XV
IL PARADIGMA DELLA GOGNA
L’intreccio tra urgenza degli arresti (o degli avvisi), pubblicità dell’indagine e indignazione collettiva costituisce il paradigma della «gogna». Da venticinque anni si ripresenta con una successione di eventi che delinea una vera coazione a ripetere del sistema. Prima gli arresti o gli avvisi, subito dopo le intercettazioni sui giornali, poi l’onda montante del pubblico disdoro e i contraccolpi politici che si scaricano sul destino di un’istituzione o sulla tenuta di un governo e della sua maggioranza.
Il reale obiettivo di questo paradigma giustizialista è l’attacco alla separazione dei poteri. In alcune indagini risulta, a chi voglia vederlo, individuabile a prima vista. Con una conseguenza collaterale: questo obiettivo deforma la natura stessa dell’investigazione, non più diretta a cercare le prove del fatto che costituisce il reato, ma piuttosto a evidenziare dettagli privati, sospetti, illazioni capaci di suscitare, attraverso la loro pubblicità, il massimo grado di indignazione possibile, a cui corrisponda il massimo grado d’impatto politico. Ci sono casi recentissimi di ministri, come Federica Guidi e Maurizio Lupi, neanche indagati, costretti a dimettersi per gli effetti di indagini prive di alcuna rilevanza penale, ma usate mediaticamente con strategia virale. È infatti un virus giudiziario-mediatico quello che si produce nel rimbalzo tra il circuito dell’opinione pubblica e quello delle élites. Negli ultimi sei anni, cioè dopo la temporanea uscita di scena di Berlusconi, la sua aggressività è stata maggiore, poiché è cresciuta la temperatura sul termometro del giustizialismo di massa, facendo venir meno anche gli ultimi anticorpi sociali.
Così il dirittismo antielitario e il giustizialismo hanno avuto la meglio sulle residue forme di delega del potere e del sapere di una democrazia esangue. Ma se il loro impatto sul sistema politico e istituzionale è ormai una patologia cronica del Paese, il loro effetto collaterale sulla società intera è un carico di dolore immane. L’uno e l’altro, cioè l’impatto politico e l’effetto sociale, sono due facce dello stesso problema prima descritto: il dirittismo e il giustizialismo, nel loro attacco al sistema, sacrificano con indifferenza la sorte delle persone. Il prezzo dell’attacco al potere è il dolore. La magistratura in Italia è una potente macchina di dolore umano non giustificabile.
La storia di Ilaria Capua lo spiega meglio di qualunque esempio concettuale. Virologa italiana di fama internazionale, di lei e dei suoi studi si sono occupati non solo le riviste scientifiche, ma anche giornali come il «New York Times», che nel 2006 le ha dedicato un editoriale di questo segno: «Una scienziata italiana, da sola, ha deciso di sfidare l’Organizzazione mondiale della sanità rifiutandosi di mandare i dati della sua ricerca all’archivio riservato dell’Oms. Ha invece diffuso pubblicamente le informazioni sulla sequenza genetica del virus dell’aviaria e spinto i suoi colleghi a fare lo stesso. Ilaria Capua è sicuramente nel giusto».
La scienziata accetta nel 2013 di candidarsi al Parlamento italiano nella lista dell’allora presidente del Consiglio Mario Monti, Scelta civica. Viene eletta e comincia la sua attività politica come vicepresidente della Commissione cultura della Camera. Ma ad aprile 2014 il settimanale «L’Espresso» pubblica in prima pagina un’inchiesta corredata dal titolo: Trafficanti di virus. Il sommario è eloquente: «Accordi tra scienziati e aziende per produrre vaccini e arricchirsi. Ceppi di aviaria contrabbandati per posta rischiando di diffonderli. L’inchiesta dei Nas e dei magistrati di Roma sul grande affare delle epidemie». Dell’inchiesta, Ilaria Capua è il nome eccellente: è tra i cinquanta scienziati più importanti al mondo secondo la rivista «Scientific American», è deputata, ed è indagata per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, abuso d’ufficio e traffico illecito di virus. Reati gravissimi.
Secondo carabinieri e magistrati inquirenti, la Capua è coinvolta, insieme al marito e ad altri, nel contrabbando dei ceppi virali dell’aviaria. L’istituto padovano dove lavora appare agli investigatori come lo snodo di un giro vorticoso di affari oscuri e arricchimenti illeciti. Le carte, rese pubbliche dal settimanale, sono zeppe dei virgolettati delle intercettazioni, che, date in pasto al lettore, contribuiscono a rafforzare l’effetto-verità dell’inchiesta. Sotto la cui scure Ilaria Capua rimane per due lunghissimi anni, senza che nessun magistrato della procura si degni di interrogarla. Finché, nel luglio scorso, d’improvviso il castello di accuse si sbriciola e cade rivelando la sua inconsistenza. Senza neanche arrivare al processo. Il giudice dell’udienza preliminare proscioglie la scienziata «perché il fatto non sussiste».
Ma, intanto, lei ha deciso di andarsene dall’Italia. È stata sotto una montagna di accuse per troppo tempo. Tempo in cui, come ha raccontato in una lettera pubblicata sul «Corriere della Sera», «non avevo più il coraggio di uscire, di andare dal fruttivendolo, di girare per il paese padovano dove vivevo». Tempo in cui ha ricevuto solidarietà a bassa voce, nella ristretta comunità scientifica, e insulti a squarciagola in pubblico, dove è stata trattata come un’appestata. Tempo in cui ha dovuto ascoltare l’onorevole Silvia Chimienti, dei Cinquestelle, intimarle sulla sua pagina Facebook: «Traffico illecito di virus. Nel dubbio dimettiti!».
Il dubbio, sempre il dubbio. Che diventa presto presunzione di colpevolezza. Gogna pubblica. Condanna anticipata. Basta un’indagine, basta la lordura di qualche intercettazione. E non basta, invece, essere scagionati da ogni accusa, se ancora all’indomani del proscioglimento «L’Espresso» – nel darne conto, evidentemente a malincuore – continua a parlare della Capua come della «signora dei virus», riproponendo dalle conversazioni registrate le parole che servono a tracciare il ritratto livido di una persona immorale, senza scrupoli, che prende «per le palle» le persone e fa «crepare» quelli che «mi stanno sul cazzo». Evidentemente, la vergogna di estrapolare espressioni che chiunque di noi ha diritto di usare in privato, per qualunque motivo, la vergogna di sbatterle sulla pagina a prescindere dalle risultanze dell’inchiesta, ma in modo da comporre, con quelle parole, un ritratto pubblico sostanzialmente denigratorio, una simile vergogna non finisce neppure quando finiscono le accuse delle procure.
Chiunque legga questa storia, fino all’epilogo con le dimissioni di Ilaria Capua dal Parlamento, vi trova tutti i nodi del cattivo funzionamento della giustizia in questo Paese. Lo dice la stessa Capua nella sua lettera: «Penso che, se questo mio passaggio di vita come rappresentante del popolo italiano lascerà un segno, non riguarderà la scienza o la ricerca. Riguarderà la giustizia». Riguarderà, aggiungiamo noi, le fasi preliminari di indagini che non si chiudono mai, riguarderà la diffusione incontrollata delle intercettazioni, riguarderà la mancanza di una seria responsabilità civile dei magistrati, riguarderà il ruolo predominante della pubblica accusa, che tracima sistematicamente fuori dalle aule, alla faccia del principio costituzionale del giusto processo. Riguarderà, insomma, la cultura giustizialista di questo Paese, che ammorba il confronto pubblico e getta pesanti ombre di discredito su chiunque sia anche solo lontanamente sospettato o riceva un avviso di garanzia o si ritrovi coinvolto in inchieste senza essere indagato o, addirittura, sia appena citato in qualche conversazione telefonica. Nessun proscioglimento, nessuna assoluzione dissiperà quelle ombre.
Intanto il Paese continua a precipitare lungo quella china che lo vede ormai da più di un quarto di secolo travolto dagli umori del risentimento e dell’invidia sociale, e a rimandare la ricostruzione del suo tessuto civile, di una sfera pubblica degna di questo nome, di una classe politica riconosciuta nel suo ruolo e nella sua funzione e non sotto il costante ricatto del sospetto. Stato di diritto significa rispetto delle garanzie, presunzione di innocenza, diritto di difesa. Democrazia liberale significa separazione dei poteri e tutela delle libertà. Né l’uno né l’altra significano verità e giustizia a ogni costo. Per le quali due, invece, ci vogliono i guardiani della rivoluzione e, nelle piazze, quelli che gridano all’untore. E che spiccano le loro sentenze a prescindere dal giudicato, costringendo una persona come Ilaria Capua a continuare la sua attività di ricerca in Florida.
«Ognuno di noi ha un tempo limitato che gli resta da vivere» ha scritto la scienziata nella sua lettera di commiato. «Utilizzare al meglio quel tempo è una forma di rispetto verso se stessi e verso gli altri. Anzi, un dovere. Ho sentito, quindi, che fosse giunto il momento di tornare a usare il mio tempo al meglio, di tornare nel mondo scientifico, purtroppo non in quello italiano, in un ambiente nel quale non avessi mai perso credibilità e nel quale fossi riconosciuta e apprezzata.»
Quanto tempo resta, al nostro Paese, per cambiare? Quanto tempo resta per comprendere che l’avviso di garanzia, simbolo di una giustizia cronicamente persecutoria, è la più eloquente immagine del declino italiano?