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I FIGLI DEL DESIDERIO RIPIOMBATI NEL BISOGNO
Eppure dal logos bisogna ripartire. Bisogna appoggiare l’orecchio sulla pancia della società europea e auscultare i suoi umori più profondi. Bisogna guardare in faccia i figli della globalizzazione per comprendere perché il riformismo socialista e liberale, e lo stesso moderatismo di ispirazione centrista, cioè le principali forme del welfare e della democrazia rappresentativa nel Vecchio Continente, fatichino a parlare loro. E se parlano, non sono compresi né ascoltati.
Bisogna distinguere tra questo fascio di atomi fluttuanti nel vuoto, indifferenti, spesso ostili al prossimo, e neanche in pace con se stessi, che sono i «quasi cittadini» della più grande e incompiuta architettura geopolitica del mondo. Bisogna cercare orizzonti unificanti di senso, ma andare oltre il pessimismo di chi legge il presente con gli occhi del passato, e non cedere alla profetica lirica di Thomas Eliot, anche se i suoi «uomini impagliati» di un secolo fa, le cui voci sono «vento nell’erba rinsecchita»,1 sembrano starci davanti come attori di una nemesi. Bisogna capire che i figli della globalizzazione sono figli del desiderio.
La vecchia distinzione di classe, che ha fondato la filosofia della storia e la storia della lotta rivoluzionaria, sfuma nell’utopia soggettiva di miliardi di universi individuali, unificati dalla serialità delle aspettative e dalla forza potente del desiderio. Tutti sono figli di una mimesi che il desiderio trasforma in target, e la tecnica realizza. Non tutti vincono. E tuttavia anche i cosiddetti perdenti sono figli del desiderio, ancorché ripiombati nel bisogno. Perché attraverso il desiderio si relazionano con le istituzioni, i partiti e i movimenti. Non chiedono una rassicurante protezione sociale, ma riscatto. Che è molto più di quanto la politica, così come l’abbiamo concepita finora, possa offrire.
La sinistra «di governo» in Europa non riesce a farsi capire dai figli della globalizzazione. Dalla Germania alla Spagna, dalla Svezia alla Grecia, è in disarmo. E dove, come in Portogallo e in Italia, è ancora in sella, gioca in difesa con gli arnesi del passato. Per esempio, pensa, con le limitatissime risorse finanziarie di cui la sua agibilità politica dispone, di estendere una protezione pensionistica minima a quegli ex giovani che hanno perso il treno del lavoro negli anni della crisi e che faticano a raggiungere un numero congruo di contributi. Dimentica in tal modo, la sinistra riformista, che anche questi esclusi si relazionano con il potere in termini di desiderio. Non si accontentano di un vitalizio per la vecchiaia, ma vorrebbero riavvolgere le loro vite e riscriverle all’incontrario. Non vogliono essere ammessi al dopolavoro del welfare state, al fianco dei loro padri, ma vorrebbero un posto su un ascensore sociale fermo da tempo, per rifare il destino.
La sinistra di governo in Italia vede invece nei perdenti della globalizzazione i vecchi operai e i vecchi contadini con i quali teme di avere smarrito il contatto, a vantaggio delle forze radicali e massimaliste. Non comprende che anche gli operai e i contadini sono cambiati. E se pure abitano nelle sacche del sociale più tradizionali che siano rimaste, una gran parte delle loro aspettative sono riposte sui desideri, non sui bisogni. La risposta che questi soggetti ricevono dal riformismo è una modestissima tutela accompagnata da una roboante propaganda, in concorrenza con i partiti antisistema. Che, tuttavia, sulla propaganda non sono secondi a nessuno. Così la navigazione dei riformisti è uno zigzag tra qualche azzardo di natura liberale e un ritorno preoccupato a dire e fare qualcosa di sinistra, così come pretende una vecchia retorica ancora in uso nel dizionario di famiglia.
Questa incertezza strategica ha la conseguenza di focalizzare l’attenzione sui penultimi, con i quali la sinistra di governo intrattiene da decenni una relazione esclusiva fondata su un patto di appartenenza che il tempo e il dirittismo hanno usurato. I penultimi sono i vecchi deboli di un’economia fordista, garantiti da un welfare che li ha prima illusi di poter fornire loro una protezione totale, poi ha ristretto l’ombrello sotto cui riparare. Dopo aver parzialmente deluso i penultimi, il riformismo li ha messi in contrapposizione con gli ultimi, i veri deboli, quei giovani che più di ogni altra componente sociale pagano la forbice apertasi tra le aspettative e le opportunità concrete. Di fronte alla necessità di ridurre la spesa sociale e di estendere la tutela ai nuovi soci del welfare, senza mettere in discussione quella fornita ai vecchi, la sinistra di governo ha scatenato una guerra tra poveri che ha finito per scontentare tutti. Rinunciando ad auscultare i desideri di riscatto, che avrebbero giustificato una messa in discussione dell’intero patto di protezione sociale, ha cercato di fare posto sotto lo stesso ombrello a più persone. Ma gli ultimi arrivati hanno dovuto spesso accontentarsi di un riparo fittizio, soprattutto negli anni in cui la tempesta della crisi scatenava una pioggia a vento.
Ciò è accaduto perché la sinistra ha rinunciato a fare i conti con il dirittismo e con la sua proiezione sociale in minoranze organizzate portatrici di interessi e assiepate sotto l’unico totem che ha dimostrato di resistere al terremoto di una crisi senza precedenti: quello dei diritti acquisiti. Si tratta dell’idea che i diritti, una volta entrati nella sfera giuridica di un soggetto, siano raggiunti una volta per tutte e perciò intangibili. Chi li detiene è garantito anche se dovessero cambiare le condizioni sociali ed economiche in cui quei diritti sono maturati. Chi non li detiene non potrà in alcun modo contenderli ai cosiddetti garantiti.
Una protezione duale attraversa la società nelle sue faglie anagrafiche e professionali. A cominciare dalle pensioni. In Italia ci sono undici fondi di previdenza speciale attivi che, nei decenni della pensione retributiva, hanno beneficiato di condizioni di vantaggio rispetto al trattamento dei lavoratori comuni che non vi erano iscritti.
Se ci è consentito il gioco di parole, il florilegio dei privilegi oggi è servito su un piatto d’argento a una platea di 326.000 persone. C’è chi ha maturato il trattamento di anzianità pur non avendo i requisiti minimi, chi ha beneficiato di coefficienti più elevati da applicare al montante dei contributi, chi ha potuto agganciare il vitalizio non alle ultime annualità di stipendio ma a un tempo più ristretto, nel corso del quale ha magari ricevuto una promozione ad hoc che ha agito da moltiplicatore della pensione. È il caso scandaloso dei sindacalisti. Ma anche dei dirigenti ex Inpdai, dei ferrovieri dello Stato, degli ex dipendenti della telefonia e del trasporto pubblico, del personale del comparto Difesa e Sicurezza, dei magistrati, dei diplomatici, dei prefetti, degli iscritti al fondo speciale del trasporto aereo, e da ultimo degli ex parlamentari.
I tassi di rendimento dei contributi versati da chi era iscritto a questi fondi speciali resterà, per tutta la vita dei percipienti, molto più elevato di quello riservato ai lavoratori comuni dell’analogo sistema retributivo. A questo dissennato privilegio si deve lo sbilancio dell’Inps sul conto economico e patrimoniale, che pesa come un furto sul destino delle nuove generazioni.
La vicenda dei vitalizi degli ex parlamentari spiega da sola la resa del Paese al dirittismo delle minoranze organizzate. La legge sul ricalcolo contributivo di deputati e senatori è abortita sul finale dell’ultima legislatura, non solo per la resistenza dei 608 parlamentari di prima nomina che temevano di non essere ricandidati, perdendo così il diritto alla pensione. Il colpo di grazia alla riforma è venuto dalla sinistra Pd, da un’area collaterale alla Cgil che temeva di aprire, con la riduzione dei vitalizi dei politici, un precedente per tutti gli altri privilegiati che hanno maturato la pensione con il sistema retributivo, molti dei quali con la tessera del sindacato ancora in tasca. Così, sfidando anche le critiche dei Cinquestelle, si è rinunciato al ricalcolo contributivo di circa 2600 assegni di ex parlamentari che costano allo Stato 193 milioni, a fronte di contributi versati per appena 50.
L’obiettivo della legge era quello di ridurre la spesa a 118 milioni, che in ogni caso sarebbero stati più del doppio dei contributi versati. Ma la sinistra di governo non ha osato sfidare il totem dei diritti acquisiti, nonostante in più sentenze la Corte costituzionale avesse dato il via libera a un ricalcolo delle pensioni, purché orientato a criteri di equità, salvaguardando i vitalizi di importo basso e indirizzando i risparmi ottenuti alla spesa sociale. Sarebbe stata un’occasione senza precedenti per avviare una perequazione tra le generazioni, avvantaggiando finalmente chi è sottoposto al regime contributivo, magari è precario, e mai e poi mai avrà una pensione comparabile con quella dei padri. L’occasione è andata sprecata ancora una volta.
La rinuncia a toccare i diritti acquisiti getta la democrazia su un binario morto, in nome di un’uguaglianza formale che suona come un’ingiustizia inaccettabile per i giovani. Questi, nell’ultimo ventennio, in Italia hanno peggiorato la loro condizione in una misura che non ha eguali in Europa. Lavorano di meno, il loro indice di disoccupazione è triplo rispetto a quello degli adulti, mentre negli altri Paesi europei le percentuali si equivalgono. Rischiano di più, poiché la flessibilità introdotta nel mercato negli ultimi dieci anni riguarda solo loro e non anche i padri. Faticano ad accedere ai ruoli di autonomia e di responsabilità, tanto nel lavoro dipendente quanto nelle professioni. Infine, guadagnano molto meno dei padri e molto meno dei giovani di venti o trenta anni fa.
Questa netta asimmetria, che produce insieme depressione ed emigrazione, è figlia dei diritti acquisiti e del loro cristallizzare le garanzie e i trattamenti maturati dai padri in tempi passati, in modo da renderli immuni da qualsiasi riforma. La loro giustificazione formale è un principio di equità, ma nella sostanza l’equità sarebbe tale solo se la sfera dei diritti fosse una coperta senza fine e potesse estendersi alle generazioni future in modo progressivo e lineare. La crisi mostra invece quanto la consistenza dei diritti sociali ed economici dipenda dalla quantità delle risorse. Cosicché le garanzie blindate dei padri diventano un privilegio difeso da categorie sociali più forti, perché organizzate sindacalmente, a danno dei figli.
Questa contraddizione è tanto condivisa a parole quanto ignorata nei fatti. Il furto generazionale è figlio di politiche pubbliche che hanno eletto a valore i diritti acquisiti. Così, se le riforme delle pensioni negli ultimi vent’anni hanno protetto i lavoratori che avevano maturato un certo numero di contributi e hanno scaricato i loro effetti sulle generazioni future, allo stesso modo le leggi sul lavoro hanno escluso i già assunti a tempo indeterminato dagli effetti della flessibilità, confermando così un mercato duale.
Ma la stessa logica ha guidato le strategie adottate dai governi per contenere la spesa tra il 2007, anno d’inizio della crisi globale, e il 2016. Anziché mettere in discussione carriere e costo del lavoro di chi stava dentro il sistema, si sono chiuse le porte a chi stava fuori: il blocco delle assunzioni ha dimezzato l’ingresso dei giovani laureati nel settore pubblico. Questi disoccupati si sono così riversati sul privato, determinando un eccesso di offerta che ha fatto scendere i salari. Da ultimo, uno schiaffo ai giovani è giunto dal modo con cui vengono concepite in Italia, e mai attuate compiutamente, le liberalizzazioni delle professioni: esse minimizzano l’impatto delle riforme su chi già opera a danno degli ultimi arrivati.
Il saccheggio di risorse dei figli non risparmia nessun settore e risponde a una logica corporativa: proteggere, di fronte agli effetti della crisi, chi fa parte del club degli inclusi. Correggerla significherebbe ribaltare il principio dei diritti acquisiti, rimettendoli in discussione per tutti. Accade il contrario. Nessun partito, e meno che mai la sinistra di governo, dimostra di aver compreso la posta in gioco. Le riforme continuano a essere concepite solo per chi verrà.
Un diritto senza facoltà di esercizio è come un’auto con la batteria scarica perché rimasta in garage per troppo tempo. Un diritto al lavoro senza lavoro le assomiglia, tanto da farci interrogare se abbia più senso parlare di diritto. Il quesito è ideologicamente osceno, tanto più in tempi di promesse facili che sconsigliano di mettere in discussione alcuni tabù. Ma provate a chiedervi come la pensano sull’argomento quei 40 giovani su 100 che nel Sud hanno superato i trenta senza avere un lavoro e senza più sperare di trovarlo prima che sia troppo tardi. Che vedono invecchiare i genitori e ridursi la protezione di cui hanno beneficiato finora. Contrariamente a quello che talvolta si pensa, molti di loro sono disposti a tutto. Anche a infilarsi di sera in un Intercity che da Napoli arriva a Parma o a Milano, non per andare in fabbrica, ma per cercare in un ufficio di collocamento del Nord il primo posto di pizzaiolo che si libera per tre mesi. Questi giovani hanno compreso che niente sarà più come prima. Poiché dalla crisi globale stiamo uscendo con una diversa idea del lavoro, che nulla ha a che fare con la memoria dei padri.
La globalizzazione gioca l’effetto dei vasi comunicanti in un unico mercato mondiale: il manifatturiero si sposta verso est, dove il lavoro costa meno; l’Occidente reagisce con iniezioni di tecnologia che abbattono il contributo umano e con una inevitabile riduzione del costo del lavoro fino a un punto di equilibrio. Ciò significa che se in Serbia si producono auto lavorando 10 ore al giorno per 300 euro al mese, in Italia non si potrà fare per lungo tempo la stessa cosa lavorando 8 ore e guadagnando quattro volte di più. Ciò significa ancora accettare l’idea che per difendere il nostro benessere e anche una parte della nostra civiltà occorre essere disposti a mettere in discussione entrambi. Bisogna aumentare la qualità per difendere l’infungibilità del prodotto e, quindi, i salari più alti. Ma per aumentare la qualità bisogna aumentare l’efficienza, e per aumentare l’efficienza bisogna lavorare di più e meglio. In Italia la gran parte dei politici, dei sindacalisti, dei giuslavoristi impegnati a cercare formule nelle pieghe del diritto e dell’economia lasciano da sole le imprese a sfidare i fattori della produttività e rinunciano a fare i conti con un riallineamento tra Paesi che hanno regole e costo del lavoro diversi, ma operano di fatto in uno stesso mercato. Preferiscono scaricare il problema sulla precarietà dei figli e lasciare intatte le garanzie dei padri.
In tutti gli ambienti del lavoro, nel pubblico come nel privato, nell’impresa come nei servizi, ci sono ormai due recinti contigui, uno di serie A e uno di serie B, in cui le regole e lo stipendio sono del tutto diversi. Ciò che non cambia è la prestazione. Anzi, qui la categoria si ribalta, poiché la realtà dimostra spesso che la serie B fa giocate da serie A e viceversa. In termini tecnici si chiama dualismo del mercato del lavoro. I lavoratori di serie A sono 15 milioni, quelli di serie B sono più o meno la metà, tra impiegati a termine e lavoratori formalmente autonomi che in realtà prestano servizio per un solo datore e quindi sono subordinati di fatto.
Per eliminare questa assurda discriminazione e fare in modo che i giovani, ma anche le donne e gli immigrati, abbiano salari più elevati e maggiori garanzie, ci sono due modi. O aspettare che tutti i garantiti vadano in pensione o muoiano prematuramente, ma a quel punto molti non garantiti saranno già vecchi, oppure mettere in discussione le posizioni di tutti, vecchi e giovani, maschi e femmine, italiani e stranieri. In che modo? Riducendo i costi di licenziamento, garantendo un sostegno ai disoccupati e allineando i salari alla produttività. Ma con regole uguali per tutti, nel privato come nel pubblico, poiché altrimenti il dualismo del mercato si riproduce parimenti. È quanto proposero ormai cinque anni fa gli economisti Pietro Reichlin e Aldo Rustichini in un libro intitolato Pensare la sinistra. Tra equità e libertà. Non sarebbe bastato per dare a tutti un lavoro che non c’è, ma per distribuire meglio quello che resta, per renderlo più produttivo e più competitivo e difenderlo nel mercato globale.
Il Jobs Act ha cambiato invece le regole per i giovani e per il privato, lasciando intatte quelle per i lavoratori anziani e per il pubblico. A tre anni dalla sua approvazione, siamo tornati ai livelli occupazionali precrisi: i lavoratori in Italia sono 23 milioni e si vede qualche segnale positivo anche per i giovani. Ma la parte più ampia degli oltre 800.0002 occupati in più negli ultimi tre anni è costituita da lavoratori ultracinquantenni (51 per cento), per il 27 per cento appartiene alla fascia 35-49 anni, per il 12 a quella 25-34 anni e per il 10 per cento a quella tra i 15 e i 24 anni. Il successo degli anziani è soprattutto l’effetto della legge Fornero, che ha innalzato i requisiti anagrafici della pensione. Ma i giovani raccolgono le briciole della ripresa.
Questa sperequazione è un unicum italiano: secondo Eurostat alla fine del 2016 i giovani occupati tra i 15 e i 24 anni erano il 33,8 per cento del totale nell’Europa a ventotto, il 31,3 per cento nell’euroarea, il 50,8 per cento nel Regno Unito, il 45,7 per cento in Germania, il 27,8 per cento in Francia, il 18,4 per cento in Spagna, e solo il 16,6 per cento in Italia. Va peggio di noi solo la Grecia, con il suo 13 per cento. È un dato non congiunturale: nel 2005 i giovani occupati italiani erano il 25,7 per cento, e il declino è cominciato ben prima delle due vampate della crisi globale del 2008 e del 2011.
Proiettata nello sviluppo di una vita e nella forma della famiglia, questa asimmetria mostra tutto il suo contenuto di dramma sociale. Il patrimonio di una famiglia media italiana, con un capo famiglia di oltre 65 anni, è passato da base 100 nel 1995 a 160 nel 2014, mentre quello con un capofamiglia tra 18 e 34 anni negli stessi vent’anni è sceso verticalmente da 100 a 40.
La spaventosa forbice della ricchezza per classi di età dipende dal fatto che il portafoglio della famiglia media non è fatto di titoli e redditi da capitale, ma di immobili. Il sistema del credito italiano per decenni ha fatto la sua fortuna convincendo generazioni di italiani a basso reddito che comprare casa era il miglior investimento della vita. Per le banche, fino al crollo del mercato immobiliare del 2011, era un affare facile e a basso rischio, visto che gli italiani erano incredibilmente più fedeli pagatori quanto meno ricco era il loro reddito. L’industria del credito ha indotto milioni di italiani a impegnare quote incredibilmente elevate di un reddito modesto in orizzonti trentennali per comprare mattoni. Tanto, diceva la banca, il mattone cresce sempre di valore.
Ma l’ottimismo si è rivelato quanto mai fallace: ci sono punti di caduta del reddito nazionale e del suo Pil pro capite che inevitabilmente riallineano al ribasso tutti i valori e i prezzi, a cominciare da quelli del mattone. Sono dati che gli italiani hanno amaramente scoperto a proprie spese. Nel frattempo quelle case sono finite in mano ai nonni, rispetto ai nipoti che non hanno il becco di un quattrino per comprarsele.
Il conflitto tra gli ultimi e i penultimi in Italia si scrive su queste asimmetrie. Rinunciando a ridisegnare una mappa delle nuove debolezze sociali e a perseguire una politica di reali pari opportunità, la sinistra riformista ha usurato il rapporto fiduciario con la sua base elettorale, perdendo credibilità rispetto al ruolo di soggetto trasformativo che pure si era autoassegnata.
Per cogliere la chiave di questo fallimento bisogna riferirsi agli ammonimenti con cui Norberto Bobbio un quarto di secolo fa ricordava in un libretto di successo, intitolato Destra e sinistra, che ciò che ha caratterizzato nella storia la sinistra rispetto alla destra, e cioè quell’ideale definibile come l’«ethos dell’eguaglianza», sarebbe sopravvissuto alle confusioni della modernità. Ma, aggiungeva il filosofo, l’eguaglianza è un concetto relativo e non assoluto. Perché dipende da almeno tre variabili: i soggetti tra i quali ci si propone di ripartire i beni; i beni da ripartire; il criterio in base al quale ripartirli. Bobbio faceva notare che, combinando in proporzioni diverse questi fattori, si poteva ottenere un numero enorme di tipi diversi di partizioni egualitarie.
In particolare, con riferimento ai criteri dell’eguaglianza, elencava il bisogno, il lavoro, il merito e il rango. L’offerta di eguaglianza che la sinistra riformista propone in Italia è ancora riferita al bisogno, in una logica distributiva, e in parte al lavoro, con i limiti che abbiamo fin qui elencato. Ha fallito l’aggancio con il merito, perché, come abbiamo avuto modo di spiegare nei capitoli precedenti, lo ha identificato con le regole di una democrazia proceduralista e deresponsabilizzata piuttosto che con una gerarchia del sapere capace di selezionare i migliori, sostenerli annullando le diseguaglianze di partenza e assegnando loro le sorti del Paese.
Come conseguenza di questo fallimento, non è stata mai in grado di riferire l’eguaglianza al rango, che in una fisiologia sociale corretta è la proiezione del merito sullo status: da una parte la sinistra ha mancato di rimettere in moto un ascensore sociale che riposizionasse i ruoli e le responsabilità rispetto al dinamismo delle nuove mutazioni globali; dall’altra le sue élites si sono protette in una logica autoreferenziale fatta di codici culturali che dall’esterno sono spesso apparsi impermeabili. Rinunciando a ridefinire i fattori dell’eguaglianza, il riformismo ha fallito nel compito di spostare l’asse della responsabilità sociale e della solidarietà tra le generazioni, affinché i figli restituissero ai padri l’aiuto ricevuto.
Così la sinistra di governo ha accentuato il suo isolamento sociale. In maniera tanto più netta quanto più la domanda di eguaglianza che la società poneva alla politica è andata a ridefinirsi ideologicamente in un senso inedito. Ai quattro criteri indicati da Bobbio se ne è aggiunto un quinto di derivazione estetica: la felicità. Questa è il frutto di quello slittamento edonistico, di cui abbiamo già parlato, che trova nell’alleanza tra i diritti e la tecnica la sua spinta. L’effetto è stato quello di radicalizzare l’istanza di giustizia sociale, che da sempre rappresenta il quadro cognitivo in cui si definiscono le strategie di vita e si formano le rappresentazioni correnti, caricandola di aspettative di felicità. Il soddisfacimento dei bisogni e le occasioni di felicità si collocano oggi ai due estremi opposti della domanda di eguaglianza ed esprimono la nuova forma ideologica della modernità. I primi rimandano a una risposta solidaristica della politica, i secondi invece spingono verso un esito individuale.
Questo dualismo mostra il ribaltamento, nella domanda di massa, dell’utopia marxista. I bisogni stanno al primato del collettivo come la felicità sta alla liberazione individuale. Ma come tutte le utopie, anche la nuova istanza di giustizia sociale scopre alla prova con la realtà la sua natura contraddittoria. Riannodare la copertura dei bisogni alle occasioni di felicità è una sfida proibitiva, e fin qui perduta, della sinistra di governo. È sempre più difficile per il riformismo proporsi a una società atomizzata e individualista come un sistema di ricerca dell’equilibrio generale. Non basta più convincere la comunità degli associati che un buon modello è quello in grado di consentire a ciascuno, al netto delle sue sfortune individuali, il raggiungimento di un soddisfacente livello di vita personale e associata. Né è più pacifico che il raggiungimento di un maggiore benessere per alcuni non può essere trovato al prezzo della distruzione del benessere di altri. Le pretese del dirittismo e delle sue minoranze organizzate ignorano che la libertà di ciascuna componente che fonda una comunità non può spingersi oltre i destini solidali della stessa, ignorano o fingono di ignorare che chiunque spezzasse la sua appartenenza comunitaria alla fine non incrementerebbe la sua libertà, ma diventerebbe solo più debole.
Il dualismo tra felicità e bisogni, tra individuo e comunità, si è fatto più netto e lacerante perché la sinistra di governo ha rinunciato a un riformismo spinto, capace di rimettere in discussione l’intera mappa delle posizioni acquisite. Non in nome di un primato competitivo, eletto a valore. Che sarebbe stato, quello, un approdo individualista. Ma in nome di un nuovo comunitarismo, in cui l’emersione di nuove leadership fondate sul merito coincidesse con la responsabilità e con la solidarietà da queste assunte nei confronti del corpo sociale.
Una simile coincidenza è irrealizzabile senza una narrazione e una pedagogia capaci di sciogliere, nei modelli in cui una società si racconta, l’abbraccio a perdere tra i diritti e la tecnica. Significa ridefinire l’orizzonte stesso della felicità, disancorarla da un’illusoria coincidenza con le aspettative di successo e di edonismo che proiettano nello spazio esistenziale le crescenti pretese della modernità e le nuove possibilità materiali aperte dallo sviluppo tecnologico. Significa reinteriorizzarla, ridare alla felicità il senso di un’appartenenza comunitaria e di un impegno civile in cui i diritti tornino a essere l’altra faccia dei doveri. Ma è soprattutto questa la sfida perduta della cultura progressista in Italia. Per riportare la democrazia ai doveri serve un lessico della verità e del realismo capace di ribaltare il dirittismo e smascherare le contraddizioni del populismo, rifondando la delega del sapere e del potere. È il lessico del coraggio che il riformismo italiano non ha ancora imparato. Nessun cartello politico e nessun governo cosiddetti progressisti, tra quelli che si sono alternati alla guida del Paese negli ultimi venticinque anni, ha dimostrato di comprendere a pieno la complessità di questa sfida né di volerla concretamente giocare.