7.
Il divario geografico:
metropoli in piena crescita, città depresse
Londra, New York, Tokyo, Parigi, Milano: in tutto il mondo occidentale, la metropoli ha fatto un balzo in avanti rispetto al resto del paese, e questo accresciuto divario è evidente misurando sia il livello dei redditi sia l’aumento dell’occupazione o i prezzi delle case. È un fenomeno relativamente recente, perché il suo primo manifestarsi risale agli anni intorno al 1980; fino ad allora le differenze di reddito fra le regioni di uno stesso paese erano modeste. Da questo punto di vista gli Stati Uniti erano un caso tipico: nell’arco di un secolo, lo scarto si era attenuato a un ritmo di quasi il 2% annuo. Fin dal 1980, però, accanto alla crescente affermazione delle metropoli, molte città di provincia avevano subito un improvviso declino economico. Nuove analisi compiute dall’OCSE hanno messo in luce come nei paesi ad alto reddito, negli ultimi due decenni, il divario in termini di produttività fra le regioni più avanzate e la maggioranza delle altre si è allargato del 60%. In questo senso la Gran Bretagna è un caso tipico: fin dal 1977 la sua popolazione si è costantemente spostata da nord a sud, e lo squilibrio in termini di reddito ha continuato ad aumentare. Nel 1997, nel complesso, il peso economico delle province era di 4,3 volte maggiore di quello di Londra. Nel 2015 il rapporto era sceso a 3,3.
Non sorprende che ciò abbia determinato un nuovo divario dal punto di vista politico. Le risentite lamentele delle province si sono scontrate con la sdegnosa sicurezza della metropoli: la sprezzante espressione americana che parla di «città cavalcavia» (flyover cities) è stata di recente superata da quella di Janan Ganesh, commentatore politico del «Financial Times», che ha descritto Londra ricorrendo all’immagine di una città «incatenata a un cadavere» (shackled to a corpse). Dov’è l’empatia, in questo modo di esprimersi? Dov’è finito il senso di obbligazione reciproca? Questi sentimenti sono stati brutalmente messi da parte, sono svaniti con la perdita dell’identità condivisa che prima univa la metropoli e le province. Come riflesso di tutto ciò, la metropoli ha votato in massa contro le campagne antisistema di Trump, della Brexit, di Le Pen e dei 5 Stelle, mentre le città depresse le hanno trovate attraenti.
Ma quali sono state le forze economiche che hanno provocato questo nuovo divario, e cosa possiamo fare in proposito?
I motivi del nuovo divario
Alla base delle forze che stanno provocando questo nuovo divario ci sono due semplici rapporti che risalgono all’epoca della rivoluzione industriale. Uno è quello fra produttività e specializzazione: è quello a cui fa riferimento l’espressione «apprendimento attivo». Quando le persone si specializzano in un numero minore di compiti sono in grado di sviluppare competenze più approfondite. L’altro rapporto è quello fra produttività e dimensioni dei processi produttivi: l’espressione consueta per indicarlo è «economie di scala».
Per utilizzare le economie di scala e la specializzazione le persone devono concentrarsi nelle grandi città. Perché un’azienda possa praticare economie di scala deve possedere una vasta platea di clienti ed essere situata vicino ad altre aziende analoghe. I lavoratori specializzati hanno bisogno di lavorare vicino ad altri con competenze specialistiche complementari. Le grandi città forniscono la prossimità spaziale che rende possibili tutte queste connessioni. Ma questa connettività richiede enormi investimenti in metropolitane, strade, edifici per parcheggi multipiano, snodi aeroportuali e ferroviari. Fino agli anni Ottanta, solo le grandi città europee e nordamericane se li potevano permettere.
I vantaggi di questa facilità di connessione in termini di produttività furono incredibili, e in molte città si concentrarono aziende di specifici settori industriali, il che le mise in grado di essere vincenti. La mia stessa città natale, Sheffield, assisté allo sviluppo di una costellazione di manifatture specializzate nel settore dell’acciaio, e di una forza lavoro altamente qualificata. Attorno al 1980 il tipico operaio che lavorava in queste città era straordinariamente più produttivo di quelli di altre regioni del mondo in cui non esisteva la stessa concentrazione di industrie simili. Poiché i salari tendono a corrispondere alla produttività, i lavoratori videro aumentare in modo straordinario anche i propri redditi.
A partire da allora tale situazione venne sconvolta da due processi coincidenti ma distinti: l’esplosione dell’istruzione e la globalizzazione. Il primo fenomeno infuse nuova energia al vecchio rapporto fra specializzazione e urbanizzazione, portando a una spettacolare crescita delle città più grandi. La globalizzazione aprì nuove possibilità di utilizzare i vantaggi delle economie di scala, ma espose anche gli agglomerati industriali a una nuova concorrenza, determinandone a volte il tramonto.
La rivoluzione nella conoscenza e la crescita delle metropoli
Dagli anni Ottanta in poi l’economia della conoscenza si è sviluppata in modo esponenziale. Questo processo è stato spinto in parte da una crescita senza precedenti della ricerca di base condotta nelle università e in parte da una complementare espansione della ricerca applicata svolta nelle imprese. Il potenziale assoggettamento del mondo materiale a beneficio dell’umanità è limitato solo dalle leggi fondamentali della fisica. Siamo ancora ai primi passi di questo processo, perché padroneggiare il mondo fisico è estremamente complicato. Scoperta dopo scoperta ci stiamo avventurando in questo mondo complesso, che può gradualmente rivoluzionare la produttività. Ma l’unico modo con cui le nostre limitate capacità umane possono gestire la complessità è far sì che le persone più capaci acquisiscano un livello di specializzazione sempre più elevato. L’ultima persona che poteva seriamente pretendere di conoscere tutto è morta in qualche momento del XV secolo. Oggi, le persone più intelligenti di cui disponiamo sanno enormemente di più riguardo alla ristretta area nella quale hanno raggiunto la frontiera della conoscenza, e sono di conseguenza lontane dalla frontiera in tutte le altre aree. Questo è vero non solo per la ricerca, ma anche per specializzazioni che hanno un valore commerciale. Il diritto, ad esempio, è diventato più complesso, per cui la specializzazione in campo giuridico si è andata delineando in modo più particolareggiato. L’espansione delle università ha prodotto non solo ricerca, ma anche laureati attrezzati a padroneggiare tali competenze specialistiche.
Ma il rapporto fondamentale fra la specializzazione e i grandi centri urbani è sempre valido. Un grado estremo di specializzazione diventa produttivo se più specialisti lavorano vicini gli uni agli altri. Quindi, una maggiore specializzazione richiede più ampi raggruppamenti di specialisti fra loro complementari, e l’accesso a una platea di potenziali clienti a sua volta più vasta. A Londra, un avvocato specializzato è vicino a colleghi che hanno altre specializzazioni, a clienti che richiedono la sua specifica competenza e alle sedi dei tribunali. Se vivesse in una cittadina di provincia, quello stesso avvocato se ne starebbe con le mani in mano per gran parte dell’anno.
Questa agglomerazione di specialismi dipende dal fatto che la metropoli offre un’eccellente connettività. Londra e i suoi dintorni contengono entrambi i principali aeroporti internazionali della Gran Bretagna; la capitale dispone dei collegamenti ferroviari su cui viaggiano i treni ad alta velocità Eurostar, che portano a Parigi e a Bruxelles; è lo snodo di tutte le principali linee ferroviarie britanniche e della maggior parte delle autostrade. Ha la metropolitana: nel centro di Londra, il lavoratore medio si può connettere con altri due milioni e mezzo di lavoratori in un tempo di quarantacinque minuti. Londra è anche la sede del governo, per cui ogni attività che dipende dalla vicinanza ai luoghi della politica trova in città la sua migliore collocazione.
La rimozione delle barriere nel campo del commercio internazionale ha preparato il terreno per la concentrazione di persone altamente specializzate, estendendo il potenziale mercato dalle dimensioni nazionali a quelle globali. Il principale mercato per i servizi concentrati a Londra era tradizionalmente la Gran Bretagna; ora è il mondo. Oggi dunque il mercato sostiene gli avvocati che sono ancor più specializzati, e la loro qualificazione e la loro produttività sono proporzionalmente migliorate. Di conseguenza, hanno dei guadagni spettacolari.
A sua volta, la presenza di una consistente quota di persone a reddito molto elevato genera un mercato dei servizi dedicati allo svago. La vicinanza conta: ristoranti, teatri, negozi si affollano per soddisfare ogni frangia della popolazione che disponga di molti soldi ma di poco tempo. E questa concentrazione del lusso attrae un ulteriore flusso: i ricchi globali. In città come Londra, New York e Parigi ci sono miliardari che accumulano le loro fortune altrove ma ai quali piace spenderle lì.
Et voilà: le metropoli in piena crescita!
La rivoluzione della globalizzazione e la fine delle città di provincia
Questa descrizione non si applica a ciò che è avvenuto a Sheffield, o a Detroit, o a Lille. Ricordo un visitatore di Sheffield, nel 1960, che esclamò: «Mio Dio, questa è una città florida!». Nel 1990 nessuno lo avrebbe più detto.
Le imprese vincenti concentrate in uno stesso luogo, come a Sheffield negli anni Sessanta, avevano un grande vantaggio sui nuovi concorrenti, ma non erano invulnerabili. Sheffield non aveva alcun vantaggio di ordine naturale nella produzione dell’acciaio. Il fattore che aveva indotto le aziende a concentrarsi in città era stato la presenza di rapidi corsi d’acqua per azionare le mole: nel XX secolo il suo unico vantaggio era che le aziende e i lavoratori specializzati si trovavano già sul posto. Ogni azienda vi rimase perché c’erano le altre. La forza lavoro aveva un’elevata produttività, ma ciò si rifletteva sui salari, per cui le aziende non facevano grandissimi profitti.
Dall’altra parte del mondo, un’economia di mercato emergente, quella della Corea del Sud, stava costruendo una nuova industria dell’acciaio. Nel creare questa concentrazione, sfruttò un diverso vantaggio: il costo del lavoro molto più basso. Nel 1980 era diventato leggermente più redditizio fabbricare acciaio in Corea del Sud che a Sheffield, per cui le acciaierie coreane cominciarono ad essere più concorrenziali di quelle di Sheffield sui mercati mondiali. L’industria dell’acciaio della città inglese cominciò a contrarsi, quella coreana ad espandersi. Col ridursi della concentrazione delle fabbriche a Sheffield, diminuirono anche gli introiti di molte aziende interdipendenti ad esse vicine (le cosiddette «economie di agglomerazione»). Il risultato fu che i costi aumentarono. Con l’espandersi degli agglomerati coreani, i loro costi invece si abbassarono. La conseguenza fu esplosiva: l’industria dell’acciaio di Sheffield, le cui lontane origini erano state descritte per la prima volta nei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, crollò con una rapidità sconcertante. I lavoratori specializzati, essi stessi figli di operai qualificati, si ritrovarono disoccupati e senza prospettive di poter riottenere un impiego qualificato. La tragedia umana di questo shock congiunto fu abbastanza degna di nota da venire immortalata in un film, The Full Monty, il cui toccante e autoironico humour sullo sfondo del disastro coglie acutamente quello che successe. Trattandosi della mia città, vivo con amarezza questa vicenda, che è la stessa di molti altri centri urbani un tempo fiorenti, come Stoke, dove il distretto di industrie ceramiche il cui pioniere era stato Josiah Wedgwood venne spazzato via. Questi e tutti gli altri esempi possibili sono niente al confronto di quello che è avvenuto a Detroit a partire dagli anni Ottanta.
Queste città potranno riprendersi? Gli ideologi della destra credono che, se non ci sono interferenze governative, saranno le forze del mercato a occuparsi del problema. Purtroppo, è solo una credenza ideologica. Per affrontare realmente la questione, occorrono degli esperti.
È vero che il mercato reagisce al crollo di un distretto, ma non lo fa sostituendolo con uno nuovo. La risposta iniziale consiste anzi in un netto calo dei prezzi delle proprietà residenziali e commerciali. I proprietari di case restano intrappolati in un meccanismo che rende l’ammontare del loro mutuo superiore al valore dell’immobile, e tentano di trasferirsi nelle grandi città in crescita, dove i prezzi delle abitazioni sono molto più alti. La caduta dei prezzi delle proprietà commerciali attrae infatti alcune attività, che però sono quelle che formano il ventre molle dell’economia nazionale: magazzini che servono una clientela regionale, manifatture a bassa produttività che possono sopravvivere solo se il prezzo degli edifici che utilizzano è molto basso, call center che si affidano al basso prezzo degli immobili e a una manodopera occasionale e a basso salario. Via via che il centro urbano si riempie di attività del genere, i prezzi degli immobili e i salari recuperano parzialmente, ma la città è caduta in un cul de sac. Si tratta di attività poco specializzate, e di conseguenza la forza lavoro non partecipa più al processo di continua crescita della produttività generato da un’elevata specializzazione1. Le imprese più avanzate della metropoli rimangono sulla frontiera tecnologica avanzata, e quindi la popolazione metropolitana beneficia di redditi crescenti, ma né la tecnologia né i redditi affluiscono alle città depresse. Nuovi dati sugli Stati Uniti, ad esempio, mostrano che gli impieghi ad elevato livello reddituale e tecnologico si stanno sempre più concentrando negli agglomerati più vasti2. Per dirla in modo più ricercato, il tasso di diffusione della tecnologia dai primi della classe ai ritardatari è rallentato3.
Ecco – senza l’esuberanza del voilà! – le città depresse.
Come affrontare il nuovo divario
L’analisi precedente aiuta a spiegare perché, nelle economie più avanzate, le metropoli stanno proiettandosi in avanti mentre molte città di provincia hanno subito un umiliante declino. Come si può intervenire? Sono state formulate numerose «soluzioni» apparentemente familiari. Gli ideologi ne sfornano in gran quantità, sebbene conducano in un vicolo cieco fatto di un’eccessiva sicurezza.
Nell’affrontare il nuovo divario, i populisti se la cavano più facilmente di tutti. Poiché il fenomeno è nuovo, propongono di riportare le lancette dell’orologio indietro, a quando ancora non si era manifestato. La politica per imboccare questa direzione sarebbe il protezionismo, volto a invertire il corso della globalizzazione dei mercati. Prima che i miei lettori sogghignino davanti a questa proposta, occorre riconoscere che essa non appare immediatamente insulsa. Se è vero che per molte persone il passato era per certi aspetti migliore del presente, una strategia che ripristinasse l’economia di un tempo potrebbe sembrare una scelta fattibile e allo stesso tempo sicura. Quelle stesse persone hanno imparato a non fidarsi delle brillanti rassicurazioni secondo cui se accettano ulteriori cambiamenti tutto si concluderà per il meglio.
Ciò nonostante, la strategia di riportare l’orologio indietro è destinata al fallimento. La ragione fondamentale è che le economie dei mercati emergenti, come la Corea del Sud, che hanno creato le nuove concentrazioni vincenti, non hanno alcun interesse a farlo. La globalizzazione li ha messi in condizione di ottenere una riduzione della povertà senza precedenti. Se la Corea del Sud continua a dominare l’industria dell’acciaio, non esiste nessun protezionismo britannico che possa restituire a Sheffield il primato di un tempo sui mercati mondiali. Al massimo questa scelta potrebbe riconsegnarle il mercato britannico dell’acciaio, che però non sarebbe abbastanza vasto da permetterle di ritornare all’elevata produttività del passato, e nel frattempo il maggior costo dell’acciaio in Gran Bretagna penalizzerebbe tutte le industrie che lo utilizzano.
Se il protezionismo non sarebbe in grado di rimettere in piedi la Sheffield di un tempo, una serie di politiche restrittive avrebbe la potenzialità di invertire l’andamento ascendente della prosperità di Londra. Come il comparto dell’acciaio di Sheffield si dimostrò vulnerabile al sorgere di nuovi centri produttivi, così anche la concentrazione delle attività finanziarie a Londra potrebbe essere spazzata via. L’ostentata prosperità della capitale è un affronto ai coraggiosi sforzi dell’Inghilterra di provincia, per cui la sua demolizione sarebbe un evento salutato con gioia in qualche zona del paese. Ma anche questa sarebbe ovviamente una strategia stupida. Una metropoli come Londra è ancor meglio di un giacimento petrolifero: non bisogna mai esaurirlo. Per quanto questa gallina dalle uova d’oro possa essere irritante, esistono strategie migliori di quella consistente nel tirarle il collo. Purtroppo, mentre scrivo, la Gran Bretagna si avvia a fare proprio questo, con la strategia della Brexit, una conseguenza della quale potrebbe essere lo spostamento del settore finanziario in altre grandi città europee.
Perché invece non raccogliere le uova? In altre parole, perché non usare i proventi ricavati dalla tassazione della metropoli per risuscitare le città di provincia?
Di fronte a questa proposta, tutti gli ideologi comincerebbero ad agitarsi. La destra pontificherebbe sugli effetti disincentivanti di una tassazione elevata, borbottando fra sé e sé contro la trasformazione delle province in una gigantesca «Benefit Street»A piena di scrocconi: «incatenata a un cadavere». La sinistra potrebbe voler strafare nel suo entusiasmo di spennare la City, innescando involontariamente un esodo di imprese allarmate che sgretolerebbe le economie di agglomerazione.
Entrambe hanno dalla propria parte abbastanza verità per convincere i propri aderenti, ma non in misura sufficiente per avere ragione. La verità percepita dalla destra è che trasformare le città di provincia in una «Benefit Street» non può essere l’obiettivo. Il benessere dipende dalla dignità e dall’esistenza di uno scopo, non solo da quanto ci si può permettere di consumare. Una strategia che punti a sostenere impieghi non remunerativi con sussidi pubblici non può sostituirne una orientata a creare posti di lavoro che richiedono capacità tali da infondere orgoglio a un lavoratore capace di acquisirle. L’obiettivo è quindi quello di creare occupazione produttiva, non di integrare con denaro pubblico redditi derivanti da lavori improduttivi. La verità percepita dalla sinistra è che l’ostentata ricchezza di coloro che sfruttano gli specialismi altamente retribuiti della metropoli è offensiva dal punto di vista etico. Queste persone pensano di guadagnarsi i loro redditi: ora mostrerò che non è così.
La strategia che propongo si suddivide naturalmente in due metà: tassare le metropoli e far rinascere le città di provincia. Ognuna delle due metà deriva da una specifica analisi.
Le tasse e le metropoli: «ce lo siamo guadagnato»?
La politica fiscale dovrebbe essere guidata da criteri etici e di efficienza. L’etica è importante sia per il suo valore intrinseco, sia perché una tassazione priva di valore etico susciterà resistenze ed evasione fiscale. L’efficienza è a sua volta importante, perché le tasse alterano il rapporto fra i prezzi; il prezzo che un consumatore paga per un prodotto, ad esempio, diventa più alto rispetto a quanto va al produttore. Questi cunei fiscali distorcono l’allocazione delle risorse e quindi finiscono col ridurre l’efficienza.
Quello che le ideologie di destra e di sinistra pensano di sapere sulla tassazione ha polarizzato e avvelenato la nostra politica. Una certa dose di pragmatismo ha un effetto liberatorio: nuove tasse ben concepite possono rivelarsi migliori in termini sia etici sia di efficienza.
Per elaborare un programma fiscale, la giustificazione etica che sta alla base di un’imposta è probabilmente più importante dell’efficienza. Per il fisco è cruciale l’adempimento volontario degli obblighi fiscali da parte di chi è soggetto all’imposizione. Il metodo filosofico comunemente adottato per analizzare le proposizioni etiche è il ragionamento pratico. Nonostante la sua centralità per la politica fiscale, tale approccio non è entrato a far parte della metodologia economica convenzionale. Di conseguenza, gli economisti hanno in gran parte ignorato gli aspetti etici della tassazione. Quando fanno da consulenti per i ministeri delle Finanze, spesso propongono imposte che infrangono promesse da loro ritenute (probabilmente a ragione) stupide. Di fatto, gli economisti sembrano pensare di aver affrontato le questioni etiche semplicemente prendendo in considerazione le disuguaglianze di reddito, che analizzano mediante il calcolo utilitarista standardB. Come ha verificato Jonathan Haidt, per la maggior parte delle persone equità significa proporzionalità e merito, più che uguaglianza. Tuttavia, questa opinione è stata ignorata4. Scordiamoci il merito: se gli oziosi hanno meno soldi di chi lavora duramente, un trasferimento aumenta l’«utilità». Scordiamoci i diritti: se chi ha acquisito il diritto alla pensione con i propri contributi va in pensione con più soldi di un altro che ha passato la vita su una spiaggia, un trasferimento aumenta l’«utilità». Scordiamoci l’obbligazione: ora il quadro risulta chiaro. Gli economisti utilitaristi forse ci avvertirebbero che alcuni trasferimenti potrebbero avere effetti disincentivanti e quindi risultare inefficaci, ma non li riconoscerebbero come moralmente inaccettabili. Questa cecità nei confronti di considerazioni etiche più generali esemplifica un fenomeno più ampio: queste persone sono WEIRD.
Una volta stabilito che le questioni legate al merito dovrebbero occupare un posto di primo piano nei programmi fiscali, ciò ha profonde implicazioni per i vantaggi derivanti dall’agglomerazione. Il primo a individuare questo fenomeno fu Henry George, un giornalista americano e studioso di politica economica dell’Ottocento. Una volta che l’ebbe spiegata, la sua idea fece scalpore.
La grande idea di Henry George
George addusse motivazioni etiche per la specifica tassazione dei guadagni conseguenti all’agglomerazione. Comprese che essi erano connessi a una specifica problematica etica e concluse che la politica adeguata consisteva nel tassare la rivalutazione del suolo urbano.
È possibile comprendere la sua intuizione formulando una serie di domande. Per cominciare: «Chi viene avvantaggiato dall’agglomerazione?». Se ci riflettiamo, abbiamo a che fare con una versione stilizzata della rivoluzione industriale. All’inizio, tutti sono agricoltori. L’industria comincia a svilupparsi in una nuova città, e la gente vi si trasferisce per lavorare nelle fabbriche. Col crescere dell’agglomerato industriale, le persone diventano più produttive di quanto non lo fossero nelle attività agricole: questo aumento di produttività si riflette sui salari, perché le aziende sono in competizione fra loro per reclutare gli operai. Per poter lavorare nelle fabbriche, però, la gente deve viverci vicino, e quindi andrà ad abitare in affitto da chi possiede i terreni su cui la città si sta formando. Il vantaggio del trasferimento in città consiste dunque nel maggiore salario meno questo affittoC. Finché l’affitto è inferiore alla differenze di produttività fra il lavoro agricolo e quello industriale, un numero crescente di persone si trasferirà in città. Ma ciò determinerà un aumento del prezzo degli affitti. Questo processo va avanti finché gli affitti salgono a tal punto da annullare interamente la differenza di produttività. A questo punto, viene meno l’incentivo a spostarsi; nel gergo economico, abbiamo raggiunto il punto di equilibrio. Ma quel che più interessa è che abbiamo raggiunto un’importante conclusione che risponde alla nostra domanda: tutti i vantaggi derivanti dall’agglomerazione si accumulano sotto forma di affitti nelle mani dei proprietari di case. Posso rassicurare coloro che si collocano sulla destra dello spettro politico, e magari cominciano un po’ a preoccuparsi, che questo non è marxismo: George non era un socialista. Ma era un economista intelligente: molti anni dopo la sua morte, due economisti dimostrarono con un teorema le sue conclusioni, ed ebbero il buon gusto di denominarlo «Teorema di Henry George»5.
Lo stesso George formulò anche un’altra domanda, che suonerebbe assai strana nel contesto di uno schema economico convenzionale: «I proprietari di case meritano di ottenere questi vantaggi?». Sebbene per gli economisti si tratti di un interrogativo incomprensibile, chiunque altro lo capirebbe perfettamente. Per rispondervi non occorrono teoremi: quel che serve è un ragionamento pratico. Per capire se qualcuno merita un reddito risaliamo all’indietro per trovare quale delle sue azioni ha generato il reddito che ha ottenuto. Se però cerchiamo i vantaggi derivanti dall’agglomerazione, le azioni da cui essi derivano sono state compiute da tutti quelli che lavorano in città, perché la loro attività ha contribuito all’aumento complessivo della produttività. I vantaggi connessi all’agglomerazione sono generati da interazioni fra masse di persone, e sono quindi un risultato acquisito collettivamente che beneficia tutti. È quello che gli economisti chiamano un bene pubblico. Ebbene, che parte hanno avuto i proprietari di case in questo processo? Se consideriamo il loro ruolo, avrebbero potuto benissimo starsene seduti in poltrona. E forse è proprio così che hanno passato il tempo. Hanno ottenuto un reddito poiché erano i proprietari dei fondi nei quali la gente si è concentrata. La loro attività non ha avuto alcun ruolo nel generare i vantaggi dell’agglomerazione. Nello strano vocabolario degli economisti, questo guadagno viene definito «rendita economica» o «rendita differenziale» (economic rent).
Il punto importante è che, in base a ragionevoli standard etici, un proprietario di case che si limiti a riscuotere il guadagno dovuto alla rivalutazione dei suoi fondi è meno meritevole che se avesse lavorato per ottenerlo o se in esso si riflettesse il frutto di capitali accumulati grazie al risparmio. Con questo non si vuole dire che non ne abbia diritto alcuno. In quanto legittimo proprietario dei fondi ha diritto a beneficiare dei vantaggi dell’agglomerazione basati su questa titolarità. Ma ciò contrasta con il diritto collettivo di tutti i lavoratori della città ad acquisire quei vantaggi, che si basa sul merito. Laddove si verifica un tale scontro di criteri ragionevoli, il pragmatismo ci invita, più che ad arroccarci su una posizione dogmatica, ad adottare un compromesso. Ed è qui che entra in gioco la tassazione. Supponiamo che la società nel suo complesso concordi sull’effettuazione di un prelievo fiscale sui redditi per i quali il merito e la titolarità coincidono: l’agricoltore genera un prodotto che merita sia per il suo lavoro sia perché egli è il proprietario del luogo in cui esso è generato. Supponiamo quindi che l’aliquota fiscale prevista sia del 30%. In questo caso, nel decidere il livello di un’aliquota fiscale sul reddito derivante dalla rivalutazione dei fondi, che riflette i vantaggi derivanti dall’agglomerazione, dovremmo porla ben al di sopra del 30%. Ciò terrebbe conto del fatto che il diritto del proprietario terriero a quel reddito è significativamente minore del diritto dell’agricoltore al reddito che ha personalmente prodotto. Inoltre, è solo tassando i vantaggi derivanti dall’agglomerazione, e utilizzando tale gettito per beneficare l’intera popolazione cittadina, che la manodopera che ha generato quei vantaggi può riceverne una parte – quella che, in base al ragionamento precedente, essa merita.
L’idea di Henry George rappresentò un primo esempio di ragionamento pratico basato sulla distinzione in termini di merito fra la rendita e altre forme di reddito. Egli fu attento a distinguere fra la rendita generata dalla rivalutazione degli immobili e il reddito da capitale, che riteneva eticamente legittimo: la sua posizione non era né marxista né populista.
Si trattava di idee eccentriche? No, al contrario: il senso comune etico che le sosteneva ottenne riscontri positivi, e Progresso e povertà di George diventò il libro americano più venduto di tutto l’Ottocento.
Purtroppo...
Henry George sostenne con convincenti ragioni etiche l’opportunità di un pesante prelievo fiscale sulla rivalutazione delle rendite dei suoli urbani. Nonostante la buona accoglienza da parte dell’opinione pubblica, le sue teorie non vennero mai adeguatamente messe in atto. Le persone che facevano fortuna grazie alla proprietà dei terreni posti nelle zone centrali delle grandi città si opposero alla tassazione. Invece di contrapporre argomentazioni etiche, fecero ricorso a parte della ricchezza che accumulavano rapidamente per acquisire influenza politica. In Gran Bretagna, il proprietario di gran parte del centro di Londra, il duca di Westminster, sedeva comodamente alla Camera dei Lord: divenne l’uomo più ricco del paese. Negli Stati Uniti, un uomo la cui attività principale erano le transazioni immobiliari a New York è oggi il presidente del paese.
Non è mai troppo tardi per introdurre una tassa del genere. L’elettorato è molto più istruito di quanto non fosse ai tempi di Henry George, e dovrebbe quindi essere più facile mettere insieme una coalizione in grado di superare la resistenza degli interessi costituiti. Inoltre, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si è avuta una prorompente crescita delle metropoli, che riflette il grande aumento dei vantaggi connessi all’agglomerazione. Ricordiamoci che ciò deriva dal notevole incremento della complessità e dal concomitante approfondimento delle diversità dovute alla specializzazione. Rispetto all’epoca di Henry George, oggi sarebbe quindi possibile tassare una quota molto maggiore dei guadagni derivanti dall’agglomerazione, ed è ormai sempre più ridicolo che le politiche pubbliche non abbiano fatto nulla in tal senso. Siamo invece rimasti bloccati nell’impasse delle vecchie discussioni ideologiche sul fisco.
Ma il «purtroppo» che dà il titolo a questo paragrafo non è un modo per lamentarsi delle attuali deficienze delle politiche pubbliche. Deriva dalla presa d’atto che proprio quell’aumento di complessità che ha alimentato i nuovi vantaggi dell’agglomerazione nei contesti metropolitani ha al tempo stesso invalidato il Teorema di Henry George, la cui idea di intercettare quei guadagni mediante l’imposta fondiaria non è più corretta. Gli argomenti a favore di una tassazione di quei guadagni sono ancora molto solidi, ma per procedere in tal senso occorre un’intelligente riprogrammazione della struttura delle imposte. L’analisi alla base delle ultime considerazioni che ho esposto è nuova: io e il mio collega Tony Venables ci siamo imbattuti in essa lavorando su un tema che apparentemente non vi è connesso (sono scoperte che avvengono sorprendentemente spesso durante una ricerca)6. Vorrei tentare a trasmettere l’entusiasmo che si prova quando si fa una nuova scoperta. Le idee fondamentali possono essere presentate semplicemente: è così di fatto che ce le siamo trovate davanti. Possiamo arrivare ai confini del pensiero economico su questo tema anche solo immaginando un paio di semplici scenari.
► Scenario 1. Una metropoli in cui i lavoratori hanno specializzazioni e bisogni abitativi diversi Si tratta di una variante della storia che abbiamo richiamato, quella dei contadini che diventano operai; solo che stavolta si tratta di persone con diverse specializzazioni e diverse necessità abitative, ognuna delle quali decide se trasferirsi o meno in una metropoli. L’elevato grado di connettività reso possibile dal contesto metropolitano rende più produttive le competenze specialistiche: maggiore è la nostra specializzazione, maggiore è l’aumento di produttività che può derivare dal fatto di risiedere nella metropoli. Ma con il trasferimento delle persone nell’area metropolitana, il costo delle abitazioni, come prima, aumenta. Vediamo quindi chi si trasferisce e chi rimane. È chiaro che le persone che più si avvantaggiano dal trasferimento sono i single in possesso di un grado molto elevato di specializzazione. Così, l’avvocato specializzato nel diritto d’impresa che ha un lungo orario d’ufficio e passa le serate libere in città prima di rientrare nel suo monolocale ha una produttività estremamente più elevata di quella che avrebbe lavorando in una cittadina, e non spenderà per l’affitto una percentuale consistente dello spettacolare reddito che così ottiene. Spesso nelle analisi economiche è utile individuare le persone per le quali una scelta fra due opzioni risulta indifferente; in questo caso la scelta è quella fra trasferirsi in una metropoli e rimanere in una cittadina di provincia. Sappiamo che per queste persone il vantaggio in termini di produttività sarebbe esattamente controbilanciato dall’aumento dell’affitto che dovrebbero pagare. Ma chi sono queste persone? Alcune avranno un livello di specializzazione non elevato: vivono da sole, e per loro sarebbe sufficiente un monolocale, ma nella metropoli il loro reddito non sarà molto più alto rispetto a quello che possono ottenere in una città piccola. Altre possono essere altamente specializzate, ma poiché hanno una famiglia numerosa necessitano di una casa molto grande, per cui l’affitto annullerà il maggior guadagno che possono ottenere. Queste categorie di persone sono importanti per la nostra analisi (nel gergo economico sono definite marginali), perché sono solo ipoteticamente disponibili a vivere nella metropoli; se i proprietari dovessero esigere un affitto più alto, loro se ne andrebbero e le case resterebbero senza inquilini. Sono quindi in definitiva queste persone «marginali» a determinare il livello degli affitti che i proprietari possono imporre. L’avvocato specializzato in diritto d’impresa pagherà per il suo monolocale lo stesso affitto del single semispecializzato che abita accanto a lui. Siamo arrivati alla fine della storia: l’avvocato specializzato è dunque riuscito a intercettare una parte dei guadagni connessi all’agglomerazione.
Generalizzando, possiamo dire che, a causa delle differenze in termini di specializzazione e di bisogni abitativi, gran parte dei guadagni derivanti dall’agglomerazione non affluiscono più ai proprietari fondiari, ma restano ai single altamente specializzati che non hanno bisogno di un alloggio di grandi dimensioni. Quando assieme a Tony Venables abbiamo simulato quel che potrebbe accadere in una metropoli come Londra o New York, abbiamo trovato che circa la metà di tutti i guadagni derivanti dall’agglomerazione affluiscono a queste persone, e non ai proprietari delle case. Se prendiamo in considerazione un altro livello di differenze, stavolta fra città piccole, la quota di guadagni intercettata dai proprietari delle case diminuisce ulteriormente. L’implicazione fondamentale di questo meccanismo è che, per quanto pesantemente un governo possa tassare i proprietari, non può comunque intercettare la quota maggiore dei guadagni generati dall’agglomerazione.
È una cattiva notizia, perché la motivazione etica a sostegno della tassazione rimane forte. Per rendercene conto, vediamo il secondo scenario.
► Scenario 2. Una metropoli che ha bisogno del rispetto dello Stato di diritto Questo scenario è un po’ più realistico, e porta a una conclusione più solida. Abbiamo due prodotti – cibo e servizi – e molti paesi. Il cibo può essere prodotto ovunque, ma i servizi possono produrli solo i paesi nei quali vige lo Stato di diritto. Possiamo pensare a questo come a un indicatore di molti altri aspetti di una buona amministrazione. A sua volta, lo Stato di diritto dipende da come i cittadini comuni cooperano e lavorano insieme per sostenerlo. Se ogni cittadino se ne sta semplicemente a sedere e lascia fare agli altri, vale a dire, se ognuno tenta di avvantaggiarsi senza far niente, il bene pubblico dello Stato di diritto non sussiste. In presenza di uno scenario del genere, nella maggior parte delle società le persone si avvantaggiano senza dare il loro contributo, e il rispetto del principio di legalità è raro. Di conseguenza, solo le poche società nelle quali esso è rispettato sono in grado di produrre servizi; nelle restanti, tutti producono solo cibo.
I vantaggi dovuti all’agglomerazione si applicano alla produzione dei servizi, e non del cibo, per cui nelle poche società in cui vige lo Stato di diritto ci sarà una metropoli nella quale verranno prodotti i servizi. Poiché i paesi in grado di produrre servizi non sono molti, i restanti venderanno il surplus di cibo al miglior prezzo sui mercati mondiali, e di conseguenza i paesi esportatori di servizi diventeranno più ricchi dei paesi esportatori di cibo.
Passiamo ora ad analizzare quali siano, nei paesi esportatori di servizi, i soggetti che si avvantaggiano di questa prosperità. Supponiamo che in tutti i paesi esistano due tipi di lavoratori: quelli che sono eccezionalmente intelligenti e tutti gli altri. Supponiamo inoltre che la particolare dote dei primi non sia di aiuto nell’agricoltura, mentre è potenzialmente un vantaggio nel settore della produzione di servizi, anche se dipende da quante persone intelligenti sono raggruppate nel medesimo posto: un lavoratore dei servizi intelligente ma isolato non ha maggiore produttività di un agricoltore, ma più sono le persone intelligenti raggruppate insieme nella metropoli, più aumenta la produttività di ognuna di loro. Aggiungiamo poi la solita storia degli affitti: più aumenta la concentrazione di persone intelligenti nella metropoli, più gli affitti aumentano.
Chiediamoci infine chi incamera i guadagni dell’agglomerazione, e se li meriti o meno. Come nello scenario precedente, questi vengono suddivisi fra i lavoratori che vivono nella metropoli e i proprietari di case. Potremmo anche specificare in che misura, ma ora questo non è importante. La conclusione della storia ci dice che in questo scenario solo un gruppo merita chiaramente di ottenerli, perché è l’unico responsabile delle azioni che sono state essenziali per generare i guadagni stessi: sto parlando dei cittadini normali, presenti diffusamente nella società, i quali collettivamente mantengono lo Stato di diritto. Essi però non ricevono nessun guadagno dal processo. Alcuni dei guadagni affluiscono ai lavoratori intelligenti del settore dei servizi, mentre il resto va a beneficare i proprietari di case. Poiché il gruppo che ha un indiscutibile diritto etico a condividere i guadagni non ottiene niente, qui troviamo un forte motivo per sostenere l’adeguatezza della tassazione. Ma come nel precedente scenario, le sole imposte fondiarie non intercetterebbero i guadagni che finiscono nelle mani della forza lavoro metropolitana intelligente.
Questi due scenari hanno in comune un elemento significativo, vale a dire che i lavoratori intelligenti i quali acquisiscono i guadagni derivanti dall’agglomerazione credono sinceramente di meritarseli. Questa convinzione riposa sul fatto che i loro redditi sono elevati poiché elevata è la loro produttività. A sua volta, essi credono di avere un’elevata produttività poiché hanno sviluppato un livello di specializzazione molto alto (Scenario 1) o poiché sono insolitamente intelligenti (Scenario 2). E queste proposizioni hanno effettivamente un certo grado di verità: se si considera quanto risultino utili a queste categorie di persone, è comprensibile che loro ci credano. Ma non dicono tutta la verità. La produttività della metropoli dipende dai beni pubblici che sono stati forniti dall’intera nazione, come lo Stato di diritto e gli investimenti avvenuti in passato nelle infrastrutture al fine di aumentare la connettività. Ciò ha arrecato benefici un po’ a tutti, ma in modo sproporzionato ai lavoratori specializzati delle metropoli. E soprattutto, i vantaggi dell’agglomerazione sono, per loro stessa natura, prodotti collettivamente, costituiscono il risultato delle interazioni fra milioni di lavoratori, e non solo degli sforzi individuali di ogni lavoratore ben retribuito. Le persone superspecializzate meritano di trattenere una quota della loro elevata produttività, ma non certo tutta. Né meritano di trattenerne una quota pari a coloro che non vivono nella metropoli e la cui produttività non è quindi così aumentata dagli altri.
La motivazione dell’efficienza per sostenere la tassazione dei guadagni derivanti dall’agglomerazione
Fin qui, ho preso in considerazione solo l’etica della tassazione dei guadagni derivanti dall’agglomerazione. C’è però un altro aspetto dell’imposizione fiscale che eccita gli economisti: l’efficienza. Il loro entusiasmo è comprensibile, e sulla tassazione dei guadagni connessi all’agglomerazione la scienza economica è in grado di offrire alcune pregevoli idee.
Quella principale è il concetto di rendita economica o rendita differenziale. Si tratta di qualsiasi pagamento che affluisce a un soggetto per aver fatto qualcosa che eccede il valore di ciò che lo avrebbe indotto a fare quella stessa cosa. Rispetto al nostro precedente criterio etico, il concetto è irrilevante. Una campionessa di tennis sarebbe disposta a giocare per una somma minore del premio in denaro che le spetta per aver vinto il torneo, ma non è certo delegittimata a riscuoterlo. La campionessa, infatti, ottiene una rendita economica grazie al proprio eccezionale talento, ma poiché il talento è il suo, suo è anche il reddito che frutta. Ma quando passiamo dall’etica all’efficienza, il concetto della rendita economica diventa davvero utile. Per definizione, tassare la rendita non influisce sulla decisione di lavorare, per cui i proventi non vengono incamerati a detrimento dell’efficienza. I guadagni derivanti dall’agglomerazione sono rendite economiche: in base al criterio dell’efficienza, sono l’elemento ideale da tassare.
Nel semplice scenario in cui tutti i guadagni derivanti dall’agglomerazione vanno a finire nelle mani dei proprietari di case, è evidente che tassandoli non modificheremmo il loro comportamento in modo tale da rallentare lo sviluppo della città. Ricordiamoci che li abbiamo lasciati seduti in poltrona: una volta che li tassassimo potrebbero aver bisogno di lavorare come tutti noi. Ma perfino negli altri scenari, la tassazione delle rendite risulta efficace. L’avvocato specializzato in diritto d’impresa che vive nel suo monolocale perderà una parte dell’eccedenza del suo spettacolare reddito sulla spesa per l’affitto, ma finché gli consentiremo condizioni economiche migliori che in una cittadina, continuerà a lavorare nella metropoli. Analogamente, nel nostro secondo scenario, possiamo tassare i lavoratori intelligenti che nella metropoli producono servizi senza modificare il loro comportamento, finché li lasceremo in condizioni economiche migliori di quelle che avrebbero facendo gli agricoltori.
In termini di efficienza fiscale, trovare rendite economiche equivale a trovare il Sacro Graal: entrate prive di danni collaterali. Se ciò vi sembra troppo bello per essere vero, tenetevi forti: c’è qualcosa di ancora meglio. Per questo ci serve un altro pratico concetto economico: la ricerca della rendita (rent-seeking).
La ricerca della rendita è una minaccia. Eccone un esempio. Supponiamo che un parlamento approvi una legge che concede un monopolio a un gruppo di produttori. Per quale motivo fa una cosa del genere? Perché i legislatori sono stati oggetto di pressioni da parte di gruppi di interesse e convinti ad adottare il provvedimento mediante ricompense. La regolamentazione genera rendite; la lobby che ha esercitato le pressioni era alla ricerca di rendite. L’eminente economista Anne Krueger ha mostrato che l’azione delle lobby, e altre attività volte alla ricerca di rendite, si intensificheranno fino al punto in cui un dollaro in più speso a tale titolo produce un dollaro in più di rendita. Le risorse dedicate alla ricerca delle rendite sono uno spreco totale.
I guadagni generati dall’agglomerazione sono rendite; dunque attraggono la ricerca di rendite? Gli economisti non hanno mai formulato questa domanda, e ciò si spiega per una semplice ragione. Se il Teorema di Henry George è esatto e i guadagni finiscono nelle mani dei soli proprietari di case, allora non c’è motivo per andare in cerca di rendite. La terra è una quantità fissa, non soggetta a variare in seguito ad azioni lobbistiche o di altro tipo. Ma il Teorema è sbagliato. In una metropoli, la maggior parte dei guadagni derivanti dall’agglomerazione vanno a beneficio delle persone con elevata specializzazione e scarse esigenze abitative. Improvvisamente, si aprono molte opportunità per trovare una rendita. Ci si fa largo per ottenere impieghi facendo pressioni su parenti che hanno buoni contatti; si pagano insegnanti per quel surplus di istruzione che conferisce maggiori credenziali; ci si presenta a centinaia di colloqui di lavoro. Oppure si ridimensionano le proprie esigenze abitative, rinviando il momento del matrimonio o la nascita dei figli. Ognuna di queste è una forma di ricerca della rendita. Il comportamento dei soggetti interessati si distorce quindi nella competizione per assicurarsi le proficue rendite consentite dall’agglomerazione. La ricerca della rendita non aumenta la dimensione complessiva della torta, infligge semplicemente una diminuzione di benessere alle persone a metà carriera che sono in competizione fra loro. Potenzialmente, queste perdite causate dalla ricerca della rendita sono enormi.
Tassando i guadagni dovuti all’agglomerazione, riduciamo la pressione dell’attività di ricerca della rendita. Varrebbe ancora la pena ottenere quel determinato impiego nella metropoli, ma poiché il reddito che frutterebbe diminuisce, è meno probabile che le persone giungano ad adottare misure estreme per riuscirvi. Ritardare la nascita di un figlio per poter restare in un costoso appartamento a Londra o a New York diventa un sacrificio eccessivo. Le rendite economiche derivanti dall’agglomerazione nelle nostre fiorenti metropoli stanno attualmente andando alle stelle. Non solo la competizione per ottenerle sta probabilmente infliggendo un danno a chi vi è coinvolto, ma il suo stesso slancio può rendere cieche le persone di fronte al danno irreversibile che possono arrecare alle proprie vite.
Facciamo il punto: come si possono tassare i guadagni derivanti dall’agglomerazione?
Come idea generale, la tassazione delle rendite economiche viene oggi ritenuta saggia. Il suo più recente e autorevole sostenitore è Robert Solow, premio Nobel e fondatore della teoria della crescita economica, il quale ha affermato che le rendite economiche sono aumentate e che la tassazione dovrebbe essere spostata su di esse, alleggerendo il peso che grava sul reddito generato da altre attività. Forte di questa rassicurazione, metterò insieme due blocchi di argomenti. La tassazione dei guadagni derivanti dall’agglomerazione è una politica intelligente in base sia all’etica sia all’efficienza. Sono tutti e due criteri importanti, ed esistono poche altre imposte in grado di soddisfarli entrambi.
In termini etici, l’argomentazione a sostegno della tassazione dei guadagni connessi all’agglomerazione metropolitana è insolitamente solida. In genere, con un’imposta possiamo nel migliore dei casi sperare che il suo carico sia equamente ripartito, ma in questo caso, tassare le rendite è necessario per un migliore allineamento dei guadagni col merito. Analogamente, in termini di efficienza, di solito il meglio a cui possiamo aspirare è che un’imposta provochi pochi danni collaterali. Sono abbastanza poche le imposte che riescono a soddisfare anche solo questa modesta condizione, ma la tassazione dei guadagni derivanti dall’agglomerazione può perfino aumentare l’efficienza, limitando l’attività di ricerca della rendita.
La questione in tal senso rilevante è come fare, in termini pratici, a tassare questi guadagni. Ricordiamoci che essi sono ripartiti fra i proprietari immobiliari e i lavoratori specializzati delle grandi città. Intercettare questi guadagni mediante le imposte richiede quindi una tassazione di queste due categorie applicando aliquote differenziate.
Un punto di partenza ragionevole consiste nell’intercettare l’apprezzamento dei valori del suolo e della proprietà. Ciò può essere fatto nel modo migliore stabilendo un’imposta annuale calcolata in percentuale sui rispettivi valori di questi beniD. I proventi di tali imposte dovrebbero andare a beneficio dell’intera nazione: sarebbero necessari per redistribuire la ricchezza ad altre città che sono state colpite duramente da quelle stesse forze che hanno avvantaggiato la metropoli. Attualmente, invece di essere tassato in modo più pesante di altre fonti di reddito, l’aumento di valore dei fondi metropolitani è soggetto a un minore prelievo fiscale. In molti paesi, fra i quali la Gran Bretagna, non è tassato quasi per niente. Siamo di fronte a un colossale errore di strutturazione del sistema fiscale. I politici del XIX secolo si angosciavano per i «poveri non meritevoli». Quelli del XXI secolo dovrebbero fare altrettanto per il lascito della nostra negligenza politica: oggi abbiamo molte migliaia di «ricchi non meritevoli». Purtroppo, non pochi di loro sono entrati in politica. La destra vuole proteggere i ricchi; la sinistra li vuole distruggere. Ma è un gruppo all’interno del quale bisogna distinguere. Alcuni sono estremamente utili alla società, altri hanno semplicemente intascato i frutti dello sforzo collettivo.
Ma l’elemento cruciale della nostra analisi è che gran parte delle rendite non finisce nelle mani dei proprietari immobiliari, ma in quelle dei lavoratori metropolitani specializzati. Intercettare queste rendite richiede un’innovazione fiscale: le aliquote vanno differenziate non solo in relazione all’entità del reddito, come oggi, ma anche in base alla combinazione fra alto reddito e collocazione metropolitana.
I lavoratori delle metropoli provvisti solo di modeste competenze non percepiscono rendite derivanti dall’agglomerazione. La grande maggioranza di chi ha modesti livelli di specializzazione lavora nelle province, per cui il salario di un lavoratore londinese poco qualificato che la mattina prepara il caffè per l’avvocato viene determinato in provincia, fatto salvo il calcolo della somma aggiuntiva occorrente a coprire la differenza fra l’affitto di un monolocale a Londra e di una sistemazione equivalente in provincia. L’aliquota base che viene imposta a livello nazionale sui contribuenti con redditi modesti è quindi appropriata anche per i lavoratori della metropoli. Ma l’avvocato specializzato ad alto reddito che vive nel monolocale metropolitano intercetta rendite derivanti dall’agglomerazione che dovrebbero essere condivise con altri. Dovrebbe quindi pagare un’aliquota maggiore rispetto a quella che pagherebbe se lavorasse in provincia, dove non intercetterebbe le rendite. Non è un ragionamento bizzarro: se lavorasse a New York, pagherebbe già un’aliquota sul reddito superiore dell’8% rispetto a quella imposta sullo stesso reddito percepito in una città più piccola. E la paga per il fatto che vi lavora, anche se abita fuori dai confini urbani. Se lavora a Londra non è così, ma potrebbe esserlo. Applicando modeste aliquote fiscali sulle rendite economiche, solo poche decisioni riferite all’occupazione lavorativa verrebbero modificate, e quindi il prelievo sarebbe molto meno dannoso delle imposte attuali. La sfida, che potrebbe essere completamente risolta applicando le moderne tecniche di analisi fiscale, consisterebbe nel determinare a quanto dovrebbe corrispondere l’imposta supplementare sui redditi elevati dei lavoratori metropolitani prima che il rapporto costi-benefici sia comparabile a quello delle tasse attuali. La differenza fra quello che a New York già si fa e questa proposta riguarda solo i luoghi a cui destinare il maggior gettito. A New York, i proventi dell’imposta supplementare dell’8% vanno a beneficio della città stessa; secondo la mia proposta, affluirebbero a livello centrale nazionale, per finanziare il recupero di città come Detroit o Sheffield.
Tutto ciò significa che continuerebbe ad essere applicata su scala nazionale l’aliquota base dell’imposta, l’unica pagata dalla maggior parte delle persone. Ma ogni aliquota fiscale applicabile ai redditi più alti comprenderebbe un supplemento metropolitano che colpirebbe le rendite derivanti dall’agglomerazione ottenute dal gruppo degli specializzati. Poiché i guadagni dell’agglomerazione sono molto maggiori per chi possiede una specializzazione più elevata, i supplementi d’imposta sarebbero progressivamente più elevati nelle fasce di reddito più alte.
Poiché le amministrazioni fiscali sanno dove le persone vivono e lavorano, in termini pratici la procedura sarebbe sorprendentemente semplice: di fatto, come nell’esempio di New York, molte imposte sono già geograficamente differenziateE. L’ostacolo più probabile è da vedersi nel fatto che gli abitanti delle città hanno un’influenza politica molto maggiore degli altri, non da ultimo perché sono fortemente sovrarappresentati nei parlamenti. Nonostante l’importanza che attribuiscono alla loro autostima morale, è probabile che accolgano con un moto di presuntuosa indignazione questa proposta di applicare un’imposta eticamente giusta ed economicamente efficiente. Ricordiamoci però che, poiché stiamo tassando le rendite, i prevedibili argomenti relativi ai disincentivi e al merito sono motivati dalla volontà di salvaguardare i propri interessi: prepariamoci a una valanga di «ragionamenti motivati». La tassazione non è solo giustificata dalle analisi svolte: è una risposta adeguata alla nuova arroganza urbana.
La rigenerazione delle città di provincia: «incatenata a un cadavere»?
Come possiamo far rivivere città come Sheffield, Detroit e Stoke? Lo scopo della tassazione delle metropoli non è finanziare sussidi assistenziali a favore degli abitanti dei centri disagiati, ma poter sostenere i costi per farne di nuovo dei luoghi di aggregazione di attività produttive. Come abbiamo visto, il mercato non sostituirà un distretto industriale in rovina con uno nuovo; la città semmai si riempirà gradualmente di attività a bassa produttività. Ma per quale motivo le forze di mercato non possono generare una nuova agglomerazione, e, se i mercati non possono farlo, perché dovremmo pensare che possa riuscirci il governo?
Un distretto vitale è un’ubicazione comune di molte diverse aziende, alcune delle quali sono in competizione reciproca. Il fatto di essere concentrate nello stesso posto consente loro di avvantaggiarsi grazie a comuni economie di scala, per cui tutte beneficiano di costi più bassi. Una volta che un distretto si è formato, le forze di mercato lo mantengono: nessuna azienda vuole andar via perché sa che domani altre aziende saranno sempre lì, e non altrove. Ma formarne uno nuovo è molto più difficile. Proprio perché le imprese sono interdipendenti, una singola azienda sarà molto più incline a trasferirsi in un’altra località se si aspetta che molte altre decideranno in tal senso. Ma come può un’azienda sapere se le altre lo faranno? Se la prima prende l’iniziativa, un’altra può raggiungerla diventando la seconda dell’agglomerato in formazione, e se succedesse questo, un’altra azienda potrebbe decidere di diventare la terza. Ma non esiste un meccanismo di mercato per generare e rivelare decisioni del genere. La formazione di agglomerati deve affrontare un problema di coordinamento, e necessita quindi di un coordinatore. La Silicon Valley si organizzò attorno all’Università di Stanford; cosa potrebbe funzionare in luoghi meno favoriti?
Soluzioni del settore privato al problema del coordinamento
Il problema del coordinamento si pone perché la decisione di ogni azienda dipende da tutte le altre. In economia, questi effetti sono noti come esternalità, perché riguardano altre aziende piuttosto che quella interessata. Ma soluzioni di mercato per questa interdipendenza esistono: puntare sulle dimensioni locali, o puntare sulle grandi dimensioni.
► Pensare su scala locale... Esiste un settore dell’economia che svolge un ruolo naturale di coordinamento delle imprese: la finanza. Nella migliore delle ipotesi, il settore finanziario raccoglie informazioni sulle imprese e procede ad allocare capitali nella prospettiva di opportunità future. Una banca la cui attività fosse giuridicamente limitata a una particolare città capirebbe che il proprio futuro dipenderebbe dal successo dell’economia locale. La banca stessa internalizzerebbe gli effetti che fossero esterni a ognuna delle imprese che finanzia. Per impedire che ciò corrisponda a un suicidio, la banca dovrebbe conoscere molte cose riguardo alle opportunità e alle interdipendenze, azienda per azienda. Sarebbe quindi molto diversa dalle istituzioni finanziarie descritte nel capitolo 4. Banche del genere sono una chimera? Al contrario: prima di una modifica legislativa introdotta nel 1994, negli Stati Uniti erano la norma. In Gran Bretagna dobbiamo risalire più indietro, ma nomi come The Midland Bank e The Yorkshire Bank sono la testimonianza di un passato a livello locale, e le banche locali sono ancora comuni in Germania. Potenzialmente, il cambiamento di politica in direzione delle banche globali avrebbe potuto accrescere il potenziale finanziario a beneficio delle città più bisognose di una nuova industria, dando accesso a una platea più ampia di capitali. In pratica, però, le banche globali hanno pochi incentivi a investire nella conoscenza delle situazioni locali. Quando una città comincia a contrarsi, le loro filiali locali ricevono l’indicazione di ridurre il credito, e il denaro così recuperato viene destinato ad altre città. Un ritorno alle dimensioni locali darebbe al settore finanziario l’incentivo per adempiere al proprio ruolo socialmente utile: generare e valutare informazioni sull’economia reale.
► Pensare su grande scala... L’esigenza di coordinamento può essere superata mediante una mega-azienda: un’impresa come Amazon è talmente grande che beneficia di sufficienti economie di scala anche solo con le proprie attività da poter giustificare la scelta di fare da pioniere. L’azienda è di per sé un agglomerato, e la sua ubicazione attrarrà un entourage di fornitori. Nella maggior parte delle industrie, avere dimensioni così grandi non è positivo: l’efficienza derivante dall’agglomerazione è soggetta a essere controbilanciata dalla difficoltà di gestire un mastodonte. Quindi le aziende sufficientemente grandi da poter usufruire da sole dei vantaggi di un agglomerato sono rare: molto meno numerose delle città depresse i cui sindaci sarebbero felici di accogliere una mega-azienda sul proprio territorio. Anche per il problema di quali città depresse riescano ad attirare le mega-aziende esiste una soluzione di mercato, ma non è quanto di meglio si può sperare. Un’abile mega-azienda in cerca di una nuova ubicazione organizzerà un’asta in cui diverse città gareggeranno fra loro per avere in premio il suo insediamento in loco. Il valore del premio consiste nei guadagni generati dal processo di agglomerazione che affluiranno in città grazie al nuovo distretto produttivo. Ricerche recenti che hanno messo a confronto le città vincitrici delle aste con quelle perdenti confermano che si tratta di vantaggi reali7. La teoria delle aste ci dice a quanto ammonterà l’offerta vincente: sarà pari al premioF. Il mercato quindi «risolve» il problema del coordinamento a cui si trova di fronte una città depressa assegnando tutti i guadagni di un nuovo agglomerato alla mega-azienda che lo crea. Nel momento in cui scrivo, Amazon sta bandendo un’asta fra città americane per scegliere la nuova ubicazione della propria sede centrale. È abbastanza grande da far risuscitare una città depressa, e abbastanza spietata da tenersi i vantaggi per sé.
Soluzioni del settore pubblico al problema del coordinamento
Il solo pensare che il governo possa essere il coordinatore delle decisioni di un’azienda fa scorrere i brividi lungo la schiena ai fondamentalisti del mercato. Ma sto scrivendo questo paragrafo a Singapore, e dalla mia scrivania c’è una vista panoramica di una città di eccezionale ricchezza, che è stata realizzata con una pianificazione pubblica. La prima volta che la visitai, nel 1980, aveva appena alzato i minimi salariali per far andar via un settore che secondo il governo si sarebbe avviato al fallimento: quello del vestiario. La strategia suscitò le aspre critiche dei fondamentalisti del mercato: i salari minimi avrebbero creato solo un’elevata disoccupazione. In effetti in America e in Europa la storia dei governi che hanno agito da coordinatori è imbarazzante, piena com’è di interventi politicamente distorti, ma il caso dell’Asia orientale è un valido correttivo: il coordinamento può funzionare. Il fondatore di Singapore, Lee Kwan Yew, comprese anche il funzionamento dell’economia e dell’etica dell’agglomerazione, e di ciò vi fu un riflesso nella sua politica: «Non vedo per quale ragione i proprietari immobiliari privati debbano trarre profitto da un aumento del valore del suolo creato dallo sviluppo economico e dalle infrastrutture pagate con fondi pubblici».
È un approccio che a prima vista sembra comportare meno distorsioni di ogni altro. Se la metropoli dev’essere assoggettata a un’imposizione fiscale supplementare, allora per quale motivo non utilizzare i relativi proventi per finanziare una riduzione delle imposte a vantaggio delle aziende situate nelle città depresse, lasciando che sia poi il mercato a determinare quale azienda si sposta e dove? Così, tuttavia, non si affronta il problema del coordinamento, e il tentativo fallisce perché il mercato agisce per mantenere i distretti una volta che si sono formati, ma non per crearli. Sapere che le aziende che si stabiliscono in una città depressa pagheranno imposte ridotte non aiuta un’azienda pioniera a conoscere quali vi si trasferiranno, dove e quando. I sindaci continuerebbero a non avere altra scelta se non di fare offerte a mega-aziende. Ma in quest’asta ci sarebbe ora un’ulteriore distorsione. Poiché tutte le città depresse potrebbero godere di questo vantaggio fiscale, avrebbero ancora lo stesso incentivo a gareggiare fra loro per aggiudicarsi l’asta. Come prima, la mega-azienda strapperebbe un pagamento pari al valore del premio che ne avrebbe la città, ma ora otterrebbe anche il beneficio dell’incentivo fiscale. Ma allora, quale strumento potrebbe funzionare?
► Un compenso ai pionieri Le città depresse hanno bisogno di attirare imprese abbastanza dinamiche da dare avvio sulla loro scia a un nuovo agglomerato produttivo. Le aziende disposte ad assumersi questo ruolo di pioniere sono assai scarse, perché rischiano di fallire, a meno che non ve ne siano altre che le seguono. Anche in quest’ultimo caso, però, avrebbero sempre un relativo svantaggio rispetto a quelle che arrivano dopo. Quando le aziende pioniere cercano sul posto i lavoratori specializzati di cui hanno bisogno, è improbabile che li trovino. Come potrebbero i lavoratori locali avere i requisiti richiesti, dato che prima non c’erano aziende di quel genere? L’azienda dovrebbe quindi far venire lavoratori specializzati da altre località, per fare in modo che addestrino gradualmente gli addetti locali, ma ciò probabilmente comporterebbe costi notevoli. Ma se una seconda azienda decidesse di aprire delle officine nella stessa città, avrebbe maggiore facilità ad assumere i lavoratori specializzati che le occorrono – potrebbe sottrarne alcuni già addestrati dall’azienda pioniera. La conseguenza sarebbe che per questa seconda azienda i costi di avviamento sarebbero più bassi rispetto alla prima, e la remunerazione del capitale maggiore.
In altre parole, i pionieri degli agglomerati devono sobbarcarsi il cosiddetto svantaggio della prima mossa. È un fenomeno tutto particolare: più comunemente, i pionieri usufruiscono del vantaggio della prima mossa, che però si applica ai pionieri dei nuovi mercati e delle nuove tecnologie. Essere i primi a entrare in un mercato conferisce un vantaggio sulle aziende che vi arrivano successivamente, perché genera un fenomeno di fedeltà a un marchio (basta pensare al caso della Hoover); essere i primi a mettere a punto una tecnologia consente di brevettarla (si pensi alla Apple). Ma se un’azienda dà avvio alla formazione di un nuovo agglomerato che venderà i suoi prodotti in un dato mercato utilizzando una tecnologia già affermata, dovrà sopportare costi che le aziende arrivate più tardi potranno evitare.
Per una città depressa, tuttavia, l’arrivo di un’azienda in grado di fare da pioniera di un nuovo agglomerato è un evento prezioso dal punto di vista sociale. Cosa si può fare al riguardo? Poiché il pioniere genera esternalità, questo beneficio pubblico dovrebbe essere compensato con denaro pubblico. In linea di principio l’idea non fa una piega, ma tradurla in pratica richiede la presenza di agenzie pubbliche specializzate che abbiano competenza in materia. Come amministrare la questione al meglio?
► Le banche di sviluppo Una cosa è destinare risorse a un buon obiettivo; un’altra è spenderle adeguatamente. Le agenzie che indirizzano il denaro pubblico verso gli investimenti in aziende sono le banche di sviluppo, il cui compito consiste nell’investire nel settore privato al fine di promuovere qualche obiettivo pubblico. Tutti i principali governi ne dispongono: l’Unione Europea ne ha una enorme, la Banca Europea degli Investimenti; il Giappone e la Cina dispongono di agenzie equivalenti. Una banca di sviluppo che avesse il mandato di concentrarsi sulla rivitalizzazione delle città di provincia sarebbe un potenziale veicolo per indirizzare la spesa dei proventi riscossi con le nuove imposte a carico delle metropoli. Alcune banche di sviluppo hanno avuto un notevole successo nel raggiungere i loro obiettivi, altre si sono degradate al rango di serbatoi di corruzione: tutto dipende dal fatto che abbiano un mandato chiaro, elevati standard di probità pubblica e un personale motivato che creda nel mandato ricevuto e si sottoponga a un realistico esame critico. Il termine «realistico» è decisivo. L’investimento nella costruzione di agglomerati è un’impresa rischiosa e a lungo termine; per capire se un investimento avrà successo o meno occorrono spesso anni, e i fallimenti saranno numerosi. A meno che ciò non venga compreso dai politici e dall’opinione pubblica nei cui confronti la banca è responsabile, essa diventerà troppo cauta per essere efficace. Una banca di sviluppo che cerchi di rivitalizzare una città depressa finanziando attività che abbiano il potenziale di rendere altamente produttivi i lavoratori dovrà essere coraggiosa, informata e impegnata. Come nel modello dell’apporto di capitale di rischio (capital venture), i suoi dipendenti dovranno talvolta essere coinvolti nella gestione quotidiana, e a volte perfino il personale altamente motivato che lavora a un progetto per anni finirà per imbattersi in un insuccesso. La banca può essere giudicata solo sul suo portafoglio complessivo e sui risultati a lungo termineG. Data però la generale inadeguatezza dei mercati finanziari convenzionali (che abbiamo analizzato nel capitolo 4), se ha il personale adatto vale la pena che ci provi.
► La preparazione del terreno per le aziende: le zone industriali Le aziende che svolgono il ruolo di pioniere si trasferiranno in una città solo se vi troveranno un posto adatto dal quale operare. Possono comprare un edificio abbandonato e adattarlo alle proprie esigenze, ma probabilmente le zone industriali riescono a fornire lo spazio e le infrastrutture dedicati di cui un distretto necessita. Molte aziende trovano utile essere vicine l’una all’altra. È possibile che una città che ha perso il suo precedente distretto sia rimasta con un complesso di fabbriche abbandonate. Il denaro pubblico può finanziare un’agenzia per la città che lo rimetta in ordine e amministri una nuova zona industriale.
Una questione chiave per tali agenzie è il prezzo che pagano per il terreno. Un volta che un’agenzia entra nel mercato, i terreni abbandonati acquistano immediatamente valore. Non solo le sue offerte di acquisto, ma anche la prospettiva della creazione di un distretto fa salire il valore futuro dei terreni. Evidentemente, poiché è l’agenzia – e non il proprietario dei fondi – ad essere responsabile di questo accrescimento di valore, sarà essa stessa a riceverne i benefici. In Gran Bretagna, questo principio venne incorporato nel Development Corporations Act del 1981. Tuttavia, i giudici non sono specialisti di economia o di politiche pubbliche, e abili avvocati si ingegnano ad interpretare a favore dei clienti i termini usati dalla normativa – un classico esempio di ricerca della rendita mediante «ragionamento motivato». In passato qualcuno di loro è riuscito a operare questo saccheggio delle casse pubbliche: l’interpretazione della legge applicata per le valutazioni dei terreni è diventata un compromesso fra quello che è il loro valore senza l’agenzia e quello con l’agenzia, e in genere i proprietari fondiari riescono ad ottenere una parte sostanziale dell’incremento di valore che dovrebbe andare all’agenzia. Questo può essere rettificato, ma nel redigere il provvedimento legislativo si dovrebbe fare attenzione a prevenire l’effetto erosivo dell’attività degli avvocati e la limitata capacità dei giudici di rendersi conto, per non dire di prendersi cura, dell’interesse pubblico.
► Le agenzie di promozione degli investimenti Le agenzie che creano e gestiscono le zone industriali guardano all’interno, verso la città e i suoi servizi. Le agenzie di promozione degli investimenti guardano all’esterno, verso le imprese che potrebbero affluire in città. Se il mercato operasse senza soluzioni di continuità, come suppongono gli ideologi della destra, le agenzie di promozione degli investimenti servirebbero solo a sprecare denaro. Gli irlandesi hanno visto un’altra storia. Negli anni Cinquanta l’Irlanda era una delle regioni più povere d’Europa. Per cambiare tale situazione il governo irlandese istituì per primo un’agenzia per incoraggiare gli investimenti, che fu straordinariamente efficace nell’attrarre aziende e impieghi internazionaliH. L’agenzia mise in piedi una squadra di persone che andavano in cerca di industrie adeguate, stabilivano rapporti con aziende potenzialmente interessate e ne corteggiavano una delle più grandi per convincerla ad assumere il ruolo di investitore principale.
Una volta che una delle imprese contattate esprimeva il proprio interesse, l’Autorità Irlandese per gli Investimenti iniziava a collaborarci, al fine di poter prevedere i problemi che essa avrebbe incontrato operando in Irlanda. Avendo acquisito una certa conoscenza dell’attività dell’azienda, cercava di affrontare in anticipo gli eventuali problemi, consigliando ad altre agenzie pubbliche quali le amministrazioni locali cosa potevano fare per essere di aiuto al progetto. I suoi rapporti con l’impresa non si concludevano ad investimento avvenuto. Il funzionario dell’agenzia che era stato incaricato di seguirne l’attività rimaneva al suo fianco, cercando di individuare ulteriori opportunità. Oltre la metà degli investimenti stranieri in Irlanda arrivò grazie all’espansione che seguì. Chiaramente, l’agenzia per gli investimenti e quella che gestiva la zona industriale dovevano coordinarsi fra loro, in quanto ognuna disponeva di informazioni utili all’altra. Ma i loro ruoli erano sufficientemente distinti da giustificare il fatto che fossero due entità separate.
► Poli di conoscenza: le università locali La maggior parte delle città di provincia oggi hanno delle università, che dovrebbero svolgere un ruolo di primo piano nel recupero della propria città. Il fatto che Sheffield sia riuscita a riprendersi dal crollo della sua industria dell’acciaio deve molto alla fortuna di avere in loco due rispettabili università. Alcune materie accademiche sono adeguate a generare conoscenze applicabili in settori imprenditoriali. La conoscenza è una delle attività che più si prestano all’agglomerazione: spesso si sviluppa quando qualcuno collega due progressi recenti che precedentemente erano tenuti distinti, e quindi la vicinanza ad altri ricercatori è di aiuto. E non si può neppure dire che il flusso delle conoscenze scorra semplicemente dalla ricerca di base alle sue applicazioni. Spesso è nel momento in cui la ricerca di base viene applicata che le persone capiscono dove dovrebbero cercare ulteriori progressi, quindi la vicinanza alle imprese che applicano i progressi della conoscenza risulta di aiuto sia alle aziende che alle università. I rapporti fra la Stanford University e la Silicon Valley, come quelli fra il Massachusetts Institute of Technology di Harvard e la prosperità di Boston, sono il simbolo di tale processo.
Gli accademici possono, tuttavia, essere dei boriosi difensori della ricerca pura. Naturalmente una società prospera dovrebbe senz’altro destinare risorse a tali forme di conoscenza, ma nelle città depresse le università dovrebbero rendersi conto dei loro doveri nei confronti della comunità in cui si trovano. Le università locali devono reindirizzare la propria attenzione su quei dipartimenti che hanno una realistica prospettiva di costruire legami con le imprese. È un’altra potenziale forma di utilizzazione del denaro pubblico.
Le università non solo generano conoscenze che hanno applicazioni imprenditoriali, ma formano studenti; il fatto che questi siano attrezzati ad essere produttivi dipende sia da cosa viene loro insegnato, sia dall’efficacia con cui sono collegati a potenziali datori di lavoro. Nel peggiore dei casi, le università delle città di provincia colpite dalla crisi concentrano la loro attività d’insegnamento su materie che non sono collegate alla prospettiva di un impiego specializzato. Stanno preparando persone in possesso della credenziale accademica di un diploma di laurea, ma prive di una specifica qualificazione professionale. I giovani vengono attirati a contrarre un debito che con la formazione connessa al loro titolo di studio non saranno in grado di rimborsare.
Il contesto più ovvio per la formazione di nuove competenze nelle città depresse è quello dell’università e dell’istituto tecnico locali. Quando le cose vanno bene, le aziende che sono attratte in città e gettano le basi di un nuovo distretto sono collegate con i relativi settori dell’università e dell’istituto tecnico locali, in modo da poter cooperare per produrre ricerca applicata e formare i lavoratori. Associandosi fra loro, l’impresa, l’università e l’istituto tecnico possono sviluppare programmi per far acquisire ai lavoratori più anziani le nuove competenze di cui hanno bisogno.
Conclusione: «a qualunque costo»
Il divario geografico tra città fiorenti e città depresse non è inevitabile; è un fenomeno recente e reversibile. Ma non può essere colmato con piccoli aggiustamenti delle politiche pubbliche. Detto in parole povere, la piccola dimensione non basta, ma, cosa ancor più importante, le dinamiche spaziali dipendono dalle aspettative: le aziende si stabiliranno dove pensano che anche altre lo faranno. Le aspettative sono attualmente basate sui cambiamenti dei decenni recenti, e quindi restano fiacche. Per modificare questo stato di cose occorre imprimere alle politiche adottate una svolta sufficientemente grande da suscitare una reazione che porti a riconfigurare le aspettative.
Date le incertezze su quanto potrebbe rivelarsi efficace ognuna delle singole politiche analizzate nelle pagine precedenti, non disponiamo di un fondamento sicuro per applicarne subito qualcuna su larga scala. Devono essere messe alla prova mediante un cauto processo di graduali sperimentazioni. Ma un tale processo non produrrebbe lo shock che invece è necessario. Com’è possibile conciliare l’esigenza di procedere a una prudente sperimentazione con quella di provocare uno shock? La soluzione consiste nell’assumere un impegno politico generale mirante a ridurre le disuguaglianze geografiche. Nel 2011 l’Eurozona si è trovata di fronte allo stesso dilemma: i decisori politici non sapevano quali misure si sarebbero rivelate efficaci per difendere la valuta, e s’imbarcarono in una serie di esperimenti, che furono però attuati nella cornice di un chiaro impegno espresso nel luglio 2012 dal presidente della Banca Centrale Europea: «a qualunque costo». Questa frase ebbe un effetto immediato e duraturo: la speculazione si placò perché Mario Draghi non si era concesso spazio alcuno per un possibile fallimento. Abbiamo bisogno di un equivalente impegno politico per le città.
1 Si veda A.J. Venables, Gainers and losers in the new urban world, in Urban Empires, a cura di E. Glaeser, K. Kourtit e P. Nijkamp, Routledge, Abingdon 2018, e Id., Globalisation and urban polarisation, in «Review of International Economics», XXVI (2018), 5.
2 Si veda il recente lavoro di Jed Kolko.
3 La ricerca da cui emerge questo preoccupante fenomeno è stata realizzata dall’OCSE. Per un’analisi accessibile, si veda «The Economist», 21 ottobre 2017.
4 Desidero ringraziare Tim Besley che mi ha confermato e chiarito questo punto.
5 Si veda R.J. Arnott, - J.E. Stiglitz, Aggregate land rents, expenditure on public goods, and optimal city size, in «The Quarterly Journal of Economics», XCIII (1979), 4, pp. 471-500.
6 Si veda P. Collier - A.J. Venables, Who gets the urban surplus?, in «Journal of Economic Geography», 2017 (https://doi.org/10.1093/jeg/lbx043).
7 M. Greenstone - R. Hornbeck - E. Moretti, Identifying agglomeration spillovers: evidence from million dollar plants, «NBER Working Paper, 13833», 2008.
A Allusione al titolo di due serie di documentari dal titolo Benefits Street e andate in onda nel Regno Unito su Channel 4 nel 2014 e nel 2015, dedicate a situazioni di disagio sociale urbano, N.d.T.
B Si presume cioè che ogni dollaro extra di reddito generi minore «utilità», per cui i trasferimenti da un soggetto con reddito elevato a un altro con reddito inferiore determineranno un aumento dell’utilità complessiva e quindi saranno un elemento positivo.
C Per semplificare le cose, supponiamo che, a parte il fatto che i salari sarebbero più alti rispetto ai loro precedenti redditi come agricoltori, per le persone sia indifferente vivere in campagna o in città.
D È meglio un’imposta annuale di un provvedimento una tantum sull’aumento di valore, perché in quest’ultimo caso i costruttori rinviano gli investimenti che aumenterebbero il valore del suolo, destinando invece risorse ad azioni lobbistiche miranti a far abrogare l’imposta, accusata di deprimere gli investimenti. Con un’imposta annuale, questo incentivo strategico alla dilazione degli investimenti – detto tecnicamente valore di opzione (option value) – viene notevolmente ridotto.
E Negli Stati Uniti le imposte sui redditi variano a seconda degli Stati e delle città. Nel Regno Unito ci sono differenze fra la Scozia e l’Inghilterra. La mia proposta si distingue da questi sistemi non in termini amministrativi, ma per una diversa destinazione dei proventi che ne derivano.
F Potrebbe perfino eccedere il valore del premio stesso, se si verifica il fenomeno noto come «la maledizione del vincitore».
G Queste idee riflettono le conversazioni che ho avuto con Diana Noble, la CEO che ha ricostruito il CDC Group (già Commonwealth Development Corporation) facendone la più risoluta delle banche di sviluppo che operano per portare aziende nei paesi poveri.
H Desidero ringraziare il professor John Sutton, direttore del Dipartimento di Economia presso la London School of Economics, decano degli studi di economia industriale (e fiero irlandese) per le informazioni su cui si basa questo paragrafo.