1.
Le nuove ansie

Passione e pragmatismo

Il tessuto delle nostre società è oggi lacerato da profonde spaccature, che generano nuove ansie e nuova rabbia fra la nostra gente e portano nuove passioni nella nostra politica. Queste inquietudini hanno le loro basi sociali nella geografia, nell’istruzione e nella morale. Le regioni si ribellano contro la metropoli, l’Inghilterra settentrionale contro Londra, le zone centrali contro quelle costiere, i meno istruiti contro i più colti, i lavoratori in lotta contro gli «scrocconi» e gli speculatori. I provinciali poco istruiti affaticati dal lavoro hanno preso il posto della classe operaia come forza rivoluzionaria attiva nella società: i sans-culottes hanno lasciato il posto ai sans-coolA. Ma cos’è che fa arrabbiare queste persone?

Il luogo in cui si vive è diventato un parametro di questi nuovi malcontenti; dopo un lungo periodo nel quale le disuguaglianze geografiche ed economiche si erano attenuate, in tempi recenti le abbiamo viste rapidamente accrescersi. Sia in America settentrionale che in Europa e in Giappone le aree metropolitane si stanno affermando a scapito delle altre regioni. Non solo stanno diventando molto più ricche delle province, ma in termini sociali stanno differenziandosi a tal punto da non essere più rappresentative del paese di cui spesso sono la capitale.

Anche all’interno delle dinamiche metropoli, però, questi straordinari progressi economici appaiono assai squilibrati. La classe emergente non è composta né da capitalisti né da lavoratori comuni, bensì da persone dotate di una buona formazione e in possesso di nuove competenze. È nata così una nuova classe, che si incontra all’università e sta acquisendo una nuova identità condivisa, nella quale la stima deriva dalle competenze che si possiedono. Fra i suoi componenti è emersa perfino una nuova forma di moralità, nella quale elementi come l’appartenenza a una minoranza etnica o uno specifico orientamento sessuale vengono elevati a elemento identitario di gruppi soggetti a discriminazioni. E proprio in virtù della loro specifica attenzione ai gruppi discriminati, i membri di questa classe affermano la propria superiorità morale rispetto alle categorie meno istruite. Avendo dato vita a una nuova classe dirigente, hanno più che mai fiducia nel governo e nei loro simili.

Se le fortune delle categorie più istruite hanno fatto registrare un’impennata, trascinando verso l’alto le medie nazionali, quelle meno istruite, sia nelle aree metropolitane che a livello nazionale, sono oggi in crisi, e vengono bollate come «classe operaia bianca». La sindrome del declino ha avuto inizio con la perdita di forme di occupazione fino ad allora rilevanti. La globalizzazione ha determinato lo spostamento di molte attività semispecializzate verso l’Asia, e i mutamenti tecnologici ne stanno eliminando molte altre. La perdita del posto di lavoro ha colpito in modo particolarmente pesante due gruppi: i lavoratori più anziani e le persone in cerca di prima occupazione.

Per il primo gruppo, la disoccupazione ha significato spesso l’insorgere di crisi familiari, problemi di droga e alcol, violenza. In America, il conseguente venir meno del senso di avere uno scopo utile nell’esistenza si manifesta nella diminuzione dell’aspettativa di vita che si registra fra i bianchi che non hanno un’istruzione universitaria; e ciò avviene in un momento in cui il ritmo senza precedenti dei progressi della medicina sta determinando un rapido aumento dell’aspettativa di vita per i gruppi più favoriti1. Anche in Europa, dove pure i sistemi di sicurezza sociale hanno scongiurato esiti estremi, la sindrome è diffusa, e nei centri urbani più depressi, come Blackpool, la speranza di vita è parimenti in calo. Gli ultracinquantenni licenziati sono ridotti alla disperazione. Quanto ai giovani meno istruiti, non si può dire che se la passino molto meglio. In gran parte d’Europa, i giovani devono affrontare il problema della disoccupazione di massa: attualmente, un terzo di quelli italiani è disoccupato, una percentuale che non si era più vista dai tempi della Depressione degli anni Trenta. I sondaggi mostrano che il pessimismo diffuso fra i giovani ha raggiunto picchi senza precedenti: la maggior parte di loro ritiene che avrà livelli di vita inferiori a quelli dei propri genitori. E non si tratta di un abbaglio: negli ultimi quattro decenni la performance economica del capitalismo è andata peggiorando. Se la crisi finanziaria globale del 2008-2009 ha reso evidente il fenomeno, era dagli anni Ottanta che questo pessimismo andava lentamente crescendo. La fondamentale credenziale con cui il capitalismo si presentava, quella di assicurare un costante aumento dei livelli di vita per tutti, ne è uscita incrinata: il sistema ha continuato a funzionare per alcuni, ma non ha coinvolto altri. In America, simbolico cuore pulsante del capitalismo, la metà dei nati negli anni Ottanta vive in condizioni decisamente peggiori rispetto alla generazione precedente alla medesima età2. Per loro, il capitalismo non sta funzionando. Considerando gli enormi progressi avvenuti sin dal 1980 nel campo della tecnologia e delle politiche pubbliche, un fallimento del genere è stupefacente. Questi progressi, che a loro volta sono un effetto del capitalismo, dovrebbero aver reso possibile a chiunque il raggiungimento di un livello di vita decisamente migliore. E tuttavia, oggi la maggioranza delle persone ritiene che la generazione dei loro figli avrà una vita peggiore della propria. Nella classe lavoratrice americana bianca questo pessimismo arriva a un sorprendente 76%3. Quanto agli europei, tale sensazione è addirittura più diffusa che tra gli americani.

Il malcontento delle categorie meno istruite è venato di paura. Esse si rendono conto che fra loro e la popolazione più istruita il divario sociale e culturale sta aumentando, e ne concludono che questo processo e l’emergere di gruppi maggiormente favoriti, percepiti come quelli che si intascano i benefici, stiano rendendo meno efficaci le loro stesse richieste di aiuto. La fiducia che avevano nel futuro della loro rete di sicurezza sociale si sta erodendo proprio nel momento in cui ne hanno più bisogno.

Ansia, rabbia e disperazione hanno scardinato le fedeltà politiche, la fiducia della gente nei governi e perfino nel prossimo. I meno istruiti sono stati il motore di quegli ammutinamenti che hanno portato negli Stati Uniti Donald Trump a sconfiggere Hillary Clinton, in Gran Bretagna la «Brexit» a sconfiggere il «Remain», in Francia i partiti ribelli di Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon a conquistare oltre il 40% dei voti (riducendo il consenso dei socialisti, che prima erano al potere, a meno del 10%), in Germania a ridimensionare la coalizione fra cristiano-democratici e socialdemocratici a tal punto da permettere l’ingresso nel Bundestag di una consistente opposizione di estrema destra, quella di AfD (Alternative für Deutschland). Al divario in termini di istruzione si è aggiunta una divisione di tipo geografico. Londra ha votato decisamente a favore della permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea, New York decisamente a favore di Hillary Clinton, Parigi non ha appoggiato Le Pen e Mélenchon, e così ha fatto Francoforte con AfD. L’opposizione radicale è venuta dalle province. Queste ondate di opposizione sono collegate all’età degli elettori, ma non nel senso di una semplice contrapposizione fra vecchi e giovani. Sia i lavoratori più anziani, marginalizzati per la perdita di valore dei loro mestieri, sia i giovani, che si affacciano su un mondo del lavoro in cui le prospettive appaiono fosche, hanno scelto opzioni estreme. In Francia, i giovani hanno votato molto più degli altri per l’estrema destra che si presentava con un volto nuovo; in Gran Bretagna e negli Stati Uniti hanno fatto lo stesso ma a favore dell’estrema sinistra, anch’essa presentatasi rinnovata.

Se la natura ha orrore del vuoto, lo stesso vale per gli elettori. La frustrazione provocata dall’abisso percepito fra quello che è accaduto e ciò che appare fattibile ha impresso una scarica di energia a due specie di politici che erano in attesa dietro le quinte: i populisti e gli ideologi. L’ultima volta che il capitalismo aveva deragliato, negli anni Trenta del secolo scorso, era avvenuta la stessa cosa. I pericoli che allora emersero furono immortalati da Aldous Huxley nel suo Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) e da George Orwell in 1984 (1949). Nel 1989 la fine della Guerra fredda sembrò aprire una credibile prospettiva nella quale ci saremmo dovuti lasciare definitivamente alle spalle disastri come quelli: si disse che eravamo giunti alla «fine della storia», un’utopia perpetua. E invece ci troviamo ad affrontare la prospettiva fin troppo credibile della nostra distopia.

Alle nuove ansie hanno prontamente risposto le vecchie ideologie, riportandoci al trito e abusato scontro fra destra e sinistra. Un’ideologia offre la seducente combinazione tra facili certezze morali e un’analisi che pretende di applicarsi ad ogni fenomeno, fornendo una risposta sicura a qualsiasi problema. Le rinate ideologie del marxismo ottocentesco, del fascismo novecentesco e del fondamentalismo religioso del Seicento hanno già in passato attirato le società verso la tragedia. A causa del loro fallimento, avevano perso la maggior parte degli aderenti, e pochi erano ormai gli ideologi che avrebbero potuto porsi a capo della loro rinascita. Quei pochi appartenevano a minuscole organizzazioni residuali: gente con un gusto per la psicologia paranoide del culto, e troppo ottusa per affrontare la realtà del fallimento passato. Nel decennio precedente al crollo del comunismo avvenuto nel 1989, i marxisti rimasti pensavano di vivere nell’epoca del «tardo capitalismo». La memoria pubblica di quel crollo si è oggi attenuata quanto basta per rendere possibile un revival, tanto che stiamo assistendo all’uscita di un’alluvione di libri sullo stesso tema4.

A rivaleggiare con gli ideologi quanto a potere seduttivo è comparsa un’altra specie di politico, il populista carismatico. I populisti evitano perfino una rudimentale analisi ideologica, saltando direttamente a soluzioni che possono apparire vere per non più di un attimo. La loro strategia consiste quindi nel distrarre gli elettori da riflessioni più profonde ricorrendo a un caleidoscopio di attrazioni spettacolari. I leader dotati di queste capacità provengono in genere da un altro minuscolo settore: quello delle celebrità mediatiche.

Se per un verso sia gli ideologi che i populisti prosperano sulle ansie e sulla rabbia generate dalle nuove fratture, allo stesso tempo sono però incapaci di affrontarle. Non si tratta di repliche del passato, bensì di fenomeni nuovi e complessi. Ma mentre sono intenti ad applicare i loro rimedi ciarlataneschi, questi politici possono fare enormi danni. Per i rovinosi processi in atto nelle nostre società esistono delle soluzioni praticabili, che però non scaturiscono né dalla passione morale di un’ideologia né dalle alzate d’ingegno del populismo. Si basano su analisi e dati empirici, e richiedono quindi il sangue freddo del pragmatismo. Tutte le linee di intervento proposte in questo libro sono pragmatiche.

Ma c’è posto anche per la passione, che infatti percorre le sue pagine. La mia stessa vita è passata attraverso ognuna delle tre dolorose spaccature che si sono aperte nelle nostre società. Io ho mantenuto il sangue freddo, ma mi hanno segnato il cuore.

Ho vissuto personalmente il nuovo divario geografico fra le metropoli in rapida espansione e le disgregate città della provincia. La mia città natale, Sheffield, è diventata il simbolo della città depressa, e il crollo della sua industria dell’acciaio è stato immortalato dal film The Full Monty. Quella tragedia l’ho vissuta: il nostro vicino di casa perse il lavoro; un nostro parente finì a pulire i gabinetti. Nel frattempo mi ero trasferito a Oxford, che divenne il luogo d’elezione del successo metropolitano: oggi la zona corrispondente al mio codice di avviamento postale ha il rapporto fra prezzi delle case e redditi più elevato di tutto il paese.

Ho vissuto anche il divario in termini di capacità e condizioni di spirito esistente tra le famiglie iperaffermate e quelle che venivano disintegrate dalla povertà. A quattordici anni, io e mia cugina procedevamo di pari passo: nati lo stesso giorno, figli di genitori poco istruiti, eravamo entrambi riusciti ad entrare in una grammar school. La sua vita fu stravolta dalla prematura morte del padre: venuta meno quella figura che incarnava l’autorità, diventò una ragazza madre, subendo le fragilità e le umiliazioni che questa condizione portava con sé. Nel frattempo, la mia esistenza procedeva, lungo le tappe che portavano dalla scuola a una borsa di studio a OxfordB. Da lì, ulteriori passaggi mi portarono a occupare cattedre nella stessa Università di Oxford, a Harvard e a Parigi. Come se questo non bastasse per alimentare la mia autostima, un governo laburista britannico mi conferì il titolo di comandante dell’Ordine dell’Impero britannico (CBE), un governo conservatore quello di cavaliere e i miei colleghi della British Academy mi premiarono con la Medaglia presidenziale. A diciassette anni le figlie di mia cugina erano a loro volta delle ragazze madri. Mia figlia, che ha la stessa età, ha una borsa di studio in una delle migliori scuole del paese.

Infine, ho vissuto di persona il divario globale fra la prorompente prosperità di paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, dove ho vissuto agiatamente, e la disperata povertà dell’Africa, dove lavoro. I miei studenti, in massima parte africani, si trovano ad affrontare questo drastico divario nel momento in cui, una volta laureati, fanno le loro scelte di vita. Oggi un mio ex studente sudanese, un dottore di ricerca che ha lavorato in Gran Bretagna, ha dovuto scegliere se rimanervi o far ritorno nel suo paese di origine per lavorare nell’ufficio del primo ministro. Ha deciso di tornare, ma è un caso eccezionale: ci sono più dottori di ricerca sudanesi a Londra che in Sudan.

Queste tre spaventose fratture non sono semplicemente i problemi a cui dedico i miei studi: sono le tragedie che hanno finito per definire quello che sento come lo scopo della mia vita. Ecco perché ho scritto questo libro: voglio cambiare questa situazione.

Trionfo e crisi della socialdemocrazia

Sheffield non è una città attraente, ma questo non fa che rafforzare i legami fra le persone che vi abitano, quei legami che un tempo costituivano una grande forza politica. Nelle grandi città dell’Inghilterra settentrionale ha avuto inizio la rivoluzione industriale, e i loro abitanti furono i primi a dover far fronte alle ansie generate da quel processo. E fu proprio rendendosi conto di avere un comune attaccamento alla località in cui crescevano che i membri di comunità come Sheffield dettero vita ad organizzazioni cooperative che permettessero di affrontare quelle inquietudini. Mettendo a frutto le affinità, crearono organizzazioni in grado di raccogliere i frutti della reciprocità. Le società cooperative edilizie permisero alla gente di mettere da parte risparmi per comprarsi una casa; fu a Halifax, un’altra città dello Yorkshire, che nacque quella che sarebbe diventata la più grande banca britannica. Le società cooperative di assicurazione consentirono alla gente di ridurre i rischi, quelle agrarie e del commercio al dettaglio dettero ai coltivatori e ai consumatori forza contrattuale per contrastare le grandi aziende. Dai suoi difficili inizi nell’Inghilterra settentrionale, il movimento cooperativo si diffuse rapidamente in gran parte d’Europa.

Associandosi fra loro, queste cooperative diventarono la base dei partiti politici del centro-sinistra, quelli socialdemocratici. I benefici della reciprocità all’interno di una comunità si riprodussero su scala maggiore quando fu l’intera nazione a diventare una grande comunità. Come le cooperative, la nuova agenda della politica fu di natura pratica, radicata nelle ansie che turbavano la vita delle famiglie comuni. Nell’epoca postbellica, in tutta Europa molti di questi partiti socialdemocratici arrivarono al potere e lo esercitarono per attuare una serie di interventi pragmatici che affrontarono in modo efficace proprio quelle inquietudini. Una serie di provvedimenti legislativi nel campo dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione, dei sussidi di disoccupazione produssero effetti diretti sulla vita delle persone e la cambiarono. Queste politiche si rivelarono talmente efficaci che col tempo vennero accettate in tutto il settore centrale dello spettro politico. I partiti politici di centrosinistra e di centrodestra si alternarono al potere, ma quegli interventi furono mantenuti.

Oggi la socialdemocrazia come forza politica sta però attraversando una crisi esistenziale. L’ultimo decennio è stato un susseguirsi di disastri. Nel campo del centrosinistra, negli Stati Uniti Hillary Clinton, indebolita dalla concorrenza di Bernie Sanders, è stata sconfitta da Donald Trump. La guida del Partito laburista britannico di Blair-Brown è in mano ai marxisti. In Francia, il presidente Hollande ha deciso addirittura di non concorrere neppure per un secondo mandato, e il nuovo candidato del Partito socialista alla presidenza, Benoît Hamon, non è riuscito a raccogliere che un misero 8% dei voti. In Germania, Italia, Paesi Bassi, Norvegia e Spagna i partiti di orientamento socialdemocratico hanno visto crollare i loro consensi. Di solito per i politici di centrodestra questa sarebbe stata una buona notizia, ma in Gran Bretagna e in America anche loro hanno perso il controllo sui rispettivi partiti, mentre in Germania e in Francia i loro consensi elettorali sono precipitati. Perché è avvenuto tutto questo?

Il motivo è che i socialdemocratici di destra e di sinistra si sono entrambi allontanati dalle proprie origini, risalenti alla pragmatica reciprocità delle comunità, facendosi catturare da un gruppo completamente diverso di persone la cui influenza è cresciuta in modo sproporzionato: gli intellettuali della classe media.

Gli intellettuali di sinistra erano attratti dalle idee di un filosofo ottocentesco, Jeremy Bentham, la cui dottrina, l’utilitarismo, scindeva la morale dai nostri valori istintivi, deducendola invece da un unico principio razionale: un’azione dev’essere giudicata morale quando promuove «la maggiore felicità per il maggior numero». Poiché i valori istintivi delle persone sono distanti da un modello così virtuoso, la società ha bisogno di un’avanguardia di tecnocrati dotati di solido senso morale che governi lo Stato. Questa avanguardia, composta da paternalistici guardiani della società, voleva essere una versione aggiornata dei guardiani della Repubblica platonica. John Stuart Mill, che crebbe come allievo di Bentham e fu a sua volta uno dei padri dell’utilitarismo, leggeva la Repubblica in greco già ad otto anni.

Purtroppo, Bentham e Mill non erano dei moderni giganti morali, della statura di Mosè, Cristo o Maometto; erano individui stranamente asociali. Bentham era talmente bizzarro che oggi si pensa fosse autistico, ed era incapace di avere il senso della comunità. Mill non ebbe molta possibilità di essere normale: tenuto deliberatamente separato dagli altri bambini, probabilmente aveva maggiore familiarità con la Grecia antica che con la società del suo tempo. Viste tali origini, non sorprende che l’etica dei seguaci di questi due intellettuali sia tanto divergente da quella del resto delle persone5.

I bizzarri valori promossi da Bentham non avrebbero avuto alcun impatto se non fossero stati incorporati in una dottrina economica. Come vedremo, l’economia elaborò un’interpretazione del comportamento umano quanto più possibile distante dalla morale utilitaristica. L’uomo economico è assolutamente egoista e infinitamente avido, e non si preoccupa di nessun altro se non di se stesso. E fu questo tipo di uomo a diventare il fondamento della teoria economica del comportamento umano. Ma per poter valutare le politiche pubbliche, l’economia aveva bisogno di un metro per aggregare il benessere, o l’«utilità», di ciascuno di questi individui psicopatici. Il sostrato intellettuale di questa aritmetica fu l’utilitarismo: il principio secondo cui occorre perseguire «la maggiore utilità per il maggior numero» si prestò casualmente alle tecniche matematiche standard di massimizzazione. Si ritenne che l’«utilità» derivasse dal consumo, e che il consumo extra generasse incrementi di utilità sempre minori. Se in una data società si assumesse una quota fissa di consumo complessivo, la massimizzazione dell’utilità diventerebbe una semplice questione di redistribuzione del reddito, da attuare in modo tale da rendere perfettamente identici i consumi dei membri della società. Gli economisti socialdemocratici si resero conto che la misura della «torta» da suddividere in consumi non è fissa, e poiché la tassazione avrebbe l’effetto di scoraggiare il lavoro, la torta si restringerebbe. Per affrontare la questione dell’incentivo furono elaborate le teorie avanzate della «tassazione ottimale» e del «modello principale-agente». In sostanza, le politiche pubbliche di stampo socialdemocratico divennero strumenti sempre più raffinati per utilizzare la tassazione al fine di redistribuire il consumo, minimizzando al contempo gli effetti di disincentivazione del lavoro.

Presto fu dimostrato che non esisteva un modo meccanico per passare dalle «utilità» individuali ad affermazioni relative al benessere della società che fossero conformi alle regole minime della coerenza intellettuale. Gli economisti annuivano, ma continuavano a procedere sulla medesima linea: mentre la maggior parte dei filosofi accademici abbandonò l’utilitarismo, ritenendolo minato da una serie di elementi inadeguati, essi fecero l’opposto. L’utilitarismo si stava rivelando straordinariamente comodo. Ad essere sinceri, per molte questioni di politica pubblica in effetti funziona piuttosto bene; il fatto che le sue insufficienze producano o meno effetti devastanti dipende dal tipo di politica che si attua. Per questioni di modesta portata, come ad esempio la decisione relativa alla costruzione di una strada in un determinato luogo, talvolta è la migliore tecnica di cui si disponga, ma per molti problemi di più ampie dimensioni è del tutto inappropriato.

Armata dei suoi calcoli utilitaristici, l’economia s’infiltrò rapidamente nel campo delle politiche pubbliche. Se Platone aveva immaginato che i guardiani dello Stato sarebbero stati dei filosofi, in pratica essi furono di solito degli economisti. Il presupposto secondo cui le persone erano una sorta di psicopatici giustificava la loro pretesa di rappresentare un’avanguardia moralmente superiore; e l’idea che lo scopo dello Stato consistesse nel massimizzare l’utilità giustificava la redistribuzione del consumo a favore di chiunque avesse maggiori «bisogni». In modo non intenzionale, e in genere impercettibile, le politiche socialdemocratiche si modificarono, diventando qualcosa di diverso dalla costruzione di reciproche obbligazioni fra tutti i cittadini.

La combinazione di questi fattori produsse un risultato nefasto. Tutte le obbligazioni morali furono trasferite allo Stato, affidando l’esercizio della responsabilità all’avanguardia moralmente affidabile. I cittadini cessarono di essere soggetti morali responsabili, e vennero anzi ridotti al ruolo di consumatori. Il pianificatore sociale e la sua avanguardia utilitarista di angeli erano i soli a saper come fare: al comunitarismo subentrò il paternalismo sociale.

L’emblematica illustrazione di questo paternalismo sicuro di sé fu la politica postbellica nei confronti dei grandi centri urbani. Il crescente numero di automobili rendeva necessaria la costruzione di cavalcavia, mentre l’aumento demografico esigeva nuove abitazioni. La conseguenza fu che intere strade e quartieri vennero spianati, per costruire al loro posto avveniristiche strade sopraelevate e palazzi a molti piani. E tuttavia, per lo sconcerto dell’avanguardia utilitarista, quello che ne seguì fu una reazione violenta. Abbattere con i bulldozer le comunità poteva avere un senso solo se l’unico obiettivo fosse stato quello di elevare gli standard abitativi degli individui poveri. Ma con quella azione si mettevano a repentaglio le comunità che di fatto davano significato alla vita della gente.

La recente ricerca nel campo della psicologia sociale ci ha consentito di comprendere meglio questa reazione. In un brillante volume, Jonathan Haidt ha preso in esame i valori che sono considerati fondamentali nelle varie parti del mondo, arrivando alla conclusione che quasi ognuno di noi ne privilegia sei: lealtà, equità, libertà, autorità, cura del prossimo, sacralità6. Le obbligazioni reciproche costruite dal movimento cooperativo si erano basate sui valori della lealtà e dell’equità. Il paternalismo dell’avanguardia utilitarista, esemplificato dalla vicenda delle comunità abitative distrutte dalle ruspe, infranse entrambi questi valori, oltre che la libertà, mentre la recente ricerca di psicologia sociale che si avvale delle neuroscienze ha scoperto che i progetti modernisti cari ai pianificatori ridussero il benessere infrangendo i valori estetici comuni. Ma per quale motivo le avanguardie non si resero conto di queste insufficienze morali inerenti alla loro azione? La risposta di Haidt è in questo caso che i loro valori erano atipici. Invece dei sei valori cari alla maggior parte delle persone, ne adottarono solo due: la cura del prossimo e l’uguaglianza. Non solo i loro valori, ma essi stessi erano atipici: occidentali, istruiti, industriali, ricchi e sviluppati, quello che in inglese si dice con un unico termine: WEIRD (Western, Educated, Industrial, Rich, Developed). Cura del prossimo ed uguaglianza sono i valori utilitaristici: erano i seguaci WEIRD di idee bizzarre (weird). Quando funziona, l’istruzione potenzia la nostra empatia, consentendoci di metterci nei panni degli altriC. In pratica però produce spesso l’effetto opposto, affrancando dalle ansie delle normali comunità coloro che sono riusciti ad affermarsi. Sicuri della propria superiorità derivante dal merito, i membri dell’avanguardia sono subito pronti a considerarsi come i nuovi guardiani platonici, autorizzati a non tener conto dei valori degli altri. Ho il sospetto che se Haidt avesse indagato ulteriormente, avrebbe scoperto che i WEIRD ostentavano sì un forte disprezzo per le gerarchie, ma pensavano alle gerarchie ereditate dal passato: davano tuttavia per scontata l’affermazione di una nuova gerarchia, e gli esponenti della moderna meritocrazia non potevano che essere loro stessi.

La decisa reazione contro il paternalismo si sviluppò nel corso degli anni Settanta del secolo scorso. Potenzialmente, l’avanguardia avrebbe potuto rivolgersi contro il disprezzo per la lealtà e l’equità e ripristinare il comunitarismo, ma invece attaccò il disprezzo per la libertà, chiedendo che i singoli fossero protetti dalle violazioni perpetrate dallo Stato e rivendicando il rispetto dei loro diritti naturali. Bentham aveva bollato il concetto di diritti naturali come un’«assurdità sui trampoli», e in ciò credo che avesse ragione. Ma i politici impegnati per vincere le elezioni cominciarono a ritenere che fosse opportuno proclamare i nuovi diritti. Questi, rispetto alle semplici promesse di maggiori spese, apparivano più ancorati a solidi principi; inoltre, mentre le promesse specifiche potevano essere messe in dubbio sulla base della valutazione dei costi e delle imposte, i diritti permettevano di tenere discretamente dietro le quinte gli impegni occorrenti per soddisfarle. Il movimento cooperativo aveva ancorato saldamente i diritti ai doveri; gli utilitaristi li avevano entrambi sottratti agli individui, attribuendoli allo Stato. A questo punto, i libertari pensarono di poter restituire ai singoli individui i diritti, senza però addossare loro i doveri.

La spinta a favore dei diritti individuali si trovò alleata con un nuovo movimento politico che a sua volta rivendicava diritti, in particolare quelli dei gruppi svantaggiati. La strada fu aperta dagli afroamericani, e il loro esempio fu emulato dalle femministe. Anche questi movimenti trovarono il proprio filosofo – John Rawls –, che contrappose alla critica benthamiana dei diritti naturali un diverso principio razionale generale, secondo il quale una società è morale se le sue leggi sono concepite per favorire i gruppi più svantaggiati. Lo scopo essenziale di questi movimenti era sostenere l’inclusione sociale di quei gruppi su basi egualitarie, e sia gli afroamericani sia le donne avevano abbondanti motivi per esigere profondi cambiamenti sociali. Come vedremo, le dinamiche sociali possono essere ostinatamente persistenti, e quindi l’inclusione sociale avrebbe inevitabilmente comportato una fase di transizione caratterizzata dalla lotta contro la discriminazione. Mezzo secolo dopo, la transizione è ancora in corso, ma nel frattempo quel fenomeno che prese avvio sotto forma di movimenti per l’inclusione si è cristallizzato, forse involontariamente, in identità di gruppo che hanno assunto un carattere oppositivo: la lotta trae vigore dalla prefigurazione di un gruppo nemicoD. Il linguaggio dei diritti proliferò, fino a includere i diritti dei singoli nei confronti dello Stato paternalista, quelli degli elettori periodicamente investiti di diritti dai politici, quelli dei nuovi soggetti perseguitati in cerca di un trattamento privilegiato. Queste tre categorie di diritti avevano poco in comune, ma ognuna di esse osteggiava l’inclusiva equiparazione fra diritti e doveri realizzata dalla socialdemocrazia, mentre aveva aderito alle sue radici comunitarie.

La causa utilitarista fu promossa dagli economisti, quella dei diritti dai giuristi. Su alcune tematiche le due avanguardie si trovavano d’accordo, e ciò ne fece delle lobby assai potenti. Su altre, invece, si scontravano: Rawls e i suoi seguaci accettavano la prospettiva secondo cui alcuni dei diritti destinati a rafforzare la posizione di gruppi piccoli ma svantaggiati avrebbero peggiorato le condizioni di qualcun altro, senza così soddisfare il criterio utilitaristico. Nella contrapposizione fra tecnocrati economici e giuristi, i rapporti di forza videro prevalere inizialmente i primi: la promessa di arrecare «il maggior benessere al maggior numero» attrasse i politici in caccia di voti. Gradualmente però presero il sopravvento i giuristi, che brandivano l’arma atomica dei tribunali.

La divergenza tra le due ideologie si allargò sempre più, ma nessuna di esse dette molto spazio alle idee che avevano guidato il movimento cooperativo. Utilitaristi, rawlsiani e libertari si concentravano tutti sulla dimensione individuale, non su quella collettiva, e gli economisti utilitaristi e i giuristi alla Rawls davano importanza alle differenze fra gruppi, i primi con riferimento al reddito, i secondi concentrandosi sugli elementi di svantaggio. Entrambi esercitarono la loro influenza sulle politiche socialdemocratiche. Gli utilitaristi premevano per una redistribuzione in base ai bisogni; gradualmente, si procedette a ridefinire il settore dell’assistenza sociale, sganciando la concessione di diritti dai contributi, e ignorando in tal modo il valore umano dell’equità nella sua ordinaria accezione. Chi non aveva contribuito veniva di fatto privilegiato rispetto a chi lo aveva fatto. I giuristi seguaci di Rawls chiedevano che la compensazione fosse determinata in base alle condizioni di svantaggio. Nei negoziati condotti nel 2018 per la formazione della coalizione di governo, ad esempio, i socialdemocratici tedeschi hanno indicato come loro massima priorità i diritti dei rifugiati. Martin Schultz, leader del partito, ha sostenuto che «la Germania deve rispettare il diritto internazionale, indipendentemente dall’umore del paese»7. Quest’ultima è un’espressione classica delle avanguardie morali: sia Bentham sia Rawls avrebbero applaudito Schultz, il quale però nell’arco di un mese è stato estromesso a seguito di una levata di scudi popolare. Entrambe le ideologie accantonano i normali istinti morali della reciprocità e del merito, promuovendo ognuna un diverso principio razionale destinato ad essere imposto da un’avanguardia di competenti. Il movimento cooperativo, invece, si basava proprio su quei normali istinti morali, secondo una tradizione filosofica risalente a David Hume e Adam Smith. Un debito, questo, che Jonathan Haidt esplicita chiaramente quando parla della propria opera come del «primo passo verso una ripresa del progetto di Hume».

Mentre gli intellettuali di sinistra stavano abbandonando la socialdemocrazia comunitaria pratica a favore delle ideologie utilitaristiche o rawlsiane, i partiti di centro-destra si fossilizzarono attorno a ideali nostalgici o vennero conquistati da un gruppo di intellettuali altrettanto malaccorti. I cristiano-democratici dell’Europa continentale, rappresentati da politici come Silvio Berlusconi, Jacques Chirac e Angela Merkel, presero nella maggior parte dei casi la via della nostalgia; i partiti conservatori e repubblicani del mondo anglofono scelsero l’ideologia. Alla filosofia di Rawls venne contrapposta quella di Robert Nozick: i diritti di libertà individuali avevano la priorità rispetto agli interessi della collettività. Quest’idea si alleò naturalmente con le nuove analisi economiche condotte dal premio Nobel Milton Friedman, secondo cui la libertà di perseguire il proprio interesse, trovando un limite solo nella concorrenza, genera risultati superiori a quelli raggiungibili mediante la regolamentazione e la pianificazione pubblica, e costituì il fondamento intellettuale delle rivoluzioni attuate nel campo delle politiche pubbliche da Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Se le nuove ideologie di sinistra e di destra si presentavano come diametralmente opposte, avevano peraltro in comune l’accento posto sull’individuo e una spiccata propensione alla meritocrazia: l’élite meritocratica in campo morale della sinistra gareggiava con quella meritocratica in campo produttivo della destra. I molto buoni diventarono gli idoli della sinistra, i molto ricchi gli idoli della destraE.

In definitiva, cos’era andato storto nella socialdemocrazia, se sia la destra che la sinistra l’avevano abbandonata? Nel suo periodo di massimo splendore, gli anni Cinquanta e Sessanta, non se ne sarebbe davvero potuto dire troppo male. Ma sebbene essa sia stata la forza intellettuale dominante nelle politiche pubbliche, era pur sempre una creatura del suo tempo. Lungi dal racchiudere verità universali – caratteristica pretesa, questa, di ogni ideologia –, si basò in realtà su circostanze specifiche, che condizionavano la sua stessa validità. Quando quelle circostanze sono cambiate, le sue pretese universalistiche sono state infrante. Alla fine degli anni Settanta, in un’epoca in cui gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si presentavano omogenei come mai prima, le condizioni che la sostenevano si stavano già sgretolando; la rivolta di massa che trascinò Reagan e Thatcher al potere era già in atto. La socialdemocrazia funzionò dal 1945 agli anni Settanta perché visse grazie all’enorme, invisibile e non quantificabile patrimonio accumulatosi durante la Seconda guerra mondiale: un’identità condivisa, forgiata con un supremo e vincente sforzo nazionale. Quando quel patrimonio si erose, il potere esercitato dallo Stato paternalistico cominciò ad essere sempre meno sopportato.

Assieme alle fondamenta sociali della socialdemocrazia furono intaccate anche le sue fondamenta intellettuali. Con l’ascesa del nuovo campo di studi della Teoria della scelta pubblica, l’onnisciente pianificatore sociale, il guardiano platonico, fu condannato con scherno all’oblio. La nuova teoria mise in luce che le decisioni relative alle politiche pubbliche non vengono in genere assunte da santi imparziali, bensì bilanciando le pressioni provenienti da diversi gruppi di interesse, fra cui quello degli stessi burocrati. Era possibile affidarsi al disinteresse del pianificatore solo finché le persone coinvolte nella decisione fossero mosse da una passione per l’interesse nazionale, come quella che aveva animato la generazione del tempo di guerra. In campo filosofico, l’utilitarismo conta ancora su alcune sacche di aderenti, ma nei suoi confronti si sono andate accumulando critiche sferzanti8. A rafforzarle è arrivata poi quella formulata da psicologi sociali come Haidt, il quale ha rivelato che i valori dell’utilitarismo sono tutt’altro che verità universali. La grande maggioranza dell’umanità non è composta dai rozzi egoisti di cui parla la disciplina economica utilitarista, ma da persone che attribuiscono valore non solo alla cura del prossimo, ma anche all’equità, alla lealtà, alla libertà, alla sacralità e all’autorità. Non sono più egoiste dell’avanguardia socialdemocratica: sono più complete ed equilibrate.

Una volta che il nuovo libertarismo di destra si rivelò più distruttivo e meno efficiente del previsto, la sinistra ritornò al potere, ma non al comunitarismo. A controllarla ora c’erano i nuovi ideologi. Probabilmente la nuova avanguardia soppiantò i comunitaristi senza neppure accorgersi di averlo fatto. Ma le famiglie normali se ne accorsero, non da ultimo perché, scisse dalla dimensione comunitaria, alcune delle politiche sostenute dall’avanguardia risultarono dannose e impopolari. L’avanguardia dirigeva lo Stato dalla metropoli, che stava prosperando, e destinava l’assistenza ai gruppi ritenuti in condizioni di maggior bisogno: le «vittime». Le nuove ansie affliggevano persone prive dei requisiti sufficienti a ricevere quegli aiuti, nonostante che la loro situazione stesse deteriorandosi sia in termini assoluti sia in rapporto ai gruppi di «vittime» più di moda. Un corollario dello status di «vittima» era che chi rientrava in questa categoria non poteva essere in alcun modo considerato responsabile della propria condizione. Perfino quando la classe lavoratrice presentava alcune caratteristiche delle vittime, ciò le conferiva semplicemente il diritto a qualche consumo extra: era questo l’aspetto su cui si concentrava la redistribuzione utilitarista. Concetti come il senso di appartenenza, il merito, la dignità e il rispetto che derivano dall’adempimento delle obbligazioni sono talmente estranei da essere scomparsi del tutto dal discorso degli esperti. Di solito, però, il riconoscimento di status di vittima veniva negato ai membri della classe lavoratrice bianca; la «National Review», impeccabilmente WEIRD, può quindi commentare così la diminuzione della loro aspettativa di vita: «meritano di morire»9. Evidentemente, sebbene tutte le vittime siano uguali, alcune sono più uguali di altre.

Stiamo vivendo una tragedia. La mia generazione ha assistito alle trionfali conquiste del capitalismo strettamente collegate alla socialdemocrazia comunitaria. La nuova avanguardia ha soppiantato la socialdemocrazia, facendo prevalere la propria etica e altre priorità. L’inadeguatezza di questa nuova etica si è brutalmente manifestata con i dirompenti effetti collaterali delle nuove forze economiche che colpiscono le nostre società. Gli attuali fallimenti del capitalismo, governato dalle nuove ideologie, sono evidenti come lo furono i successi di ciò di cui hanno preso il posto. È arrivato il momento di lasciar perdere quello che è andato male e di pensare a cosa fare per rimettere le cose a posto.

Rimettere le cose a posto

I nostri politici, i giornali, le riviste e le librerie ci inondano di proposte apparentemente intelligenti: dovremmo riconvertire professionalmente i lavoratori, aiutare le famiglie in difficoltà, aumentare le tasse a carico dei ricchi. Molte di queste proposte sono mosse da un intento giusto, ma affrontano solo un aspetto delle nuove ansie, e non forniscono una risposta coerente a quello che è accaduto alle nostre società. Raramente si traducono in strategie praticabili e sostenute da una provata efficacia. Né, a parte quelle elaborate dagli ideologi, hanno un esplicito fondamento etico. Ho cercato di fare qualcosa di meglio. Ho tentato di coniugare una critica coerente di quello che è andato storto all’indicazione di modalità pratiche per risanare le tre fratture che hanno spaccato le nostre società.

La socialdemocrazia ha bisogno di essere ripensata concettualmente, riportandola dalla sua crisi esistenziale a una condizione che le permetta di essere nuovamente la filosofia che attraversa il centro dello spettro politico, accettata dal centro-sinistra come dal centro-destra. L’ispirazione che mi ha spinto a intraprendere un progetto che potrebbe apparire pretenzioso l’ho tratta dalla considerazione che oltre sessant’anni fa venne pubblicato un libro, dall’influenza enorme, che fece precisamente questo. Si tratta di Il futuro del socialismo, di Anthony Crosland, che conferì coerenza intellettuale alla socialdemocrazia nel suo periodo d’oro. Vi si faceva la scelta decisiva di prendere le distanze dall’ideologia marxista, riconoscendo che, lungi dal costituire una barriera al raggiungimento della prosperità di massa, il capitalismo ne era un presupposto essenziale. Il capitalismo genera e disciplina imprese, organizzazioni che permettono alle persone di sfruttare il potenziale della produzione su vasta scala e della specializzazione. Marx pensava che ciò causasse alienazione: lavorare al servizio dei capitalisti in aziende di grandi dimensioni avrebbe inevitabilmente separato il piacere dal lavoro, e la specializzazione faceva sì che l’uomo rimanesse «incatenato ad un singolo frammento dell’intero». Paradossalmente, le conseguenze dell’alienazione furono rivelate nel modo più devastante dal socialismo industriale, con quella cultura che si riassume nella frase «loro fanno finta di pagarci, e noi facciamo finta di lavorare». L’alienazione non è il prezzo necessario che la società deve pagare per raggiungere la prosperità; accettare il capitalismo non significa fare un patto col diavolo. Molte buone aziende moderne conferiscono ai lavoratori il senso di contribuire al raggiungimento di uno scopo che vale, e un grado di autonomia sufficiente ad assumersi la responsabilità di realizzarlo. I loro lavoratori sono soddisfatti di quello che fanno, e non solo di quanto guadagnano. Tante altre aziende non sono così, e molte persone sono obbligate a fare lavori improduttivi e demotivanti. Se il capitalismo deve funzionare per tutti, occorre gestirlo in modo da fornire uno scopo, oltre che la produttività. Ma l’agenda è questa: il capitalismo dev’essere gestito, non sconfitto.

Crosland era un pragmatista: una politica dev’essere giudicata per come funziona, e non a seconda che si conformi o meno a dei principi ideologici. Una proposizione fondamentale della filosofia pragmatista afferma che poiché le società cambiano, non dobbiamo aspettarci che esistano verità eterne. Il futuro del socialismo non era una bibbia per il futuro, voleva essere una strategia adatta alla sua epoca. Pur con un salutare sospetto nei confronti dell’arrogante paternalismo dell’avanguardia, la sua concezione del benessere era altrettanto riduzionista: un consumo pro-capite uniformemente distribuito. Il futuro del capitalismo non è un remake del Futuro del socialismo. È un tentativo di formulare un coerente insieme di rimedi per affrontare le nuove ansie del nostro tempo.

Il mondo accademico è diventato sempre più compartimentato in «silos» specialistici. Ciò comporta dei vantaggi quanto alla profondità delle conoscenze, ma il compito che ci si presenta davanti coinvolge diversi di tali silos. La realizzazione di questo volume è stata possibile solo perché ho tratto insegnamenti dalla collaborazione con una varietà estremamente ampia di specialisti di fama mondiale. I nuovi divari sociali sono in parte determinati dal cambiamento delle identità sociali; da George Akerlof ho appreso come la nuova psicoeconomia spiega il modo di comportarsi delle persone nell’ambito dei gruppi: dipende in parte dal fallimento della globalizzazione. Tony Venables mi ha fatto conoscere le nuove dinamiche economiche dell’agglomerazione metropolitana, e i motivi per cui le città di provincia implodono: ciò dipende in parte dalla degenerazione del comportamento delle imprese. Colin Mayer mi ha spiegato cosa è possibile fare per questa perdita di una prospettiva: fondamentalmente, questo disorientamento dipende dalla conquista delle politiche pubbliche da parte dell’utilitarismo. Da Tim Besley ho appreso un nuovo tipo di fusione fra teoria morale ed economia politica, mentre grazie a Chris Hookway ho compreso le origini filosofiche del pragmatismo.

Ho cercato di integrare le intuizioni di questi intellettuali di altissima statura ponendole alla base di alcuni rimedi pratici, ma ovviamente nessuno di loro può esser considerato responsabile del risultato che propongo10. I critici leggeranno le mie pagine cercandone gli aspetti da contestare, e sicuramente li troveranno. Ma questo libro vuol essere un serio tentativo di applicare le recenti correnti dell’analisi accademica alle nuove ansie che hanno sconvolto le nostre società. Spero che, come fece a suo tempo Il futuro del socialismo, riesca a fornire una base su cui sia possibile ricostruire il tormentato centro dello spettro politico.

Le società capitalistiche devono essere etiche, oltre che economicamente fiorenti. Nel prossimo capitolo contesterò l’immagine che ritrae l’umanità sulla falsariga dell’uomo economico: avida ed egoista. È vergognoso e aberrante, ma non c’è dubbio che oggi l’economia insegnata agli studenti stia realmente cominciando a conformarsi a un tale comportamento. Per la maggior parte di noi, le relazioni sono un aspetto fondamentale della nostra vita, e ad esse si accompagnano doveri. L’ingresso in una rete di impegni reciproci, che costituiscono l’essenza della comunità, rappresenta per le persone un’esperienza cruciale. La lotta fra l’egoismo e le obbligazioni reciproche – fra individualismo e comunità – opera in tre campi dominanti della nostra esistenza: gli Stati, le imprese e le famiglie. Negli ultimi decenni, in ognuno di essi l’individualismo ha conosciuto un’ascesa, la comunità un regresso. Per ognuna di queste aree, indicherò in che modo l’etica comunitaria potrebbe essere ripristinata e valorizzata da politiche che realizzino un riequilibrio del potere.

Basandomi su questa etica comunitaria pratica, affronterò le divergenti dinamiche che hanno lacerato le nostre società. Le nuove fratture geografiche, fra le metropoli in rapida espansione e le disastrate città di provincia, possono essere contenute ma richiedono un nuovo e radicale pensiero. La metropoli genera colossali rendite economiche, che dovrebbero affluire a beneficio della società, ma perché ciò accada occorre procedere a una sostanziale ristrutturazione del sistema fiscale. Rimettere in piedi le città in crisi è possibile, ma oggi i risultati sono desolanti. Né il mercato né gli interventi pubblici si sono dimostrati molto efficaci. Per riuscirvi è necessario coordinare e sostenere tutta una serie di politiche innovative.

Anche il nuovo divario di classe determinatosi fra i benestanti colti e i disperati meno istruiti può essere ridotto. Ma non esiste una singola politica che possa incidere sulla disperazione: contrariamente alla fissazione utilitarista per il consumo, il problema è troppo profondo perché sia possibile risolverlo incrementando i consumi tramite un aumento dei sussidi. Ancor più che nel caso delle città depresse, sarà necessario attivare un’ampia gamma di interventi per modificare le opportunità di vita, avendo in vista non solo gli individui, ma anche alle loro relazioni. Le politiche sociali dovrebbero puntare a sostenere le famiglie che sono in crisi, piuttosto che affidare a chi governa il ruolo del genitore. Alcuni dei problemi connessi alla disperazione che attraversa le famiglie sono stati aggravati dalle strategie di autoaffermazione dei soggetti dotati di un grado elevato di istruzione e di specializzazione. C’è qualche possibilità di ridurne gli effetti più dannosi; anche in questo caso, il problema non consiste solo nel fatto che i consumi siano eccessivi e che occorra ridurli tramite le politiche fiscali.

Quanto al divario globale, la fiduciosa avanguardia paternalista, sedotta dalla prospettiva di un futuro post-nazionale, ha trascurato i problemi connessi alla globalizzazione. Tuttavia, le reazioni private alle opportunità globali, benché magari razionali a livello individuale, non producono necessariamente un effetto sociale benefico. Fra gli economisti, un’opposizione ben fondata all’imposizione di elevate barriere doganali fece tutt’uno con un incondizionato entusiasmo per la liberalizzazione. Il commercio in genere avvantaggia ogni paese in misura sufficiente da far sì in teoria che chiunque ne ottenga un guadagno potrebbe pienamente compensare chi invece ci rimette. Ma se gli economisti si sono fatti molto sentire per difendere le ragioni del commercio, sono rimasti praticamente silenti sul tema della compensazione. Senza la quale non esiste una base analitica per poter sostenere che la società è in condizioni migliori. Analogamente, la ben fondata insistenza sui diritti delle minoranze etniche è diventata tutt’uno con l’incondizionata accettazione dell’immigrazione. Tuttavia, nonostante siano entrambi rubricati sotto il segno della globalizzazione, il commercio e l’emigrazione sono processi economici estremamente diversi, il primo spinto da un vantaggio comparativo, il secondo da un vantaggio assoluto. Non esistono postulati analitici secondo cui i processi migratori producano vantaggi per le società di destinazione dei migranti o per quelle di origine; gli unici indubbi vantaggi riguardano i migranti stessi.

Un manifesto

Il capitalismo ha raggiunto risultati grandiosi, ed è essenziale per la prosperità, ma non è la ricetta economica del dottor Pangloss. Nessuna delle tre nuove fratture sociali può essere risanata affidandosi soltanto alle pressioni del mercato e all’interesse personale: «Su con la vita e goditi il viaggio» è un’esortazione che non solo suona stonata, ma è anche segno di un eccessivo compiacimento. Ci occorrono politiche pubbliche attive, ma il paternalismo sociale ha più volte fallito. La sinistra ha ritenuto che lo Stato fosse portatore di una visione migliore, ma purtroppo non è andata così. Lo Stato diretto dall’avanguardia era visto come l’unica entità guidata dall’etica: ma si trattava di una sconsiderata sopravvalutazione delle sue capacità etiche, che sminuiva specularmente quelle delle famiglie e delle imprese. La destra riponeva la sua fiducia nella credenza secondo cui rompendo le catene della regolamentazione statale – secondo il mantra libertario – si sarebbe dato libero sfogo alla forza dell’interesse personale, consentendo a tutti di arricchirsi. Questa prospettiva, a sua volta, esagerava in modo sconsiderato i poteri magici del mercato, e ridimensionava specularmente l’importanza dei vincoli etici. Abbiamo senz’altro bisogno di uno Stato che sia attivo, ma che allo stesso tempo accetti un ruolo più modesto; abbiamo bisogno del mercato, ma vincolato a uno scopo che sia saldamente ancorato a basi etiche.

In mancanza di un termine migliore, penso che le politiche qui proposte per risanare queste fratture possano essere definite maternalismo sociale. Lo Stato sarebbe attivo sia nella sfera economica sia in quella sociale, ma non con l’aperto intento di accrescere il proprio potere. Le sue politiche fiscali limiterebbero la possibilità dei potenti di appropriarsi di guadagni che non meritano, ma non strapperebbero allegramente reddito ai ricchi per darlo ai poveri. Le sue regole migliorerebbero le condizioni di chi soffre a causa della «distruzione creatrice» mediante cui la concorrenza economica porta il progresso economico a rendere necessari meccanismi compensativi, invece di frustrare il processo stesso che conferisce al capitalismo il suo stupefacente dinamismoF. Il suo patriottismo sarebbe una forza coesiva, che si sostituirebbe all’enfasi sulle frammentate identità che esprimono ognuna il proprio risentimento. Il fondamento filosofico di questo programma d’azione consiste nel rifiuto dell’ideologia. Con ciò non intendo riferirmi a un’accozzaglia di idee messe insieme alla rinfusa, bensì alla disponibilità ad accettare i nostri diversi e istintivi valori morali, nonché i pragmatici compromessi che tale diversità implica. L’orientamento che porta a subordinare i valori a un unico principio razionale assoluto è destinato a creare divisioni. L’accettazione dei nostri diversi valori trova un fondamento nelle filosofie di David Hume e di Adam Smith. Le politiche prospettate in questo libro tagliano trasversalmente lo spettro politico destra-sinistra che ha caratterizzato nei suoi aspetti peggiori il secolo scorso, e che si sta riproponendo con forza inaspettataG.

Le catastrofi del XX secolo furono provocate da leader politici che o abbracciarono appassionatamente un’ideologia – gli uomini di principio –, oppure si fecero banditori del populismo – gli uomini carismatici (sì, in genere si trattava proprio di uomini). In contrapposizione a questi ideologi e populisti, i leader di maggiore successo del secolo furono dei pragmatisti. Per combattere una società impantanata nella corruzione e nella povertà, Lee Kwan Yew prese di petto la prima e trasformò Singapore in quella che è la società di maggior successo del XXI secolo. Per risolvere i problemi di un paese talmente diviso da essere sul punto della secessione, Pierre Trudeau disinnescò il separatismo del Québec e costruì una nazione fiera di se stessa. Dalle macerie del genocidio, Paul Kagame ha ricostruito il Ruanda facendone una società ben funzionante. Nel suo The Fix: How Nations Survive and Thrive in a World in Decline, Jonathan Tepperman ha studiato dieci leader politici, cercando di individuare la formula grazie alla quale ognuno di loro ha trovato il rimedio ai gravi problemi del proprio paese. La conclusione a cui è arrivato è che l’elemento comune è stata la scelta di evitare l’ideologia, per concentrarsi sull’individuazione di soluzioni pratiche ai problemi fondamentali, adattandosi in corso d’opera al variare delle situazioni11. Questi politici sono stati pronti ad essere duri quando necessario: la loro determinazione nel negare protezione a gruppi di potere è stata un segno caratteristico del loro successo. Lee Kwan Yew non ha esitato a mettere in carcere i suoi amici; Trudeau ha negato ai suoi conterranei del Québec la concessione dello status separato a cui anelavano; Kagame ha negato ai suoi Tutsi le tradizionali spoglie della vittoria militare. Prima del loro definitivo successo, tutti questi leader hanno dovuto affrontare veementi critiche.

Il pragmatismo di questo volume si basa saldamente e fondamentalmente su valori morali. Ma evita l’ideologia, e per questo offenderà sicuramente gli ideologi di qualsiasi convinzione. Che sono poi quelli che oggi dominano i mezzi di comunicazione di massa. Un’identità «di sinistra» è diventata un comodo sistema per sentirsi moralmente superiori; un’identità «di destra» è diventata un comodo sistema per sentirsi «realisti». State per addentrarvi in un’indagine nel futuro del capitalismo etico: benvenuti nella scomoda posizione del centro.

 

1 Si veda A. Case - A. Deaton, Mortality and Morbidity in the 21st Century, Brookings Institution, Washington (DC) 2017.

2 R. Chetty - D. Grusky - M. Hell - N. Hendren - R. Manduca - J. Narang, The fading American dream: trends in absolute income mobility since 1940, in «Science», CCCLVI (2017), 6336, pp. 398-406.

3 A. Chua, Political Tribes: Group Instinct and the Fate of Nations, Penguin Press, New York 2018, p. 173.

4 Si veda, ad esempio, P. Mason, Postcapitalism: A Guide to Our Future, Allen Lane, London 2015, e la mia rassegna di questa letteratura recente, in «Times Literary Supplement», 25 gennaio 2017.

5 Si veda J. Norman, Adam Smith: What He Thought and Why it Matters, Allen Lane, London 2018, cap. 7, per una chiara trattazione storica delle disastrose distorsioni apportate da Bentham e da Mill alle innovative analisi economiche di Adam Smith.

6 J. Haidt, The Righteous Mind: Why Good People are Divided by Politics and Religion, Vintage, New York 2012 (trad. it., Menti tribali. Perché le persone si dividono su politica e religione, Codice, Torino 2013).

7 «Financial Times», 5 gennaio 2018.

8 Una nuova trattazione di piacevole lettura è quella di Roger Scruton, On Human Nature, Princeton University Press, Princeton 2017.

9 Cit. in Chua, Political Tribes cit.

10 George Akerlof è premio Nobel per l’economia. Con lui, Rachel Kranton e Dennis Snower abbiamo fondato l’associazione Economic Research on Identities, Narratives and Norms. Tony Venables è uno studioso di geografia economica di notorietà mondiale. Negli ultimi tre anni abbiamo codiretto un progetto di ricerca sull’economia dell’urbanizzazione. Colin Mayer è docente di Scienza delle finanze a Oxford, ne ha diretto la Business school, e dirige il programma della British Academy «The Future of the Corporation». Il suo volume Prosperity: Better Business Makes the Greater Good (2018) è praticamente complementare al mio. Negli ultimi tre anni abbiamo lavorato assieme per convogliare investimenti nelle regioni povere. Il professor Sir Tim Besley è attualmente presidente della Econometric Society, ed è stato presidente della European Economic Association, e direttore della «American Economic Review»; attualmente presiediamo assieme la Commission on State Fragility della British Academy. Il professor Chris Hookway è il maggiore studioso di Peirce e delle origini della scuola pragmatista; è stato presidente della Peirce Society e ha diretto la «European Journal of Philosophy»; in occasione del suo pensionamento, nel 2015, il convegno in suo onore si intitolava The Idea of Pragmatism. Il caso vuole che sia il mio più vecchio amico.

11 J. Tepperman, The Fix: How Nations Survive and Thrive in a World in Decline, Tim Duggan Books, New York 2016.

A Gioco di parole con riferimento al fatto che si tratta di persone che hanno perso la calma, N.d.T.

B Come me, il famoso drammaturgo britannico Alan Bennett è nato nello Yorkshire da genitori poco istruiti. The History Boys (Gli studenti di storia) racconta la sua storia, tanto simile alla mia, fatta com’è di mobilità sociale con il passaggio che porta da un ambiente di umili origini fino a Oxford. Lui però è cresciuto in un posto più chic, come Leeds. Per dare maggior rilievo all’enorme divario sociale che ha colmato, ha ambientato la sua commedia non nella sua città natale, ma nella mia. Alla fine del primo atto, il protagonista elenca i propri handicap con un crescendo: «Sono basso, sono gay e sono di Sheffield». Lui non lo è, io invece sì. E di fatto, Bennett ambienta l’azione nella mia scuola: io quindi sono uno «History Boy» più autentico di lui.

C S. Pinker, The Better Angels of our Nature, Viking, New York 2011 (trad. it., Il declino della violenza: perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, Mondadori, Milano 2013), illustra efficacemente come il diffondersi dell’alfabetizzazione a metà Ottocento creò un mercato di massa per i romanzi, dalla cui lettura la gente imparò a guardare a una situazione dal punto di vista di qualcun altro, compiendo un percorso di educazione all’empatia. Pinker spiega come il declino degli spettacoli, un tempo popolari, delle impiccagioni pubbliche fu una conseguenza di questa evoluzione.

D È stata questa la consueta strategia politica adottata dal fascismo e dal marxismo.

E Di conseguenza, gli individui anomali che erano allo stesso tempo molto buoni e molto ricchi, come il mio vecchio amico George Soros, diventarono i cattivi, guardati con diffidenza da entrambe le parti.

F La «distruzione creatrice» è il processo mediante il quale le imprese efficienti eliminano quelle meno efficienti per effetto della concorrenza sul mercato, e spiega gran parte del graduale aumento dei redditi medi. L’espressione fu coniata nel 1942 da Joseph Schumpeter, il quale descrisse tale processo come «il fatto essenziale del capitalismo». È per questo motivo che gli altri «ismi», quale che sia il loro fascino romantico, sono nel migliore dei casi irrilevanti. Il futuro delle nostre società dipenderà dalla possibilità di riformare il capitalismo, non dal suo abbattimento.

G Gli elementi della struttura qui proposta – prosperità, comunità, etica e psicologia sociale – formano un insieme coerente. Questo perché risalgono tutti a David Hume e al suo amico Adam Smith. Come ha scritto recentemente il suo biografo Jesse Norman, Smith era un pragmatista. D’altro canto, le origini del pragmatismo sono da rintracciarsi nella sua stessa opera: «Le implicazioni della sua filosofia della scienza newtoniana sono state esplorate nel modo più profondo in epoca moderna nell’opera di Peirce», fondatore del pragmatismo filosofico. L’etica di Smith e di Hume aveva un orientamento esplicitamente comunitario: come Norman è molto attento a precisare, questi autori non erano dei proto-utilitaristi.