Girini
Una mattina di ottobre una bambina di sette anni si svegliò. Si scostò dal viso una ciocca di capelli rossi e nel farlo fece cadere l'orso Baloo, lo raccolse e vide nel letto accanto sua sorella Clelia che dormiva dunque pensò è presto, non è ancora ora. Restò così, con gli occhi verdi aperti a pensare che quella mattina a scuola avrebbero messo i rospi nel terracquario, la teca di vetro era lì vuota e pronta in fondo all'aula, stamattina la maestra avrebbe portato i rospi, chissà se li avrebbe tirati fuori dalla borsa. Come si portano i rospi, pensò. In mano no, forse in una scatola, e la scatola nella borsa.
In quel momento entrò sua madre, una donna alta bianca e sottile con un volto irlandese da violoncellista e una leggera apprensione nello sguardo. Chiamò per nome le tre figlie, come ogni mattina. Prima le due più piccole, gemelle di cinque anni, perché sapeva che avrebbero anche quel giorno protestato: una avrebbe detto no, di nuovo a scuola no ci siamo già state ieri, l'altra avrebbe detto infatti, quante volte ci dobbiamo andare, ora basta.
Cecilia le ascoltò ripetere le parole di ogni giorno pensando certo, loro non ci vogliono andare a scuola perché non hanno i rospi, e aspettò che fosse il suo turno. Quando la madre si chinò su di lei sfiorandole il viso coi lunghi capelli identici la bambina si alzò subito seduta e disse «posso mettere la camicetta a fiori stamattina, mamma?» Ma non sentì queste parole: sentì dei suoni di caverna che non conosceva, come un singhiozzo roco. Lo ripetè. Questa volta non sentì niente, solo un dolore fortissimo in gola e nel petto. Ebbe paura. Cosa mi è successo, pensò. Perché non sento quello che dico. Guardò sua madre con occhi grandi di domanda e di spavento. La madre la prese per le spalle, la scosse forte. Cecilia provò ancora a dirle della camicetta. Fu inutile, quella e tutte le altre volte dopo. La sua voce era andata via.
E con la voce se ne andarono - chissà dove, chissà perché - anche le gambe e le braccia, con la voce era sparita la vita nel corpo. La bambina non poteva più muovere sé stessa, senza ragione e all'improvviso. Si era rintanata tutta nella testa: era ancora lì ma aveva perso i comandi di sé. Furono ambulanze e camici, odori di disinfettanti e luci blu intermittenti. Furono parole remote e sussurrate, notti insonni e immobili. Il grande silenzio ebbe inizio. La voce era rimasta solo, fortissima, dentro di lei. Le diceva alzati, Cecilia: spiega a mamma e papà che stai bene. Fuori nessuno la sentiva. Fuori pensavano che la malattia avesse rotto la bambina per sempre. Pensavano che fosse incapace di capire, di sentire. Che stesse morendo.
La bambina non morì. La sua grande voce nella testa, ancora difettosa con le t e con le d che non aveva mai imparato bene a pronunciare, parlava senza sosta con le pance dei medici e degli infermieri, perché solo quello dal letto vedeva, voltando la testa: bottoni di camici all'altezza della pancia. Ascoltava e rispondeva alle voci dei compagni di classe che ogni giorno, ogni giorno uscivano dal registratore che qualcuno accendeva sulla sedia di plastica accanto a lei. Vedeva le cassette entrare nel registratore, una mano azionare il tasto al centro e sentiva Silvia, Alessio, Federica e Marco che le raccontavano dei rospi: stanno sempre fermi, li guardiamo tutta la mattina ma non si muovono, solo dagli occhi si capisce che sono vivi. Sono bruttissimi. I girini non sono ancora nati. Sentiva la maestra Francesca che diceva ti aspettiamo, Cecilia. Ti aspettiamo per vedere insieme i girini. Torna.
La bambina pensava che i rospi fossero belli, invece. Anche loro immobili e muti.
Un giorno girò la testa sul cuscino e vide finalmente i volti. Qualcuno doveva aver spostato il suo letto. Vide un medico che parlava con suo padre e sua madre. Erano oltre il vetro. Il medico scuoteva la testa, diceva no. La madre parlava ma lei non poteva sentirla. La voce, non sentiva la voce. Voleva andare da lei ad abbracciarla, voleva chiamarla. Le venne da piangere.
Passò del tempo. Il giorno che arrivò la telefonata della vecchia maestra Francesca Cecilia aveva appena compiuto ventitré anni. Doveva uscire quel pomeriggio con Andrea, il suo ragazzo. Un allievo della sua stessa compagnia di teatro. Prima solo amico e compagno di prove poi una sera: l'amore. Dovevano parlare di Ofelia, la sua prossima parte. Aspettami un’ora, gli disse con la sua voce arrotata e limpida. Solo un’ora. Vado a trovare una persona e torno subito. Aspettami qui, al tavolino di questo bar. Torno subito.
La maestra abbracciò la bambina diventata donna e si commosse con le lacrime. Sentì la sua voce e non la riconobbe. Sembrava quella di qualcuno che ha imparato l’italiano da grande, che deve pensare e scegliere attento ogni parola. Era una voce che prima di arrivare alle labbra faceva un viaggio lungo, dal petto alle mani alla mente alla bocca. C'era qualcosa, in quella voce, di ipnotico. Di meccanico e dolce. Una voce stupita. La maestra le chiese, dopo molti racconti e solo alla fine di tutto, se per caso ricordasse qualcosa, e cosa, dei suoi mesi in ospedale. Cecilia disse non me lo hanno mai chiesto, sa, maestra. I suoi occhi verdi e ridenti la guardarono a lungo tra le lentiggini e ripetè: mi ricordo, sì, ma nessuno prima d'ora me lo aveva mai chiesto.
La voce della ragazza cambiò. Fu come se dal passato tornasse la bambina a prenderla per mano. Aveva ancora le d e le t difettose, ma non tanto quanto allora. Solo un poco, come due voci che parlano insieme e si mescolano. Sorridendo alla maestra, la voce della bambina e quella della ragazza per la prima volta dissero, senza spavento ma con stupore, quello che Cecilia aveva visto.
Mi ricordo, disse Cecilia per mano a sé stessa.
Mi ricordo che volto la testa sul cuscino e vedo dietro una parete di vetro opaca queste due persone: sono i miei genitori. Aspettano. Penso: aspettano me. Voglio andare da loro ad abbracciarli. Guardano per terra e si tengono le mani. Mia madre è seduta con le mani sulle ginocchia, più avanti. Mio padre è accanto, ma un po’ indietro, tiene le sue mani sulle mani di mia madre. Tutte quelle mani sulle ginocchia di mia madre, vedo. Quante mani sono? Penso che stiano piangendo. Stanno piangendo. Voglio andare da loro a dire state tranquilli, sono qui. Ci sono ancora. Eccomi, non mi vedete?
La maestra non trovò altre domande. Disse solo, come parlando a sé stessa: avevi paura?
No, rispose la bambina. La ragazza e la bambina dentro dissero: no. Non avevo paura, sapevo che dovevano nascere i girini e li aspettavo. Perché - i suoi occhi verdi d'acqua cercarono il ricordo - quella mattina la mia compagna di banco, Silvia, si ricorda Silvia maestra?, mi aveva detto dal nastro - la sua voce mi aveva detto: i girini nascono domani, forse. E infatti il giorno dopo, o forse due, non so, tutte le voci dei compagni gridavano dalla sedia di plastica accanto al mio letto e mi dicevano sono nati, sono nati. Sono tantissimi. E il ricordo più bello della mia infanzia. Stavo lì, come in un’incubatrice. Davanti a me, sul viso, c'era qualcosa che mi copriva. Qualcosa di plastica. Mi sentivo imprigionata, con un senso di claustrofobia come se non potessi respirare. Ero distesa in basso, dal letto vedevo solo pezzi di persone. I bottoni sulla pancia. Però pensavo ai girini. Mi devo sbrigare, pensavo. Devo andare a vederli. Ero felicissima.
Poi, raccontò Cecilia alla maestra, vennero i mesi e gli anni in cui la voce che se ne era andata insieme alle gambe e alle mani doveva tornare. Tutti dicevano: deve tornare. Io la sentivo sempre dentro e non capivo tornare da dove. Tornare come. Di quegli anni non mi ricordo tanto, disse. Solo di quella volta che indicavo sulla lavagnetta con le lettere la parola Cipster, perché volevo le patatine Cipster che erano nel mobile, e nessuno capiva questa parola facilissima: Cipster. Dicevano cose assurde e io pensavo: ma come fanno a non capire. Una rabbia tremenda.
Mi ricordo anche che non mi piaceva la notte, il buio. All’ospedale non era mai buio e a casa la notte volevo la luce accesa, volevo vedere sempre. Preferisco vedere tutto, anche adesso sorrise.
Poi, aggiustandosi il primo bottone della camicetta di organza a fiori rosa, la ragazza disse sarà meglio che vada, adesso. Andrea mi aspetta.
Ma i girini, Cecilia, ti ricordi di quando sei venuta a scuola a vedere i girini?, domandò per non lasciarla andare la maestra.
La bambina la guardò diritto negli occhi per un minuto intero. Occhi grandi, stupefatti. Una voce piena di gratitudine e pudore, disse: mi scusi, mi sono distratta a pensare. Certo, erano tantissimi. Li vedo ancora adesso. Un’infinità di piccolissime code. Lo sapevo che erano lì: mi stavano aspettando. Bravi che non vi siete arresi, bravissimi proprio, ho detto ai rospi. Poi ho detto: ciao, girini, come va? Cioè non l’ho detto. L’ho solo pensato perché parlare non potevo ma io, se ci penso, ancora oggi sono convinta di averlo detto. Parlavo, ma gli altri non mi potevano sentire. Anche i girini del resto di sicuro si parlano. Solo che noi non li sentiamo, disse la ragazza con voce di bambina. Quella voce con tutte le t e tutte le d ancora da aggiustare per mano all’altra voce: vigile, adulta, vicina.
Poi si alzò in piedi e salutò con abbracci due volte, si vedeva che nella contentezza aveva fretta di andare.
- Andrea è il mio primo ragazzo, sono molto molto innamorata, - disse arrossendo il volto irlandese. Le t erano all’improvviso di nuovo al loro posto, perfette, e uscì dalla porta ridendo.