3.
Lo Stato etico
Gli Stati che coniugano buone idee con uno scopo etico hanno fatto miracoli. La mia generazione è cresciuta in un periodo del genere, fra il 1945 e il 1970. Abbiamo conosciuto una prosperità in rapida crescita, resa possibile da Stati che hanno intenzionalmente indirizzato il capitalismo a beneficio della società. Non sempre è stato così, e non è così oggi.
Da figlio di genitori che negli anni Trenta erano giovani adulti, ho imparato di riflesso come lo Stato avesse gravemente fallito. Dai loro racconti ho percepito la tragedia che fece precipitare quel mondo nella disoccupazione di massa. Gli Stati, e le società che essi riflettevano, avevano perso quel senso di avere un fine etico che sarebbe stato necessario per vedere nella garanzia della piena occupazione una propria responsabilità. E non disponevano neppure di idee sufficienti a comprendere cosa poter fare al riguardo. Di conseguenza, gestirono il capitalismo in modo drammaticamente sbagliato. Le ideologie fascista e marxista erano in attesa dietro le quinte. Solo in Germania e in Italia una di esse riuscì a far presa, ma ciò fu sufficiente a innescare un cataclisma globale. Tardivamente, scioccati dall’enorme massa di vite rovinate, gli Stati e le società acquisirono consapevolezza di quello scopo. Negli Stati Uniti Roosevelt si fece carico del dovere dello Stato di garantire l’occupazione: fu il suo «New Deal». Venne eletto presidente perché le persone riconobbero il senso etico di quel programma. Arrivarono nuove idee: la Teoria generale dell’impiego, interesse e moneta di John Maynard Keynes fornì l’analisi necessaria per affrontare la disoccupazione di massa. Inizialmente, però, i governi non recepirono; sebbene il libro fosse stato pubblicato nel 1936, si uscì dalla Depressione solo perché il riarmo risollevò la domanda. Come ha detto con amara ironia Paul Krugman, la Seconda guerra mondiale è stata il maggiore complesso di misure capaci di stimolare l’economia della storia. Ma nel dopoguerra l’analisi di Keynes fu utilizzata per mantenere la piena occupazione, salvo poi diventare gradualmente inadeguata con l’aumento dell’inflazione negli anni Settanta.
Negli anni Trenta gli Stati abbandonarono i propri cittadini; oggi lo stanno facendo di nuovo. Ai nostri giorni la parola «capitalismo» suscita un diffuso disprezzo. Ma dietro la parola spregevole ci sono le reti dei mercati, le regole e le imprese che provocarono sia il miracolo del periodo 1945-1970 che la tragedia del 1929-1939. La mia generazione ha evitato la tragedia, ha vissuto durante il miracolo, e immaginava compiaciuta un miracolo destinato a perpetuarsi per forza di cose. La generazione attuale ha imparato che non è così. Le nuove ansie hanno le loro radici nel divario economico. Si sta aprendo una spaccatura sempre più ampia fra le metropoli in pieno sviluppo e le città di provincia in declino; c’è un divario di classe sempre più ampio fra chi ha un impiego prestigioso e soddisfacente e chi ha un lavoro privo di prospettive o non ne ha nessuno.
È il capitalismo ad aver generato queste nuove ansie, come avvenne all’epoca della Grande Depressione degli anni Trenta. Per ricomporre le fratture sociali create dai cambiamenti strutturali abbiamo bisogno degli Stati. Ma come negli anni Trenta, gli Stati, e le società che essi riflettono, hanno tardato a riconoscere il loro dovere etico di affrontare questi nuovi problemi, e invece di stroncarli sul nascere hanno consentito che assumessero le dimensioni di una crisi. Dal punto di vista etico gli Stati non possono essere migliori dei loro popoli, ma possono rafforzare le obbligazioni reciproche, e convincerci gradualmente ad adottarne di nuove. Se però uno Stato tenta d’imporre un complesso di valori diversi da quelli dei suoi cittadini, perde fiducia, e la sua autorità s’indebolisce. I confini etici dello Stato sono definiti dai confini etici della sua società. L’attuale mancanza di un fine etico nello Stato riflette un declino delle prospettive etiche che coinvolge tutta la società: con l’accentuarsi delle divisioni, le nostre società sono diventate meno generosamente disposte nei confronti di quanti sono collocati dalla parte più debole.
Come negli anni Trenta, la mancanza di un fine etico è stata aggravata dalla mancanza di un nuovo pensiero pragmatico. Nella terza parte di questo volume cercherò di colmare il vuoto di pensiero innovativo, presentando degli approcci pratici per risanare queste dannose spaccature. Prima però dobbiamo affrontare le carenze etiche dello Stato, e le loro radici nei cambiamenti etici avvenuti nelle nostre società.
L’avvento dello Stato etico
Il periodo d’oro dello Stato etico fu quello dei primi due decenni del dopoguerra. Gli Stati dettero vita a una serie senza precedenti di obbligazioni reciproche in un’epoca magnificamente sostenuta da finalità etiche. La straordinaria nuova estensione delle obbligazioni reciproche dei cittadini, che doveva essere amministrata dallo Stato, venne colta esattamente nelle narrazioni riferite a un percorso che andava «dalla culla alla tomba» e al «New Deal». Dall’assistenza sanitaria durante la gravidanza alle pensioni di anzianità, le persone, contribuendo al sistema di sicurezza sociale gestito dallo Stato nazionale, si proteggevano vicendevolmente: era il principio etico della socialdemocrazia comunitaria, che attraversava il centro dello spettro politico. In America, questo era il periodo della collaborazione bipartisan nel Congresso; in Germania, dell’«economia sociale di mercato». In Gran Bretagna il National Health Service, l’ammiraglia dello Stato, fu concepito da un liberale nell’ambito di una coalizione guidata da un conservatore, istituito quindi da un governo laburista e sostenuto poi da governi conservatori. Sia nell’America del Nord che in Europa, fra il 1945 e il 1970, al di sotto del frastuono e del polverone sollevato dalla lotta politica, i disaccordi fra i leader dei principali partiti furono minimiA.
Alla base dei successi della socialdemocrazia c’era però un’eredità talmente ovvia da essere data per scontata. L’uscita dalla Grande Depressione mediante la Seconda guerra mondiale era stata molto di più di un involontario stimolo all’economia: aveva rappresentato un enorme sforzo comune nel corso del quale i leader avevano elaborato narrazioni di appartenenza e di obbligazione reciproca. Il suo lascito consisteva nell’aver trasformato ogni nazione in una gigantesca comunità, in una società con un forte e condiviso senso di identità, obbligazione e reciprocità. Le persone erano ben preparate ad adeguarsi alle narrazioni socialdemocratiche che raccordavano le azioni individuali alle loro conseguenze sul piano collettivo. Nei primi decenni postbellici, i ricchi accettavano di pagare imposte superiori all’80% del reddito; i giovani uomini si sottoponevano al servizio di leva; in Gran Bretagna, perfino i criminali si adeguavano alle implicite limitazioni poste dall’avere a che fare con forze di polizia disarmate. Tutto ciò consentì un’enorme espansione del ruolo dello Stato: era il programma socialdemocratico.
Lo Stato socialdemocratico fu tuttavia sempre più controllato dalle avanguardie utilitariste e rawlsiane; lo Stato etico andò trasformandosi in uno Stato paternalista. La cosa non avrebbe avuto grande importanza se le nuove avanguardie avessero riconosciuto che, a meno di un continuo rinnovamento dell’identità condivisa, quello straordinario lascito era una risorsa destinata a estinguersi. Ben lontani da questa prospettiva, fecero invece l’opposto. L’avanguardia utilitarista era globalista, e i rawlsiani promossero le specifiche identità dei gruppi emarginati. Gradualmente, le basi del programma socialdemocratico si sfaldarono, e nel 2017 in tutte le società occidentali i partiti socialdemocratici erano ormai stati abbandonati dagli elettori, e in piena crisi esistenziale1. Applicando i concetti che abbiamo introdotto nel capitolo 2, possiamo ora vedere perché le cose sono andate così.
Il declino dello
Stato etico:
come si sono sfaldate le società socialdemocratiche
Il crollo della socialdemocrazia è stato provocato da un duplice colpo: la graduale erosione del senso di obbligazione reciproca si scontrò con il maggior bisogno di essa dovuto al fatto che i cambiamenti strutturali dell’economia si stavano lasciando alle spalle una scia di vite rovinate. La spettacolare crescita economica di questo periodo avvenne al prezzo di una sempre maggiore complessità. A sua volta, questa rese necessarie competenze più specialistiche, e quindi persone più istruite, dando avvio a un’espansione senza precedenti del settore dell’istruzione superiore. Questo enorme cambiamento strutturale produsse ripercussioni sul piano dell’identità.
Per comprendere i motivi per cui questo cocktail si è rivelato fatale per la socialdemocrazia delineerò un modello. Un buon modello parte da ipotesi che semplificano ma non sono sorprendenti, e tuttavia dà risultati sorprendenti. Idealmente, cristallizza qualcosa che a posteriori sembra ovvio, ma che fino a un momento prima non era stato oggetto di analisi. Normalmente, un modello viene formalizzato con una serie di equazioni, ma qui tenterò di presentarlo con alcune semplici considerazioni2. Anche se è piuttosto semplice, occorre un po’ di pazienza per capirne il funzionamento. La ricompensa sta nel fatto che poi rivela aspetti interessanti. Il modello prevede innanzi tutto un po’ di psicologia, a cui va poi ad aggiungersi un po’ di economia.
La psicologia è ridotta all’osso, ma è comunque molto meno rozza della grottesca patologia rappresentata dall’uomo economico razionale. Il quale è morto nell’Età della pietra, lasciando il posto (come abbiamo visto) alla donna sociale razionale, il cui comportamento può essere spiegato rifacendosi alle acquisizioni dell’Economia dell’identità, il campo di studi aperto da George Akerlof e Rachel Kranton. Supponiamo che ognuno di noi abbia due identità oggettive: il proprio lavoro e la propria nazionalità. L’identità è una fonte di stima, e ognuna di queste due identità ne genera una determinata quantità. Per specificarne l’ammontare, supponiamo quindi che la stima derivante da un’occupazione sia un riflesso del reddito che essa produce, e che la stima derivante dalla nazionalità rifletta il prestigio della nazione a cui si appartiene. A questo punto facciamo intervenire una scelta: la prevalenza. Sebbene queste identità oggettive siano al di fuori del nostro controllo, possiamo scegliere quale di esse consideriamo più importante. L’identità che ho scelto di considerare prevalente produce il suo effetto sulla mia stima. Immaginiamo che sia come una carta che raddoppia la stima generata da qualsiasi identità sulla quale io la giochi. Giocare la carta della prevalenza ha poi un ulteriore effetto: ci divide in due nuovi gruppi, quelli che attribuiscono maggiore rilevanza al loro lavoro e quelli che invece privilegiano la loro nazionalità. Nello scegliere quale identità considerare più rilevante, scelgo anche di appartenere a uno o all’altro di questi gruppi. Ottengo un surplus di stima dal fatto di appartenere al gruppo scelto, a seconda della quantità di stima associata al gruppo stesso.
Riassumendo, ogni persona riceve quattro porzioni di stima. Una deriva dal lavoro, una dalla nazionalità, un’altra ancora dalla scelta di far prevalere una delle due identità, l’ultima dall’appartenenza a un gruppo che, come noi, ha scelto come prevalente quella stessa identità. Più specificamente, riguardo a quest’ultima porzione di stima, supponiamo che essa equivalga semplicemente alla stima media che deriva a ogni membro del gruppo stesso dalle altre tre porzioni di cui dispone. Ma ritorniamo a come operiamo la scelta dell’identità prevalenteB. È qui che nel modello entra in gioco l’economia; la nostra donna sociale razionale trae la propria utilità dalla stima e la massimizza: è questo che intendiamo per «razionale». Siamo ora pronti ad applicare questo piccolo modello alla storia sociale postbellica.
All’indomani della Seconda guerra mondiale le disuguaglianze salariali erano modeste, mentre la nazione godeva di prestigio, per cui anche i lavoratori con le retribuzioni più elevate massimizzavano l’utilità in termini di stima dando priorità alla propria nazionalità, piuttosto che al proprio lavoro. Se sommiamo le quattro porzioni di stima vediamo che la sua distribuzione nei vari settori della società è sostanzialmente identica. Tutti ricevono la stessa stima dalla loro identità nazionale: poiché ognuno la sceglie come prevalente, ognuno ottiene la stessa doppia porzione; poiché tutti hanno scelto la stessa identità prevalente, tutti ricevono la stessa stima dal gruppo dei loro pari; le uniche differenze in termini di stima, quindi, sono dovute alle modeste differenze salariali esistenti.
Guardiamo ora come questo felice risultato è andato distrutto. Nel corso del tempo, con l’aumento della complessità, un numero crescente di persone riceve una fantastica istruzione, un impiego all’altezza e un fantastico salario corrispondente alla loro maggiore produttività. A un certo punto, i lavoratori forniti di un più elevato livello di specializzazione spostano la scelta della loro identità prevalente dalla nazionalità al lavoro, poiché in questo modo massimizzano la propria stima.
Quando ciò avviene, la porzione finale di stima generata dall’aver scelto la stessa identità prevalente di molti altri comincia a differenziarsi. Coloro che si sono orientati per l’identità definita dal lavoro ottengono una stima maggiore dall’appartenenza al gruppo. Al contrario, chi ha scelto la nazionalità vede diminuire la propria stimaC. Questa stessa divergenza induce un maggior numero di persone a spostare la propria scelta dalla nazionalità al lavoro. Qual è l’esito di tutto ciò?
Si potrebbe pensare che ognuno finisca per modificare la propria scelta dell’identità prevalente, e ciò è possibile. Ma un’alternativa più probabile è che coloro che hanno un’identità professionale meno specializzata continuino a preferire la nazionalità. Quando confrontiamo questa conclusione con il punto da cui la società è partita, i lavoratori specializzati si sono staccati dalla scelta della nazionalità; fra di loro vi sono i membri dell’avanguardia utilitarista. Il risultato della loro diversa scelta è che ottengono maggiore stima di quanta ne ricevevano inizialmente. Al contrario, i meno specializzati che hanno mantenuto la scelta della nazionalità perdono stima (poiché le persone con maggiore stima si sono staccate dal gruppo che privilegia la nazionalità, esserne membri comporta appunto una perdita di stima).
Come tutti i modelli, anche questo è insopportabilmente riduzionista. Tuttavia può aiutarci a spiegare senza sprofondare in una palude di particolari come e perché le nostre società si sono lacerate. Ovunque, non si fa altro che massimizzare la propria stima. Ma a causa dei cambiamenti strutturali dell’economia, si apre una faglia. I lavoratori specializzati spostano la propria identità prevalente nel campo del lavoro. Quando Alison Wolf intervistò Susan Chira, all’epoca caporedattrice agli Esteri del «New York Times», colse un’espressione perfetta di questo concetto, quando l’intervistata le disse: «il lavoro è appagante, è così intrecciato all’identità!»3. Nel frattempo, le persone con un livello di istruzione inferiore e con minori possibilità di entusiasmarsi per il loro lavoro rimasero attaccate alla nazionalità, ma cominciarono a sentirsi emarginate.
Poiché i più specializzati, compiaciuti di sé, ottengono maggiore stima degli emarginati, tengono a manifestare chiaramente agli altri che in effetti scelgono la loro specializzazione come identità prevalente. Possiamo a questo punto rifarci a un’acquisizione fondamentale della Teoria dei segnali di Michael Spence per capire come è probabile che lo faranno. Per mostrare in modo convincente che ho scelto di abbandonare la nazionalità come mia identità prevalente, ho bisogno di fare qualcosa che non sarei pronto a fare in caso contrario. Devo denigrare la mia nazione. Ciò contribuisce a spiegare per quale motivo le élite sociali disprezzino così spesso il proprio paese: ricercano stima. Questo le distingue in modo decisivo dalle categorie sociali inferiori. Poiché uscendo dall’identità nazionale condivisa riducono la stima di coloro che si lasciano dietro, non sarebbe sorprendente se generassero in questi ultimi del risentimento. Spero che qualcosa di quello che ho appena detto suoni familiare.
La nuova classe composta da persone istruite e specializzate includeva sia gente di destra, che aveva abbracciato l’ideologia libertaria individualista per trarre vantaggio dal talento personale, sia gente di sinistra, che aveva adottato l’utilitarismo o una concezione rawlsiana dei diritti. Quest’ultimo gruppo non solo si spogliò della propria identità nazionale, ma incoraggiò anche gli altri a fare lo stesso. Le persone in possesso di qualche caratteristica adeguata per presentarsi come discriminate venivano incoraggiate a farne la loro identità prevalente.
Le ripercussioni della perdita dell’identità condivisa
Questo sgretolamento di un senso d’identità condiviso ebbe ripercussioni sul funzionamento della società. Con la polarizzazione delle identità (specializzazione contro nazionalità) la fiducia nei confronti delle persone collocate al vertice della società cominciò rapidamente a venir meno4. Come ci si arrivò?
Riprendiamo l’idea centrale esposta nel capitolo 2. La disponibilità ad aiutare gli altri viene generata dalla combinazione di tre narrazioni: l’appartenenza condivisa a un gruppo; le obbligazioni reciproche all’interno del gruppo; un legame fra un’azione e il benessere del gruppo che mostri che essa persegue una finalità. Da ciò deriva che se un’identità condivisa si sgretola, si attenua la disponibilità dei fortunati ad accettare l’idea di avere degli obblighi nei confronti dei meno fortunati.
La base più rilevante della generosità è la reciprocità. È questo il grande passo che ci proietta dalla debole forza dell’altruismo e dei doveri di soccorso a quella molto più potente della reciprocità, che induce le persone ad accettare elevati livelli di tassazione. La reciprocità deve però affrontare un problema di coordinamento. Se si è accettata l’idea che l’obbligazione è reciproca, allora si è disponibili ad accettare di avere un’obbligazione nei confronti degli altri: ma come facciamo a sapere che gli altri la accettano? E come fanno gli altri a sapere che noi l’abbiamo accettata? Come facciamo a fidarci reciprocamente del fatto che adempiremo alle obbligazioni se saremo chiamati a farlo?
La risposta della psicologia sociale sperimentale è che ci occorre una conoscenza comune. Ognuno di noi ha bisogno di sapere che l’altro sa che accettiamo questa obbligazione: «sappiamo che sappiamo, che sappiamo», come un’eco che continua indefinitamente. Questo è ciò che le narrazioni condivise riferite all’appartenenza, alle obbligazioni e alla finalità comune che circolano in un gruppo interattivo costruiscono gradualmente. I confini proclamati dell’appartenenza condivisa definiscono i limiti della reciprocità, e la nostra consapevolezza che siamo ugualmente esposti alle narrazioni rafforza tutto ciò col senso dei confini pratici della conoscenza comune. Poiché le narrazioni si esprimono principalmente mediante il linguaggio, esiste un limite superiore naturale alle dimensioni del gruppo che è difficile oltrepassare – un linguaggio comune5. Ma non esiste un limite inferiore equivalente: all’interno di un gruppo accomunato dal linguaggio, le identità possono diventare estremamente frammentate. Le rotture che si producono nell’identità condivisa indeboliscono sia il gruppo definito a cui si applica la reciprocità, sia l’attuabilità pratica delle obbligazioni reciproche che si estendono a più gruppi separati.
Non pare dubbio che le nostre società si siano effettivamente polarizzate fra coloro che hanno un reddito superiore a quello medio e hanno abbandonato l’identità nazionale a favore della propria collocazione professionale, e chi, più in basso socialmente, vi è invece rimasto attaccato. Né, dopo Trump, la Brexit e Le Pen, rimangono molti dubbi che questi due gruppi siano consapevoli di questa polarizzazione.
Finora le cose sono andate così: la parte di popolazione che era specializzata e colta ha teso a discostarsi dalla nazionalità come proprio elemento identitario, lasciando i meno fortunati legati a uno status ridimensionato. A sua volta, ciò ha determinato l’indebolimento dell’identità condivisa nel complesso della società. Ne è risultato intaccato il senso di obbligazione dei fortunati nei confronti dei meno fortunati, e di conseguenza la forza della narrazione elaborata dopo il 1945, secondo cui i ricchi dovrebbero essere disponibili a pagare imposte elevate per redistribuire il reddito e aiutare i poveri. Ciò è se non altro coerente con la notevolissima diminuzione delle aliquote fiscali più elevate avvenuta dopo il 1970.
A questo punto possiamo fare un passo avanti: la parte meno fortunata della popolazione si rende conto di questo indebolimento del senso di obbligazione tra i più fortunati. Sarebbe, dopo tutto, difficile non accorgersene, e ciò è importante per la parte più povera della popolazione. Poiché le cose vanno così, potrebbe tutto ciò avere un qualche impatto sul grado di fiducia della gente comune nei confronti dei loro «superiori»? Già nel formulare la domanda appare evidente la risposta: la fiducia diminuirebbe. Se le persone colte si considerano diverse da quelle meno istruite, e investite di una minore responsabilità nei loro confronti, le altre sarebbero stupide a continuare ad avere fiducia in loro come quando sapevano che ognuno condivideva la stessa identità prevalente. Abbiamo fiducia nelle persone se siamo sicuri di poter prevedere come si comporteranno. Abbiamo maggiore fiducia nelle nostre previsioni se possiamo affidarci con più sicurezza alle tecniche di una «teoria della mente»: si prevede il comportamento dell’altro immaginando come ci si comporterebbe nelle circostanze in cui egli si trova. Ma il ricorso a questa tecnica è affidabile solo finché si è sicuri di condividere lo stesso sistema di credenze: se così non è, diventa impossibile mettersi nei panni degli altri, perché non possiamo entrare nel mondo mentale che orienta il loro comportamento. Non possiamo quindi fidarci degli altri.
L’avanguardia utilitarista sviluppò perfino una teoria che previde il declino della fiducia e propose i mezzi per prevenirlo. Henry Sidgwick, docente di Filosofia morale a Cambridge e fervente seguace di Bentham, propose che l’avanguardia al potere nascondesse il proprio vero scopo al resto della popolazione: il declino della fiducia poteva essere impedito mediante l’ingannoD. Naturalmente, il drastico calo della fiducia avvenuto fin dagli anni Settanta è stato incrementato dall’evidente incapacità dell’avanguardia che ha diretto le politiche pubbliche di affrontare le nuove spaccature. Tuttavia, come suggerisce la proposta di Sidgwick, grottescamente controproducente, le radici del problema sono molto più profonde di questo mancato raggiungimento degli obiettivi.
Il declino della fiducia non è la fine del disfacimento della socialdemocrazia. Il successivo gradino di questa scala discendente è costituito dalle implicazioni che il declino stesso comporta per la capacità di cooperare. In una società complessa, innumerevoli interrelazioni dipendono dalla fiducia. Di conseguenza, quando questa crolla, la cooperazione inizia a logorarsi. Le persone cominciano ad affidarsi in misura maggiore a meccanismi legali per far osservare un comportamento buono (è una bella notizia per gli avvocati, ma non necessariamente per il resto della società). Con l’indebolirsi del senso di obbligazione da parte degli specializzati nei confronti dei loro concittadini, che non condividono più la loro stessa identità prevalente, il comportamento si fa più opportunistico. Gli specializzati possono perfino giungere a considerare il resto della popolazione come una massa di incompetenti un po’ sciocchi, e vanno orgogliosi della propria capacità di spennare i babbei. Sembra, dai messaggi di posta elettronica che sono trapelati, che questo sentimento circolasse ai livelli più elevati delle aziende del settore finanziario. Negli anni precedenti alla crisi finanziaria, Joseph Stiglitz descrisse appropriatamente il modello finanziario di Wall Street come un «cercababbei». Evidentemente, ciò incrementa ulteriormente le forze economiche strutturali operanti nella società, che stanno aumentando la disuguaglianza.
Perché diffidiamo di un’identità nazionale condivisa
Le persone sono comprensibilmente diffidenti a dare la preferenza all’identità nazionale: il nazionalismo ha generato conseguenze davvero terribili. Tutte le forme di identità definiscono implicitamente le caratteristiche che determinano l’esclusione dal gruppo identitario stesso, ma ciò provoca grandi danni se queste caratteristiche non sono semplicemente implicite, ma invece esplicite e di segno ostile: il «noi» si definisce come «non loro», e il «loro» diventa un oggetto di odio – auguriamo loro del male. Tali identità implicano una forte contrapposizione. In alcuni contesti, le identità oppositive possono di fatto essere salutari. Una squadra sportiva, ad esempio, rafforza la propria prestazione se ha una chiara idea del rivale; anche in molte aziende avviene così. Tale competizione genera vantaggi per tutti, spronando le persone a un maggiore sforzo: sono i sottovalutati benefici del capitalismo. Storicamente, però, le forme più dannose di identità oppositiva sono state quelle che definiscono vasti gruppi, come l’etnia, la religione e la nazionalità. È da qui che sono nati i pogrom, il jihad e le guerre mondiali.
Poche società hanno sofferto di tali forme di identità più della Germania. Nel XVII secolo, la Guerra dei Trent’anni fra cattolici e protestanti devastò completamente quella che un tempo era una società prospera. Alla fine fu risolta dalla Pace di Vestfalia, con la quale, sostanzialmente, l’identità più rilevante non fu più quella religiosa ma quella nazionale. In effetti i trattati restaurarono la pace, ma alla fine portarono la Germania fino all’inferno del nazionalsocialismo, dell’Olocausto, della guerra mondiale e della sconfitta. Non sorprende che nella maggioranza dei casi oggi i tedeschi aspirino a un’identità più ampia, e siano quindi entusiasti di essere europei.
L’Europa però non è solo un pezzo di terra a cui adattare una comunità. Come abbiamo visto, la società può funzionare meglio se le entità basilari del potere politico coincidono con un’identità condivisa. Se ciò non avviene, allora l’identità ha bisogno di adattarsi al potere, o viceversa. In tutte le società moderne il potere politico dipende da livelli molto modesti di coercizione e da un elevato grado di volontaria conformità alle norme. Quest’ultima ci riporta al senso di obbligazione che trasforma il potere in autorità. Senza di esso, il potere ha davanti a sé solo tre opzioni. La prima consiste nel costringere le persone a conformarsi mediante un’efficace coercizione: è l’opzione nordcoreana. La seconda consiste nel tentare di attuare la prima opzione provocando però una reazione che si esprime in forme di violenza organizzata contro lo Stato: è l’opzione siriana. La terza è che il potere riconosca i suoi limiti e adotti una finzione non dichiarata: emana ordini sapendo che verranno ignorati, mentre chi li riceve trova qualche mezzo per evitare di conformarvisi senza provocare un eccessivo risentimento. È stata questa l’esperienza della Commissione europea quando ha tentato di ottenere il rispetto dei suoi obiettivi di disciplina fiscale; solo i finlandesi non hanno mai violato i parametri.
Nelle moderne società del benessere le persone sono cresciute quando il potere si era già trasformato in autorità, e quindi lo danno per scontato. Avendo lavorato per tutta la vita in società che stanno lottando per attuare questa trasformazione, sono arrivato a rendermi conto che è preziosa, impegnativa e potenzialmente precaria. La costruzione di una società europea dipende dalla costruzione di una nuova e più ampia identità, ma si tratta di un’impresa estremamente difficile. Organizzare uno sforzo comune di queste dimensioni è complesso, e il veicolo delle narrazioni relative all’identità e alle obbligazioni – vale a dire il linguaggio – è di per sé altamente differenziato: l’Europa non ha una lingua comuneE. Potenzialmente, il tentativo di trasferire l’autorità a un’entità centrale con cui solo pochi si identificano sottrae potere all’autorità, aprendo la strada a un processo di frammentazione in identità regionali e al precipitare nell’individualismo: l’inferno dell’uomo economico.
In effetti, invece di costruire identità più ampie, molte persone si stanno ritirando in identità più ristrette. Dopo oltre cinquecento anni in cui sono stati spagnoli e catalani, ora molti catalani vogliono essere solo catalani. Dopo più di tre secoli durante i quali sono stati scozzesi e britannici, molti scozzesi vogliono essere solo tali. Dopo oltre centocinquant’anni di unità italiana, la Lega Nord ha puntato sull’identità settentrionale. Dopo oltre mezzo secolo in cui sono stati jugoslavi, gli sloveni hanno tradotto in realtà il sogno della secessione, e le conseguenze per gli altri jugoslavi sono state catastrofiche. Nel momento in cui scrivo queste pagine, i catalani sono fonte di ispirazione per le regioni meridionali del Brasile che aspirano alla secessione, e, cosa più stupefacente di ogni altra, assistiamo a un nuovo Biafra. Il movimento secessionista che cinquant’anni fa innescò una spaventosa guerra in Nigeria è entrato nuovamente in agitazione. Tutti questi esempi apparentemente diversi di secessione hanno un elemento in comune: si tratta di regioni ricche che cercano di sottrarsi alle obbligazioni nei confronti del resto del paese. La Catalogna è la più ricca delle diciassette regioni spagnole, e contesta l’obbligo di pagare le tasse a favore di quelle più povere. Per lungo tempo lo slogan della campagna del Partito Nazionalista Scozzese è stato «È petrolio scozzese» (nonostante il fatto che in realtà il petrolio si trovi assai distante nel Mare del Nord). L’Italia settentrionale è la parte più ricca del paese, e la narrazione secessionista concentra il suo risentimento sui trasferimenti fiscali alle regioni più povere. Proviamo a pensare qual è la più ricca regione dell’ex Jugoslavia. O quali sono le tre regioni brasiliane più ricche. E dov’è situato il petrolio nigeriano? A parte le narrazioni di facciata che parlano del diritto di autodeterminazione, questi movimenti politici rappresentano ulteriori manifestazioni della dissoluzione dello Stato socialdemocratico: la contestazione delle obbligazioni reciproche costruite su un’ampia identità condivisa. Come il capitalismo, si meritano gli epiteti di avidi ed egoisti. Il fatto che finora li abbiano evitati è da attribuirsi non all’intento che si propongono, ma alla loro abilità nelle pubbliche relazioni.
Abbiamo bisogno di ampie identità condivise, ma il nazionalismo non è lo strumento adeguato per costruirle. E invece viene usato dai politici populisti per preparare una base di sostegno mediante narrazioni basate sull’odio nei confronti di altre persone che vivono nel loro stesso paese. Tutta la strategia consiste nel cementare la coesione all’interno di una parte della società, creando fratture fra essa e le altre parti. Le identità contrapposte che ne derivano hanno effetti letali per la generosità, la fiducia e la cooperazione. È questo che le persone colte rifiutano, e a ragione. Attualmente, però, non stanno offrendo alcuna base alternativa su cui costruire un’identità condivisa. Di fatto, i ceti colti stanno dicendo che non si identificano più con i cittadini meno istruiti. Anzi, applicando i principi utilitaristi, non fanno distinzione fra quei loro concittadini e gli stranieri. Poiché le obbligazioni efficaci – quelle reciproche – derivano soltanto da un’identità condivisa, la conseguenza è che nei confronti dei loro concittadini che non appartengono alle élite non hanno maggiori obbligazioni di quelle che hanno nei confronti degli stranieri, ovunque questi si trovino.
Ricerche recenti ci permettono di osservare il processo di erosione che è in atto. In Gran Bretagna, i mezzi d’informazione presumono attualmente che i più giovani abbiano un atteggiamento di maggiore generosità e disponibilità nei confronti della popolazione povera rispetto ai loro genitori. In un ampio sondaggio casuale condotto nel 2017, agli intervistati veniva chiesto di scegliere fra due affermazioni opposte. La prima era: «Per le persone, il dovere di pagare le tasse è più importante della propria ricchezza personale»; ad essa si contrapponeva la seconda: «Le persone sono ricompensate dell’impegno sul lavoro trattenendo il più possibile per sé quello che guadagnano». Contrariamente al mito dei media – ma in modo del tutto coerente con la teoria secondo cui l’identità condivisa è una risorsa in via di esaurimento – le persone di oltre 35 anni hanno maggiormente condiviso la prima affermazione, mentre quelle nella fascia dai 18 ai 34 anni si sono prevalentemente orientate verso l’etica individualistica che induce a tenere per sé quello che si guadagna6.
Con l’erosione dell’adempimento dei doveri reciproci, i diritti non trovano realizzazione, e la fiducia nel governo diminuisce. È questa la feroce tendenza che sta imperversando nelle società occidentali. Sul piano pratico, il cambiamento della struttura delle obbligazioni, dalla reciprocità interna alla società alle obbligazioni globali in un contesto di non reciprocità – dal cittadino nazionale al «cittadino del mondo» –, potrebbe significare tre cose radicalmente diverse. Forse potremmo chiederci quale di esse si adatti a noi.
Una possibilità è che la nostra generosità nei confronti dei più poveri non sia inferiore a quella della generazione che dal 1945 al 1970 ha costruito il nostro sistema fiscale sulla base del presupposto di un’identità nazionale condivisa, con la differenza però che ora vogliamo definire la povertà in prospettiva globale, invece che nazionale. Ciò avrebbe implicazioni drammatiche. In media, nelle economie contemporanee avanzate, una quota intorno al 40% del reddito è destinata alle tasse e redistribuita in varie forme, quali il trasferimento diretto alle persone più povere, la spesa sociale che avvantaggia in modo sproporzionato i più poveri e la spesa in infrastrutture che beneficia quasi tutti. Quindi, si continua ad accettare che il 40% del reddito nazionale sia assorbito dalle tasse, volendo però redistribuirlo su scala globale e non nazionale: non percepiamo niente di speciale nelle nostre obbligazioni nei confronti dei connazionali. Considerando le disuguaglianze esistenti a livello globale, ciò produrrebbe un enorme aumento dei flussi di aiuti ai paesi poveri: un’elevata porzione del 40% del reddito intercettato dalle tasse verrebbe trasferita a loro favore. Come corollario di questa redistribuzione del prelievo fiscale a favore dei poveri globali avremmo un drastico peggioramento della situazione dei poveri che vivono all’interno del territorio nazionale. Questa considerazione può essere respinta come moralmente irrilevante – in base alla considerazione che i loro bisogni sono inferiori a quelli delle persone che in tal modo vengono beneficiate –, ma essi avrebbero ragione ad allarmarsi.
Una seconda possibilità è che si continui ad avere verso i propri connazionali la stessa generosità che hanno avuto le precedenti generazioni, volendo però estendere lo stesso livello di generosità su scala globale. L’implicazione è in questo caso più drammatica: l’imposizione fiscale dovrebbe aumentare enormemente. Dopo il prelievo il reddito delle persone specializzate dovrebbe diminuire in misura assai rilevante per mantenere il medesimo livello di generosità verso i connazionali ed estenderlo anche alla popolazione globale. Non è una cosa che un paese possa fare da solo, poiché una gran parte della sua popolazione specializzata a quel punto emigrerebbe, lasciando i propri concittadini più poveri in condizioni peggiori. È una politica del cuore senza la testa.
La terza possibilità è che la nostra decisione di cambiare la nostra identità prevalente non significhi che è notevolmente aumentato il nostro senso di obbligazione verso le persone di tutto il mondo, ma solo che abbiamo ridotto il nostro senso di obbligazione nei confronti dei connazionali. In questo caso siamo sollevati. Le tasse saranno ridotte perché quello scomodo «dovere» che ci assillava per spingerci ad essere generosi è stato messo a tacere: «puoi tenere per te quello che guadagni». Loro – i nostri concittadini più poveri – staranno peggio. È una politica della testa senza cuore.
Il disprezzo dei ceti colti per l’identità nazionale s’impone con forza sul piano morale: noi ci prendiamo cura di tutti; voi avete un atteggiamento deplorevole. Ma questa pretesa moralità è giustificata? Facciamo trascorrere una generazione e immaginiamo che la nuova identità di «cittadino del mondo» si sia sufficientemente affermata da riflettersi in pieno nelle politiche pubbliche7. I programmi fiscali basati sull’identità nazionale sono stati soppiantati. Quale delle tre interpretazioni del passaggio a «cittadino del mondo» sopra esposte è più probabile che abbia prevalso? Ritengo che probabilmente si realizzerebbe un compromesso fra la prima e la terza: in qualche modo la maggiore generosità verso i poveri globali sarebbe più che compensata dal sostanziale ridimensionamento della generosità verso i poveri nazionali.
Il dilemma
C’è un dilemma a cui si trovano di fronte le odierne società opulente. Il fatto fondamentale è che il campo della politica pubblica è inevitabilmente spaziale. I processi politici che la autorizzano sono spaziali: le elezioni locali e quelle politiche generano rappresentanti che esercitano la loro autorità su un territorio. E le politiche stesse in definitiva vengono applicate spazialmente: la scuola e l’assistenza sanitaria hanno un bacino di riferimento, le infrastrutture sono specificamente pensate per uno spazio, le imposte e i sussidi sono amministrati in una dimensione spaziale. È un dato di fatto incontrovertibile: le nostre società sono spaziali. Di fatto, sono prevalentemente nazionali. Ma le nostre identità, e le reti sociali che le sostengono, lo stanno diventando sempre meno.
L’era socialdemocratica che va dal 1945 al 1970 fu costruita sulla storia eccezionale che ampliò il nostro senso comunitario fino ad abbracciare intere nazioni. Le nostre identità spaziali e le nostre reti sociali si erano già atrofizzate in conseguenza del divario in termini di competenze determinato dalla crescente complessità. Oggi quello di cui stiamo cominciando a fare esperienza è un ulteriore attacco contro un’identità spaziale condivisa, dovuto al diffondersi dei mutamenti del comportamento connessi all’uso degli smartphone e dei social media. I primi si pongono all’estremità dell’individualismo – il selfie indiscriminatamente postato per gli «amici» nella speranza di attirare un impressionante accumularsi di «mi piace». Assistiamo all’atrofizzarsi della comunità spaziale, e di fatto la viviamo quando ci sediamo in spazi pubblici come un caffè o un treno, attorniati da persone che sono vicine a noi e tuttavia invisibili mentre guardiamo i nostri schermi. Lo spazio ci lega mediante le politiche pubbliche, ma non lo fa più sul piano sociale. È sottoposto all’assalto sia di quelle comunità sostitutive che sono le «camere dell’eco» digitali, sia di un più radicale ritirarsi dall’interazione personale diretta all’isolamento di un ansioso narcisismo. A meno che questa divergenza fra le nostre società e i nostri legami non si riduca, è prevedibile che le comunità in cui viviamo siano destinate a degenerare, diventando meno generose, meno fiduciose e meno cooperative. Sono tendenze già in atto.
In linea di principio, potremmo riprogettare le nostre circoscrizioni politiche in modo da renderle non spaziali. Presumibilmente alcuni dei tecno-fanatici della Silicon Valley guardano speranzosi a un futuro del genere: una società nella quale si sceglie se star dentro o fuori, in cui ogni singolo individuo è libero di scegliere, indipendentemente da dove gli capiti di vivere. Ognuno potrebbe avere una propria valuta – a ognuno il suo bitcoin. Tutti potrebbero avere le proprie aliquote d’imposta, i propri sussidi assistenziali e piani sanitari; esistono programmi pensati per isole galleggianti lontane da qualsiasi giurisdizione nazionale. È una prospettiva attraente? Assumendo per ipotesi che lo sia, cerchiamo di immaginare cosa potrebbe accadere. I ricchi probabilmente sceglierebbero di far parte di quelle entità politiche artificiali che offrissero basse aliquote fiscali. I miliardari lo stanno già facendo, quando stabiliscono la residenza legale delle loro aziende in un luogo diverso da quello in cui producono i loro redditi, e la propria residenza a Montecarlo. All’inverso, le persone malate sceglierebbero di far parte di entità che garantiscono una generosa assistenza sanitaria, le quali inevitabilmente fallirebbero sotto il peso di debiti non pagabili.
Insomma, l’entità politica aspaziale è una fantasticheria. L’unica opzione reale consiste quindi nel far rinascere i vincoli spaziali. Purtroppo, dato che la dimensione più pratica per la maggior parte delle società è quella nazionale, è necessario un senso di identità nazionale condivisa. Sappiamo però che le identità nazionali possono provocare disastri. È possibile stabilire vincoli che siano sufficienti a garantire l’esistenza di una società vitale senza risultare pericolosi? È questo l’interrogativo principale a cui le scienze sociali si trovano di fronte. È dalla risposta che sapremo darvi che dipende il futuro delle nostre società.
I nazionalisti sono arrivati a intendere il concetto di identità nazionale quasi come se fosse una loro proprietà intellettuale. Di fatto, danno l’impressione di pensare di far parte di un’ininterrotta tradizione identitaria nazionale, ma non è così. In molte società, la tradizionale identità nazionale aveva un carattere sinceramente inclusivo nei confronti di tutti i loro membri. Ludwig Wittgenstein, ebreo austriaco che viveva in Gran Bretagna, avvertì nettamente il dovere di ritornare in Austria per combattere per il proprio paese natale nella Prima guerra mondiale. Contrariamente a questa forma tradizionale di nazionalismo, i nuovi nazionalisti vogliono definire l’identità nazionale in base a criteri come l’etnia o la religione. Questa variante del nazionalismo è relativamente recente, è un’eredità del fascismo, e una simile nuova definizione dell’identità nazionale escluderebbe milioni di persone, di cittadini che vivono nella stessa società. Non solo i nuovi nazionalisti dichiarano esplicitamente la propria intenzione di dividere la società fra un «noi» e un «loro», ma innescano un’ulteriore scissione all’interno del loro autodefinito «noi», a causa delle molte persone che si sentono da loro offese. La loro ascesa divide aspramente la società. Marine Le Pen non ha unito la Francia: l’ha divisa in tre parti, due delle quali contro di lei; Donald Trump ha polarizzato la società americana spaccandola a metà. Un nazionalismo del genere, quindi, non è neppure un possibile strumento per ricostruire la perdita dell’identità condivisa che è giunta al punto estremo; al contrario, distruggerebbe qualsiasi prospettiva in tal senso. A sua volta, ciò intaccherebbe la fiducia e la cooperazione che essa facilita, nonché il rispetto reciproco e la generosità che esso facilita.
L’altro gruppo, quello dei «cittadini del mondo» colti, sta abbandonando la propria identità nazionale. Si dedicano al piacere di segnalare la propria superiorità sociale convincendosi allo stesso tempo che questo comportamento egoistico è moralmente elevato. La chiara conclusione che ne possiamo trarre è che entrambi questi importanti gruppi di cittadini minacciano di indebolire l’identità condivisa costruita a un così caro prezzo.
Dobbiamo trovare una soluzione a questo dilemma. Nella potente immagine di Wittgenstein, che vedeva le persone intrappolate in idee confuse, abbiamo bisogno di far uscire la mosca dalla bottiglia in cui è entrata.
Entra in scena il patriottismo.
Appartenenza, luogo e patriottismo
Per funzionare in un modo che consenta a tutti di prosperare, una società ha bisogno di un forte senso di identità condiviso. Qui la questione in gioco non è se ciò sia vero, e la posizione di coloro che negano la rilevanza della coesione è sciocca come quella di chi nega la questione del clima. Lo dimostrano i successi di paesi come la Danimarca, la Norvegia, l’Islanda e la Finlandia, i più felici del mondo; e del Bhutan, il paese più felice del continente asiatico. Purtroppo, però, questi cinque paesi hanno tutti costruito la coesione sociale mediante una strategia che non è adottabile dalla maggior parte delle altre società. Hanno cementato un’identità condivisa attorno a una specifica cultura comune. Ho i miei dubbi che l’effettivo contenuto di tale cultura sia particolarmente importante: lo hygge e i monasteri buddisti hanno ben poco in comune. Ma la maggior parte delle società o sono sempre state troppo diversificate culturalmente perché questa sia un’opzione percorribile, o lo sono diventate. Piuttosto che rammaricarci di questo aspetto delle nostre società, dovremmo prospettare una strategia attuabile per ricostruire un’identità condivisa che sia compatibile con la modernità.
I metodi con cui in passato si è riusciti a costruire un’identità comune in un intero paese non sono più adeguati. Nella Britannia preistorica, l’identità condivisa poté forse costituirsi grazie al grande tentativo comune messo in atto a Stonehenge – «un’impresa unificante che rifletteva la prospettiva di un’unica cultura isolana»8. Nell’Inghilterra del Trecento fu stabilita dalla guerra contro la Francia, mettendo insieme un amalgama composto da elementi radicalmente diversi: normanni; anglosassoni, i cui capi erano stati massacrati dai normanni; vichinghi, che avevano massacrato gli anglosassoni; infine britanni, la cui cultura era stata infiacchita dalla conquista anglosassone. In tutta l’Europa dell’Ottocento l’identità fu costruita mediante il mito della purezza etnica. A metà del Novecento fu resa possibile dalla guerra e sostenuta da particolarità culturali; gli americani avevano il baseball, i britannici il tè, i tedeschi il maiale e la birra. Quando le nostre società sono diventate multiculturali, perfino questi segni distintivi si sono sbiaditi: nessuno di questi approcci è in grado di fornirci una solida linea d’azione.
Una strategia che può apparire attraente è quella che punta a costruire un’identità condivisa attorno a valori comuni. Questo approccio riscuote consensi perché ognuno crede nei propri valori e presume siano quelli giusti su cui compiere una tale operazione. Il problema è che in qualsiasi società moderna si può trovare una gamma incredibilmente ampia di valori: questo è infatti uno dei tratti che definiscono la modernità stessa. Se ci occorrono valori condivisi, finiamo per ritrovarci con qualcosa che assume il significato di una drastica esclusione: «Se non condividete i nostri valori, andatevene». Donald Trump e Bernie Sanders sono tutti e due americani, ma sfido chiunque a trovare un qualsiasi valore che sia condiviso da entrambi ma che altresì distingua l’America dalle altre nazioni. Una sfida del genere potrebbe essere riproposta – cambiando opportunamente i nomi dei leader politici – per la maggior parte delle società occidentali. Gli unici valori ai quali in una società tutti aderiscono sono talmente minimi da non essere sufficienti a distinguere uno specifico paese da molti altri, e quindi non definiscono un campo nel quale effettivamente si potrebbero costruire obbligazioni reciproche.
Mentre l’identità nazionale è passata di moda, l’identità in termini di valori si è rafforzata, e il risultato non è certo confortante. I suoi effetti sono stati intensificati dalla maggiore facilità con cui è possibile restringere la propria interazione sociale a coloro con cui siamo d’accordo – il fenomeno già ricordato della camera dell’eco. Lungi dall’essere un percorso che genera coesione sociale, questi luoghi basati su specifici valori stanno letteralmente lacerando le società occidentali. Il livello di insulti, di diffamazioni e minacce di tono violento – in una parola, di odio – che si rintracciano nelle reti tenute insieme dalla condivisione di specifici valori è forse superiore a quello degli oltraggi su base etnica o religiosa.
Se dunque i valori, come criterio su cui fondare un’identità condivisa, vanno a sbattere sullo stesso scoglio dell’etnia e della religione, c’è forse a disposizione qualcos’altro? E se invece tentassimo di rendere praticabile l’agenda dei «cittadini del mondo», sciogliendo le nazioni e trasferendo il potere politico all’ONU? In realtà, come implica la sua stessa denominazione di Nazioni Unite, questo organismo presuppone che gli elementi costitutivi dell’autorità politica siano le nazioni, e non gli individui, per l’evidente ragione che nella maggior parte delle società la nazione è la più ampia entità efficace che sia realizzabile in base a un’identità condivisa. Se il potere politico venisse concentrato a livello globale, le persone non si adeguerebbero volentieri alle sue decisioni: il potere non si trasformerebbe in autorità. Il governo mondiale verrebbe ad assomigliare a una versione globale della Somalia.
La risposta in merito a un’identità praticabile e inclusiva consiste nel guardarci tutti in faccia. È un senso di appartenenza a un luogo. Per quale motivo, ad esempio, io mi considero un uomo dello Yorkshire? Sì, apprezzo questi valori: parlare francamente e non essere presuntuosi. Ma in realtà non si tratta di questo. Recentemente ho partecipato a un programma radiofonico mattutino con la baronessa Sayeeda Warsi, prima donna musulmana ad aver incontrato un ministro britannico. Era la prima volta che ci incontravamo, e una conversazione radiofonica alla quale ognuno di noi era stato invitato per parlare del proprio libro appena uscito non è l’occasione più naturale per stabilire dei legami. Tuttavia mi sono subito sentito a mio agio con la signora: era cresciuta a Bedford e parlava con lo splendido accento nel quale io stesso sono stato allevato, e che in me è stato intaccato da un mezzo secolo passato a Oxford. Ho il sospetto, quindi, di essermi sentito più a mio agio con lei di quanto non sia avvenuto a lei con me. Essenzialmente, però, abbiamo condiviso il medesimo senso di appartenenza allo stesso posto, con i suoi piccoli indicatori di accento e di lessico; ho notato che entrambi abbiamo chiesto che il tè offertoci dal personale della BBC fosse mashed, e non brewed, come si dice in inglese standard.
Possiamo collocare questi aneddoti in uno schema assai generale. Le persone hanno la fondamentale necessità di provare un senso di appartenenza. Le dimensioni fondamentali dell’appartenenza sono il chi? e il dove? Entrambe si fissano durante l’infanzia e in genere durano per tutta la vita. Rispondiamo alla domanda chi? identificandoci con qualche gruppo – è su questo che l’Economia dell’identità si è finora concentrata; rispondiamo alla domanda dove? identificandoci con qualche luogo che è la nostra casa. Chiediamoci cosa intendiamo per casa. Per la maggior parte delle persone, ciò significa il posto in cui sono cresciute.
Il concetto di nazionalità più praticabile di cui la modernità dispone è quello che lega insieme le persone mediante un senso di appartenenza allo stesso luogo. Questo luogo è fatto a strati, come una cipolla. Il nucleo interno è la nostra casa, ma gran parte dell’identità che attribuiamo ad essa dipende dalla regione o dalla città in cui è situata. Analogamente, la città acquista gran parte del suo significato dal paese in cui si trova, e in Europa una parte del senso di appartenenza si estende all’Unione Europea. La popolazione di un determinato paese apparirà diversificata, e adotterà valori diversi: ma ognuno condividerà la medesima collocazione della propria casa. È sufficiente?
Un motivo di speranza ci viene dal fatto che questa identità basata sull’appartenenza a un posto è uno dei tratti impressi profondamente nella nostra psiche dall’evoluzione. Non è uno dei più labili valori aggiunti recentemente dal linguaggio. L’identità riferita a un luogo non solo è profondamente radicata, è potente. Un concetto di uso comune negli studi sul conflitto è quello del rapporto fra attaccanti e difensori che occorre perché gli attaccanti vincano. Ovviamente su di esso influisce la tecnologia militare, ma in generale nel corso della storia dei conflitti umani chi difende lotta con maggior vigore di chi attacca, per cui il rapporto fra i due schieramenti è di circa 3 a 1. Incredibilmente, la proporzione risulta la stessa in molte specie diverse. Rintracciando la presenza di queste specie lungo il percorso evolutivo, la territorialità sembra essere stata impressa definitivamente negli automatismi comportamentali nel corso più o meno degli ultimi 4 milioni di anni9. L’istinto di difendere il territorio ha radici molto profonde; siamo legati a quella che sentiamo come la nostra casa.
Le nostre «passioni» ereditate geneticamente ci infondono quindi un forte senso di appartenenza a un luogo. Come però abbiamo visto nel capitolo 2, anche i valori meno profondi generati dalle narrazioni sono importanti. Le narrazioni aiutano la memoria, consentendoci di leggere il nostro luogo non solo come faremmo con uno scatto fotografico che ne ritrae lo stato attuale, ma come un’evoluzione: l’attaccamento alla nostra città come essa è attualmente viene reso più profondo dalla nostra comprensione degli strati del cambiamento mediante i quali è diventata quello che è. Queste memorie costituiscono un patrimonio comune di tutti coloro che crescono nella città, rafforzano la nostra identità comune.
Tuttavia, per decenni, i politici dominanti hanno consapevolmente evitato le narrazioni di appartenenza. Di fatto, le hanno anzi attivamente denigrate. I nostri politici si trovano al centro di reti sociali nazionali, sono i nostri comunicatori in capo. Intaccando attivamente un senso di appartenenza condivisa, hanno accelerato il declino delle obbligazioni reciproche dalle quali dipende il nostro benessere. Le loro narrazioni etiche sono state invece nella stragrande maggioranza dei casi utilitariste o rawlsiane, ed essi si sono considerati parte del vertice dello Stato paternalista. Poiché non si è fatto niente per impedirlo, le narrazioni di appartenenza al nostro paese sono state abbandonate ai nazionalisti, che le hanno piegate ai fini del loro programma divisivo, e nel frattempo lo Stato etico si è inaridito.
Nel 2017 il presidente francese Macron ha infranto questo tipo di atteggiamento negligente, e ha ideato un vocabolario per distinguere tra due forme di identità nazionale: il nazionalismo e il patriottismo, descrivendo se stesso come un patriota ma non come un nazionalista. Le narrazioni riferite al patriottismo, definito come l’appartenenza a un territorio comune, possono essere usate sia per riprendere dalle mani dei nazionalisti il tema dell’appartenenza, sia per restituirgli un ruolo centrale per l’identità delle persone. Un recente sondaggio sulla popolazione britannica offre ulteriori elementi a sostegno della praticabilità di questa strategia. La ricerca ha verificato le associazioni mentali suscitate dal termine «patriottismo», confrontandole con quelle relative a molti altri concetti politici10. I risultati sono molto incoraggianti: le quattro espressioni più spesso associate al termine «patriottismo» sono «attraente», «esaltante», «soddisfacente» e «parla al cuore». Questo contrasta con i risultati relativi a tutte le ideologie studiate nell’indagine. Quel che più colpisce è che il «patriottismo» suscita queste reazioni favorevoli in tutti i gruppi di età, e fra persone altrimenti nettamente distinte, e in modo inquietante, per le loro divergenti preferenze politiche e sociali.
Il patriottismo si distingue nettamente dal nazionalismo anche per come le nazioni si comportano l’una nei confronti dell’altra. Il discorso a cui ricorrono i nazionalisti, vantandosi di mettere «prima» di tutto il proprio paese, descrive le relazioni internazionali come un gioco a somma zero, nel quale vince chi si dimostra più inflessibile. Il patriottismo, come lo ha esemplificato Macron, promuove invece un discorso di cooperazione per ottenere un reciproco beneficio. Il presidente francese sta esplicitamente tentando di costruire nuovi impegni reciproci all’interno dell’Europa sulle questioni economiche, all’interno della NATO sulla sicurezza del Sahel, e a livello globale sui cambiamenti climatici. E tuttavia Macron sta lavorando per gli interessi della Francia. Quando un’azienda italiana ha cercato di acquistare i cantieri navali più importanti del suo paese, è intervenuto per assicurare che gli interessi francesi fossero protetti: non è un utilitarista. Ma l’aspetto cruciale è che il patriottismo, al contrario del nazionalismo, non è aggressivo.
Come avviene per tutte le altre narrazioni, anche quelle riferite all’appartenenza non risulteranno credibili, se le azioni non sono coerenti con esse. Al centro della nostra immaginaria cipolla c’è la casa: se il nostro attaccamento ad essa è debole, anche gli strati esterni ne risulteranno indeboliti. Un motivo per cui le persone più giovani stanno perdendo il senso di appartenenza è che l’acquisto di una casa è diventato molto più difficile. La percentuale di case di proprietà in una popolazione è un indicatore pratico di questo profondo senso di appartenenza, e come vedremo in seguito, rendere possibile la proprietà dell’abitazione richiede una politica intelligente.
Se il luogo è il fondamento psicologico di un senso di appartenenza condiviso, questo può essere integrato da un’azione che persegua uno scopo. Una nazione è l’unità di riferimento naturale di gran parte della politica pubblica, per cui la nostra identità condivisa consegue dal comune scopo che sostiene le azioni in grado di migliorare il nostro reciproco benessere. Le narrazioni riferite all’azione orientata verso lo scopo comune possono stabilire come, accettando l’identità condivisa che definisce il campo della reciprocità, adempiere ai nostri obblighi reciproci possa gradualmente migliorare le nostre condizioni. Prendiamo in considerazione quello che i politici dicono riguardo all’azione orientata a uno scopo e dividiamo le loro narrazioni che costruiscono un’identità condivisa da quelle che la indeboliscono. Evidentemente, in tempo di guerra, le narrative relative all’azione orientata a uno scopo implicano nella grande maggioranza dei casi un beneficio reciproco e quindi rafforzano l’identità condivisa; durante il miracoloso periodo 1945-1970, le narrazioni pubbliche avevano prevalentemente questa forma. Attualmente, i nostri politici stanno diffondendo, senza darsene troppa cura, narrazioni riferite ad azioni comuni le quali fanno pensare che i nostri interessi siano contrapposti a quelli di qualche altro gruppo. Essi hanno attivamente incoraggiato la gente a formare identità oppositive, e tali identità sono socialmente molto dannose. Le narrazioni relative a interessi contrapposti possono essere vere se prese isolatamente, ma nel loro insieme diventano talmente disgreganti che il benessere collettivo si deteriora.
I politici sono soprattutto dei comunicatori. La costruzione di un’identità condivisa in una società in cui vi siano culture e valori diversi è necessaria per il reciproco benessere, ma problematica: è un dovere primario della leadership. Evitando le narrazioni relative a un’appartenenza condivisa, a un luogo o a uno scopo comune, i politici hanno inavvertitamente aggravato l’erosione delle capacità degli Stati paternalisti di adempiere ai loro obblighi. Per fortuna, il futuro è ancora lungo.
1 Questa «crisi esistenziale» è stata riconosciuta come tale dai leader dei partiti socialisti e democratici europei che mi hanno invitato al loro congresso annuale nell’ottobre del 2017 e al loro congresso giovanile nel giugno del 2018.
2 Ho esposto il modello in modo più formale, sviluppandone le implicazioni normative, nel mio Diverging identities: a model of class formation, «Working Paper 2018/024», Blavatnik School of Government, Oxford University 2018.
3 A. Wolf, The XX Factor: How the Rise of Working Women has Created a Far Less Equal World, Crown, New York 2013, p. 32. Questa frase non solo coglie il cambiamento di scelta dell’identità più rilevante, che diventa quella lavorativa, ma anche il rilievo dato alla realizzazione personale, che riprenderò nel capitolo 5.
4 Si veda lo Edelman Trust Barometer. Il suo Annual Report per il 2017 si apre con le parole «in tutto il mondo la fiducia è in crisi» (https://www.edelman.com/trust2017/).
5 Il caso esemplare della cooperazione reciproca come strumento per affrontare le ansie è il movimento cooperativo per le assicurazioni nato a Rochdale, una città industriale come Sheffield e Halifax, nell’Inghilterra del Nord. Nel novembre del 2017 la Fondazione P&V, parte del gigante della cooperazione belga nel settore assicurativo, mi ha conferito il suo Premio di cittadinanza, ed è allora che ho appreso le sue origini. I pionieri di Rochdale avevano visitato Gand, città di lingua fiamminga, ispirando la nascita del movimento in Belgio, che poi si diffuse però rapidamente, al di là del confine linguistico francofono, alla Vallonia, e si estese gradualmente fino ad assumere dimensioni nazionali. La cerimonia di premiazione si è tenuta in tre lingue.
6 M. Elliott - J. Kanagasooriam, Public Opinion in the Post-Brexit Era: Economic Attitudes in Modern Britain, Legatum Institute, London 2017.
7 D. Goodhart, The Road to Somewhere, Hurst, London 2017, tratta a lungo di questo contrasto fra identità nazionali e globali.
8 La citazione è tratta da N. Crane, The Making of the British Landscape, Weidenfeld & Nicolson, London 2016, p. 115.
9 D.D. Johnson - M.D. Toft, Grounds for war: the evolution of territorial conflict, in «International Security», XXXVIII (2014), 3, pp. 7-38.
10 Elliott - Kanagasooriam, Public Opinion in the Post-Brexit Era cit.
A In Gran Bretagna negli anni Cinquanta fu coniato il termine Butskellism, per indicare la sostanziale equivalenza fra la principale mente del Partito conservatore, Rab Butler, e il leader del Partito laburista, Hugh Gaitskell.
B Naturalmente, assumiamo decisioni anche su come soddisfare i nostri «bisogni», ma per lo scopo che qui ci proponiamo possiamo trascurare questo elemento.
C Questo non perché il loro orgoglio nazionale diminuisca, ma perché far parte del gruppo che privilegia l’identità nazionale, una volta che ne sono usciti i lavoratori più specializzati, è diventato meno prestigioso.
D Un altro docente di Cambridge, Bernard Williams, sottopose poi questa proposta a una sferzante critica, bollandola come «utilitarismo della casa del governatore».
E Le Scuole europee erano state concepite per costruire una nuova identità, almeno fra l’élite studentesca. Recenti ricerche indicano però che gli studenti stessi sono talmente indottrinati dall’ideologia che legge l’identità europea come un sinonimo di cosmopolitismo liberale da essere indotti a pensare che chi non condivide tale visione non è un vero europeo. Lungi dal cementare un’identità condivisa, questo è un ulteriore processo che porta le élite ad allontanarsi dalle identità delle società in cui vivono.