Re Giorgio II di Borbone (2013-2015)

In tutti i giornali c’è l’addetto agli elogi. Un ragazzo senza fiele, benevolo, che fa della critica uno spaccio di latte puro. La sua frase è rotonda e senza alcuna asperità. Ha per suo stato la lode, e loda con un’infinità di giri tanto sgradevoli quanto ingegnosi. Dispone di una ricetta per ogni caso. Pesta la rosa nel mortaio e ve la spande su tre colonne con una grazia da profumiere. I suoi articoli hanno l’innocenza dei ragazzi del coro, il turibolo è nelle sue mani. È sbiadito, ma piacevole per il destinatario dell’articolo. I direttori dei giornali sono molto contenti di avere sotto mano un redattore di questa fatta. Quando bisogna lodare un uomo a oltranza, lo si affida all’Incensiere.

Honoré de Balzac, I giornalisti, 1843

Dopo le elezioni-terremoto di febbraio 2013, con il pareggio Pd-Movimento 5 Stelle e il crollo dei partiti delle larghe intese, Pier Luigi Bersani tenta invano di formare un governo di minoranza, non avendo i numeri al Senato. Intanto, con l’approssimarsi dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, cresce il pressing su quello vecchio perché rimanga al Quirinale – se non altri sette anni, almeno un altro po’ – per imbalsamare lo status quo contro ogni pericolo di cambiamento.

Se mi lasci non vale

«Ci conosciamo da molti anni e siamo da tempo legati da sentimenti di amicizia... Ho ancora una volta tentato di fargli cambiare opinione su una eventuale prorogatio del suo mandato, ma mi ha elencato molte e solide ragioni per le quali riteneva impossibile accettarla: avrebbe profondamente turbato l’ordinamento costituzionale senza produrre alcun concreto vantaggio per uscire dallo stallo. Le sue motivazioni mi hanno convinto e tuttavia non sarà facile riempire il vuoto che la scadenza del suo settennato lascerà... Napolitano è stato fra i pochissimi presidenti della nostra Repubblica a essere stato, dal momento della sua elezione, rigorosamente super partes» (Eugenio Scalfari, «la Repubblica», 14.4.2013).

«Non resto, sarebbe ridicolo»

«Giorgio Napolitano è fra gli scatoloni con le carte e la corrispondenza... I libri, i tantissimi libri di cui si circonda e che ama annotare e tenere sulla scrivania, sono già partiti verso la prossima destinazione: lo studio a Palazzo Giustiniani, casa dei senatori a vita, dei presidenti emeriti della Repubblica... Un trasloco definitivo, senza possibilità di ritorno, mentre già escono volumi che tentano un bilancio del settennato... Eppure le pressioni si moltiplicano in queste ore per cercare di convincere il capo dello Stato ad accettare un prolungamento, a restare al suo posto ancora per un anno o due. Richieste che vengono risolutamente rispedite al mittente: “Ora ci vuole il coraggio di fare delle scelte, di guardare avanti, sarebbe sbagliato fare marcia indietro”... Nonostante i faccia a faccia di questa settimana, i partiti non riescono a trovare un nome, a identificare una figura credibile e di garanzia per tutti, che possa sedere al Quirinale per i prossimi sette anni, così si cerca una soluzione di comodo, che l’attuale inquilino però rifugge come “una non soluzione”...

In un paese in cui nessuno vorrebbe lasciare la poltrona, Napolitano invece si ritrae, invita a non attribuire “valenze salvifiche” alla sua persona e anzi vive con ansia, quasi con angustia, le continue pressioni. Pressioni che non accetta, specie se accompagnate da una sorta di richiamo a un dovere morale... Il presidente è certamente grato per tutti i riconoscimenti che gli vengono tributati, ma considera il mandato concluso – “tutto quello che avevo da dare ho dato” ripete – anche perché conosce perfettamente la fatica del ruolo, sente il peso degli sforzi fatti e ricorda che a giugno compirà ottantotto anni... C’è poi un’allergia alle “soluzioni pasticciate”, a quelle che all’estero definirebbero immediatamente “soluzioni all’italiana”, cioè a inventare un prolungamento non previsto dalla Costituzione... Non è mai successo nella storia della nostra Repubblica e Napolitano non intende certo rompere la regola, ma i più tenaci non demordono sottolineando che viviamo tempi particolari in cui perfino un Papa ha dato le dimissioni in anticipo. “Ma è un esempio che non calza per nulla – ha replicato il Presidente –, perché per un Papa non esiste scadenza e così nemmeno anticipo”, mentre qui tutto è codificato con chiarezza...

Siamo arrivati all’ultima domenica al Quirinale per Giorgio Napolitano, il prossimo fine settimana potrebbe essere già stato eletto il suo successore, nel congedo non ci sono rimpianti perché a prevalere è la convinzione di aver fatto tutto il possibile per tenere in piedi il paese: il lavoro dei saggi è stato il tentativo «di dare una conclusione seria» al percorso nel momento in cui ci si è trovati di fronte a un muro... Ripete di non essere disponibile a soluzioni di comodo apparentemente facili, ma poi confuse e pasticciate... Per Giorgio Napolitano è il tempo del commiato, del ritorno alle aule parlamentari, ai libri, alla musica classica e alla vita privata. È già tutto pronto, tutto è stato ordinato, catalogato e trasferito, restare o peggio tornare indietro “sarebbe ai limiti del ridicolo”» (Mario Calabresi, «La Stampa», 14.4.2013). Ecco: sarebbe ridicolo. Esattamente sei giorni dopo, il 20 aprile, Napolitano si fa rieleggere presidente della Repubblica. Dopo una balla così grande, ripetuta infinite volte ai quattro venti, tutti smetterebbero di credere alla sua parola. Invece politici e giornalisti gli fabbricano prontamente un alibi falso: ha dovuto cedere alle pressioni dei partiti che da giorni e giorni, anzi settimane, anzi mesi non riuscivano a eleggere il nuovo presidente e lui, dinanzi al pericolo di un’impasse da Repubblica di Weimar (che notoriamente aprì la strada a Hitler), ha ceduto per il nostro bene. Obtorto collo, anzi obtorto Colle.

Naturalmente non è vero niente: in passato l’Italia ha avuto presidenti eletti anche dopo 15-20 giorni, mentre questa volta si vota solo per due giorni: il tempo di impallinare Marini e Prodi. A quel punto non resta che Stefano Rodotà, candidato dai 5Stelle, appoggiato da Sel, amatissimo dal popolo della sinistra e anche dagli elettori del Pd, che occupano le sedi del partito per chiedere di eleggere lui. Questo è il pericolo che vogliono scongiurare i partiti, i poteri retrostanti in Italia e in Europa e dunque Napolitano: non Weimar, non Hitler, ma Rodotà, un pericoloso giurista che osa addirittura conoscere e amare la Costituzione, dunque non le larghe intese con Berlusconi appena bocciato alle urne. Per questo Napolitano si è smentito e ha accettato di restare al Quirinale: per salvare l’Ancien Régime da ogni minaccia di rinnovamento e mantenere ancora una volta il Cavaliere nella stanza dei bottoni. Ed escluderne, ça va sans dire, i vincitori delle elezioni: i 5Stelle.

La Domenica delle Salme

Addì 21 aprile 2013, primo giorno dell’anno VIII dell’Era Napolitana, Domenica delle Palme ma soprattutto delle Salme, si leva unanime e festosa da tutte le edicole della Nazione una nuvola d’incenso per il Fausto Evento.

Il Corazziere della Sera

Viva soddisfazione trapela dal Colle per la prima pagina del «Corriere», che titola «Napolitano rieletto chiede responsabilità» (in encomiabile sintonia con «la Repubblica» che titola «Napolitano bis: ora più responsabilità»). Ecco: è caldamente consigliato l’uso di sostantivi quali «responsabilità», ma anche «speranza», che campeggia in cima all’editoriale del molto ambasciatore Sergio Romano («Un gesto, una speranza»): «Con un notevole sacrificio personale il presidente ha accolto un invito» eccetera «e ha messo ancora una volta se stesso al servizio del Paese. I grandi elettori gliene sono grati», quelli piccoli un po’ meno, ma pazienza, mica si può avere tutto.

E ora «abbiamo qualche motivo per sperare che questa novità istituzionale sia il colpo di schiena di cui il Paese aveva bisogno per scuotersi di dosso il pessimismo degli scorsi mesi». Ma certo, come no: la sferzata di ottimismo scaturita dalla notizia che un presidente di 88 anni resterà al Quirinale fino ai 95 già elettrizza il Paese dall’Alpi a Scilla, con particolare riferimento alle case di riposo e agli ossari. Perché, «ancora prima di rimettersi al lavoro, Napolitano con il suo gesto incoraggia gli italiani a credere in se stessi e nelle proprie istituzioni». Ivi compresi i cronicari, i reparti di geriatria e le università della terza età. Ora però i partiti «devono permettere a Napolitano di fare ciò che ritiene utile al Paese», e pazienza se il Parlamento dovesse essere contrario: si potrebbe lasciarlo chiuso, per evitare brutte sorprese, e fare tutto al Quirinale. Del resto Romano non ha dubbi: ciò che ci salverà è l’inciucio, anche se lui – secondo le nuove direttive del Colle – lo chiama pudicamente «sforzo collegiale». Grande compiacimento si esprime sull’ermo Colle per il pezzo del costituzionalista Michele Ainis, che ha sempre una giustificazione per tutto e per il contrario di tutto: è vero che una riconferma del presidente è in sé «inopportuna», ma solo «in passato»; già, perché «c’è un tempo della regola e c’è un tempo per l’eccezione», e guardacaso quel tempo è arrivato proprio ora, l’unica volta in cui è accaduto, visto che i partiti «bambini hanno chiesto soccorso al vecchio padre, che già pregustava il buen retiro» e «ha detto sì» sebbene «a malincuore». I partiti bambini, per la cronaca, sono quelli guidati da B. (77 anni), Bersani (62) e Monti (70).

Dal Quirinale si raccomanda vivamente anche l’articolo del sempre frizzante Aldo Cazzullo, che s’incarica di bastonare, con l’ausilio del sempre arzillo Macaluso, l’infame Rodotà, resosi responsabile di un grave atto di insubordinazione e lesa maestà: «Poteva attendersi un suo gesto di cortesia – il ritiro della candidatura – che non c’è stato». Ma anche di Fabrizio Barca, che con un «atteggiamento ancor più sorprendente» s’è addirittura schierato con Rodotà, impedendo a King George il meritato en plein di 1005 grandi elettori su 1005. Una spina in più nel Sacro Cuore dell’anziano monarca, cui già «non hanno fatto piacere le immagini della contestazione di piazza, più limitata del previsto, ma pur sempre affollata di paradossali bandiere rosse». Ecco, già lo scendere in piazza è un gesto di per sé sconsiderato; ma portarsi pure le bandiere rosse, e per giunta «paradossali», è davvero imperdonabile e vien da domandarsi – con Cazzullo – perché la forza pubblica non abbia provveduto a disperderle con gli idranti.

Ne conviene pure Pigi Battista, sinceramente affranto per questo riesplodere della piazza (luogo antidemocratico per antonomasia fin dall’Atene di Pericle), anche perché «la democrazia rappresentativa che ieri in piazza i grillini hanno voluto mettere sotto assedio è l’unica democrazia che possiamo apprezzare». E pazienza se nessuno sa chi e che cosa rappresenti. L’unico titolo del «Corriere» malauguratamente distonico col doveroso omaggio a Sua Maestà è a pagina 33, nella sezione Cultura: «La svolta del Gattopardo». Ma per fortuna si riferisce solo ed esclusivamente a Tomasi di Lampedusa.

La Ripubblica

Semplicemente magistrale – si fa notare nelle règie stanze – l’editoriale di Eugenio Scalfari, cui spetta ormai di diritto non solo il Laticlavio, ma anche il Cavalierato dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro nonché il Collare della Santissima Annunziata. Scevro da risentimenti per le simpatiche bugie rifilategli per mesi dal sovrano sulla sua irriducibile refrattarietà alla riconferma sul trono e per lo stato di abbandono in cui fu lasciato in una sua memorabile visita alla reggia di Castelporziano, in balia di un cinghialotto e di un’upupa, l’amico Eugenio si produce in una sobria analisi a base di «respiri di sollievo alla rielezione», di «gravoso fardello degli animi e della fatica fisica che quel ruolo richiede» e soprattutto di «governo di scopo» che dovrà seguire «le indicazioni di scopo [e quali se no?, nda] che il Capo dello Stato gli affiderà», in base alle stringenti regole dettate dallo Statuto Albertino. Ottima e abbondante anche la bastonatura inflitta all’infido Rodotà, che intanto «non ha contattato» lo Scalfari prima di accettare la candidatura al Colle. E pare di vederlo, il Fondatore, macerarsi e tormentarsi insonne sul canapè: «Ma perché Stefano non telefona? Ma quando telefona? Eddai, su, una chiamatina...». Invece niente. Peccato, perché se avesse chiamato, «gli avrei detto che non capisco perché una persona delle sue idee e della sua formazione politica, giuridica e culturale, potesse diventare candidato grillino» (giusto, doveva attendere che lo candidasse la sinistra, la quale però, essendo lui di sinistra, non l’avrebbe mai candidato). Eppoi non è all’altezza degli statisti che, secondo lo storico Scalfari, «hanno fatto l’Italia» e cioè: «Mazzini, Cavour, Garibaldi, Gramsci, Moro, Berlinguer e Napolitano», ma non Rodotà che «non mi è venuto in mente» (come del resto gli ex idoli Mussolini, Craxi e De Mita). Sempre da «Repubblica», si apprende poi con vivo disappunto che «salterà stavolta il passaggio delle consegne fra vecchio e nuovo inquilino del Colle». E perché? Sarebbe così bello vedere il presidente che, allo specchio, si infila la corona tempestata di nastri e bobine sul capino implume. Gli aiutanti di campo provvedano senza indugio.

La Ristampa

A proposito di diademi, la Real Casa fa sapere di aver adornato la Corona di titoli che su «La Stampa» circondano le sue stentoree effigie: «Lo storico bis di Napolitano», «Le riforme per ritrovare credibilità», «Doppia sfida per destra e sinistra», «Ora un premier di “ricostruzione”», «L’appello dei governatori fa breccia nei no del Presidente», «L’agenda della Terza Repubblica», «Ma la piazza non è il popolo» (giusto, è davvero un postaccio). Un sentito ringraziamento anche per la mancata citazione di quanto lui stesso aveva giurato proprio a «La Stampa» domenica scorsa: «Non mi convinceranno a restare» perché la rielezione «sarebbe una soluzione pasticciata», «all’italiana», «ai limiti del ridicolo». Avrebbe potuto trasformarsi in un imbarazzante autoritratto.

Il Trombettiero

Su quello che fu «Il Messaggero», il neodirettore Virman Cusenza si produce in un editoriale in chiaroscuro, problematico, a tratti tagliente. Quello di «accettare un fardello come la guida di un’Italia nella tempesta» è un «sacrificio», ma anche «la garanzia di un presidente gentiluomo», insomma il divino «Napolitano svetta sulle macerie dei partiti», perché solo lui, «garante riconosciuto da tutti e amato dagli italiani, può far ripartire il Paese». Segue un sacro paragone dalla logica davvero stringente: «Non era mai successo che un Papa si dimettesse ma nemmeno che un presidente uscente fosse riconfermato». Dal che qualcuno potrebbe dedurre che i due fatti fanno a pugni tra loro, visto che Ratzinger s’è dimesso a 86 anni mentre Napolitano s’è fatto rieleggere a 88 anni. Ma che cos’è mai la logica dinanzi al «protagonista di una sorta di rifondazione globale da avviare a tutti i livelli»? Al Suo cospetto anche il dizionario della lingua italiana si fa da parte, e consente licenze poetiche cusenziane come «rifiduciato» (participio passato del verbo inesistente «rifiduciare», derivante dallo sconosciuto «fiduciare»). Non manca, per la gioia del Colle, l’auspicata manganellata alla «piazza», frutto della «saldatura di un ostinato Rodotà con i grillini» che ovviamente «preoccupa per il futuro»: l’idea che esista anche un minimo di opposizione e che il governo del Re non raccolga proprio il 100 per cento dei voti in Parlamento è qualcosa di profondamente antidemocratico, cui bisognerà mettere mano. Intanto però godiamoci il primo miracolo del Santo subito che il Cusenza definisce «il pur repubblicanissimo Giorgio, il “Re Taumaturgo”», il quale avrebbe indotto Grillo a rinunciare al «gesto eversivo» di manifestare in piazza. Se san Francesco parlava agli uccelli e ammansiva il lupo di Gubbio, san Giorgio ammaestra i grilli.

Il Sole-14 Anni

Il direttore del «Sole 24 Ore» (per l’occasione ribattezzato «Sole 14 Anni»), Roberto Napoletano, ha tutte le lettere tranne una (la «e») per essere entusiasta. E trattiene a stento la saliva: «Grazie, Presidente. In un’Italia senza lavoro, alle prese con una questione industriale diventata sociale, divisa pericolosamente» eccetera, «ci è voluto l’ultimo soccorso di un “giovanotto” di 87 anni che risponde al nome di Giorgio Napolitano per alleviare le tante ferite che attraversano il corpo (profondamente) sofferente del Paese». Il tempo per prendere il fiato, poi ridagli: «Che il suo sacrificio di vita personale, la piena “assunzione di responsabilità” nei confronti della Nazione, il bagaglio (unico) di esperienza istituzionale, il credito personale di credibilità internazionale, sapranno garantire al Paese, in tempi strettissimi, un governo politico temporaneo, ma non provvisorio, con una compagine forte e autorevole all’altezza che valorizzi le (sue) migliori risorse giovanili». E qui ci fermiamo, un po’ per evitare l’ipossia, un po’ per scongiurare il diabete. Ma anche per la sconfinata ammirazione che si deve a quel «temporaneo, ma non provvisorio». Che è un po’ come dire: incinta, ma non gravida; nano, ma non basso; pirla, ma non fesso; Napolitano, ma non Napoletano.

La Napoletunità

Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e affondato da Pier Luigi Bersani insieme al Pd, titola a caratteri cubitali e maiuscoli: «NAPOLITANO». Il cosiddetto direttore Claudio Sardo, che due mesi prima si apprestava a salire a Palazzo Chigi come portavoce del premier Pier Luigi, non ha ancora elaborato il lutto, infatti è ancora in stato confusionale. Ma si consola con «il prestigio, la dignità e l’autorevolezza di Napolitano», ovvero «le risorse estreme a cui la stragrande maggioranza dei grandi elettori si è aggrappata per scongiurare» eccetera. «La stima e la gratitudine verso il Capo dello Stato sono i nostri primi sentimenti». Manca solo la vergogna per i titoli sul «Patto Grillo-Berlusconi» o sul «No di Renzi al governo Bersani», balle spaziali per distrarre gli eventuali lettori dall’unico patto esistente nella politica italiana: quello fra Pd e Pdl per l’inciucio. Lui, poveretto, ribadisce che «le larghe intese non sono la soluzione di cui il Paese ha bisogno». Si vede che la mamma non gli ha ancora detto niente. Qualcuno invece gli ha detto che la forzatura del ri-Napolitano è giustificata dallo «stato d’eccezione» e che «la nostra Costituzione prevede» per Napolitano «poteri dilatati nella formazione del governo», solo che non gli hanno detto dove, in quale articolo, si legga che «la Presidenza della Repubblica è il motore di riserva del sistema» e lui la butta lì. A fianco, Natalia Lombardo argomenta: «Del resto questo inizio di secondo millennio ha visto un Papa dimettersi e coesistere col suo successore». Quindi, forte di questo precedente, Napolitano può tranquillamente coesistere con se stesso: è matematica pura.

Pansitàno

Su «Libero», che pure canzona il ri-Presidente («Il nuovo che avanza»), Giampaolo Pansa è letteralmente rapito da King George: «Abbiamo bisogno di un governo condiviso... Che cosa doveva fare il capo dello Stato? Rifiutarsi di ascoltare un grido di aiuto? Per nostra fortuna ha risposto sì. Da cittadino mi sento più tranquillo o, se vogliamo, meno impaurito. Auguro a Napolitano buona fortuna. Nella speranza che non prevalgano gli spiriti malvagi o sciocchi che urlano contro la sua scelta. Costoro non si rendono conto che il vecchio Presidente ha accettato di ritornare in campo anche per difendere la loro dignità di cittadini e di italiani». Era decisamente meglio il Pansa dell’«Espresso», che al primo inciucio della Bicamerale coniò il geniale «Dalemòni».

Il Giornalitano

Angoscioso dilemma per Alessandro Sallusti: leccare Napolitano o andare sul classico e leccare Berlusconi? Soluzione: leccare tutti e due. «Napolitano ha accettato di cavare le castagne dal fuoco alla sinistra», ma «di fatto ha vinto Berlusconi».Titolo involontariamente comico: «PRESENTABILI. Re Giorgio rieletto presidente, Berlusconi vara il Napolitano bis. Pdl al governo». A umettare King George provvedono Mario Cervi («Così comincia la Terza Repubblica») e soprattutto Giuliano Ferrara («I franchi tiratori vera essenza della democrazia»). Lui di comunisti sì che se ne intende.

Pompe sfuse

«Abbiamo il Presidente, il migliore in circolazione, e dobbiamo essergli grati se ha accettato di mettersi ancora al servizio del Paese», turibola Alessandro Barbano, direttore del «Mattino».

«Un gesto d’amore per il Paese», titola Sarina Biraghi, direttrice del «Tempo». Il resto è il solito frullato di «alto profilo», «generosità», «spirito di sacrificio», «attaccamento alla cultura democratica per salvare il Paese», «punto di equilibrio». Mancano soltanto il marito fedele e il padre esemplare. Ma il pensiero della Biraghi corre commosso a «donna Clio», l’«unica sconfitta» perché «voleva “godersi” il marito ed evitargli altre preoccupazioni... Non è mancanza d’amore, gentile donna Clio, ma più di lei è l’Italia ad aver bisogno di suo marito».

Un giornale chiamato «Avvenire» dovrebbe quantomeno riflettere su un presidente rieletto a 88 anni. Ma nel nostro caso trattasi dell’house organ dei vescovi italiani, dunque titola con l’aspersorio: «Napolitano bis, ritorno di saggezza». Il direttore Marco Tarquinio intinge la penna nell’acqua santa, o forse nel vinsanto: «Il soprassalto di saggezza politica e istituzionale... L’Italia ha di nuovo un presidente di tutti... C’è da essergli grati per la sua costruttiva disponibilità, di altissimo servizio istituzionale... La sua figura sobria, la cultura dialogante, la naturale misura, il senso del dovere, un riferimento saldo... L’esito ragionevole e proficuo... Qualcosa di generosamente e lucidamente...». Spegniamo le luci e lasciamoli soli.

Fantozzi-Bersani dal Megapresidente Galattico

«Presidente, ci aspettiamo che lei ce le canti e ci dica che siamo tutti colpevoli perché ce lo meritiamo. Avrebbe pienamente ragione, lo sappiamo bene. Ma adesso la preghiamo di fare un altro passo di generosità e di voler riconsiderare la sua indisponibilità a una nuova candidatura. Le domandiamo insomma di restare, l’Italia ha ancora bisogno di lei, un bisogno assoluto» (Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, a Giorgio Napolitano dopo la bocciatura di Romano Prodi, secondo il «Corriere della Sera», 20.4.2013).

Grazie Silvio, tu sì che sei uno statista

«Decisivo sarebbe stato il colloquio tra Napolitano e Berlusconi. Il presidente avrebbe dato atto all’ex premier di avere avuto, in questa difficile fase, un “comportamento da statista”. Prima del congedo, fra i due vi sarebbe stato un lungo, caloroso abbraccio, talmente toccante da suscitare emozione nel portavoce di Napolitano, Pasquale Cascella» («Corriere della Sera», 21.4.2013). Sono cose che non capitano tutti i giorni, specie a un imputato per concussione e prostituzione minorile, prossimo pregiudicato per frode fiscale. Dunque, «statista» da abbracciare. Calorosamente.

Meno male che Giorgio c’è

«È il discorso più straordinario che io abbia mai sentito nei vent’anni della mia vita politica. Meno male che Giorgio c’è!» (Silvio Berlusconi sul discorso di reinsediamento di Napolitano davanti alle Camere riunite, 22.4.2013).

Tutti in piedi, entra il Maestro

«Discorso breve, severo ma intriso di commozione: una lezione di virtù repubblicana» (Antonio Polito, «Corriere della Sera», 23.4.2013).

Libro e Giorgetto

«Ci sono discorsi che cambiano la storia di un paese. Come quello di Abraham Lincoln nel 1863 a Gettysburg... O come Lyndon Johnson, che nel 1965 pronuncia il celebre We shall overcome e chiude la segregazione razziale... Il discorso di Giorgio Napolitano ha la forza retorica, l’altezza d’ispirazione e la dirompenza politica che lo rendono già un’opera prima... E ha aperto una nuova pagina, restituendo dignità alla parola e regalandoci un testo di etica pubblica senza precedenti nella storia repubblicana. In un altro paese, lo farebbero studiare nelle scuole» (Paolo Valentino, «Corriere della Sera», 23.4.2013). Manca soltanto l’invito alle case editrici affinché rimaneggino all’uopo i sussidiari e le antologie scolastiche, espungendone gli ormai sorpassati Dante Alighieri, Machiavelli, Foscolo, Manzoni e Pirandello per fare posto a pensieri, parole e opere di Re Giorgio II di Borbone.

Minculnap

Sul «Foglio» del 23 aprile, siccome i paralleli con Lincoln e Johnson sono già presi, Giuliano Ferrara paragona il Napolitano-bis nientemeno che al generale De Gaulle: «Logica stringente, grinta politica, orgoglio civile e sculacciate a Gribbels [Grillo-Goebbels, nda], un capolavoro che ha per titolo onorario quel “Tutti per l’Italia” proposto dal “Foglio” prima della campagna elettorale». I provveditori agli studi prendano dunque buona nota per ripristinare, all’inizio delle lezioni e subito prima della preghiera mattutina, il Saluto al Re per i balilla e le piccole italiane.

Il Triangolo Quadrilatero

Su «Repubblica», sempre il 23 aprile, il costituzionalista Andrea Manzella non trova nulla da ridire sullo stravolgimento della Costituzione a cui tutti gli italiani hanno appena assistito in diretta. Anzi, riesce a scorgere «nella generosa disponibilità di Napolitano la consapevolezza di dover conservare “immune da ogni incrinatura” il ruolo istituzionale del presidente della Repubblica». Qualcuno nota una certa ipertrofia presidenzialista nelle parole e nei gesti del capo dello Stato? Al contrario, spiega il Manzella: Napolitano semplicemente «assembla le attribuzioni presidenziali che erano un po’ sparse nella Carta». Quei distrattoni dei padri costituenti le avevano messe tutte in disordine, un po’ qua e un po’ là. Poi è arrivato lui a rassettare. Il fatto che un presidente dia ordini al Parlamento, oltreché alla magistratura e alla stampa, e faccia e disfaccia governi, non deve meravigliare né scandalizzare. Perché – argomenta il Manzella – «si può dire che al triangolo tradizionale – governativo, legislativo, giudiziario – si è ora aggiunto, senza togliere nulla agli altri, un quarto lato. Un triangolo quadrilatero». A questo punto urgono opportune integrazioni non solo ai testi di diritto costituzionale, ma anche di geometria. Ai tradizionali triangoli equilatero, isoscele, rettangolo, ottusangolo e scaleno, va aggiunto senza indugio il triangolo quadrilatero. Con buona pace di quel dilettante di Pitagora e del suo teorema.

Silenzio, passa la Storia

«È una delle poche occasioni in cui l’aggettivo “storico” si può e si deve usare, perché non serve a un tributo encomiastico e adulatorio» (Luigi La Spina, «La Stampa», 23.4.2013). E chi potrebbe mai pensarlo?

Qui si fa l’Italia o si muore

«La riscossa delle istituzioni». «Speriamo che il discorso “storico” del presidente segni l’avvio di una nuova stagione della Repubblica... Ora si fanno le riforme... Ora si fa il governo che le imprese, i lavoratori, le famiglie reclamano... Ora non si sfugge a una convergenza politica... Ora si difendono le istituzioni dal vilipendio» (Claudio Sardo, direttore de «l’Unità», 23.4.2013). Se tutto va bene, sull’onda di questa prosa marziale, i treni torneranno ad arrivare in orario, i cittadini in fila doneranno nuovo oro alla Patria, e magari ci riprendiamo pure il nostro posto al sole.

Non vedo, non sento, non parlo

Il 17 maggio 2013 la Procura di Palermo chiede alla Corte d’Assise di ascoltare come testimone il presidente Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Tema dell’audizione: la lettera di dimissioni (poi respinte) che il suo ex consigliere Loris D’Ambrosio gli scrisse il 18 giugno 2012; nella missiva D’Ambrosio si diceva «preoccupato» dal «vivo timore di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi» sulla trattativa Stato-mafia. E ricordava di aver esternato queste sue inquietanti «ipotesi» a Napolitano («lei sa») e non solo a lui («ho detto anche ad altri»). Dal Quirinale trapelano «sorpresa» e «irritazione». Anziché sollecitare il capo dello Stato a correre dai giudici per dire tutto ciò che sa, giuristi, giornalisti e politici corazzieri accusano i pm di lesa maestà.

Sul «Corriere», Michele Ainis scrive che citare 176 testimoni (soprattutto uno: Napolitano) equivale a «sparare 176 colpi di pistola, ma anche di cannone», insomma perpetrare «una rivalsa se non proprio una vendetta» contro il Quirinale e una «mortificazione del principio di ragionevolezza». Eppure l’art. 205 del Codice di procedura penale prevede espressamente «la testimonianza del presidente della Repubblica», che «è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di capo dello Stato». Cioè al Quirinale. Dunque il presidente, come ogni cittadino, ha l’obbligo di rispondere e di dire la verità. Ma Ainis invita la Corte a lasciar perdere e a «mettersi l’anima in pace», per evitare l’«ennesimo tamponamento tra politica e giustizia» e «agevolare il traffico». O forse voleva dire i traffici.

Il vicepresidente del Csm Michele Vietti, sulla «Stampa», esprime «disappunto» e si dice «preoccupato» per un imprecisato «clima da curva sud» che circonderebbe il processo (peraltro ignorato dai media). Poi tenta di influenzare la libera decisione dei giudici e dei giurati popolari dell’Assise: «Non posso negare che mi lascerebbe perplesso» una convocazione di Napolitano come teste, anzi «fatico a immaginarla», perché «non mi sembra un’atmosfera adatta» e perché «far deporre Napolitano in un processo che vede come imputati i più feroci macellai della storia della mafia è una mancanza di rispetto per il ruolo che riveste e per la sua storia». Dunque, se i pm ritengono che Napolitano sappia qualcosa di utile sulla trattativa, devono astenersi dal domandarglielo per «rispetto» (concetto ignoto a Costituzione e codici).

A dare manforte a Vietti e a chi sta sopra di lui, scendono in campo le larghe intese in tutta la loro geometrica potenza. Che quel processo non s’abbia da fare e che Napolitano non debba testimoniare lo scrivono «Il Foglio», «Libero», «il Giornale» e anche «l’Unità»: ma sì, pure l’organo ufficiale del Pd, che nel giro di una settimana fa commentare il processo di Palermo a Pino Arlacchi e a Giovanni Pellegrino, noti negazionisti della trattativa. Pellegrino, già senatore Ds, dalemiano di ferro, già presidente della commissione Stragi e già difensore di Previti, recensisce amorevolmente un «saggio» pubblicato sul «Foglio» dal professor Giovanni Fiandaca, anche lui molto apprezzato dal Colle e dal Pd (che lo candiderà alle elezioni europee del 2014), dal sobrio titolo: Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca.

Presidente, auguri dal Suo umile vice

«Auguri Presidente, punto di riferimento sicuro in un tempo difficile. Caro Presidente, nel formularle gli auguri più sinceri per la felice ricorrenza del suo compleanno, desidero ringraziarla per il suo ruolo di infaticabile difensore dell’unità nazionale e garante della nostra Costituzione. Accettando di proseguire per un secondo mandato il suo servizio alla Nazione, ha richiamato ancora una volta il Paese alle sue responsabilità, testimoniando quanto il bene collettivo sia il fine più alto della politica. Il suo esempio, signor Presidente, è per tutti noi una guida e un sicuro punto di riferimento in un tempo difficile» (Piero Grasso, presidente del Senato, lettera di auguri per l’88° compleanno del presidente Napolitano, 29.6.2013). Io mi sto allenando, non si sa mai.

SuperNapo nell’alto dei cieli

«Il rifiuto delle scorciatoie». «Giorgio Napolitano è come se guardasse alla situazione da lontano, o forse sarebbe meglio dire dall’alto. Dall’alto dei suoi 88 anni, dei sessant’anni di vita politica, da quella distanza che ha chi non cerca altri incarichi» (Mario Calabresi, sulla cerimonia prepasquale del Ventaglio con i giornalisti al seguito, «La Stampa», 19.7.2013). E quali altri incarichi potrebbe cercare il presidente della Repubblica? Il Soglio Pontificio?

Non nominare il nome di Giorgio invano/1

Nicola Morra (capogruppo M5S al Senato): Ieri è intervenuto nel dibattito politico chi sta sul Colle...

Piero Grasso (Pd, presidente del Senato): Scusi, senatore Morra, non sono ammessi riferimenti al capo dello Stato, lasciamolo fuori da quest’aula.

M: Penso sia ammissibile fare delle riflessioni, se poi sbaglierò dovranno i cittadini valutare. Il presidente della Repubblica...

G: L’ho invitata a lasciarlo fuori. Lei non può citarlo.

M: Ma voglio citare quel che ha detto il nostro presidente!

G: No, lei non può citarlo!

M: Ringrazio il senatore Berlusconi che ci onora della sua presenza in aula [la terza dall’inizio della legislatura, nda] e ci fa capire chi sia effettivamente a reggere questa maggioranza, insieme al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

G: Non si accettano riferimenti al capo dello Stato (dal dibattito in Senato sulla mozione di sfiducia individuale presentata contro il ministro dell’Interno Alfano da M5S e Sel per lo scandalo del rapimento di Alma Shalabayeva e della figlioletta Alua, 19.7.2013). A quel punto i 5Stelle ironizzano sullo zelo grassiano («Kazakistan docet») e domandano: «Quali regolamenti stabiliscono che il capo dello Stato non si possa neppure menzionare? E perché Letta, Schifani e Zanda non sono stati censurati quando hanno citato Napolitano?». Ma il primo Comandamento della Monarchia del Napolitanistan – «Non nominare il presidente invano» – scatta soltanto quando si cita il capo dello Stato per criticarlo, o quando chi lo cita non offre sufficienti rassicurazioni di volerlo elogiare; nominarlo per incensarlo invece si può, anzi si deve. Un po’ come nella tradizione ebraica, che considera la divinità talmente sacra da essere impronunciabile. Di qui il tetragramma YHWH, innominabile se non nella versione Adonai, peraltro riservata alle preghiere. Oltreché divino, dunque infallibile, incriticabile, inindagabile, imperseguibile, impunibile, inarrestabile, inintercettabile, intestimoniabile, diciamo pure inascoltabile, Sua Castità è anche ineffabile. Qualora lo si volesse evocare, purché con la dovuta devozione e il capo coperto o almeno velato, si dovranno usare le consonanti del pentagramma tratto dal codice fiscale: NPLTN. In un soprassalto di senso del ridicolo, persino Napolitano, dalle vacanze in Val Fiscalina (Trentino Alto Adige) fa diramare una nota ufficiale: «È semplicemente ridicolo il tentativo di far ritenere che il presidente della Repubblica aspiri a non essere nominato o citato in modo appropriato nel corso delle discussioni in Parlamento. Ai presidenti delle Camere spetta di garantire nel dibattito parlamentare il rispetto di regole di correttezza istituzionale e di moderazione del linguaggio».

Non nominare il nome di Giorgio invano/2

Andrea Colletti (deputato M5S, sventolando una copia della Costituzione): L’attuale presidente della Repubblica, che in realtà funge anche da presidente del Consiglio dei ministri e forse anche da capo indiscusso del Pd e del Pdl, dovrebbe rileggersi questo libello – è proprio qui, glielo possiamo anche regalare – e capire che non siamo una monarchia costituzionale con a capo Re Giorgio I, ma una Repubblica parlamentare.

Laura Boldrini (Sel, presidente della Camera): No, lei non può parlare così del presidente della Repubblica, lei lo sa questo. Ne abbiamo già discusso in altre occasioni. Lei sa che non può chiamare in ballo il presidente della Repubblica, fa parte del Regolamento.

C: Allora non lo chiamerò, dirò l’Innominabile.

B: Ho già richiamato il collega Colletti a non tirare in ballo il presidente della Repubblica.

C: E allora, invece di fare ogni tanto un monito col ditino alzato, l’Innominato dovrebbe anche ogni tanto guardarsi allo specchio...

B: Se lei continua io sono costretta a toglierle la parola.

C: Io non ho nominato nessuno e non posso nominare chi non ho nominato.

B: Ho richiamato il collega Colletti a non chiamare in causa il presidente della Repubblica, l’ho esortato a non farlo (dibattito alla Camera sulla conversione in legge del «Decreto del fare», 26.7.2013). In realtà il Regolamento parlamentare non vieta affatto di nominare il capo dello Stato. L’unica norma che cita il presidente della Repubblica è l’articolo 60 comma 3, che gli conferisce il potere di proporre la censura e l’interdizione dai lavori parlamentari per i deputati violenti. Dinanzi all’imbarazzante piaggeria della Boldrini, a distanza di pochi giorni la Presidenza della Repubblica si vede costretta a ribadire: «Ai presidenti delle Camere spetta di garantire, nel dibattito parlamentare, il rispetto di regole di correttezza istituzionale e di moderazione del linguaggio. Semplicemente ridicolo è invece il tentativo di far ritenere che il presidente della Repubblica aspiri a non essere nominato o citato in modo appropriato nel corso delle discussioni in Parlamento».

L’Amatissimo che fa benissimo

«Le ragioni della scelta del Colle». «Certo, è suo amico da una vita, almeno da quando negli anni Settanta l’allora dirigente del Pci seguì da vicino il progetto per un’“alternativa socialista” in cui era al lavoro la nidiata di Antonio Giolitti: gente come Federico Coen, Giorgio Ruffolo e, appunto, lui. E certo, ne ha apprezzato la competenza economica con cui si mosse da ministro e la risolutezza dimostrata nelle stagioni di Palazzo Chigi, con il massiccio intervento da 93 mila miliardi per scongiurare una grave crisi finanziaria e avviare il risanamento dei conti pubblici, nel 1992. Ma è soprattutto allo studioso di Diritto pubblico che Giorgio Napolitano ha pensato, scegliendo Giuliano Amato come nuovo membro della Corte costituzionale. Un giurista il cui sterminato curriculum comprende incarichi di prestigio nel campo della politica e delle istituzioni “in Italia e fuori d’Italia” e non per nulla il suo nome è corso nei mesi scorsi sia per un ritorno a Palazzo Chigi sia per un approdo allo stesso Quirinale, mentre non sarebbe parsa inverosimile anche una sua nomina come senatore a vita. Frequentazioni e stima personali a parte, per una riserva della Repubblica di quel rango e di quell’esperienza non poteva valere la logica del bilancino o un calcolo delle convenienze, quando si è trattato di decidere per il posto che stava per rendersi vacante alla Consulta in un momento particolarmente delicato. Dal punto di vista del capo dello Stato, il nome del “dottor Sottile” si è imposto per forza propria. È prevalso sugli altri candidati “e non erano pochi” al di là delle preoccupazioni per le critiche e per le polemiche che avrebbero potuto sortirne e che anzi, nel marasma di questi giorni dominati da smanie rottamatrici e furori anticasta, erano date per scontate. Critiche e polemiche di basso profilo, secondo il Colle. Insomma, altro che “passo falso” o addirittura “vergognoso”, come qualche famiglia politica ha subito recriminato» («Corriere della Sera», 13.9.2013).

Clamoroso al Cibali: Amato non era craxiano

«Napolitano ha nominato Giuliano Amato giudice costituzionale... È uno dei padri nobili della sinistra, anche in Europa... un incarico che ha suscitato la malevolenza carica di livore dei paralleli populismi italiani, nutriti dalle montature che circolano in rete su “pensioni d’oro” [appena 31 mila euro al mese, nda] e che sono culminate nella falsità regina: quell’“è stato il Tesoriere di Craxi” che è l’ultima fantasia grillina» (Antonella Rampino su Giuliano Amato, appena nominato giudice costituzionale da Giorgio Napolitano, «La Stampa», 14.9.2013). In effetti Amato fu solo vicesegretario del Psi di Craxi, consigliere economico e giuridico di Craxi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e poi ministro del Tesoro per conto di Craxi, commissario del Psi di Craxi a Torino e a Milano. Ma il suo rapporto con Craxi è tutto da dimostrare. Anzi, è una leggenda metropolitana. In compenso non lo è la circostanza che negli anni Novanta Giuliano Amato affidò ad Antonella Rampino il compito di dare vita alla rivista dell’associazione Aspen (da lui presieduta), «Aspenia», di cui la giornalista fu a lungo direttrice e nel 2013 risulta ancora «socio ordinario».

Lingua prospera e vellutata

«L’inaccettabile linciaggio di Giuliano Amato». «C’è una pericolosa campagna di delegittimazione degli organi e degli equilibri costituzionali... linciaggio cui viene ora sottoposto dalle rumorose campagne di stampa (avviate dal “Giornale” e riprese come da copione da “il Fatto Quotidiano”) che approfittano di facili motivi di impopolarità (il cumulo delle pensioni e retribuzioni...) per lanciare affondi scomposti e grotteschi contro la persona di Giuliano Amato è il gretto segno dei tempi... Ogni legittimo atto presidenziale si rispetta e, pur nel legittimo dissenso, si accoglie come l’espressione di un delicato potere moderatore e garantistico che assicura l’equilibrio costituzionale e la funzionalità degli organi costituzionali... la competenza analitica... la conoscenza del funzionamento dell’amministrazione pubblica e delle regole del mercato... la curiosità per le nuove tematiche giuridiche... la statura europea di Amato... giustificano la validità della scelta compiuta dal presidente della Repubblica» (Michele Prospero sulle critiche alla nomina di Giuliano Amato a giudice costituzionale da parte del presidente Napolitano, «l’Unità», 18.9.2013). Ma anche cittadino modello, patriota impavido, marito fedele e padre esemplare. Sventuratamente il Prospero ritiene gli eventuali lettori dell’«Unità» talmente immaturi da risparmiare loro qualunque dettaglio sull’oggetto del presunto «linciaggio» di Amato. E cioè lo scoop del «Fatto» sulla telefonata con cui, nel 1990, il futuro giudice costituzionale Giuliano Amato istruiva la testimone di un processo a Viareggio per tangenti al Psi, per indurla a non far nomi e a evitare «una frittata», mentre i vertici del Psi scaricavano le colpe sul di lei marito defunto. Anche se lei gli diceva «ho capito tutto e l’hai capito anche tu». Ma tutto questo «l’Unità» non l’ha mai scritto, né lo scrive Prospero. Che si limita a falsificare la realtà, confondendo la campagna de «il Giornale» sulla megapensione di Amato con la notizia pubblicata dal «Fatto». In ogni caso, massima solidarietà alla sua lingua, sottoposta a cotanto sforzo.

La Cappella Rampina

«Si guardano negli occhi, si stringono la mano, si sorridono e non smettono mai di parlarsi, dal Cortile d’Onore in su, quando resteranno a quattr’occhi nello Studio della Vetrata, e nella preziosa piccola Cappella dell’Annunziata, interamente affrescata da Guido Reni con uno spettacolare ritratto della Madonna intenta a cucire, e preferita per la prima visita papale in Quirinale alla sontuosità monumentale con la quale il Maderno concepì la Cappella Paolina. Giorgio Napolitano accoglie Francesco che subito s’incuriosisce, del Palazzo che fu dei Papi e financo dei corazzieri, e quella curiosità... fiorisce in sorriso su tutti i volti. Anche su quello di Giorgio Napolitano. Non è solo cordialità e simpatia: è empatia. Le parole dell’uno diventano le parole dell’altro, le emozioni dell’uno sono quelle dell’altro, e le leadership simili nell’approccio ai problemi con una parola-chiave in testa: moralità...» (Antonella Rampino, «La Stampa», 15.11.2013). Ma quando si decide papa Francesco a consacrare qualche arcivescova, o almeno monsignora?

Orizzonte e Argine

«Esprimo totale sintonia con le parole e gli auspici del messaggio del Capo dello Stato. L’Italia che vuole rialzarsi e costruire con opportune e tempestive riforme si riconosce nei toni e nell’orizzonte delineato dal Presidente Napolitano. Le parole di queste ore contro il Quirinale e contro il ruolo che ha giocato in questo 2013 per salvare l’Italia sono espressione di una politica destruens alla quale – ne sono convinto – faremo argine con successo l’anno prossimo, come e meglio di quanto l’abbiamo fatto in questi mesi» (Enrico Letta, Pd, presidente del Consiglio, a proposito del primo discorso di fine anno di Napolitano dopo la sua rielezione, 31.12.2013).

Pierlingua

«Il discorso di Napolitano è stato il più bello degli ultimi anni» (Pier Ferdinando Casini, senatore Scelta civica-Udc, 31.12.2013).

Colalingua

«Un grandissimo statista e vero servitore della Patria: senza la sua sapienza sarebbe venuta giù l’Italia» (Matteo Colaninno, deputato Pd, 1.1.2014).

Il Papà della Patria

«Il Presidente ha ormai assunto il ruolo di papà della patria» (Beppe Severgnini, «Corriere della Sera», 2.1.2014).

Il Sire dei Due Mondi

«A Caprera con l’amico Giorgio». «“Cercai di avvicinarmi per salutarlo. Anche lui mi vide tra la folla, si diresse verso me finché riuscì ad abbracciarmi e salutarmi con grande affetto”. Mario Birardi, classe 1930, è cinque anni più giovane di Giorgio Napolitano. Ma l’amicizia nata prestissimo e la stima reciproca di una vita hanno annullato i dettagli anagrafici. “Anche perché la scuola politica del Partito comunista italiano agevolava i buoni rapporti personali e il dialogo sulle idee”. Birardi è figlio di quell’educazione rigorosa che annota con passione nella conversazione. Commozione reciproca, quel giorno di fine aprile del 2007 a Oristano, dove Napolitano giunse per la prima volta da presidente della Repubblica... per presentare la pubblicazione di alcuni scritti di Antonio Gramsci curata dalla Treccani... L’incontro con Napolitano, Birardi lo ebbe da ragazzo, da allora non si sono più allontanati, fino ai recenti incontri a Roma: “Più di una volta nelle mie trasferte per le attività del Memoriale Garibaldi sono andato a trovarlo e ancora mantengo rapporti stretti con alcuni suoi diretti collaboratori al Quirinale”. La passione per l’Eroe dei due Mondi è il collante più recente tra Birardi e Napolitano. Interesse che comincia a prendere forma quando il capo dello Stato inaugurò (sulla scia di quanto aveva già fatto il predecessore Carlo Azeglio Ciampi) la sua consuetudine vacanziera nell’isola della Maddalena, della quale Birardi è stato sindaco dal 1997 al 2002... Le giornate successive in distensione non allontanarono dalla mente di Napolitano le osservazioni manifestate da Birardi, che racconta: “Appena rientrato a Roma chiamò il presidente del Consiglio Berlusconi e gli disse: ‘Caprera è l’isola di Garibaldi, è lui il personaggio più importante del Risorgimento e bisogna tenerne conto’...”» (Giampaolo Meloni, «La Nuova Sardegna», 16.1.2014).

Massima diffusione al Sacro Testo

«Molti capi di Stato sono stati invitati dal Parlamento europeo e hanno detto gentili parole di circostanza, ma nessuno era intervenuto esponendo un giudizio sull’Europa di oggi e un’esortazione così intensa e dettagliata su quella di domani... Il discorso di Giorgio Napolitano a Strasburgo è nel solco della grande tradizione politica europea di Adenauer, De Gasperi, Monnet, Delors, Schmidt, Kohl e di Altiero Spinelli... I protagonisti della nostra politica e i cittadini consapevoli dell’impegno civico del quale tutti dovremmo dar prova dovrebbero leggere il testo del discorso di Napolitano e i media dovrebbero (avrebbero dovuto) dargli un’attenzione maggiore di quanto non abbiano fatto. Preferiscono il gossip, la maggior parte dei nostri media, senza capire che il loro ruolo dovrebbe essere quello di informare e al tempo stesso di educare» (Eugenio Scalfari, «la Repubblica», 9.2.2014). Gliele ha cantate chiare. Si rompe così una cinquantennale amicizia.

L’intrigante erede al trono

«Il libro t’intriga fin dal titolo: La logica del diritto amministrativo... Cita l’Illuminismo, Rousseau e Napoleone per dimostrare che Napolitano jr (buon sangue non mente) cerca un logos... e lo scopre nell’impasto del diritto amministrativo con altre discipline: economia, politologia, studi sociali. Com’è il suo sguardo? Disincantato, e insieme curioso delle esperienze altrui. E il suo approccio? Multidisciplinare. E le soluzioni? Innovative. Tipo l’idea, mai sentita prima, di “sveltire la burocrazia con una pagella”» (Michele Ainis, costituzionalista e «saggio» per la riforma costituzionale nominato da Enrico Letta e Giorgio Napolitano, recensisce il nuovo capolavoro letterario di Giulio Napolitano, figlio di cotanto padre, «Corriere della Sera», 9.4.2014). L’innovazione, come tutto nelle famiglie reali, è ereditaria.

De Bortolitano

«Caro Presidente, il 10 marzo dell’anno scorso anticipai con un fondo sul “Corriere” (titolo: “Il futuro Presidente”; occhiello: “Napolitano resti ancora un po’”) la proposta, poi maturata in diverse e opposte forze politiche, di una sua rielezione. Ricordo ancora – era una domenica – il suo affettuoso ma fermo dissenso, espressomi in una lettera privata che fece seguito alla netta smentita degli uffici del Quirinale. Dal voto politico, frutto di una pessima legge elettorale, erano uscite tre grandi minoranze, il che rendeva estremamente arduo dare un governo all’Italia. La paralisi rischiava di scivolare verso una vera e propria crisi di sistema. Nello smarrimento e nella precarietà generali, c’era dunque bisogno di “un punto fermo, un riferimento certo, un simbolo d’unità rispettato da tutti”, la cui scelta avrebbe avuto il significato di “uno scatto d’orgoglio nazionale, in particolare agli occhi degli osservatori stranieri che guardavano a noi con un’inaccettabile sfiducia”. Insomma: “Saggezza e buonsenso” consigliavano una sua conferma. Per fortuna, la pressione di quel largo fronte di partiti (e di quasi tutti i presidenti delle Regioni) ha vinto la sua più volte ribadita contrarietà. E la soluzione “eccezionale” di un suo secondo mandato ci ha permesso di uscire da un’impasse altrettanto eccezionale. Gli italiani gliene devono essere grati.

A distanza di un anno quale bilancio, anche personale, ne ricava?... Vedo risaltare, caro Presidente, piccoli e meschini calcoli personali o di gruppo. Come se le riforme, di cui il Paese ha estremo bisogno, debbano essere valutate quasi esclusivamente con il metro della convenienza di parte. L’interesse generale è il manzoniano vaso di coccio di una stagione gonfia di passioni tristi e ricca di ambizioni (personali) sfrenate... Anche noi giornalisti abbiamo le nostre responsabilità. Mi colpisce, caro Presidente, come il tema dell’Europa – per il cui Parlamento saremo chiamati a votare il 25 maggio – sia cavalcato con efficacia, purtroppo, solo dai suoi detrattori. Con argomenti falsi e tesi ingannevoli. Nel Paese fondatore dell’Unione, la voce degli europeisti convinti è debole e contraddittoria. Sembrano intimiditi, ricorrono facilmente all’uso opportunista degli aggettivi. Spesso si nascondono perché difendere le istituzioni europee fa perdere voti...

Caro Presidente, so che questi mesi del suo secondo settennato sono stati i più faticosi e ingrati. Chissà, forse si è persino pentito di aver ceduto alle insistenti pressioni per una sua rielezione. Molte polemiche l’hanno coinvolta, soprattutto sul tema delle prerogative che la Costituzione assegna al suo ruolo. Io personalmente sono convinto che lei non debba rimproverarsi di nulla. Il “Corriere” gliene ha sempre dato atto, anche quando ha pubblicato articoli da lei poco graditi (ma è questo quello che deve fare un grande quotidiano in una democrazia liberale!)... Lei passa per essere un uomo “capace di governare le passioni”, sempre controllato, se non imperturbabile. Ma davanti ad alcune contestazioni politiche dei mesi scorsi e davanti alle prese di posizione di alcuni costituzionalisti, una sua riflessione chiarificatrice sarebbe quanto mai opportuna. Le chiedo scusa per il tempo che le ho sottratto e la ringrazio per l’attenzione» (lettera di Ferruccio de Bortoli a Giorgio Napolitano, «Corriere della Sera», 18.4.2014). Sorvolando, per carità di patria, sulla consueta leggenda della rielezione “obtorto Colle”, è straordinario vedere un direttore di giornale che denuncia pubblicamente al capo dello Stato gli oppositori cattivi che osano ostacolare le bellissime «riforme» da Lui sacrosantamente caldeggiate e si permettono di fargli sanguinare il cuore «con argomenti falsi e tesi ingannevoli» contro il sacro Euro, per non parlare di «alcuni costituzionalisti» birichini che si azzardano a criticare i suoi deragliamenti costituzionali. Lui però, il Direttore, non ha mai dubitato. E si duole – è il Venerdì Santo, giorno di penitenza e digiuno – se «il “Corriere” ha pubblicato articoli da lei poco graditi» (oddio, e quando? e come ha osato?).

Inevitabile che l’indomani, punto sul vivo dall’impertinente direttore che gli chiede un’autorecensione del primo anno del suo secondo settennato, Napolitano verghi una replica densa di autocritiche, come del resto si evince fin dal titolo che le dedica il «Corriere»: «Ho pagato un prezzo alla faziosità, ma il bilancio è positivo». Un bacione a Ferruccio «per il caloroso apprezzamento circa la mia decisione di un anno fa e più in generale circa il mio operato». Ma, purtroppo, tanto dolore per «fatti, atteggiamenti, intrighi che hanno concorso a gettare discredito – ben al di là di ogni legittima critica e riserva – sulla mia persona e sull’istituzione che rappresento» (i confini di legittimità li decide lui), insomma «è stato duro, faticoso e ingrato», ma il «bilancio» è «positivo». Lo dice lui: come sono stato bravo. E pazienza se ha riportato al governo un pregiudicato, se quel governo è naufragato in nove mesi, se nessuno degli obiettivi che si era dato un anno prima è stato centrato. Quanto al suo crollo nei sondaggi, non dipende dal fatto che la metà degli italiani non ne possono più di questo sistema e del suo imbalsamatore, ma dallo «spirito di fazione» che gli ha fatto «pagare un prezzo nei consensi». Però ci vuol altro per fargli «dubitare della giustezza della strada seguita». Quindi ha ragione lui e, se lo dice lui, dobbiamo crederci. Siccome poi ha fallito in tutto, «confido che stiano per realizzarsi condizioni di maggior sicurezza, nel cambiamento, per il nostro sistema politico-costituzionale, che mi consentano di prevedere un distacco comprensibile e costruttivo dalle responsabilità». Su questa frase in sanscrito gli esegeti si cimenteranno nei secoli futuri. Ma la traduzione più accreditata è nel titolo di una commedia italiana uscita negli stessi giorni nelle sale cinematografiche: Smetto quando voglio.

Al giornalista non far sapere

«Nel bizzarro Paese, l’Italia, nel quale ci si indigna se il presidente del Csm scrive una lettera al suo vicepresidente... occorre anche rendere pubblica la missiva nel tentativo di far scemare la polemica. Infatti, dopo giorni di titoloni dei giornali berlusconiani che ipotizzano “assalti giudiziari” e di quelli grillini [quali?, nda] che definiscono “surreale” quel che attiene invece al normale svolgimento di una funzione istituzionale, ieri il Quirinale ha deciso di rendere integralmente pubblica la lettera che Giorgio Napolitano ha inviato lo scorso 13 giugno a Michele Vietti» (Antonella Rampino, «La Stampa», 28.6.2014). In realtà nessuno s’è indignato per la lettera di Napolitano al vicepresidente del Csm Michele Vietti: le polemiche riguardano il fatto che il testo sia rimasto segreto anche per i membri del Csm, oltreché per la stampa e per l’opinione pubblica. Circostanza che, dopo qualche settimana, dev’essere apparsa eccentrica persino a Napolitano, visto che ha deciso di rendere pubblica la sua missiva. Soltanto allora si scopre che il presidente ha ordinato, in sostanza, al Csm di non sanzionare le irregolarità riscontrate nell’operato del procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, nella querelle che da mesi lo oppone al suo aggiunto Alfredo Robledo. Ma per la Rampino il presidente faceva bene a tener segreta la lettera e fa bene ora a divulgarla (e «integralmente», mica una parola sì e una no). Il Sire ha sempre ragione.

Re minore

«Scavalcàti in modernità, coraggio e gioventù da un signore che tra nove mesi compirà novant’anni. Un signore che nella vicenda in questione (l’articolo 18), peraltro, può essere considerato davvero al di sopra di ogni sospetto... Con Matteo Renzi in viaggio per gli Stati Uniti, è toccato dunque a Napolitano presidiare la trincea delle riforme da fare e dei segnali di cambiamento da lanciare... Politiche nuove e coraggiose per far ripartire la crescita e occupazione: precisamente quelle proposte da Matteo Renzi. Il capo dello Stato dunque in campo a sostegno del governo? Intanto, certamente contro chi vuole rinchiudersi “in vecchi recinti nazionali e sbraitare contro l’Europa... Del resto non è una novità né una stramberia il sostegno del presidente della Repubblica al governo in carica”» (Federico Geremicca, «La Stampa», 24.9.2014).

Il Reticente della Repubblica

Nell’ottobre del 2013, dopo mesi di tira e molla, Giorgio Napolitano viene convocato a testimoniare nel processo sulla trattativa Stato-mafia dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo. La circostanza mette preventivamente in fibrillazione i soliti corazzieri a mezzo stampa, sgomenti alla sola idea che la legge possa essere davvero uguale per tutti.

«Consulta aggirata, l’irritazione del Colle. Si rischia un nuovo conflitto tra poteri. Dopo i paletti della Corte costituzionale, riserve sulla scelta dei giudici di Palermo» (Umberto Rosso, «la Repubblica», 18.10.2013).

«Il rischio è che il capo dello Stato appaia oggetto di un ulteriore strattone da parte di alcuni settori del potere giudiziario immersi da tempo in conflitti interni; e decisi a riaffermare la propria identità a costo di scaricarne gli effetti su un Quirinale che sta tentando una stabilizzazione anche nella magistratura» (Massimo Franco, «Corriere della Sera», 23.10.2013).

Witness, il testimone

Passa un altro anno, Napolitano chiede l’esonero dalla testimonianza, la Corte d’Assise respinge la richiesta. E finalmente il 28 ottobre 2014 giudici, pm e avvocati (ma non gli imputati, esclusi dall’udienza che li riguarda per espresso divieto dell’illustre testimone) fanno il loro ingresso al Quirinale per audire il Presidente della Repubblica. Alla fine il verbale di trascrizione della deposizione presidenziale avrà un notevole interesse, oltreché giudiziario e storico, anche sul piano del costume, grazie ai salamelecchi e alle genuflessioni da satrapia orientale in cui si profondono gli avvocati di alcuni imputati.

Avvocato Basilio Milio, difensore di Mario Mori:

«Il rispetto istituzionale del Presidente della Repubblica e della persona del Capo dello Stato induce la difesa del generale Mori e del generale Subranni a non porre alcuna domanda al Presidente». Com’è umano, lei.

Avvocato Nicoletta Piergentili, codifensore di Nicola Mancino:

«Le esprimo anzitutto la mia emozione nel svolgere [sic, nda] il mio mandato qui davanti alla sua persona e a questi splendidi arazzi, Presidente». Salivazione azzerata, occhi pallati, sudorazione a mille.

Tutto inutile: infatti ha parlato tre ore

«Napolitano, tre ore di risposte. Il presidente nega di aver mai saputo di “indicibili accordi”. Il procuratore: piena collaborazione. Il Colle: subito la trascrizione. La deposizione: “Le bombe erano un ultimatum. Telefoni muti e tememmo il golpe”. Il bilancio del pm: ci ha confermato l’idea del ricatto». «Il presidente soddisfatto. L’idea di “aver celebrato lo Stato di diritto”. Mai teso, non ha rifiutato nessuno dei quesiti». «A chi gli è stato vicino durante e dopo l’udienza, non è parso né stanco fisicamente né provato psicologicamente. Anzi, raccontano tutti che, alla fine delle tre ore e mezza di botta e risposta, “il dominante” era lui, Giorgio Napolitano. Senza ostentare un’aria euforica ma, appunto, anche senza l’espressione tesa e stremata che ci si sarebbe attesi. Insomma: è andata bene, anzi, benissimo...» («Corriere della Sera», 29.10.2014).

Non sa niente, ma lo ricorda benissimo

«Una risposta a ogni domanda. Anche a quelle inammissibili. Il capo dello Stato riporta con precisione date, fatti, luoghi e dettagli». «Le torbide conseguenze dei sospetti» (titoli de «La Stampa», 29.10.2014).

So tutto, ma non so niente

«Napolitano: sì, nel 1993 la mafia ricattò lo Stato, ma non ho mai saputo di accordi con i clan» («la Repubblica», 29.10.2014). Mica male, per uno che non voleva testimoniare perché non sapeva nulla. Infatti, precauzionalmente, ha tenuto la stampa fuori dalla porta, vietando anche il videocollegamento.

Grazie di averci esclusi

«Il Colle evita il Grande Circo. Giornalisti tenuti fuori per non spettacolarizzare l’evento». «C’erano tutti gli elementi perché partisse il Grande Circo... Invece non è andata così... È caduta nel vuoto la spettacolarizzazione» («La Stampa», 29.10.214). Sindrome di Stoccolma?

Fiandaca Maxima

«L’inutile trasferta al Quirinale dei pm di Palermo... Comunque sia, una cosa sembra meno dubbia: in questo difficile e imbarazzante confronto, se c’è stato un vincitore per lucidità intellettuale, stile istituzionale e cultura costituzionale, questo è stato Giorgio Napolitano» (Giovanni Fiandaca, giurista e candidato del Pd trombato alle elezioni europee, «Il Messaggero», 4.11.2014).

Bene, bravo (il bis l’ha già fatto)!

«Ancora una volta il presidente Napolitano ha saputo interpretare le aspettative e le esigenze più profonde del Paese» (Piero Grasso, Pd, presidente del Senato, sull’ultimo discorso di fine anno di Giorgio Napolitano, 1.1.2015).

«Bellissimo discorso di Napolitano. Nove anni intensissimi al servizio dell’Italia. Faro luminoso della nostra democrazia. #GraziePresidente» (Roberto Speranza, capogruppo Pd alla Camera, 1.1.2015).

«Quello di Napolitano è stato un discorso a trecentosessanta gradi, molto completo, che io ho condiviso in tutti i suoi passaggi» (Laura Boldrini, Sel, presidente della Camera, 1.1.2015).

«È riuscito ancora una volta a darci coraggio e fiducia, indicando al Paese i nodi da sciogliere e i grandi obiettivi che ha di fronte, con la pacata sicurezza che è propria dei padri della Patria» (Debora Serracchiani, vicesegretario Pd, 1.1.2015).

«Sarà difficile succedergli, da Napolitano cuore e generosità per l’Italia» (Angelino Alfano, Ncd, ministro dell’Interno, 1.1.2015). Poi, il 14 gennaio 2015, dopo meno di due anni di secondo mandato, Napolitano si dimette e abbandona il Quirinale, salutato da salve di cannone e salive di leccatori. Anche via twitter, per leccarlo subito, in tempo reale.

Lacrime napulitane

«In questo momento la figura di Giorgio Napolitano deve richiedere gratitudine, emozione e commozione per il lavoro svolto. Oltre ad aver gestito momenti delicati di tenuta istituzionale ha dimostrato una straordinaria intelligenza politica tanto che tutti i partiti tranne che M5S gli hanno chiesto di rifare il presidente» (Matteo Renzi, Pd, presidente del Consiglio, 14.1.2015).

«Credo sia doveroso ringraziarlo per quanto ha fatto per il nostro Paese. Il suo operato, sono certa, passerà alla storia» (Alessandra Moretti, eurodeputato Pd, ibidem).

«Grazie Presidente! Intellettualmente onesto, umanamente libero. L’uomo che ha rasserenato l’Italia. I frati del Sacro convento di Assisi», ibidem).

«Grazie Napolitano, sei il Presidente dei 150 anni dell’Italia e della nostra bandiera» (Beatrice Lorenzin, Ncd, ministro della Salute, ibidem).

«Senza la presenza autorevole e provvidenziale del Presidente Napolitano in alcune occasioni di questi quasi nove anni si sarebbe rischiato il naufragio della nostra democrazia» (Rosanna Scopelliti, deputata Ncd, ibidem).

«Grazie Presidente. Sei stato un faro nella tempesta, hai agito da buon padre» (Renato Soru, eurodeputato Pd, ibidem).

«Grazie a lui non abbiamo smarrito la strada, un gigante che ha saputo portare per mano il Paese su strade nuove, anche con la scelta del primo ministro nero della Repubblica» (Cécile Kyenge, deputata Pd, ibidem).

«GraziePresidente #Napolitano per tutto, anche per quel 17.5.2010 che organizzammo insieme e non dimenticherò» (Anna Paola Concia, ex deputata Pd, ibidem).

«#GraziePresidente. Come si dice dalle mie parti: ci hai tenuti all’onor del mondo!» (Pier Luigi Bersani, deputato Pd, ibidem).

«Grazie a Giorgio Napolitano, riferimento per i cittadini in anni difficili, garante di una Patria unita e coesa #GraziePresidente» (Graziano Delrio, Pd, sottosegretario alla Presidente del Consiglio, ibidem).

«Giorgio Napolitano rappresenta per me il senso più alto di ciò che la politica deve essere. #GraziePresidente #percezionedivuoto» (Roberto Speranza, capogruppo Pd alla Camera, ibidem).

«Un saluto a Giorgio Napolitano, che per me è stato un esempio, oltre che un vero e caro amico #GraziePresidente» (Ignazio Marino, Pd, sindaco di Roma, ibidem).

«Grazie, lo dico con emozione perché, per me, Giorgio è stato un amico dell’età adulta e amici dell’età adulta ce ne sono pochi» (Ignazio Marino, Pd, sindaco di Roma, ibidem).

«Grazie Presidente per aver colmato un vuoto. Adesso la politica faccia la sua parte ed elegga una figura autorevole che rappresenti tutti» (Nunzia De Girolamo, capogruppo Ncd alla Camera, ibidem).

«Quanta dignità e autorevolezza #GraziePresidente» (Matteo Richetti, deputato Pd, ibidem).

«Nel 2013 il Parlamento era tutto fratturato, #Napolitano ha fatto da busto ortopedico. Ora dimostri di essere guarito. #GraziePresidente» (Andrea Sarubbi, deputato Pd, ibidem).

«In Aula dal mio banco ad ascoltare lettura lettera di dimissioni #Napolitano. Emozione ed affetto. #GraziePresidente» (Enrico Letta, deputato Pd, ibidem).

In aula al #Senato @ValeriaFedeli legge la lettera di #Napolitano. Voglio solo dire una cosa: #GraziePresidente per tutto ciò che hai fatto» (Anna Finocchiaro, senatrice Pd, ibidem).

«Grazie #Napolitano, Presidente di tutti. #GraziePresidente» (Corrado Passera, leader di Italia Unica, ibidem).

«Una roccia in questi anni di bufere. #graziepresidente» (Dario Franceschini, Ud, ministro dei Beni culturali, ibidem).

«Un grande italiano, un grande europeo. Grazie, Presidente #Napolitano. #GraziePresidente» (Ivan Scalfarotto, Pd, sottosegretario alle Riforme e ai Rapporti con il Parlamento, ibidem).

«Hai dato credibilità alla nostra Italia in un momento difficilissimo #GraziePresidente» (Dario Nardella, Pd, sindaco di Firenze, ibidem).

«Lo sforzo di fare bene a chi ci ama e si sforza di farci bene, si chiama riconoscenza o gratitudine Baruch Spinoza #GraziePresidente» (Francesco Nicodemo, deputato Pd, ibidem).

«GraziePresidente per questi nove anni di totale dedizione alla Repubblica italiana» (Maurizio Martina, Pd, ministro delle Risorse agricole, ibidem).

«Grazie Presidente, hai svolto il tuo alto ufficio con grande senso di responsabilità e capacità... Il Paese ti deve molto e le critiche che da qualche settore ti vengono mosse sono insieme ingenerose e infondate. Grazie di nuovo Presidente anche per come farai sentire ancora la tua voce nel ruolo di grande testimone del nostro tempo» (Guglielmo Epifani, deputato Pd, ibidem).

Briciola cane corazziere

«C’era anche Briciola all’addio di Giorgio Napolitano nel cortile d’onore del Quirinale. La mascotte della fanfara del reggimento a cavallo dei carabinieri, una simpatica cagnolina trovatella, si è fatta notare nella cerimonia di uscita del presidente. Briciola girava infatti con discrezione nel cortile d’onore con una vistosa pettorina rossa con il simbolo dell’Arma» (Ansa, 14.1.2015).

Mai più senza

«Quando andrà a Palazzo Madama per la seconda volta da senatore a vita – un’eccezione anche questa – Napolitano tornerà ad essere un riferimento non più solo per l’Italia, ma per l’Europa e il mondo» (Antonella Rampino, «La Stampa», 15.1.2015). E per la galassia no?

Il Vuoto Incolmabile

«Quant’è vuoto quel palazzo» (Stefano Folli, «la Repubblica», 15.1.2015).

«Ho sorriso poco, scusatemi» («Corriere della Sera», ibidem).

«L’armonia ritrovata di Giorgio N.». «L’uomo che ha costretto la sinistra a sbarazzarsi del moralismo chiodato» («Il Foglio», ibidem).

«Croce e Einaudi come stella polare» (Antonella Rampino, «La Stampa», ibidem).

«Napolitano, uno scudo anti crisi» («Quotidiano Nazionale», ibidem).

«Formidabili questi anni». «Il giusto grazie a un presidente generoso... un gigante dell’interesse generale» (Marco Tarquinio, direttore di «Avvenire», ibidem).

Clio, andiamo, è tempo di migrare

«L’ultima firma di Napolitano: “Devo farla proprio bene”». «Il rituale del congedo è un copione rigido e formale che il Presidente ha immaginato per giorni. Il momento è adesso. Sono le 10 e 30 del mattino, le tre lettere di dimissioni ancora in bianco sul suo tavolo. Attorno a lui ci sono i collaboratori più stretti e il figlio Giulio, come sempre. “Dove devo firmare? Bisogna che lo faccia bene...”, mormora... Gli abbracci e i saluti finali, insieme alla moglie Clio, ai consiglieri disposti in fila. Per ciascuno un gesto, una parola. “Ora andiamo, però”, dice salendo in macchina. È fatta, andiamo. La stanchezza non è solo quella del mattino. Il viaggio di ritorno in vicolo dei Serpenti dura due minuti in auto. La casa è a trecento metri in linea d’aria. Nemmeno il tempo di parlare al telefono con l’amico di una vita intera. Sentiamoci nelle prossime ore, chiamo dopo... Clio, dopo quasi nove anni, di nuovo prepara la cena» (Concita De Gregorio, «la Repubblica», 15.1.2015).

La Saudade

«Napolitano, ritorno da star». «Standing ovation... clic con i selfie accanto al vecchio padre della patria... Presidente non ha ricevuto nessuna telefonata stavolta? “Che dovevano fare? Scassare la Costituzione per farmi ritornare?”» («la Repubblica» su Napolitano che entra a Montecitorio fra i grandi elettori chiamati a scegliere il suo successore, 29.1.2015).

«Entra Napolitano. Il lungo applauso in Aula». «Quando mette piede nell’aula di Montecitorio Giorgio Napolitano, pallidissimo, si guarda intorno con la curiosità prensile di chi vuole soprattutto annusare l’aria che tira... Ha un po’ il sapore di un risarcimento, dopo certe amarezze e polemiche degli ultimi tempi, il ritorno di Napolitano alla Camera» («Corriere della Sera», ibidem).

«Ovazione per Napolitano, avanti con le riforme». «Appena Napolitano entra in aula tutti in piedi ad applaudire, con ressa di deputati e senatori a farglisi incontro per stringergli la mano» («Il Messaggero», ibidem). Se n’è andato da due settimane, e già le lingue si sentono orfane. Ancora qualche ora, e avranno un nuovo Presidente tutto per loro.

Faziolitano

«Qual è la prima volta che ha conosciuto l’Europa?», «Come vede l’Europa?» (due delle domande più impertinenti rivolte da Fabio Fazio al presidente Napolitano nell’intervista sul suo libro La via maestra, scritto insieme a Federico Rampini, Che tempo che fa, Rai3, 13.4.2014).