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LA CRISI DELLA DELEGA
La malattia si diagnostica dai sintomi. Il primo sintomo è la crisi della delega. Affligge l’intero edificio della democrazia occidentale. Ma qui, in Italia, ha un carattere cronico che ne fa tutt’uno con il corpo malato del Paese. Perciò parlarne è più difficile, tanto è lontano oggi il concetto di delega dall’idea che ne ha una parte degli italiani. La stessa difficoltà incontrò Edmund Burke, uno dei primi liberali europei, quando provò a spiegarlo per la prima volta agli elettori di Bristol nel 1774: «Il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti interessi» disse. «È invece un’assemblea deliberante di una nazione con un solo interesse, quello dell’intero.»
La delega per l’intero era libertà. Era l’essenza della sovranità politica che si fonda sul voto e da questo riceve la sua forza. Era il modo con cui noi abbiamo organizzato e concepito lo sviluppo della civiltà da quando la democrazia ha fatto irruzione nella storia umana, insinuandosi nei processi di formazione delle decisioni in Occidente, e piano piano affermandosi in forme prima imperfette, e poi sempre più perfettibili, ma in quanto perfettibili altrettanto imperfette. Perché la coscienza della perfezione della democrazia coincide con il senso della sua imperfezione.
Sennonché è proprio la delega per l’intero di cui parlava Burke che è andata perduta. Se n’è accorto, due secoli dopo, David Cameron. Il primo ministro inglese, rientrato da Bruxelles dopo aver trattato le condizioni perché il Regno Unito restasse in Europa, è stato smentito a Londra da sei ministri del suo gabinetto. Da qui bisogna partire per capire la capitolazione di Brexit. Che, al netto della inadeguatezza del leader conservatore, è figlia della drammatica difficoltà di rendere stabili e prevedibili le scelte fondate su significati condivisi, e di conciliare il dissenso su una singola questione con la difesa del vincolo di appartenenza al gruppo. È crisi della delega, che per un processo di propagazione mediatica si è proiettata da Downing Street in ogni periferia del Paese.
In Italia la delega per l’intero si sfarina insieme con l’architettura di partiti e corpi intermedi, in cui una diversità di vedute produce divisioni, quando non frantumazioni. Brucia su una pubblica piazza dove tutti vociano per sé, tra i fumi suggestivi della democrazia diretta. Una crisi di fiducia si è impossessata degli uomini e delle istituzioni. La diffidenza è diventata la cifra del rapporto tra gli italiani e il potere. La nutre una retorica politica che alza una nebbia fitta sulle contraddizioni del suo pensiero. Così si può allo stesso tempo ergersi a difensori in toto della Costituzione e ignorare ciò che essa prescrive all’articolo 67: ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.
«Senza vincolo di mandato» vuol dire autonomia. Autonomia perfino di promettere nel proprio collegio elettorale e tradire a Montecitorio. Salvo poi essere ricusato nelle urne alla scadenza della legislatura. È la stupenda imperfezione della democrazia. È la meraviglia della delega. In nome e per conto, ma libera nei fini. In rapporto con gli interessi, ma capace di mediare tra questi, in un esercizio di sintesi. E di sovranità.
Non piaceva, la delega, ai comunisti togliattiani. Nel dopoguerra imponevano ai propri parlamentari neoeletti la firma delle dimissioni in bianco, da utilizzare nel caso fossero mancati al vincolo di obbedienza agli ordini del partito. Non piace a Grillo e ai suoi giovani seguaci, che studiano da tempo contratti e penali con cui trasformare i rappresentanti in mandatari della volontà della Rete. E dei loro personali diktat.
Ma la crisi della delega che ha infettato la democrazia italiana va oltre i tatticismi del populismo nazionalpopolare. È più ampia e comprende anzitutto il sapere. Sempre meno condiviso e sempre meno capace di rappresentare la dorsale della cultura civile del Paese. Lo sfarinamento della cultura civile corre parallelamente alla crisi del concetto di autorità. Nell’accademia, nelle professioni, prima ancora che nella politica e nella società.
Un tempo la trasmissione del sapere seguiva il canale verticale e gerarchico dell’organizzazione sociale. Il barone universitario cooptava il suo assistente. Ma per quanto arbitraria potesse essere la sua scelta, coincideva con un’assunzione di responsabilità. La geografia del sapere orizzontale e disintermediato ha prodotto un’eterogenesi dei fini: anziché ancorare la responsabilità alla qualità e a un controllo democratico, l’ha frantumata in una miriade di passaggi procedurali in cui l’elemento umano della scelta è andato scemando. L’effetto di questo processo è che, soprattutto in Italia, non riusciamo a distinguere e selezionare il merito. Il sapere scollato dalla scala gerarchica è soggettivo. Non più appannaggio del sapiente e non più giustificato dal sapiente. La sua fonte di legittimazione è puramente quantitativa. Coincide con un consenso che somiglia a un consumo. Ha il volto di tanti clic internettiani. Tanti «mi piace», ma non so e non devo dire perché.