VI

LA DEMOCRAZIA DEL TALK SHOW

La malattia del web è però l’ultimo atto. Se la democrazia italiana scivola su un falso piano, non si può ignorare la responsabilità che le fonti del discorso pubblico hanno nella costruzione di un paradigma narrativo distorto. Alcuni fotogrammi possono fungere da esempio.

Un clochard senza vita avvolto in un plaid sotto i portici della galleria Umberto I di Napoli, all’ombra di un colonnato che lo nasconde alla vista; un fotografo che immortala quattro poliziotti attorno al cadavere e sullo sfondo due vecchietti che restano seduti ai tavolini di un bar a poche decine di metri: quanto basta per confezionare una trita leggenda metropolitana sull’indifferenza dei napoletani di fronte alla morte. Grazie ai siti, ai giornali e ai tg quella leggenda fa il giro del Paese, moltiplicandosi in parole e immagini clonate le une sulle altre, nessuna vera. Così una tragedia si racconta e si confonde in un messaggio che risponde a verosimiglianza e quantità, le due coordinate della comunicazione ai tempi dell’Italia del declino. Fa notizia, ma ha un fragile rapporto con la realtà. Si potrebbe dire, banalizzando, che non è vera. In realtà il messaggio si fonda sull’idea che la realtà possa essere aumentata a vantaggio della notizia.

Nel giornalismo questa tecnica si spiega con il paradosso dell’uomo che morde il cane. Non interessano il dramma sociale dei barboni che abitano gli anfratti delle metropoli, il loro autoisolamento e talvolta il rifiuto dell’assistenza che fa più debole la già fragile rete dei servizi sociali pubblici e della solidarietà privata. Fa notizia il vecchietto a venti metri dalla tragedia, che probabilmente non ha visto niente e che resta seduto, anziché raggiungere con il bastone i quattro poliziotti davanti al cadavere del clochard. Perché è assunto come l’indizio del menefreghismo di Napoli, città già assediata dalla camorra e inquinata dai rifiuti, di fronte al dolore altrui. Così, impacchettato dentro un espediente narrativo che fa della stranezza il suo criterio, e ripetuto più volte attraverso ogni canale mediale, il falso verosimigliante s’impone sulla realtà e il pregiudizio sulla verità.

Qui non è in gioco solo la qualità di una cronaca, ma il racconto della democrazia. Perché la falsificazione della verità sembra essere diventata uno dei target del giornalismo? La risposta è nella natura stessa della verità, tanto più fragile quanto più riferibile a un evento di normalità. Un’ansia decostruttiva consegna al giornalismo l’imperativo di sporcarla, rivelandone un lato oscuro che si assume controintuitivamente come esistente anche quando non si vede. La forza di una cattiva notizia è ormai nella fascinazione nichilista che questa è in grado di suscitare nell’audience. Ci sarebbe da chiedersi – ma non è questa la sede per approfondire – se un simile tic interpretativo del giornalismo sia l’onda lunga di alcuni passaggi filosofici avvenuti nel Novecento tra élites intellettuali e tradottisi oggi in paradigmi della cultura civile di massa.

Come spiega Mauro Magatti nel libro Libertà immaginaria, si diffonde in quote sempre più ampie di popolazione la convinzione che, «deposta ogni pretesa collettiva, l’idea di verità attenga unicamente al piano esistenziale e soggettivo». Così il diffuso nichilismo del sentire comune sembra crescere in parallelo al primato delle bad news, cercate, ma più spesso costruite e proposte, in dispregio della stessa realtà. E se pure nessuno potrebbe affermare che uno dei due fenomeni sia causa dell’altro, è intuitivo pensare che entrambi si alimentino reciprocamente in una circolarità complice. Per cui un certo cinico secolarismo della cultura di massa è riferimento di un giornalismo che lo nutre con le sue narrazioni emergenziali.

Di più, la rinuncia a una verità positiva in cambio di una pseudoverità noir risponde alla tentazione di sostituire, anche nella comunicazione, il logos con il pathos, cioè la coerenza logica della ragione con la sfera emotiva e affettiva dell’esperienza soggettiva, secondo uno schema estetico che attraversa tutto il discorso pubblico della democrazia.

La scena adesso si sposta in un salotto televisivo. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, risponde dalla sua casa romana a una videointervista condotta da Bianca Berlinguer per la trasmissione «Carta Bianca». Ogni sua risposta fonda nell’audience una percezione che viene valutata da una società di sondaggi in termini di sentiment, una sorta di indice di gradimento che all’inizio del colloquio era stimato intorno al 25 per cento e che è gradualmente salito oltre la soglia del 40. «Noi vogliamo sfasciare l’Europa, come dice Marine Le Pen, e tornare alla sovranità degli Stati nazionali» sostiene la Meloni, aggiungendo subito dopo: «che devono condividere solo la politica estera.»

Solo la politica estera? Ma come, la destra sovranista non sa che la rinuncia all’autonomia sulla politica estera è la sottrazione più ampia della sovranità che si possa immaginare per uno Stato? Tant’è vero che è proprio lo scoglio su cui si misura oggi l’incompiutezza dell’Europa? Mai titolo fu più bugiardo di quello che indica, con l’acronimo PESC (Politica estera e Sicurezza comune), il ministro degli Esteri dell’Unione, i cui poteri sfiorano l’irrilevanza nella diplomazia di una UE intergovernativa, cioè orientata pattiziamente dalla forza politica delle cancellerie. Ma l’affermazione di Giorgia Meloni, ancorché censurabile nel merito, non viene contestata e si impone come cifra di un neonazionalismo che incontra reazioni di consenso, se è vero, come certifica in tempo reale l’istituto di sondaggi, che il sentiment verso la leader della destra italiana arriva a sfiorare il tetto del 50 per cento.

Anche in questo caso la passività del giornalismo riguarda il destino della democrazia e si amplifica negativamente nella potenza d’impatto del mezzo televisivo. Più fragile è la capacità di filtro dell’intervistatore, più dirompente è la forza persuasiva del messaggio falsificatore che s’impone per mezzo della tecnica.

La terza scena è ambientata in un qualunque salotto televisivo, dove due o più politici si danno sulla voce in un crescendo di toni. La loro sfida verbale mostra a tutto tondo la democrazia del talk show, che da venticinque anni occupa lo spazio pubblico e resiste a qualunque tentativo di delegittimazione. Si esprime nel conflitto permanente come forma e metodo della relazione e della conoscenza, nella confusione tra sfera pubblica e privata, nel divorzio dai saperi a vantaggio di singole abilità, nella diffusa percezione dei suoi protagonisti che le tesi sostenute, i valori professati, la coerenza tra questi e l’esame di realtà si risolvano in una buona performance attoriale.

La democrazia del talk show ha piegato al suo immobilismo ogni tentativo di riforma e ai suoi rituali ogni riforma compiuta, svuotandola di contenuto. Ma sarebbe un errore confinare la sua influenza al sistema televisivo, che pure ne è l’emblema. In realtà il contagio è più ampio, attraversa tutto il sistema della circolazione delle idee nel Paese, dalla politica alla comunicazione, dalla scuola all’editoria di libri, e ne infiltra i modelli narrativi e i linguaggi.

Allo stesso modo la postverità non è in Italia una falsa credenza scambiata per una notizia, ma è una malattia della psiche civile, una sfocatura della democrazia. Prima ancora che sulla Rete, essa nasce e si sviluppa nel paradigma del talk show come una condizione strutturale di confusione dei messaggi, dovuta a due circostanze che ricorrono in maniera costante e che connotano, in una coazione a ripetere, un vero e proprio strabismo narrativo: una contrapposizione ideologica permanente su alcuni temi centrali del racconto che il Paese fa di sé, declinati accentuando oltre il dato di realtà i punti di crisi, tanto da costruire una narrazione emergenziale; una prevalenza del politico intesa come tendenza a sopravvalutare la dimensione politica, politicizzando o usando in chiave politica aspetti diversi della realtà.

In Italia la lettura dei fatti è tendenzialmente politica perché la speciale valenza simbolica della politica si coniuga con la speciale caratterizzazione simbolica della cultura civile del Paese. Le ragioni più profonde di questa consonanza, che qui ci limitiamo ad accennare, sono individuabili in alcuni tratti comuni ai sistemi che hanno segnato la storia del Novecento italiano. L’opera di nazionalizzazione delle masse dello Stato fascista e quella di risocializzazione istituzionale repubblicana messa in atto dopo la Liberazione, nella loro indiscussa diversità di valori e di obiettivi, hanno tuttavia in comune elementi di continuità culturale: l’accentuato ricorso a una pedagogia del linguaggio fortemente simbolica; un’identità di parte, organizzata e fortemente conflittuale, presente in forme diverse in tutte le forze che hanno concorso a definire una cultura nazionale, e da ultimo quella cattolica e quella comunista; la fragilità di una cultura liberaldemocratica, coniugata con branche del sapere diverse da quelle di derivazione politica.

L’ultimo trentennio di storia nazionale ha confermato la tendenza a politicizzare la lettura del sociale e ad accentuare le forme simboliche delle rappresentazioni giornalistiche. La Seconda Repubblica segna il passaggio tra due codici diversi della comunicazione politica in Italia: il primo è quello della istituzionalità routinaria, tipico della Prima Repubblica, per cui la politica è presentata come esibizione pubblica di formalità, atti ufficiali, dibattiti, eventi cerimoniali, in cui prevale una ritualità scontata e ripetitiva; il secondo codice è quello della personalizzazione: esso opera una sostanziale riduzione dei processi politici all’azione di attori individuali. Quest’ultimo codice, coniugandosi con un tratto contrappositivo presente nella cultura civile del Paese, concorre a determinare una stagione di scontro permanente che ha segnato tutta la storia nazionale di quello che ormai viene battezzato «Ventennio berlusconiano».

Tutto ciò è avvenuto per paradosso in un momento in cui i confini storici tra destra e sinistra si andavano facendo più sfumati che nel passato. In parte come effetto della caduta dei blocchi ideologici che hanno segnato la storia del Secolo breve.1 In parte come conseguenza di un cambiamento proprio della natura e del ruolo della politica nelle società moderne: la sua residualità ha comportato una rinuncia a mediare e rispondere alla totalità dei processi e dei progetti sociali, a vantaggio di nuove soggettività tecnocratiche e commerciali figlie della globalizzazione e operanti su scala multinazionale o sovranazionale. La politica non è stata più in grado di fornire risposte ideologicamente distinte ai problemi che doveva affrontare, ma solo strategie marginalmente diverse. I suoi spazi di azione e di manovra si sono molto ridotti. In questa congiuntura la qualità della democrazia è dipesa essenzialmente dalla garanzia dell’alternanza tra forze che, nella dialettica politica, si contrapponevano assai più aspramente di quanto non facessero nelle opzioni concrete di governo.

Il perché di questo paradosso spiega anche l’incompiutezza del sistema bipolare italiano nel ventennio appena trascorso: se i margini d’azione politica erano ridotti, è naturale che le due forze candidate al governo del Paese tendessero ad accentuare la loro presunta differenza per apparire più facilmente identificabili dagli elettori. Ciò ha comportato un inconveniente, che tuttavia è stato anch’esso garanzia di alternanza: gli elettori erano sempre sistematicamente delusi quando constatavano che l’azione politica dei loro eletti non si discostava in concreto da quella di coloro che li avevano preceduti al governo, e consideravano ciò come un tradimento delle promesse elettorali.

Se questa è stata una deriva e insieme una ineliminabile imperfezione di molte democrazie contemporanee, l’effetto dell’esibizione di scontro politico sull’informazione è stato tanto più pervasivo quanto più la politica ha fatto difetto di mediazione e di sintesi della complessità sociale e ha scaricato sui media la sua conflittualità. Di fronte a questo processo il giornalismo poteva giocare un ruolo decisivo: poteva cioè far ricorso alla sua autonomia e alla sua indipendenza intellettuale per filtrare e disinnescare la conflittualità, evitando che essa si traducesse in distruttività per la democrazia. O poteva agire passivamente da megafono, contribuendo a produrre un’ipertrofia di rappresentazioni politiche in cui prevaleva un tratto contrappositivo permanente, non più collegabile a fatti giornalisticamente rilevanti, secondo una lettura a posteriori, ma frutto di un effetto di trascinamento. Bisogna riconoscere che in Italia questo secondo ruolo è stato ed è ancora prevalente sul primo.

La mediatizzazione sociale è perciò un fenomeno complesso, che riguarda sì l’evoluzione e la crisi della politica, ma anche la cultura professionale del giornalismo e il rapporto di interdipendenza tra i due universi. È, però, soprattutto un fenomeno che in Italia ha assunto forme e tratti particolari: la politica, seppure residuale rispetto al passato, è rimasta tuttavia dominante più che altrove, almeno in quello che siamo soliti chiamare il mondo dell’opinione, un circuito di relazioni, modelli e codici che percorre trasversalmente tutta la società e finisce quindi per condizionare ambiti che pure le sarebbero estranei. In qualche modo si potrebbe dire che la politica italiana ha salvato la sua centralità mediatizzando se stessa. La stessa subalternità della dimensione legislativa rispetto a quella di governo, che caratterizza l’attuale congiuntura istituzionale, non è solo l’effetto di un equilibrio sbilanciato interno alla politica. È piuttosto una distorsione politica indotta anche dalla mediatizzazione e dalle forme specifiche che essa ha assunto nella comunicazione.

Un passaggio chiave nell’evoluzione dei modelli del giornalismo italiano si è avuto all’inizio degli anni Novanta, in coincidenza con il vuoto di rappresentanza nel Paese reale seguito alla crisi e alla caduta di un intero ceto politico coinvolto negli scandali di Tangentopoli. In quella stagione la televisione si è proposta, attraverso alcuni format di taglio giornalistico, come strumento di trasformazione sociale e di rifondazione di una nuova rappresentanza: i talk show di Giuliano Ferrara, Michele Santoro, Gad Lerner e Bruno Vespa divennero un teatro in cui le nuove forme della politica si manifestavano. Il Parlamento fu messo sotto tutela, perché considerato l’assemblea degli inquisiti. Così l’agorà elettronica soppiantò le aule tradizionali delle istituzioni, le piazze dei comizi, le stanze dei partiti. Tutte le residue forme di articolazione della società civile si trasferirono nella televisione.

Se si confronta la tv della fine degli anni Ottanta con quella degli anni Novanta si avverte quanto profondo e rapido sia stato il cambiamento: dalle vecchie tribune elettorali e dal varietà di puro spettacolo si passò a una televisione dove avvenivano i fatti politici, dove il Paese dei nuovi rappresentanti teneva contatti con il Paese reale. Nei giornali nasceva e si imponeva in quella temperie culturale il modello del «mielismo», dal nome del direttore del «Corriere della Sera», Paolo Mieli. Esso si proponeva di intercettare queste nuove forme di espressione della politica e della società attraverso una comunicazione che integrasse i diversi registri comunicativi, facendoli interagire. È lo stesso Mieli a spiegarla in un’intervista tratta dal libro L’Italia dei giornali fotocopia: «Se un giornale registrava l’opinione della ballerina accanto a quella del politico era perché per la prima volta nella storia del Paese i politici andavano a discutere delle loro cose con le ballerine. Ciò poteva fare impressione, ma era la realtà, anzi una realtà del tutto inedita che noi mettemmo in pagina».

Un’altra efficace definizione del mielismo viene da un protagonista dell’informazione di quegli anni, il giornalista Filippo Ceccarelli: «Inconfondibile miscela di spirito alto e materia bassa, attenzione a tutto quanto è televisivamente popolare e popolarmente televisivo, suggestioni perlopiù antiretoriche, non di rado articolate attraverso disseminazione di dubbi su mitologie consolidate, apparente leggerezza, allegra e spavalda disponibilità al gossip, quindi al divertente, all’eclettico e al frammentario, visione conflittuale della realtà, spargimento di polpettine di zizzania, culto del dettaglio».

L’apparente leggerezza del mielismo in realtà maschera una grande sofisticatezza nel mixare ingredienti così diversi senza produrre una banalizzazione. Ecco perché questo modello comunicativo, che risulterà poi imitatissimo nel corso degli anni tanto da diventare un elemento identitario della stampa italiana, non darà sempre vita a prodotti di qualità. Una certa propensione emulativa del giornalismo italiano e una sua incompiuta indipendenza dai poteri si confrontano in quella stagione anche con l’avvento delle nuove tecnologie editoriali, scoprendo una manifesta debolezza: così i quotidiani accentuano la loro omologazione, fino al punto di apparire giornali fotocopia, e la loro sudditanza alle priorità tematiche dell’agenda televisiva.

Quest’ultima è in grado di determinare un effetto di polarizzazione su una dichiarazione politica o, comunque, su un tema della giornata, che si impone sugli altri e attorno al quale si sviluppa una dialettica conflittuale tra gli esponenti dei partiti, che non risparmia neanche i rappresentanti delle istituzioni. Il carattere di personalizzazione attraverso cui il dibattito si snoda può spiegare le ragioni del suo ripetersi, sia pure su temi diversi, con lo stesso schema. Nella stagione di cui parliamo, la ricerca del consenso non si fonda più sulla qualità dell’offerta politica, ma sull’esito del confronto ingaggiato dal singolo leader con i rivali.

La polarizzazione sul singolo tema pare perciò un pretesto per riattivare la competizione dialettica. Può scattare sulla dichiarazione di un leader, anche quando questa non assume alcun significato politico reale, ma risulta tuttavia una manifestazione di intenti capace di accendere un dibattito. Oppure può essere attivata da un evento parlamentare o genericamente politico-istituzionale, o ancora politico-giudiziario. In tutti questi casi, la messa a fuoco in tempo reale dei media più rapidi su quel dato fatto, e cioè delle agenzie di stampa, della tv, e da qualche tempo dei siti online, è il catalizzatore attorno a cui si sviluppa il confronto.

C’è poi un secondo effetto della personalizzazione che caratterizza questa stagione: lo slittamento della politica da una dimensione pubblica-civile a una privata-confidenziale. Il retroscena è il genere che rappresenta la sovrapposizione e la confusione tra i due caratteri. Esso è una rappresentazione e insieme un’analisi delle vicende politiche attraverso il non detto e le confidenze dei suoi protagonisti, realizzata ricostruendo pensieri tratti dal privato dei leader, presentati come riservati e perciò non confutabili. Questo genere narrativo in Italia si caratterizza per uno spostamento della funzione originaria che assume nel giornalismo anglosassone, dove esso è diretto a illuminare una zona d’ombra o il lato oscuro di una vicenda politica, diplomatica o investigativa di grande rilevanza.

Nella sua versione originaria, tuttora riferibile con il nome di inside, il retroscena è ancorato a fatti e circostanze, se pure riservati, collegabili all’azione di soggetti pubblici, ricostruiti attraverso fonti confidenziali attendibili. Il retroscena politico italiano, invece, non riguarda fatti e circostanze, ma piuttosto reazioni e punti di vista, colti nella cornice di eventi ufficiali o nel gossip attorno a incontri privati, talvolta attribuiti a fonti anonime, talaltra desunti dall’articolista.

L’evidente carattere deduttivo di tali contenuti non impedisce che nella prassi delle rappresentazioni giornalistiche essi siano riferiti tra virgolette, cioè come pronunciati testualmente da coloro sui quali il retroscena è centrato. E cioè, in primo luogo, i capi del governo e dell’opposizione, ma anche i leader dei partiti o di correnti dei partiti, e, da ultimo, alcuni soggetti istituzionali. Accade tuttavia che lo stesso leader, il quale non si riconosca in quelle indiscrezioni, talvolta ne smentisca il contenuto, e che il giornalista chiosi tale smentita ribadendone la veridicità sulla base di una dichiarata attendibilità della fonte, che tuttavia resta segreta. Così la dichiarata riservatezza delle frasi riportate funge da esimente per il giornalista di fronte all’eventualità di una smentita, sottraendolo all’obbligo di fornire prova della loro veridicità.

1. Si intende il periodo compreso tra lo scoppio della Prima guerra mondiale e il crollo dell’Unione Sovietica: è il titolo del libro Il Secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, dello storico britannico Eric Hobsbawm.