professori quando mi facevano gli scherzi, tipo togliermi la sedia e farmi cadere, poi ridevano, ma sempre al cambio dell’ora. Una volta un ragazzo di quarta mi ha detto se vuoi dimostrare che non sei lesbica c’è un modo. Vieni oggi pomeriggio al portico. Sono andata, lui era lì con i suoi amici. Mi ha detto adesso devi venire con noi e fare quello che ti diciamo, così ti togli la fama. Io ho avuto paura, sono andata via. Non mi hanno nemmeno seguita, si vede che non gli importava che me ne andassi. Li sentivo dietro che ridevano. Da allora hanno cominciato a prendermi in giro anche i maschi, ma c’erano sempre le ragazze con loro. Una mattina finalmente mi hanno invitato a una festa, di venerdì sera. Mi hanno lasciato il biglietto sul banco. Io mi sono messa un vestito di mia madre, corto, e sono andata. Di quella sera non voglio parlare^ Non l’ho mai raccontato a nessuno e non mi va di farlo. E stato il giorno più brutto della mia vita. Dopo loro hanno continuato a bere e a sentire la musica e io sono tornata a casa a piedi, da sola. Soprattutto avevo paura che mia madre mi dicesse che le avevo rovinato il vestito.


A diciassette anni mi sono innamorata. C’era un ragazzo, a scuola, gentile. Stava sempre da solo anche lui. Ci siamo aiutati. Ci siamo anche baciati, dopo un po’ di tempo. Lui si vedeva che voleva difendermi ma non ce la faceva. Però voleva. Dicevano che era autistico, ma non era vero. Era solo timido. Gli facevano scherzi bruttissimi. Lui diceva poveretti, lasciali stare, non vale la pena arrabbiarsi.

Io li volevo denunciare, volevo parlare coi professori ma non avevo il coraggio. Erano gli stessi che facevano i bulli anche con me, erano di famiglie importanti del paese, poi dopo sarebbe stato anche peggio. Con Massimo alla fine ci siamo lasciati. Ha cambiato scuola, i suoi si sono trasferiti a Viterbo e non l’ho visto più.


A un certo punto i professori hanno chiamato i miei genitori per dire che ero troppo timida, troppo chiusa, forse avevo bisogno di uno psicologo. I miei dicevano, fra loro a casa quando ero nella mia stanza, che ero così di carattere e lo psicologo forse non serviva. Un’esagerazione, diceva mio padre. Però mamma mi ha portata, alla fine, senza dirglielo. E così lo psicologo ha scoperto della bulimia nervosa, delle violenze e del resto. Sono stata io a decidere di ricoverarmi. Mi avevano detto che c'era un centro a Todi, ho chiesto se si doveva fare un esame per entrare. Nessun esame, mi hanno risposto. Ho convinto anche mio padre: solo per qualche mese, ho detto, e sono andata via. Avevo diciotto anni ormai, potevo decidere.


Ora va meglio. Mi consola molto non essere mai sola, qui al centro di cura. Posso stare in tuta, mettere i vestiti larghi che mi pare. Le assistenti e i medici sono gentilissimi. Mi sono fatta un piercing all'orecchio, mi sono tagliata i capelli. Mi sono anche innamorata di nuovo, ma lui non lo sa. Bisogna stare attenti con l'amore: non bisogna mai annullarsi per un altro, però ci si arriva vicini. Bisogna vigilare.

L'anno prossimo quando guarisco voglio andare all’università. Voglio diventare insegnante di storia e italiano e latino in un liceo, voglio andare a lavorare a Firenze. Ci sono stata in gita, a Firenze, è bellissima. Vorrei essere più alta e più magra, ma poco a poco sto smettendo di pensarci. Magari lo trovo lo stesso un ragazzo che mi vuole bene, a Firenze. Non conta mica solo la bellezza. Anche la gentilezza, penso. Però non sono ancora pronta. Devo prima essere molto sicura di non sentirmi più smarrita. Perché vorrei avere quattro figli, due maschi e due femmine. E per avere i figli non si può essere una persona debole. Bisogna essere sorridenti e sicuri di sé. Forti e diritti. Bisogna essere un po’ come mia madre.