XIII

LA BANALITÀ DEL GUSTO

Il declino del Paese si specchia anche nel contributo che l’arte porta alla società. Quando parliamo di arte, ci riferiamo a tutte quelle forme di creatività e di espressione estetica, dalla letteratura alla pittura, dal teatro al cinema, la cui sostanza è nella stessa mediazione soggettiva dell’autore.

Ci sono due paradigmi con cui l’arte in Italia guarda e racconta il Paese. Il primo opera una pregiudiziale decostruzione, volta a mettere in luce i vuoti, le fratture, le contraddizioni latenti della realtà, secondo uno schema nichilista proposto in maniera rigida oltre il tempo delle avanguardie novecentesche in cui fu coniato. Proponendosi una ideologica rottura di tutti i processi sociali tradizionali in un contesto ormai già detradizionalizzato, questo atteggiamento corre sul confine di quello che un grande filosofo contemporaneo, Slavoj Žižek, nel suo libro L’epidemia dell’immaginario definisce «il collasso psicotico dello spazio simbolico», metafora di una vertigine esistenziale permanente, che nasconde la difficoltà di «sentire» e «comunicare» qualcosa. L’effetto è un senso comune artistico che, nella sua ansia di decomporre ciò che è già decomposto, non è più in alcuna relazione né con la crisi della società né con i suoi moti di cambiamento e di ricostruzione.

Il secondo schema pratica una lettura moralistica di tutti i processi sociali, connotata da un conformismo tematico ed espressivo che trova amplificazione nella serialità dei prodotti culturali. Identifica quello che un critico come Giulio Ferroni, in un saggio di alcuni anni fa intitolato Scritture a perdere, definiva il «New Italian Epic», l’arcadia del noir, una letteratura che produce romanzi in serie con la pretesa di mostrare i mali del Paese, raccontati con una scrittura neutra fatta di artifici esteriori e ripetitivi, fondata su fatti di cronaca veri o inventati, comunque estremi, che configurano una sorta di adattamento alla lacerazione, una metafora dell’ineluttabilità del dominio del male.

C’è una ragione storica che può spiegare un tale dualismo di atteggiamenti apparentemente divergenti, riconducendoli a una matrice comune. Il decostruzionismo e il moralismo sono entrambi modalità reattive rispetto a quella prevalenza del tratto politico che segna la cultura italiana e che, in tempi ideologici, faceva dire a Bertolt Brecht: «Artisti, attenti, sarete giudicati!». Oggi il rifiuto della politica si esprime nel rifiuto di quel richiamo all’impegno del vecchio intellettuale organico di marca comunista e in uno slittamento estetico che pare un’apologia delle relazioni liquide della modernità. O piuttosto, volendo cercare una forma che articoli il contenuto di un impegno dell’arte rispetto alla realtà, e non trovandone una politica, l’artista se ne ritaglia una morale, pescandola nell’outlet del dirittismo.

Lungi dal voler suggerire una «postura civile» corretta dell’arte italiana, ci limitiamo a segnalare l’incapacità che essa ha di fare maieutica della società, cioè di sviluppare un pensiero critico capace di sovvertire il senso comune, piuttosto che di aderirvi, e di smascherare, anziché rafforzare, i cosiddetti falsi simulacri della tribù. Questo deficit di originalità, amplificato dall’impatto tecnologico dell’industria culturale, è in relazione con la crisi del discorso pubblico nel nostro Paese. Ne sono espressione lo slittamento del cinema verso la fiction, l’accentuazione del tratto caricaturale e sovraesposto della realtà rappresentata, con cui pure sono stati costruiti fenomeni di grande impatto sociale, come il cosiddetto «gomorrismo».

Ma ne è prova anche la debolezza del romanzo italiano nel raccontare e interpretare l’Italia, il motivo per cui nella letteratura nazionale è storicamente mancata, e di più in questa ultima stagione, una «pastorale italiana», cioè un’applicazione del romanzo alla lettura del contemporaneo, attraverso i vissuti della gente comune rielaborati dalla letteratura. Non mancano scrittori di successo e narrazioni, più spesso collocate in un tempo passato, capaci di raccontare una parte del Paese o uno spicchio della sua storia. Manca però il grande romanzo sociale, capace – direbbe uno scrittore come Jonathan Franzen – di incarnare il mistero di un’identità attraverso le usanze di un popolo.

Non basta, da sola, a spiegare questa mancanza la tesi secondo cui l’identità nazionale italiana sarebbe troppo fragile per essere la dorsale di un simile romanzo, rispetto a quella di Paesi come gli Stati Uniti d’America, dove questo modello ha trovato le migliori espressioni. In realtà, nei cocci di una frattura identitaria qual è la cultura civile italiana, composta quasi per miracolo e non senza lacerazioni in questo secolo e mezzo di unità nazionale, ci sarebbero altrettante ragioni per indagare e raccontare, come solo la migliore letteratura sa fare. Il fatto è che la scorciatoia morale e la sua duttilità a scomporsi in una quantità di prodotti seriali hanno indotto l’editoria libraria a volare basso e a investire le sue migliori energie verso semplificazioni di facile successo, adatte a diventare sceneggiatura di pellicole usa e getta. Con l’effetto che un altro Kafka potrebbe vivere e morire ai nostri tempi, anche stavolta senza che nessuno se ne accorgesse prima della sua morte.

In realtà, dietro un ipocrita impegno civile del modello cosiddetto morale, o piuttosto dietro la vertigine esistenziale del modello decostruzionista, si cela l’obiettivo di sterilizzare qualunque forma di potere, negandone la legittimità. L’arte diventa così, più o meno consapevolmente, la proiezione estetica di una deriva che connota nel Paese un pensiero unico, che attraversa la società e la politica, l’accademia e il diritto. Una sorta di senso comune estetico che, in alleanza con un sistema mediale privo anch’esso di antidoti interpretativi, opera nel discorso pubblico una drammatica riduzione della complessità.

Questo processo, talvolta giustificato con un malinteso primato della cultura popolare, sostituisce i poeti con i cantautori, l’approfondimento con l’intrattenimento. L’effetto sociale di tale perversa alleanza a perdere tra la cultura e i media è un’opera di diseducazione alla storicità e alla varietà del gusto. L’arte è espunta dal contesto temporale in cui è stata prodotta e trasposta in un presente indistinto, in una declinazione «sentimentale» intollerante per qualunque forma di complessità, falsamente popolare in quanto ideologicamente antielitaria. Così il gusto diventa proiezione nell’immaginario collettivo di una democrazia estetica disintermediata.

Si avvera in qualche modo la profezia di Walter Benjamin. La riproducibilità tecnica esilia l’arte dal luogo e dal tempo in cui la creazione autentica veniva goduta come pezzo unico e ne fa, attraverso la serialità, oggetto di consumo per le masse ignoranti. La qualità e la quantità dei cosiddetti consumi culturali degli italiani1 offrono a questo paradigma teorico una sorprendente conferma. Sessantasette italiani su cento, che al Sud diventano 78, non frequentano musei né mostre; 90 su cento non hanno mai ascoltato un brano di Mozart o Beethoven, o un’opera di Puccini o di Verdi; 80 non sono mai andati a teatro; 55 non leggono un giornale nell’arco di una settimana, 88 adolescenti su cento non lo hanno mai preso in mano. E ancora: solo 40 italiani su cento hanno letto un libro negli ultimi dodici mesi, con un calo degli indici di lettura costante negli ultimi sei anni. Il fenomeno riguarda soprattutto quei ragazzi che in un solo anno hanno perso sette punti percentuali, scendendo dal 54 al 47 per cento. Non è consolatorio pensare che nella loro vita lo smartphone stia sostituendo definitivamente il libro, perché chi non legge, non legge neanche online, né scarica testi in formato digitale.

I consumi culturali di questi giovani si indirizzano verso una drammatica semplificazione dei fondamenti di qualsiasi grammatica della vita pubblica. Nell’indifferenza collettiva sta evaporando, tra una generazione e l’altra, quella residua identità culturale comune, che ha fin qui fatto da contrappeso alla fragilità dell’identità civile. Nello spazio estetico frequentato da questi giovani, il rapporto con la cultura coincide con l’uso ripetitivo e meramente consumistico della tecnologia, la cui familiarizzazione in Italia è precocissima. Non si può certo chiedere all’arte di fermare una deriva della società così subalterna all’innovazione né, ancora, di restituire al Paese un tono civile degno della sua storia. Ma non resta che constatare che, se il pavimento della società smotta drammaticamente verso il basso, l’arte e la cultura vi si lasciano scivolare sopra, surrogando il movimento con l’inerzia del declino.

1. Annuario statistico Istat 2017.