Amelius tornò di filato al cottage con il solo, disperato intento di riprendere il vecchio progetto e seppellirsi tra i suoi libri. Scrutando gli scaffali ben forniti con un’insofferenza poco consona a uno studioso, la Storia d’Inghilterra di Hume catturò sfortunatamente il suo sguardo. Tirò giù il primo volume. Ma, in meno di mezz’ora, si rese conto che Hume non poteva fare niente per aiutarlo. Ispirato da una maggiore saggezza, si volse allora alla storia più vera, quella che gli uomini chiamano letteratura romanzesca. Gli scritti dell’unico genio supremo, che spicca sugli altri romanzieri come Shakespeare su tutti i drammaturghi, quelli di Walter Scott, avevano un posto d’onore nella sua libreria. A Tadmor la collezione dei romanzi di Waverley non era completa. E Amelius era fortunato a poter leggere adesso Rob Roy. Aprì dunque il libro. Per il resto della giornata fu innamorato di Diana Vernon e, quando un paio di volte guardò fuori in giardino per riposarsi gli occhi, vide Andrew Fairservice impegnato con le aiuole.
Chiuse l’ultima pagina della nobile storia non appena Toff entrò in casa per apparecchiare la tavola per la cena.
Il padrone a tavola e il domestico dietro la sua sedia erano abituati a chiacchierare piacevolmente durante i pasti. Amelius faceva del suo meglio per portare avanti la conversazione come al solito. Ma non si trovava più nell’incantevole mondo delle illusioni che Scott gli aveva svelato. La dura realtà della vita di ogni giorno si era nuovamente materializzata intorno a lui. Osservandolo con attenzione, senza per questo essere invadente, il francese si accorse ben presto della mancanza di tranquillità e del robusto appetito che distinguevano il suo padrone.
«Posso permettermi un’osservazione, signore?», domandò Toff, dopo una lunga pausa nella conversazione.
«Certo».
«E posso prendermi la libertà di dire sinceramente quello che penso?».
«Naturalmente».
«Caro signore, avete di fronte a voi una bella cenetta stasera», prese a dire Toff. «Perdonatemi se mi faccio i complimenti da solo, ma sono mosso da un orgoglio spontaneo per aver preparato questa cena. Come minestra avete un Croûte au pot, come secondo Tourne-dos à la sauce poivrade e infine, per dessert, Pommes au beurre. Tutto così buono, e voi avete a malapena assaggiato un boccone, intanto che la vostra piacevole conversazione finiva in un silenzio deprimente che mi ha riempito di dispiacere. È forse vostra la colpa di questo? No, signore! È colpa della vita che conducete. Io la chiamo vita da monaco, o da eremita, e dico senza tanti riguardi che è una vita adatta a chiunque fuorché a un giovane uomo come voi. Scusate le espressioni un po’ colorite, vorrei tanto avere un linguaggio della massima raffinatezza. Posso citare una canzoncina? Si tratta di un vecchio, vecchissimo brano francese finito da tempo nel dimenticatoio, intitolato Les Maris Garçons. Ci sono due versi di quella canzone – sentivo spesso mio padre che li cantava – che oserei dire fanno proprio al caso vostro: “Amour, délicatesse, et gaité; D’un bon Français c’est la devise!”. Signore, voi possedete per natura délicatesse e gaité, ma la seconda, da qualche giorno, è finita in disgrazia. Che cosa ci vuole per rimuovere quell’ombra? L’amour! L’amore, come si dice qui. Dove si trova la donna affascinante che è l’unico ornamento mancante in questo cottage delizioso? Perché ancora non si vede? Dovete rimediare a questa svista imbarazzante, signore. Siete qui, in un paradiso di periferia. Vi parlo dall’alto della mia lunga esperienza, e vi imploro di invitare Eva. Ah! Sorridete dunque, il vostro buon umore perduto sta tornando, e lo sentite anche voi. Potrei proporvi un altro bicchiere di chiaretto e magari di far tornare in tavola il Tourne-dos à la poivrade?».
Era impossibile essere tristi in compagnia di quest’uomo. Amelius approvò il ritorno del Tourne-dos e prese un altro bicchiere di chiaretto. «Amico mio», disse come se avesse ripreso il vecchio modo di fare rilassato, «mi parli di donne affascinanti e di una lunga esperienza. Raccontami dunque qual è stata questa esperienza».
Per la prima volta Toff sembrò un po’ confuso.
«Signore, voi mi avete onorato rivolgendovi a me come a un buon amico», gli disse. «Pertanto, sono certo che non mi manderete via se vi confesso la verità. No! Il cuore mi dice che non sto facendo invano appello alla vostra clemenza. Caro signore, nei giorni di vacanza che mi avete gentilmente concesso, ho fatto in modo di mandarvi delle persone competenti che si prendessero cura della casa in mia assenza, non è vero? Una di queste, se ricordate, era un giovanotto simpatico e di bell’aspetto. Se me lo concedete, si tratta del figlio avuto dalla mia prima moglie, che ora è tra gli angeli in cielo. Un’altra persona che ha badato alla casa, in un’altra occasione, era un ragazzino con gli occhi neri; un vero miracolo di discrezione, per la sua età. È il figlio della mia seconda moglie, che ora è tra gli angeli in cielo anche lei. Perdonatemi, perché non ho ancora finito. Pochi giorni fa, vi è parso di sentire il pianto di un neonato giù per le scale. E io ho mentito, come un vero mascalzone: vi ho risposto che era il bambino della casa accanto. Ah, signore, invece era quel piccolo cherubino avuto dalla terza moglie, un angelo che mi sta sempre vicino a Edgeware Road, sistemata in una piccola bottega di modista, che farà grandi cose tra poco. Gli intervalli di tempo tra i miei matrimoni non credo siano degni di nota. Capricci passeggeri, signore, capricci passeggeri! Per ricapitolare, come si dice in Inghilterra, non fa per me resistere all’incanto del gentil sesso. Se il mio terzo angelo venisse a mancare, mi strapperei i capelli, ma ne prenderei quanto meno subito un quarto».
«Prendine pure una dozzina, se vuoi», disse Amelius. «Ma perché mi hai tenuto all’oscuro di tutto?».
Toff ciondolò la testa. «Penso si tratti di uno dei miei errori da forestiero», si scusò. «Le inserzioni pubblicitarie sulla servitù nei vostri giornali mi spaventano. In quale modo parla di sé il domestico più lodevole, se vuole ottenere il miglior posto che ci sia? Dice di essere “senza oneri”. Perbacco, che espressione orribile per descrivere dei poveri bambini indifesi! Avevo paura, signore, che avreste fatto qualche obiezione tipicamente inglese per i miei “oneri”. Un giovanotto, un ragazzo e un angioletto, per non parlare dei ricordi inviolabili di due donne e dell’attuale deliziosa compagnia di una terza. Il tutto parte della vita di un francese encomiabile nell’arte di amare: non c’erano forse delle buone ragioni per tralasciare questo particolare? Ma fa lo stesso, benedico la mia buona stella per averlo capito meglio e mi sottraggo da ulteriori considerazioni. Permettetemi però di richiamare la vostra attenzione su questo Rocquefort, con un pizzico di insalata di patate per correggerne il gusto intenso».
Finalmente la cena era terminata. Amelius era di nuovo solo.
La serata era tranquilla. Non un alito di vento che scuotesse le fronde degli alberi in giardino, non una vettura che attraversasse la stradina secondaria dove si trovava il cottage. Di tanto in tanto si sentiva Toff che, al piano di sotto, cantava canzoncine francesi con voce alta e stridula, mentre lavava i piatti e le stoviglie e rimetteva tutto in ordine per la notte. Amelius guardò tra gli scaffali e si rese conto che, dopo Rob Roy, non ci sarebbero state altre letture quella sera. I minuti si susseguivano lenti, uno dietro l’altro stancamente. Lo sconforto che lo aveva prostrato nelle prime ore del giorno stava furtivamente impossessandosi di lui ancora una volta. Come fare a resistergli? La sana abitudine appresa a Tadmor di stare il più possibile all’aria aperta gli suggerì l’unico rimedio possibile. Quali che fossero i suoi guai, l’unica soluzione che allora aveva per contrastarli con facilità in qualsiasi momento sarebbe stata valida anche adesso. Uscì a fare una passeggiata.
Vagò per due ore senza meta per il vasto quartiere periferico nella parte nord-occidentale di Londra. Forse era il clima opprimente, o forse la bella cenetta non gli aveva giovato affatto. A ogni modo, si sentiva così profondamente spossato che fu costretto a tornare al cottage in carrozza.
Toff gli aprì la porta, ma senza la consueta sollecitudine. Amelius era troppo stremato per far caso a eventi trascurabili di qualsiasi genere. In caso contrario, si sarebbe sicuramente accorto che c’era qualcosa di stravagante nella faccia avvizzita del vecchio francese. Mentre lo liberava dal cappello e dal cappotto, guardò il suo padrone con una strana espressione di apprensione e interesse, moderata però da una sorta di divertimento beffardo che era alla base delle emozioni più serie. «Una serata brutta e uggiosa», disse a fatica Amelius. E Toff, che in altre occasioni era sempre impaziente di parlare, rispose soltanto: «Sissignore», e poi si ritirò immediatamente nella zona della cucina.
Il fuoco scoppiettava, le tende erano tirate, la lampada per la lettura, con l’ampio paralume verde, era sul tavolo. Dopo una lunga camminata, non poteva esserci una stanza più confortevole di quella. Sedendosi comodo sulla poltrona, Amelius pensò di suonare per farsi portare un bel grog ristoratore. Ma mentre pensava, si addormentò. E mentre dormiva, fece un sogno.
Era davvero un sogno?
Vide la biblioteca, proprio così com’era, senza nessuna trasformazione fantastica. Fino a questo punto avrebbe potuto essere sveglio, intento a osservare gli oggetti familiari intorno a lui. Ma dopo un po’ si verificò un fatto che mise a dura prova le leggi della realtà. Sally, che si trovava a miglia di distanza, alla Casa di Accoglienza, fece la sua apparizione in biblioteca. Amelius vide le tende davanti alla finestra schiudersi e la ragazza entrare attraverso di esse, per poi fermarsi a guardarlo intimidita. Aveva indosso l’abito sobrio che aveva comprato per lei, e con quel vestito il suo aspetto era più incantevole che mai. Sul suo volto grazioso, la bellezza di un aspetto sano si univa adesso alla bellezza della gioventù: le guance smunte avevano cominciato a riempirsi e le labbra pallide erano delicatamente pervase da un naturale colore rosato. A poco a poco i suoi timori iniziali sembrarono attenuarsi. Gli sorrise, attraversò piano la stanza e si fermò al suo fianco. Dopo averlo osservato con un’espressione rapita di tenerezza e di gioia, appoggiò le mani sul bracciolo della poltrona e gli disse, con quel tono curiosamente pacato che lui ricordava così bene: «Voglio darti un bacio». Si chinò sopra di lui e lo baciò con la candida ingenuità di una bambina. Poi si rialzò e guardò avanti e indietro, tra Amelius e la lampada. «La luce del fuoco è la migliore», disse. E mentre parlava, la stanza piombò nell’oscurità. Non riusciva più a vederla né a sentirla. Ci fu un attimo di sospensione, il senso di abbandono di un sonno profondo gli scivolò addosso. La successiva impressione cosciente fu una sensazione di freddo. Rabbrividì e si svegliò.
L’illusione del sogno era ancora viva in lui nel momento del risveglio. Ebbe un sussulto sollevandosi dalla poltrona. Stava forse ancora sognando? No, era sicuramente sveglio. Così come non v’era dubbio che la stanza fosse al buio!
Guardò e riguardò. Non si poteva negare, né dare una spiegazione. Il fuoco bruciava debolmente, lasciando gelida la stanza, e là sul tavolo, appena distinguibile, nel tremolio della fiamma che si consumava, c’era la lampada spenta!
Riattizzò il fuoco e mise la mano sul campanello per chiamare Toff, poi ci ripensò. Che bisogno aveva della luce della lampada? Era troppo stanco per leggere. Decise che era meglio rimettersi a dormire e sognare di nuovo Sally. Che pericolo poteva esserci nel sognare quella povera piccola creatura, così lontana da lui? I momenti più felici della sua vita adesso erano quelli che trascorreva dormendo.
Non appena i carboni nuovi cominciarono fiocamente ad accendersi, tornò a guardare la lampada. Era a dir poco singolare che si fosse spenta proprio nel momento esatto in cui, nel sogno, aveva immaginato si spegnesse. Come mai non aveva lasciato nessun odore? Ma era troppo svogliato, o forse troppo stanco, per approfondire la questione. Lasciamo che il mistero resti un mistero, e che Amelius riesca a riposare in santa pace! Si sedette di nuovo sulla poltrona, tutto scombussolato. Che sciocco a preoccuparsi per una lampada, invece di chiudere gli occhi e riaddormentarsi!
La stanza riacquistò una temperatura gradevole. Spostò il cuscino della poltrona in modo che la testa fosse comodamente appoggiata, poi si sistemò per dormire. Ma gli influssi capricciosi del sonno lo avevano abbandonato. Provò una posizione dopo l’altra, invano. Perfino chiudere semplicemente gli occhi era prendere in giro se stesso. Alla fine si rassegnò, allungò le gambe e si mise a fissare il fuoco che gli teneva compagnia.
Ultimamente aveva pensato più spesso del solito ai giorni trascorsi nella comunità. La sua mente tornò a quel tempo ormai andato. L’orologio sopra la mensola del camino batteva le nove. A Tadmor erano tutti riuniti per la cena, a parlare degli avvenimenti della giornata. Si rivide seduto al lungo tavolo di legno, con la piccola e timida Mellicent nella sedia accanto, e il suo cane preferito ai piedi, in attesa che gli venisse dato qualcosa da mangiare. Dove si trovava ora Mellicent? Gli aveva scritto una lettera molto triste, con quella strana idea fissa che dovesse ritornare da lei un giorno. C’era qualcosa di seducente e adorabile in quella povera creatura che aveva avuto una vita così dura e aveva sofferto tanto. Era un sollievo pensare che sarebbe tornata alla comunità. In quale destino migliore avrebbe potuto sperare? Si sarebbe presa cura del cane al posto suo, una volta tornata? Tutti gli avevano promesso che durante la sua assenza sarebbero stati gentili con i suoi animali, ma il cane era molto affezionato a Mellicent e sarebbe stato più felice con lei che con gli altri. E il suo cerbiatto addomesticato, i suoi uccelli... chissà come stavano? Non aveva scritto nemmeno per avere loro notizie. Era stato terribilmente sbadato con quei suoi amici devoti, indifesi e senza il dono della parola. Nella solitudine di allora, con quei dubbi cupi che avvolgevano il suo futuro, che cosa non avrebbe dato per avere il cane rannicchiato in grembo e la lingua ruvida del cerbiatto che gli leccava la mano! Come ci pensò, ebbe una fitta al cuore. Una sensazione isterica di soffocamento gli impediva di respirare. Tentò di alzarsi per suonare perché venisse accesa la luce, ma fece appello alla sua virilità per sopportare e resistere. Non era possibile! Dov’era finito il suo coraggio? Dov’era andato l’ottimismo che non lo aveva abbandonato mai in altre situazioni? Ricadde sulla poltrona e nascose la faccia tra le mani per la vergogna di fronte a quella debolezza, poi scoppiò in singhiozzi. Il tocco lieve e suadente delle dita di una mano lo fece vibrare all’improvviso.
Le mani gli vennero scostate con delicatezza dal viso. Una voce conosciuta, dolce e sommessa, disse: «Su, non piangere!». Indistinta, attraverso le lacrime, riconobbe la piccola figura che conosceva bene, in piedi tra lui e il fuoco. In quell’insopportabile solitudine aveva ardentemente desiderato il suo cane e il suo cerbiatto. Invece c’era quella creatura martoriata della strada che lui aveva salvato da un orrore indicibile e che ora non chiedeva di meglio che diventare sua fedele compagna, serva e amica! C’era la vittima innocente del freddo e della fame, che lentamente procedeva sul cammino che l’avrebbe fatta diventare una donna adulta. Sprovvista di ogni altra aspirazione, se non quella di occupare il posto che era stato un tempo del cane e del cerbiatto!
Amelius la guardò, ancora incerto se fosse sveglio o stesse dormendo. «Buon Dio!», gridò. «Sto di nuovo sognando?».
«No», disse lei semplicemente. «Questa volta sei sveglio. Lascia che ti asciughi gli occhi, so dove tieni il fazzoletto». Si inginocchiò, gli asciugò le lacrime e gli lisciò i capelli sulla fronte. «Ho avuto paura di farmi vedere finché non ti ho sentito piangere», gli confessò. «Allora ho pensato: “Avvicinati! Non potrà arrabbiarsi con te, ora”, e sono sgattaiolata sotto le tende. Il vecchio mi ha fatta entrare. Non riesco a vivere senza vederti. Ci ho provato, fino a che non ce l’ho fatta più. L’ho confessato al vecchio quando mi ha aperto la porta. Gli ho detto: “Voglio solo guardarlo, non potete lasciarmi entrare?”. E lui ha risposto: “Che Dio mi benedica, Eva è già qui!”. Non so cosa volesse dire, ma mi ha fatta entrare, e questo è quel che conta. È un vecchio forestiero curioso. Però mandalo via, ora sarò io la tua serva. Perché piangevi? Io ho pianto molto spesso per te. Ma no, non può essere questo: non posso aspettarmi che tu pianga per me, posso solo aspettarmi che mi rimproveri. So di essere stata una ragazza cattiva».
Gli lanciò un’occhiata esitante e chinò il capo, aspettando di essere rimproverata. Ma Amelius perse ogni controllo. La strinse tra le braccia e la baciò più volte. «Sei una creaturina cara, buona e riconoscente!», esclamò. D’un tratto si fermò, consapevole troppo tardi del gesto imprudente che aveva commesso. La allontanò da sé, cercò di farle delle domande serie e di infliggerle il rimprovero che meritava. Ma anche se ci fosse riuscito, Sally era troppo felice per ascoltarlo. «Va tutto bene ora!», esclamò. «Non tornerò mai, mai e poi mai alla Casa! Oh, sono talmente felice! Riaccendiamo la lampada!».
Trovò la scatola dei fiammiferi sulla mensola del caminetto. Nemmeno un minuto dopo la stanza era illuminata. Amelius si sedette. La guardava, assolutamente incapace di decidere cosa dovesse dire o fare di lì a poco. A completare il suo sconcerto, si fece sentire dalla porta la voce del vecchio francese premuroso, in un tono alquanto confidenziale.
«Ho preparato una cenetta invitante, signore», disse Toff. «Vi prego di suonare quando voi e la giovane signora sarete pronti».