2.
I fondamenti della morale:
dal gene egoista al gruppo etico
Il capitalismo moderno ha in sé il potenziale per portarci tutti a un livello di prosperità senza precedenti, ma dal punto di vista morale è fallito e si avvia alla tragedia. Gli esseri umani hanno bisogno di sentire che stanno operando per uno scopo, e il capitalismo non gliene fornisce uno. Eppure potrebbe. Lo scopo peculiare del capitalismo moderno è rendere possibile la prosperità di massa. Forse perché sono nato povero e mi occupo di società povere, so che questo è un fine che vale la pena perseguire. Ma non è sufficiente. In una società ben sviluppata le persone prosperano, associando a questa condizione un senso di appartenenza e di stima. La prosperità può essere misurata mediante il reddito, e la sua antitesi è una desolante povertà. Oggi la condizione che più si avvicina a descrivere la prosperità è il benessere, la cui antitesi è una combinazione di isolamento e di umiliazione.
Facendo l’economista, ho imparato che la concorrenza decentrata basata sul mercato – il nucleo vitale del capitalismo – è l’unico modo per raggiungere la prosperità. Ma quali sono le fonti degli altri aspetti del benessere? Mentre l’uomo economico viene concepito come un essere indolente, un’attività orientata a un fine come il lavoro è invece importante per la stima che generaA. E mentre l’uomo economico è egocentrico, il senso di appartenenza dipende dal rispetto reciproco. Un capitalismo morale che sostenga la stima e il senso di appartenenza, assieme alla prosperità, non è un ossimoro. Comprensibilmente, però, molte persone pensano che sia così, perché ritengono che il capitalismo sia fatalmente inficiato dal fatto di affidarsi all’unico impulso dell’avidità.
Posti di fronte a questa critica, spesso i sostenitori del capitalismo ripetono a pappagallo la dottrina marxista secondo cui «il fine giustifica i mezzi». È un grave errore: un capitalismo mosso solo dall’avidità funzionerebbe male quanto il marxismo, generando umiliazioni e divisioni ma non prosperità di massa. E oggi il capitalismo sta effettivamente trascinando le società su questa strada. Questo libro presenta un’alternativa, nella quale i mezzi sono funzionali a un intento morale. Una tale nuova impostazione avrà bisogno di qualcosa di più degli slogan accattivanti dei dipartimenti di pubbliche relazioni delle grandi aziende o dell’uomo di Davos.
Nella seconda parte del volume vengono delineati i fondamenti etici su cui poggiano le soluzioni prospettate; la terza parte affronta le soluzioni pratiche alle nostre sempre più ampie divisioni sociali. Questo capitolo studia il legame fra la nostra morale e le nostre emozioni, le modalità con cui si evolve, e come le cose possano andare male1.
Bisogni e «doveri»
I disinvolti sostenitori del capitalismo convinti che il fine giustifica i mezzi, invocano la famosa affermazione di Adam Smith nell’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni secondo cui il perseguimento dell’interesse personale porta in definitiva al bene comune. L’affermazione secondo cui greed is good, «l’avidità è buona», diventò la base intellettuale del fervore che animò la rivoluzione reaganiana-thatcheriana. La frase di Smith è un prezioso correttivo all’ingenua idea che un’azione sia buona solo se motivata dal bene. L’economia moderna, invece, che proprio La ricchezza delle nazioni inaugurò nel 1776, è costruita su un tipo di essere umano decisamente ignobile. L’uomo economico è egoista, avido e pigro. Persone del genere esistono davvero, ed è possibile incontrarle. Ma neppure i miliardari vivono in questo modo: quelli che conosco personalmente sono entusiasti maniaci del lavoro, che hanno costruito la propria vita attorno a qualche scopo che travalica largamente i loro consumi. Molti economisti sono pronti ad ammettere questi limiti, ma le professioni di innocenza si scontrano con la brutale realtà dei fatti: gli studenti di economia acquisiscono un egoismo tutto particolare2, e sono i dannosi presupposti dei modelli che utilizziamo per guidare la politica a fissare i parametri di una discussione seriaB.
Smith però non pensava che fossimo come l’uomo economico3. Per lui il macellaio e il fornaio non erano semplicemente individui intenti a perseguire il loro interesse personale, ma persone con motivazioni morali che agivano in un contesto sociale. Un computer prevede il comportamento dell’uomo economico a partire dagli assiomi dell’interesse personale razionalmente considerato. Noi invece prevediamo le azioni del macellaio e del fornaio mettendoci nei loro panni: si tratta della cosiddetta «teoria della mente». Smith riconosceva che osservare una persona dal di dentro non solo ci mette in condizione di comprenderla, ma ci induce anche a interessarci a lei e a valutarne il carattere morale. Era su queste emozioni empatiche e valutative che riteneva si fondasse la morale, creando una scissione fra ciò che vogliamo fare, e ciò che sentiamo di dover fare. La morale scaturisce dai nostri sentimenti, non dalla nostra ragione. La tesi smithiana è esposta nella sua Teoria dei sentimenti morali, del 1759, in cui troviamo obbligazioni di tre distinte intensità.
Quelle più forti provengono dalla dimensione intima. Sono di portata più vasta e incondizionate quando riguardano i nostri figli e i parenti stretti, ma coinvolgono anche le altre persone che conosciamo. L’obbligazione più debole è quella riferita a persone lontane che si trovano in condizione di estremo bisogno. In un famoso passaggio, Smith ricorre all’esempio di un terremoto in Cina: non sarebbe abbastanza sconvolgente dal punto di vista emotivo per impedire a un inglese del XVIII secolo di godersi il suo pasto. Nonostante l’esistenza dei social media e delle organizzazioni non governative, si può dire lo stesso di un frequentatore di night club del XXI secolo che esca dopo cena. In Refuge: Transforming a Broken Refugee System, un libro che parla della crisi dei profughi, io e Alex Betts abbiamo invocato questa obbligazione, definendola un dovere di soccorso. Smith la collegava a un senso di imparzialità: sappiamo, oggettivamente, che in presenza di eventi come quel terremoto dovremmo prestare il nostro aiuto. Nel mio L’ultimo miliardo. Perché i paesi più poveri diventano sempre più poveri e cosa si può fare per aiutarli, ho fatto appello a un diverso dovere di soccorso. Oggi un miliardo di persone lotta contro una disperata povertà. Non occorre essere dei santi per riconoscere che dovremmo fare il possibile per dar loro una speranza.
Fra la nostra dimensione intima e i doveri di soccorso si collocano le emozioni che Smith pose al centro del suo scritto: le dolci pressioni esercitate da emozioni come la vergogna e la stima ci mettono in grado di scambiarci reciproche obbligazioni – ti aiuterò, se mi aiuterai. La fiducia che rende possibile tutto ciò è sostenuta dalle emozioni che scoraggiano la violazione degli obblighi. Per quale motivo le persone provano sentimenti del genere, che non rientrano nella psicologia dell’uomo economico? La risposta, sostenuta da conferme quali il nostro rammarico, è che uomo sociale è una definizione più appropriata per descrivere le persone. L’uomo sociale si preoccupa di quello che gli altri pensano di lui: desidera la stima altrui. L’uomo sociale è certo razionale – massimizza l’utilità –, e tuttavia trae l’utilità non solo dal proprio consumo, ma anche dalla stima. Come l’avidità e il senso di appartenenza, anche questo è un impulso fondamentale.
Il premio Nobel Vernon Smith si accorse che La ricchezza delle nazioni e la Teoria dei sentimenti morali sono costruite su un’idea comune: il reciproco beneficio derivante dallo scambio. Il campo in cui avviene lo scambio dei beni è il mercato, quello in cui si scambiano obbligazioni morali è il gruppo interattivo, al cui studio è dedicato questo capitolo. Per due secoli, gli economisti hanno pensato che Adam Smith avesse scritto due libri fra loro incompatibili, ignorando di fatto la Teoria dei sentimenti morali. Solo recentemente questo autore è stato adeguatamente compreso: non ci sono due Adam Smith, ma uno solo, e le sue idee a lungo trascurate sono estremamente importanti4.
Le persone sono motivate in parte dai «bisogni» di cui parla La ricchezza delle nazioni e in parte dai «doveri» illustrati dalla Teoria dei sentimenti morali. In entrambi i casi, Smith osservava che il passaggio dall’autosufficienza allo scambio operava una trasformazione, ma sembra che personalmente attribuisse maggiore importanza alla Teoria dei sentimenti morali, poiché lo scambio di «doveri» prevaleva sullo scambio di «bisogni». Ma i «doveri» sono solo pensieri che si affacciano alla mente? Il comportamento non è forse determinato solo dai «bisogni» o dall’avidità, come teorizzano i manuali e i critici del capitalismo?
Le scienze sociali hanno oggi accertato la loro rispettiva importanza psicologica, e l’osservazione sperimentale del comportamento ha accertato che i «doveri» sono importanti quanto i bisogni. In queste ricerche sono state usate dimostrazioni ingegnosamente semplici di cosa sia più importante. Alle persone esaminate è stato chiesto di ricordare e porre in ordine di importanza le decisioni passate che maggiormente rimpiangono. Tutti noi commettiamo degli sbagli, e gli sbagli peggiori bruciano: le risposte sono poi state raggruppate in varie categorie. Sappiamo che l’uomo economico avrebbe rimpianti soprattutto di questo tipo: «se solo avessi comprato quella casa…»; «se non avessi sbagliato quel colloquio di lavoro…»; «magari avessi acquistato qualche azione della Apple!». I nostri rimpianti sarebbero riferiti alla nostra incapacità di soddisfare i nostri «bisogni». E tuttavia in questo studio considerazioni del genere compaiono appena. Le persone commettono un sacco di errori di questo tipo, ma raramente stanno lì a pensarci. I rimpianti che più continuano a covare nell’animo riguardano nella stragrande maggioranza casi di «doveri» non rispettati, casi in cui abbiamo deluso qualcuno, non adempiendo a un’obbligazione5. Da questi rimpianti impariamo a rispettare le obbligazioni. Sebbene le nostre decisioni siano influenzate da impulsi di momentanea follia, quando prendiamo in considerazione le nostre azioni diamo in genere più importanza ai «doveri» che ai «bisogni».
La psicologia sociale ha inoltre dimostrato la correttezza della tesi di Smith secondo cui la morale deriva dai valori, piuttosto che dalla ragione6. Jonathan Haidt ha trovato conferme di tale predominio. Le persone tentano di giustificare i propri valori citando le ragioni che li sostengono, ma se le nostre ragioni vengono demolite, ce ne inventiamo delle altre, piuttosto che mettere in discussione i nostri valori. Le nostre ragioni si rivelano un’evidente finzione per ingannare noi stessi, una mistificazione chiamata «ragionamento motivato»7. Le ragioni sono ancorate ai valori, e non viceversa; oppure, per dirla chiaramente con le parole di Smith, «la ragione è schiava delle passioni». Le cose vanno peggio per l’uomo economico razionale. In quello che già è riconosciuto come un grande passo avanti nelle nostre conoscenze, The Enigma of Reason, Hugo Mercier e Dan Sperber mostrano che la ragione stessa si è evoluta per conseguire lo scopo strategico di convincere gli altri, non quello di migliorare la nostra capacità di assumere decisioni8. Il ragionamento motivato è il motivo per cui abbiamo sviluppato la capacità di ragionare e il modo con cui normalmente la utilizziamo. Tuttavia c’è qualcosa di ancor più fondamentale, vale a dire il fatto che l’enorme sviluppo del cervello umano avvenuto nel corso degli ultimi due milioni di anni è stato determinato dal bisogno di socialità9. Insomma, le idee di Smith sono tutt’altro che bizzarre, e delineano anzi la futura direzione dei manuali di scienza economica.
Spesso i valori si completano a vicenda, generando ulteriori norme. L’equità e la fedeltà, due dei valori che la ricerca di Haidt ha individuato come comuni, sostengono congiuntamente la norma della reciprocità, la quale collega la nostra fondamentale spinta a ricevere stima con il senso di vergogna e di colpa che proviamo quando non adempiamo a un’obbligazione. Gli esperimenti hanno mostrato che la reciprocità è il punto d’incontro tra fattori diversi che rende accettabili anche gli obblighi più impegnativi. Se il valore della cura sta alla base del dovere di soccorso, quando coloro che si trovano nella possibilità di prestare aiuto formano un gruppo, possono collegare equità e fedeltà in modo da costruire impegni reciproci: «Ti aiuterò, se mi aiuterai». Come impariamo a dare priorità a determinati bisogni, così diamo priorità a determinati valori. Mediante il ragionamento pratico perfezioniamo quei valori che a prima vista confliggono, lasciando che il contesto riveli la possibilità di un compromesso.
Era questo il pensiero di Smith e di Hume. Basandosi su tali presupposti, il pragmatismo sosteneva questo intreccio fra valori morali comuni e ragionamento pratico. Nella sua origine questo indirizzo di pensiero è comunitario, in quanto la funzione della morale è individuata nel fare il proprio meglio per adattare le proprie azioni ai valori della comunità e alle specificità del contesto in cui si operaC. Per dedurre quale sia l’azione giusta dovremmo usare il ragionamento pratico, che rifiuta l’ideologia: nessun valore è onnicomprensivo, assoluto ed eterno. Nelle comunità reali, l’importanza relativa dei valori si evolve; il pragmatismo chiede: «Che cosa, qui ed ora, è più probabile che funzioni?».
Al contrario, ogni ideologia rivendica la propria supremazia, derivante dalla ragione, su coloro che non concordano con essa. I custodi dell’ideologia suprema sono un’avanguardia di competenti. I fondamentalisti religiosi invocano come autorità suprema un unico essere divino, i marxisti la dittatura del «proletariato» guidata da una gerarchia10. Gli utilitaristi invocano la somma delle utilità individuali, mentre i rawlsiani si rifanno alla «giustizia» nel senso da essi stessi definito11. Il pragmatismo è in contrasto con l’ideologia, e si contrappone anche al populismo. L’ideologia privilegia una qualche «ragione» rispetto alla ricca gamma dei valori umani; il populismo respinge il ragionamento pratico basato sull’evidenza, saltando spudoratamente dalle passioni all’azione politica. I nostri valori, intrecciati col ragionamento pratico, congiungono il cuore e la testa. Il populismo propone il cuore senza la testa; l’ideologia mette avanti la testa senza il cuore.
Certo, il pragmatismo ha i suoi rischi. La libertà di dedurre le azioni morali di volta in volta a seconda delle situazioni va contenuta all’interno dei limiti intrinseci dell’essere umano. Il ragionamento richiede sforzo, ma la nostra volontà e le nostre capacità sono limitate. Quel che è peggio, siamo soggetti alla tentazione di adattare le ragioni ai nostri valori. Peggio ancora, i nostri giudizi non sono migliori della nostra conoscenza. I pragmatisti ammettono l’esistenza di questi limiti: i nostri giudizi morali individuali sono soggetti all’errore. Tutte le società hanno sviluppato qualche modo per cavarsela: ricorriamo a regole pratiche, alcune delle quali vengono codificate nelle istituzioni. Nel migliore dei casi, queste inglobano il sapere sociale che si è accumulato grazie a un complesso di esperienze troppo vasto per essere conosciuto da un singolo individuo. Per molte decisioni morali, può essere meglio lasciarsene guidare. I filosofi della politica che si mostrano assai scettici riguardo alle nostre capacità di attuare un ragionamento pratico a livello individuale prediligono questa saggezza accumulatasi nel corso del tempo e incorporata nelle istituzioni: ecco cos’è il conservatorismoD. Quelli meno scettici prediligono la libertà che questa condizione offre: ecco cos’è il liberalismoE. Entrambe le posizioni hanno una valida base: la risposta sta nel trovare un equilibrio.
Come si genera la reciprocità
Le obbligazioni reciproche sono decisive per il benessere, ma in che modo si formano? Qualsiasi trattazione al riguardo deve tener conto dell’evoluzione, includendo i desideri e i valori che costituiscono la base della reciprocità stessa. È facile spiegare perché la competizione per il cibo ha selezionato gli individui con una predisposizione all’avidità nel mangiare, svantaggiando gli altruisti. Ma per quale motivo aneliamo anche ad avere un senso di appartenenza e a ricevere stima? Perché attribuiamo valore alla lealtà, all’equità e alla cura del prossimo? E più in generale, perché abbiamo dei valori? L’evoluzione è stata un brutale processo di selezione con caratteristiche vantaggiose; potrebbe quindi sembrare che un materialismo egoista sia tutto quello di cui abbiamo bisogno: non possiamo mangiare stima e appartenenza, e i valori ci soffocano. La definizione uomo economico suonerebbe a prima vista come un’eco amplificata del gene egoista.
Eppure sappiamo che questo è sbagliato: il gene egoista non produce l’uomo egoista. Per molti millenni gli esseri umani hanno potuto sopravvivere solo cooperando all’interno di un gruppo: andare da soli significava morire. Essendo privo del desiderio di appartenenza e di stima, l’uomo economico era troppo egoista perché gli fosse consentito di rimanere nel gruppo, e ne fu estromesso. La selezione naturale escluse l’uomo economico razionale favorendo invece la donna sociale razionale: siamo strutturati per desiderare appartenenza e stima, e non solo cibo. Ma da dove ebbero origine i valori comuni?
I primi uomini vivevano in gruppo, in reti nelle quali le persone potevano interagire; il comportamento comune si diffuse mediante l’imitazione. All’epoca dell’avvento dell’Homo sapiens anche noi vivevamo in gruppo, e ci imitavamo a vicenda. Ancora oggi facciamo così. Le persone influenzano inconsapevolmente il comportamento non solo dei propri amici, ma anche degli amici degli amici, e così via12. L’Homo sapiens ha però sviluppato uno strumento di interazione dotato di una forza senza eguali: il linguaggio. Per quale motivo il linguaggio ha rappresentato un vantaggio così enorme? Perché è l’unica cosa che permette di comunicare narrazioni. Quando le persone si parlano, le narrazioni che in tal modo vengono messe in circolo trasmettono un complesso di idee. È questa l’attività fondamentale che distingue gli esseri umani dalle altre specie. Il cogito, ergo sum di Cartesio ritorna in primo piano: noi non deduciamo il nostro mondo da noi stessi, ma al contrario deduciamo noi stessi dal nostro mondo. Gli atomi che compongono l’umanità non sono gli individui ragionanti, ma le relazioni all’interno delle quali siamo nati. Possiamo apprendere qualcosa al riguardo dalle mostruose e rare anomalie rappresentate dai «bambini della foresta», quelli allevati dai lupi. Forse essi crescono, come nel mito di Romolo e Remo, e poi fondano Roma? Aggiornando la vicenda dalle origini di Roma a oggi, potremmo pensare che questo sia il logico punto di arrivo dell’ipotesi formulata da Ayn Rand: se le persone potessero crescere libere dalle catene imposte dalla società, diventerebbero come Atlante, vale a dire innovatori dotati di uno spirito indipendente. Nella realtà, diventano invece creature tragiche, non riconoscibili come esseri umani. Un celebre esempio fu quello di un bambino di nove anni ritrovato in una foresta della Francia nel Settecento. Nonostante lo si fosse sottoposto a un intenso programma educativo, non imparò mai neppure a parlare, per non dire delle altre attività di una persona normale. Gli equivalenti odierni sono i bambini romeni allevati negli istituti statali all’epoca del comunismo.
Attraverso la ripetuta esposizione alle narrazioni, i bambini sviluppano rapidamente un senso di appartenenza a un gruppo e a un luogo. Acquisiamo tutto ciò molto prima di sviluppare la facoltà razionale. L’identità familiare si struttura nei primi anni di vita, e perfino qualcosa di molto più vasto come l’identità nazionale risulta in genere già formata all’età di undici anni, mentre la capacità di ragionamento astratto si sviluppa più tardi, a circa quattordici anni13. Io penso a me stesso come a un uomo dello Yorkshire. Sono cresciuto fra migliaia di narrazioni di quella identità regionale, riecheggiate da una generazione all’altra: mentre ne scrivo mi viene in mente che ogni sera leggo le fiabe raccolte nel Daft Yorkshire Fairy Tales ad Alex, il mio figlio undicenne, in dialetto.
Le pecore non hanno la capacità di elaborare un linguaggio complesso, ma anche loro sviluppano la consapevolezza di appartenere a un gruppo che si trova in un determinato posto. Una volta che ciò è avvenuto, il compito del pastore diventa molto più semplice, perché gli animali non si allontaneranno dal pendio al quale si sentono legati (il termine inglese per indicare questo processo è hefting). Sappiamo che una volta che un gregge stabilisce questo legame, la consapevolezza dell’appartenenza è trasmessa dalle pecore adulte agli agnelli. Il fenomeno avviene troppo rapidamente perché lo si possa attribuire a un fattore genetico: si tratta di un comportamento appreso. Ma nonostante non abbia a che fare col patrimonio genetico, è comunque un processo che richiede molte generazioni prima di fissarsi. Per quale motivo le pecore sono così lente? La spiegazione che presento non viene dai pastori, ma dalle scienze socialiF. Gli animali che fanno parte di un gregge devono affrontare un problema di coordinamento. Ogni pecora imita le altre, e quindi perché il gregge rimanga sul solito pendio, tutti i suoi membri devono capire che non possono andarsene in giro, né seguire altri che lo facciano. La moderna psicologia sperimentale ci dice che la chiave per risolvere un problema di coordinamento è la «conoscenza comune», la quale consiste nel passaggio da una situazione in cui tutti sanno la stessa cosa a una in cui tutti sanno che ognuno la sa14. Un gruppo può generare una conoscenza comune o tramite una comune osservazione (quando tutti guardano la stessa cosa nello stesso momento), o mediante una narrazione comune. Ipotizzo che alle pecore occorrano centinaia di anni per creare una conoscenza comune, poiché possono usare solo l’osservazione comune, e si trovano quindi di fronte a un problema analogo a quello dell’uovo e della gallina. Hanno bisogno di osservare che tutte le altre pecore scelgono di rimanere sul pendio, ma finché le pecore stesse non l’hanno imparato, questo comportamento non è osservabile: gli animali devono aspettare che avvenga una rara configurazione casuale del comportamento stesso per poterlo apprendere. L’Homo sapiens può costruire un senso condiviso di appartenenza assai più rapidamente, utilizzando il linguaggio per far circolare la narrazione che comunica: «noi siamo quelli che stanno in questo posto»G.
Le narrazioni ci dicono non solo qualcosa riguardo all’appartenenza, ma anche cosa dovremmo fare – ci forniscono le norme del gruppo, che impariamo da bambini, assieme all’incentivo in termini di stima che otteniamo per adempiervi. Quando interiorizziamo queste norme come nostri valori e le rispettiamo, acquisiamo anche rispetto per noi stessi. Infrangere una norma costa in termini di stima; come abbiamo visto, quando le persone si comportano così poi ne provano rimorso. Alcuni dei nostri valori sono prelinguistici: un gruppo non ha bisogno del linguaggio per sviluppare l’istinto genitoriale di protezione dei figli. Ma le obbligazioni reciproche riferite a vasti gruppi richiedono un coordinamento sufficientemente complesso da rendere necessarie delle narrazioni, e quindi il linguaggioH.
Le narrazioni assolvono poi a una terza funzione: apprendiamo come funziona il mondo in cui viviamo mediante le storie che collegano le azioni ai loro esiti. Le nostre azioni diventano finalizzate a uno scopo. Gli esperimenti mostrano che ci basiamo più sulle storie che ci vengono riferite che sull’osservazione diretta o sull’insegnamento ricevuto. Unendole in una catena causale, le azioni che non rientrano nel nostro immediato interesse personale possono così apparire razionali, generando un interesse personale illuminato. Nel migliore dei casi, ciò estende la nostra conoscenza; nel peggiore, crea una frattura tra la realtà e quello che crediamo – è il caso delle narrazioni che generano fake news15. Vere o false che siano, le storie producono effetti. Nella loro sconvolgente analisi della crisi finanziaria, i due premi Nobel George Akerlof e Robert Shiller sono giunti alla conclusione che «le storie non si limitano più semplicemente a spiegare i fatti, sono i fatti»16. Quel che è vero riguardo alle crisi finanziarie si rivela applicabile anche all’esplosione della violenza di massa. La ricerca recente evidenzia che il modo migliore per prevedere tali fenomeni consiste nel tenere sotto osservazione le narrazioni che circolano nei media17.
I tre tipi di narrazione – appartenenza, obbligazione e causalità – si connettono andando a formare una rete di reciproche obbligazioni. Le nostre narrazioni riferite alle obbligazioni ci infondono un senso di equità e fedeltà per dirci per quale motivo dovremmo rispettare quelle che sono reciproche. Le nostre narrazioni riferite all’appartenenza comune ci dicono chi ne fa parte: le obbligazioni reciproche si applicano solo a un gruppo definito di persone che le accettano. Le nostre narrazioni riferite alla causalità ci indicano per quale motivo l’azione che siamo tenuti a compiere concorre al raggiungimento di uno scopo. La combinazione di tutto ciò dà luogo a un sistema di credenze, modificando il nostro comportamento. I sistemi di credenze possono trasformare la totale anarchia in una comunità, passando da vite «cattive, brutali e brevi» a esistenze «floride». Le narrazioni sono una specificità dell’Homo sapiens: non siamo semplicemente delle scimmie.
Le persone appartenenti alla stessa rete ascolteranno le medesime narrazioni, e avranno la conoscenza comune del fatto che ognuno di loro le ha ascoltate. All’interno di una rete, specifiche narrazioni di appartenenza, obbligazione e causalità tenderanno a combinarsi in modo armonico. Quelle potenzialmente disgreganti possono essere tenute fuori dal circuito da un tabù, oppure espulse screditandole18. Le idee possono essere mescolate in modo da rafforzarsi a vicenda. Insieme, collegano un’identità condivisa a uno scopo e a un’indicazione su come raggiungerlo. «I fedeli» ricercano il «paradiso» «pregando spesso»; oppure: «i professori di Oxford» aspirano ad «essere una grande università» «curando l’attività di insegnamento»19.
I sistemi di credenze possono generare conseguenze orribili, che appaiono con maggiore evidenza nel nazionalismo: è un fenomeno che affronterò nel prossimo capitolo. Ma hanno anche un inestimabile effetto positivo: il passaggio dall’egoismo dell’uomo economico alla persona motivata dall’obbligazione che si riconosce come parte di un «noi», di una comunità in cui le persone si guardano reciprocamente non con paura o indifferenza, ma col presupposto di un reciproco rispetto. Un mondo fatto solo di uomini economici non sarebbe quel paradiso splendidamente funzionale prospettato da semplicistici manuali di economia, dove apparentemente non c’è bisogno che di egoismo. Quei manuali presuppongono l’esistenza di una società in cui le regole sono già state accettate e vengono rispettate. Per usare la metafora di una biblioteca, i volumi con la collocazione ECON 101 cominciano dove finiscono quelli classificati SOC PSY 999 e POL SCI 999. Tutto questo gli economisti lo stanno riconoscendo tardivamente: i pionieri in tal senso sono stati George Akerlof e la sua coautrice Rachel Kranton20. Ma, recuperando il tempo perso, l’economia fornisce oggi anche utili prospettive in tal senso.
Una delle più recenti, con implicazioni di enorme importanza, riguarda l’evoluzione delle norme etiche. A proporla è Tim Besley, che si è ispirato alla biologia: le norme, come i geni, si trasmettono dai genitori ai figli21. Ma il processo appare assai diverso. Besley parte da una società immaginaria nella quale alcuni seguono una norma, altri una diversa. Nella scelta del coniuge le persone tendono a legarsi ad altre che condividono le loro stesse norme, ma talvolta Cupido rimescola le carte e i figli crescono con genitori che si comportano secondo norme diverse. Quali norme adotteranno? Besley ipotizza un processo semplice, che è un caso di idee mescolate a caso in modo da evitare lo stress mentale di un difficile adeguamento: i figli tenderanno ad assumere le idee del genitore più felice. Quanto a quale dei due genitori sia tale, in un sistema politico in cui la maggioranza prevale generalmente esso è quello le cui idee sono quelle più diffuse22. Da ciò derivano due conclusioni.
In presenza di un processo di selezione naturale, se un’isola ha scogliere bianche, gli uccelli che la popolano svilupperanno un piumaggio bianco, indipendentemente dalla gamma di colori che possiedono quando arrivano da altre isole. Un organismo si evolve per adattarsi all’habitat. Le norme, al contrario, possono evolversi in modo assai diverso anche in due habitat identici, spinte da piccole differenze nella loro incidenza iniziale. L’ambiente è la popolazione, e le persone si evolvono per trovare un modus vivendi con gli altriI. Il punto d’inizio di una comuintà determina dove essa finisce, con l’amplificazione delle differenze iniziali. Questo fenomeno ha una chiara corrispondenza con la realtà che osserviamo nel mondo umano: società diverse hanno norme prevalenti assai diverse, ognuna delle quali è persistente nella rispettiva società. Ma è la seconda conclusione a fare più impressione. Nella selezione naturale, la popolazione finisce per assumere quelle caratteristiche che sono «più adatte» all’habitat. In presenza di scogliere bianche, gli uccelli bianchi dispongono di un vantaggio. Ma nel caso delle norme non vale assolutamente una premessa del genere. Esse possono rivelarsi terribili per tutti, nonostante siano buone per ogni singolo individuo, date le norme a cui ogni altro si attiene. Per rendersi conto di quanto ciò sia bizzarro in rapporto alla selezione naturale, si pensi che equivale a dire che tutti gli uccelli di una popolazione assumono una colorazione blu perché all’inizio la maggior parte degli uccelli erano blu, anche se, sullo sfondo delle scogliere, avranno più possibilità di essere mangiati dai predatoriJ. Insieme, le due conclusioni comportano che una rete di persone possa senz’altro adottare una configurazione di norme stabili, le quali, ciò nonostante, non si rivelano funzionali per il gruppo. Si tratta di una configurazione stabile (vale a dire non soggetta a ulteriori cambiamenti), proprio perché ogni persona è bloccata dalle norme adottate da tutti gli altri.
Questi risultati hanno una notevole implicazione: la filosofia politica conservatrice non può essere interamente giusta. I filosofi di orientamento conservatore celebrano le istituzioni sociali stratificatesi nel corso del tempo, nelle quali ritengono sia contenuta la saggezza derivante dall’esperienza. Ma le istituzioni possono aver formalizzato norme che in realtà sono estremamente disfunzionali. Questo tuttavia non autorizza il criterio delle esigenze imperative per derogare alle norme: il ragionamento motivato può condurre al disastro.
L’uso strategico delle norme nelle organizzazioni
Nel corso degli ultimi millenni, la maggior parte degli esseri umani non ha vissuto in piccoli gruppi itineranti alla ricerca di cibo. La vita moderna è materialmente possibile solo perché le persone lavorano insieme all’interno di vaste organizzazioni dove possono avvantaggiarsi delle efficienze di scala e della specializzazione.
Esistono tre tipi di organizzazione che dominano la nostra vita, ognuna delle quali si presta meglio allo svolgimento di un diverso complesso di attività. Quella più piccola, ma di fondamentale importanza, è la famiglia: l’86% degli europei vive all’interno di un gruppo familiare, e le famiglie sono il contesto in cui si forma la maggior parte dei bambini. Sebbene costituisca la norma, alcune ideologie la contestano. I kibbutzim socialisti la abolirono completamente; la Romania comunista separò molte migliaia di bambini dai genitori per allevarli collettivamente. Sia il marxismo staliniano che i leader di sette fondamentaliste hanno incoraggiato i bambini a denunciare i genitori. E attualmente neppure il capitalismo, come vedremo, sta aiutando le famiglie: in alcune fasce della società le famiglie si stanno disintegrando. Tuttavia le famiglie, per validi motivi, hanno un ruolo dominante nel crescere i bambini. Non esistono esempi di metodi alternativi rivelatisi adeguati.
Quando le persone lavorano, di solito sono organizzate in aziende, le dimensioni delle quali sono essenziali per consentire i moderni livelli di produttività. Negli Stati Uniti il 94% delle persone lavora all’interno di un gruppo, in Gran Bretagna l’86%K. Come per le famiglie, alcune ideologie sono ostili alle grandi imprese. I vecchi romantici auspicano un ritorno a una società di artigiani, contadini e comunità. I neoromantici si entusiasmano per le nuove piattaforme in rete come Amazon, Airbnb, Uber o eBay, che permettono alle persone di interagire direttamente. Ma Amazon e Uber sono diventate a loro volta enormi datori di lavoro. Nelle società africane la maggior parte delle persone lavora individualmente, sono artigiani o piccoli proprietari terrieri. Questo ha i suoi vantaggi, ma mantiene la produttività cronicamente bassa, e quindi la gente è estremamente povera. Ci occorrono imprese moderne, e lo stesso vale per gli africani: l’Africa non è solo la regione col più basso livello di prosperità, è anche quella meno felice23.
Al livello più elevato, la migliore organizzazione di molte attività, come la regolamentazione, la fornitura di beni pubblici e servizi e la redistribuzione del reddito, si ha quando ne è responsabile lo Stato. Qui i dati sono ancora più clamorosi: tutte le società fiorenti sono organizzate in Stati, e tutte le società prive di uno Stato sono estremamente povereL. Anche a tale riguardo, esistono ideologie ostili allo Stato. I marxisti, che alla prova dei fatti hanno imposto un’organizzazione sociale più statocentrica di qualsiasi altra mai tentata, perseguono esplicitamente uno scopo assai diverso: lo Stato dovrebbe infatti «estinguersi». Ma l’ideologia antistatale attualmente più influente è quella dei libertarians della Silicon Valley. Secondo loro, il bitcoin è destinato a soppiantare la moneta emessa dallo Stato, una volta che chi usa le valute ufficiali le abbandonerà. I supermen che detengono le nuove utilities elettroniche determineranno ognuno individualmente il modo di usarle meglio, ignorando o sconfiggendo la regolamentazione imposta dallo Stato. La connettività diretta fra le singole persone, una volta attivata a livello globale, prenderà il posto della società spazialmente delimitata che si è finora basata sullo Stato nazionale. «Governi del Mondo Industriale, stanchi giganti di carne e acciaio, lasciateci soli». Liberati dal governo, ci mescoleremo tutti in un unico gigantesco complesso: «la privacy non è più una norma sociale»24. Il risultato sarà superiore, sia sul piano morale che su quello pratico. Ma ahimè, temo proprio che non sarà così.
I titani della Silicon Valley che hanno interconnesso il mondo intero si immaginano, così facendo, di aprire la strada a una società globale che unisca tutti intorno ai loro valori libertari. Ma è una prospettiva altamente improbabile. Le nuove tecnologie che consentono la connettività fra singole persone stanno soppiantando i gruppi interattivi che erano motivati dal fatto di disporre di un luogo condiviso, si trattasse di una comunità o di una nazione. Entrare a far parte dei nuovi gruppi connessi elettronicamente è frutto di una scelta, non del caso: le persone preferiscono mettersi in rete con altre che condividono le loro idee all’interno di una sorta di «camere dell’eco», dove tutti la pensano allo stesso modo e si rafforzano reciprocamente nelle loro convinzioni25. Queste persone incarnano il processo mediante cui le narrazioni generano le nostre credenze, sempre più distaccate dalla condivisione dello spazio nel quale viviamo. Tuttavia, gli elementi costitutivi della nostra dimensione politica sono ancora definiti dal luogo in cui viviamo. I nostri voti vengono conteggiati luogo per luogo, e anche i servizi pubblici e i provvedimenti decisi dalla nostra politica vengono emanati e applicati luogo per luogo. In conseguenza della connettività digitale, quindi, avviene che lo stesso processo che prima produceva ampie variazioni delle norme fra diverse società, le produce oggi all’interno di una stessa comunità. Le idee contenute nelle nostre società si stanno sempre più polarizzando; i disaccordi diventano più aspri, gli odi che nei secoli precedenti contrapponevano una società all’altra spingono ora un sistema di credenze a scontrarsi con un altro all’interno della medesima società. Gli odi fra comunità diverse portavano alla violenza di massa organizzata. Quelli intestini hanno conseguenze diverse, ma potenzialmente spaventose.
Famiglie, imprese e Stati sono i campi fondamentali che concorrono a definire le nostre vite. Il modo più rapido per costruirle è strutturarle in gerarchie nelle quali chi occupa il vertice comanda chi si trova ai livelli più bassi. Se la loro costruzione è rapida, raramente è possibile governarle in modo efficiente: le persone obbediscono agli ordini solo se chi comanda sorveglia le azioni dei subordinati. Gradualmente, molte organizzazioni hanno imparato che era più efficace allentare la gerarchia, creando ruoli interdipendenti, percepiti come rivolti a un fine, e concedendo alle persone l’autonomia e la responsabilità necessarie per interpretarli. Il passaggio da una struttura gerarchica gestita tramite il potere a un’interdipendenza gestita mediante la prospettazione di uno scopo implica un corrispondente mutamento nella leadership. Il leader, da comandante in capo, diventa un comunicatore in capo. La carota e il bastone prendono la forma di un complesso di narrazioni.
Nelle famiglie moderne, i genitori sono su un piano di parità, e convincono con pazienza i figli ad assumersi le loro responsabilità. Nelle aziende e nei governi, le gerarchie si sono radicalmente appiattite; la Banca d’Inghilterra, ad esempio, aveva per tradizione sei diverse mense, segno di un livello di differenziazione oggi inconcepibile. La leadership non è stata abolita, ma il suo ruolo si è trasformato. C’è una buona ragione che spiega per quale motivo sia stata mantenuta: le alternative utopiche svaniscono immancabilmente.
Chi è posto ai vertici organizzativi delle famiglie, delle imprese e degli Stati ha più potere di chi occupa i livelli più bassi, ma in genere è investito di responsabilità molto maggiori dei poteri di cui può disporre. Per adempiervi, ha bisogno che altri all’interno del gruppo si conformino, ma i mezzi di cui dispone per imporre le proprie decisioni sono limitati. Nel mio ruolo di padre, cerco di insistere perché Alex non vada a dormire tardi. Ma esercitare una pura e semplice autorità è un compito difficile, e non molto efficace: Alex va a letto e si mette a leggere. In tutte le organizzazioni che funzionano, si tratti di famiglie, imprese o Stati, i leader scoprono che possono fortemente incentivare il rispetto delle disposizioni se infondono un senso del dovere. Alex vuole stare sveglio e leggere, ma se riesco a convincerlo che dovrebbe andare a dormire, la mia difficoltà ad essere obbedito si riduce. Quando ci riesco, il mio potere si trasforma in autorità. Detto in termini più altisonanti, si tratta della costruzione di norme morali a fini strategici. Il potere essenziale dei capi non risiede nel comando, ma nel fatto che occupano lo snodo centrale di una rete: hanno il potere di convincereM. Il fatto che i capi usino la morale strategicamente per condizionare le nostre vite suona sinistro. Tuttavia, in genere avviene il contrario: è il salutare processo che ha permesso alle società moderne di essere dei posti migliori di tutte le società precedenti. Certo, avrebbero potuto essere ancora migliori.
Ma, praticamente, come fanno i capi a utilizzare strategicamente il linguaggio per generare obbligazioni? Guardiamo come fece nel 1943 Robert Wood Johnson, presidente della Johnson & Johnson. Egli fissò i principi morali dell’azienda scolpendoli letteralmente nella pietra. Il nostro Credo comincia così: «Noi crediamo che la nostra prima responsabilità sia nei confronti delle persone che usano i nostri prodotti». Si notino i termini «noi» e «nostri»: questo avrebbe dovuto essere il credo di chiunque lavorasse nell’azienda. Il testo proseguiva elencando le altre responsabilità in ordine discendente d’importanza: verso gli impiegati, la comunità locale e, infine, gli azionisti. Il Credo è stato sostenuto nell’arco di tre generazioni dall’uso di narrazioni: chi visiti il sito web aziendale potrà verificare che è ancora organizzato intorno a «storie». Tutto questo è riuscito a promuovere un comportamento diverso?
Nel 1982 la Johnson & Johnson fu colpita da una tragedia. A Chicago morirono sette persone, e si scoprì che i decessi erano stati causati da un veleno che era stato immesso in alcune confezioni di Tylenol, il prodotto più venduto dall’azienda. Quel che avvenne allora è talmente rilevante da essere ancora oggi usato nelle business schools come caso di studio. Ancor prima che i dirigenti avessero il tempo di reagire, i responsabili delle filiali locali presero l’iniziativa di ritirare tutte le confezioni del prodotto dagli scaffali dei supermercati, promettendo un rimborso totale ai punti vendita. La procedura oggi non sembra originale, poiché fin da allora è diventata prassi comune in tutto il mondo del commercio. Ma fino al 1982 le aziende non richiamavano i prodotti, e anzi negavano ogni responsabilità. I quadri intermedi della Johnson & Johnson presero quest’iniziativa, che comportava per l’azienda un costo di circa 100 milioni di dollari, perché avevano capito dal loro Credo che nelle loro scelte dovevano attribuire la priorità ai consumatori di Tylenol26. Il loro pronto intervento, che poi fu pienamente appoggiato dai vertici dirigenziali, non ebbe solo un significato morale: fu un buon affare. Contrariamente alle previsioni, infatti, l’azienda recuperò rapidamente la propria quota di mercatoN.
Il solido fondamento dell’economia, accettato da Adam Smith, è il riconoscimento che l’altruismo privo di reciprocità si limita ai doveri di soccorso: non è un contrappeso adeguato all’interesse personale. Le obbligazioni reciproche sono vitali, ma devono essere costruite. È quello che fanno congiuntamente le narrazioni di appartenenza, obbligazione e azione comune finalizzata27. Le ho presentate in sequenza – appartenenza, poi obbligazioni, quindi azione orientata a uno scopo – ma la sequenza non è rigida; se un’azione comune portasse a un buon risultato per molte persone, ciò potrebbe costituire la base sia per un’identità condivisa che per un dovere comune.
Le narrazioni sono potenti, ma ci sono dei limiti al loro possibile allontanamento dalla realtà: i leader vengono molto osservati e ascoltati, e quindi non possono permettersi di contraddire col proprio operato quello che dicono. Le loro azioni devono essere coerenti con le loro narrazioni. Se affermi che io e te facciamo parte di un unico «noi» e nello stesso tempo favorisci te stesso a mio discapito, smentisci la narrazione dell’appartenenza. Se diciamo che tutti abbiamo un dovere reciproco e poi ci comportiamo in modo egoistico, smentiamo la narrazione dell’obbligazione. Il CEO della Johnson & Johnson forse non avrebbe avuto dipendenti pronti ad assumersi la responsabilità di ritirare il Tylenol dagli scaffali di loro iniziativa, se li avesse sfruttati. Invece la sua condotta fu esemplare: ricevette persino la Medaglia presidenziale della Libertà, che accettò a nome del personale dell’azienda.
Così come i leader possono intaccare un sistema di credenze adottando un comportamento con esso incompatibile, possono anche rafforzarlo se impostano strategicamente le loro azioni. Supponiamo che i nostri interlocutori sospettino che non crediamo veramente in quel che diciamo. Il Credo afferma che «i clienti vengono prima dei profitti»: ma è forse solo una frase per ingraziarsi i clienti? Cosa possiamo fare per smontare questo sospetto? Michael Spence vinse il Premio Nobel per aver risolto il problema con la sua Teoria dei segnali. Evidentemente, non serve dire «Lo pensiamo veramente», perché lo diremmo anche se non fosse vero. Niente di quel che diciamo può servire, tuttavia possiamo fare qualcosa. In particolare, dovremmo fare qualcosa che, se veramente crediamo che «i clienti vengono prima dei profitti», sarebbe inaccettabilmente oneroso per noi. Le uniche azioni che funzionano sono quelle dolorose, anche se siamo davvero convinti di quello che proclamiamo: è il prezzo che occorre pagare per essere credibili. I segnali rafforzano la credibilità di un sistema di credenze, ma non rendono superflue le narrazioni: i segnali conferiscono credibilità, le narrazioni apportano precisione. Sono due elementi complementari.
La trasformazione del potere in autorità è essenziale per stabilire nessi di reciprocità in enormi gruppi di persone, come quello in base a cui tutti accettano l’obbligo di pagare le tasse. I leader non sono ingegneri di anime, ma possono incanalare le nostre emozioni. Quelli pericolosi si affidano solo all’imposizione. Quelli bravi invece usano la propria posizione di comunicatori in capo al centro del loro gruppo interattivo: esercitano influenza strutturando narrazioni e azioni. Tutti i leader ampliano e perfezionano le narrazioni che si adattano al sistema di credenze del loro gruppo, ma i grandi leader riescono a costruire un intero sistema di credenze28.
Il più recente esempio di leadership che utilizza narrazioni all’interno di una rete è l’ISIS. I suoi capi si resero conto del potere che i social networks hanno di trasmettere nuove e possenti narrazioni. Quelle relative all’appartenenza legarono in una comune identità di Fedeli dei giovani che prima si identificavano come svedesi, marocchini, belgi, tunisini, australiani e via dicendo. Le narrazioni riferite agli obblighi reciproci li chiusero in una prospettiva di comportamento brutale mediante la pressione esercitata dalla stima fra pari. Le nuove formulazioni della narrazione costruirono una catena causale e dettero uno scopo all’adempimento degli obblighi, collegando il loro orribile comportamento all’obiettivo concreto della creazione di un «califfato». Grazie alla disponibilità di carne da cannone e di denaro saudita, l’ISIS diventò in breve tempo un attore di rilievo sulla scena mondiale, tanto da poter essere smantellato – come avvenne per il fascismo – solo da una forza schiacciante. Come sistema di credenze, è internamente coerente, e quindi stabile; ogni suo singolo componente osservato isolatamente è talmente ripugnante da creare un abisso fra il gruppo e chiunque altro, rafforzando l’identità di gruppo.
L’ISIS utilizzava le narrazioni in modo strategico per riportare le società al XII secolo. I nostri leader potrebbero usarle per uno scopo migliore.
La trasmissione delle obbligazioni
Siamo partiti dal deficit morale che sta di fronte al capitalismo moderno: una società senza morale può funzionare perché l’interesse personale ci condurrà tutti fino al nirvana della prosperità di massa. «Avido è bello» perché più intenso è l’appetito, più la gente si impegna sul lavoro, e più ricchi diventeremo tutti. Ci siamo da tempo lasciati alle spalle questa proposizione. Siamo esseri sociali, non uomini economici, né santi altruisti. Aneliamo a ricevere stima e ad acquisire senso di appartenenza, elementi che stanno a fondamento dei nostri valori morali. In tutto il mondo abbiamo sei valori in comune, nessuno dei quali è generato dalla ragione. Cura del prossimo e libertà possono essere stati fattori evolutivi primitivi. Lealtà e sacralità possono essersi sviluppati come norme funzionali a sostenere il gruppo; i membri li avrebbero seguiti come norme e interiorizzati come valori poiché venivano ricompensati con il senso di appartenenza. Analogamente, le norme riferite all’equità e all’autorità possono essersi evolute per mantenere l’ordine nel gruppo, ottenendo come ricompensa la stima.
I nostri valori sono importanti, perché le azioni che richiedono – le nostre obbligazioni – hanno il sopravvento sui nostri bisogni. È significativo come da questo limitato gruppo di valori abbiamo imparato a generare obbligazioni potenzialmente illimitate, mediante sistemi di credenze prodotti da narrazioni e sostenuti da azioni volte a mandare segnali. Questi sistemi di credenze possono essere creati consapevolmente da leader collocati nel punto di snodo delle reti: nelle famiglie, nelle imprese e nelle società. A seconda dello specifico contenuto delle narrazioni, esse possono produrre comportamenti di gruppo alquanto diversi, ognuno in definitiva sostenuto da valori e da desideri comuni.
Tutto ciò ha un rilievo per le scelte che oggi le nostre società devono compiere. Le ideologie sono allettanti: separano la morale dai nostri valori comuni. Ognuna attribuisce il primato alla ragione, privilegiando un valore rispetto agli altri. Il risultato è che tutte collidono inevitabilmente con alcuni dei nostri valori e con le basi psicologiche su cui essi poggiano. Se il perseguimento del loro obiettivo generale indebolisce il senso di appartenenza, non importa; se ciò sprofonda qualcuno nell’umiliazione, niente di male: tutte le ideologie accettano l’esistenza di qualche «danno collaterale». Se concordano sulla supremazia della ragione, divergono quando si tratta di stabilire cosa sia la ragione. Questo garantisce che la strada delle ideologie sfocerà in un conflitto sociale insolubile. È più probabile che le ideologie, invece di condurci verso le loro immaginate utopie, ci riportino verso un passato in cui le vite erano cattive, brutali e brevi.
Anche i populisti si danno da fare per convincerci ad aderire alla loro prospettiva. Si proclamano fieri dei nostri valori e delle nostre aspirazioni, ma si sbarazzano di secoli di apprendimento sociale che si riflettono nel nostro ragionamento pratico e nelle nostre istituzioni, e ignorano la nostra capacità di costruire nessi di reciprocità. Anche loro vorrebbero riportarci indietro.
Questo libro propone una strada diversa: un capitalismo etico che soddisfi gli standard costruiti sui nostri valori, affinati dal ragionamento pratico, e riprodotti dalla società stessa. Questa frase ingannevolmente semplice contiene in sé numerose e problematiche complessità. Gli ideologi si mostrerebbero riluttanti di fronte all’espressione «costruiti sui nostri valori», i populisti farebbero lo stesso sentendo dire «affinati dal ragionamento pratico». Ma cosa implica la frase «riprodotti dalla società stessa»? Con ciò non intendo la perfezione atemporale delle utopie, che si tratti della Repubblica di Platone, del paradiso marxista o del trionfalismo legato all’idea della «fine della storia» – sono cose ridicole. Con «riprodotti» mi riferisco solo al fatto che le norme sociali non dovrebbero essere intrinsecamente autodistruttive. Per usare il linguaggio delle scienze sociali, stiamo cercando qualcosa che sia localmente stabile. Periodicamente, le società saranno colpite da shock: naturali come il cambiamento climatico o intellettuali come l’emergere di una nuova religione. Tali shock possono spingere la società a una distanza sufficiente dal suo equilibrio locale da farla approdare a norme completamente diverse. Ma occorre evitare che le nostre norme crollino sotto il peso delle loro stesse contraddizioni.
Ora disponiamo di un quadro coerente che ci mostra come il comportamento individuale sia determinato dalle obbligazioni, per quale motivo esso sia importante, perché le cose potrebbero andar male, e come potrebbero essere rimesse a posto. Mi accingo brevemente ad applicare queste tre consapevolezze ai tre tipi di gruppi che dominano le nostre vite: le famiglie, le imprese e le società. Mostrerò come i leader di questi gruppi potrebbero costruire obblighi reciproci tali da riconfigurare il capitalismo, per operare insieme alla natura dei valori comuni, invece che contro di essa.
La mia insistenza sulle obbligazioni reciproche contrasta con il discorso politico prevalente, che ha ridimensionato la portata della morale riducendola all’asserzione dei diritti e delle prerogative individuali; le obbligazioni sono state trasferite ai governi. Tuttavia per una persona che è titolare di un diritto, un’altra deve avere un obbligo. Un nuovo obbligo induce un cambiamento nel comportamento che consente a un nuovo diritto di essere esercitato: senza una qualche corrispondente obbligazione, ogni nuovo diritto diventa vuoto: sono gli obblighi reciproci ad assicurare che esso si coniughi al nuovo obbligo corrispondente.
I diritti implicano obblighi, ma non vale necessariamente il contrario. Gli obblighi dei genitori nei confronti dei figli vanno ben oltre i loro diritti legali. E neppure ai doveri di soccorso debbono corrispondere dei diritti: soccorriamo un bambino che sta affogando in uno stagno a causa della difficoltà in cui si trova, non in virtù dei suoi diritti. Una società che riesce a generare molte obbligazioni può essere più generosa e armoniosa di una che si affida soltanto ai diritti. Le obbligazioni stanno ai diritti come le imposte alla spesa pubblica – comportano una serie di azioni impegnative. Gli elettorati del mondo occidentale hanno nella maggior parte dei casi imparato che il dibattito sulla spesa pubblica deve valutarne i benefici in rapporto alle modalità con cui sarebbe possibile finanziarla. Altrimenti, i politici promettono maggiori spese durante il periodo elettorale e nella fase successiva l’eccesso delle spese sulle entrate viene risolto mediante l’inflazione29. Se i nuovi obblighi sono analoghi alle maggiori entrate, la creazione di diritti è analoga all’aumento delle spese. I diritti possono certo essere pertinenti, ma questo può essere determinato solo da una discussione pubblica che prenda in considerazione gli obblighi corrispondenti.
Se viene separato da questa valutazione, il processo che porta a ricavare nuovi diritti da vecchi testi assomiglia all’emissione di valuta: i diritti individuali fioccano come banconote. A meno che non vengano creati nuovi obblighi per soddisfarli, bisognerà spremere qualcosa per ripianare il deficit. Se la gente se la prende per il peso degli obblighi conseguenti ai nuovi diritti giuridici, quegli obblighi a cui non corrispondono diritti giuridici, come le convenzioni di reciprocità e alcuni doveri di soccorso, possono risultarne erosi.
La centralità attribuita ai diritti ha privilegiato i giuristi. Tipicamente, essi partono da qualche testo scritto, come una legge o un trattato, e cercano di dedurre da esso quali diritti esso possa comportare. Ogni decisione diventa così un precedente in base al quale stabilire se il testo implichi o meno qualche altro diritto. Questo processo, che ha visto giuristi specializzati «scoprire» nuovi diritti contenuti in vecchi testi, ha esposto le società a una progressiva divaricazione fra ciò che i giuristi stessi «scoprono» e quello che la maggior parte delle persone ritiene moralmente ragionevole. Per riprendere un esempio banale dei nostri giorni, in Gran Bretagna un tribunale ha deciso che le scuole non possono più usare le parole «madre» e «padre» perché ciò viola il diritto, di recente formulazione, di una coppia di genitori dello stesso sesso. In questo caso, un nuovo diritto creato da un giudice e mirante a tutelare un piccolo gruppo di persone ha distrutto le fondamentali narrazioni che assistono milioni di altre famiglie impegnate a crescere i loro figli. Infliggendo un danno così vasto in proporzione al beneficio ottenuto, la richiesta ha rivelato il trionfo dell’ideologia sul pragmatismo; affermazioni egoistiche di diritti minano il rispetto reciproco.
Se riconosciamo nuovi obblighi nei confronti degli altri, costruiamo società più capaci di prosperare; se li trascuriamo facciamo l’opposto. Le società capitalistiche hanno sofferto di un processo di negligenza, il cui sintomo cruciale è stato il declino della fiducia sociale. L’indicatore principale di come la fiducia si evolverà nei prossimi decenni è il modo con cui essa si è già modificata nella gioventù americana: i giovani di oggi saranno gli adulti di domani, e le tendenze americane si riflettono sull’Europa. Fra i ragazzi americani la fiducia è crollata del 40%O. Questo declino si è verificato in tutte le classi sociali, ma è più pronunciato fra i poveri. Come afferma Robert Putnam, ciò rivela non una crescente paranoia, «ma le ostili realtà sociali in cui vivono»30. Nonostante la sua promessa di prosperità, oggi il capitalismo contemporaneo sta generando aggressione, umiliazione e paura: la società dei rottweiler. Per realizzare la promessa, occorre ricostruire il nostro senso di rispetto reciproco. Il pragmatismo ci dice che questo processo avrà bisogno di essere guidato dal contesto e dal ragionamento basato su dati concreti. È in questa direzione che ci stiamo muovendo.
1 Si può sostenere con buoni motivi che perfino le nostre emozioni sono in definitiva costruite socialmente. Si veda L. Feldman Barrett, How Emotions are Made: The Secret Life of the Brain, Macmillan, London 2017.
2 Si veda A. Etzioni, The moral effects of economic teaching, in «Sociological Forum», XXX (2015), 1, pp. 228-33.
3 Quando avevo appena terminato di scrivere questo libro, Tim Besley mi ha fatto conoscere il filosofo e politico Jesse Norman, che aveva a sua volta appena finito di scrivere un volume sul pensiero di Adam Smith. Con una certa trepidazione ci siamo scambiati i dattiloscritti. Ne ho imparato molto, e in quanto segue questo si vedrà, ma mi sono sentito sollevato nel vedere che Smith non si rivolterà nella tomba per come ho esposto le sue idee.
4 J. Norman, Adam Smith: What He Thought and Why it Matters, Allen Lane, London 2018.
5 A. Towers - M. N. Williams - S.R. Hill - M. C. Philipp - R. Flett, What makes the most intense regrets? Comparing the effects of several theoretical predictors of regret intensity, in «Frontiers in Psychology», VII (2016), p. 1941.
6 Era questo il punto di disaccordo fra Hume e Kant.
7 J. Haidt, The Righteous Mind: Why Good People are Divided by Politics and Religion, Vintage, New York 2012 (trad. it., Menti tribali. Perché le persone si dividono su politica e religione, Codice, Torino 2013).
8 H. Mercier - D. Sperber, The Enigma of Reason, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2017.
9 C. Gamble - J. Gowlett - R. Dunbar, Thinking Big: How the Evolution of Social Life Shaped the Human Mind, Thames and Hudson, London 2018.
10 È il concetto leninista del «centralismo democratico».
11 Come fa rilevare Haidt (The Righteous Mind cit.; trad. it. cit.): «la deontologia e l’utilitarismo sono morali con un ‘unico recettore’, che attraggono persone carenti di empatia».
12 Si veda A. Dijksterhuis, Why we are social animals: the high road to imitation as social glue, in «Perspectives on Imitation: From Neuroscience to Social Science», 2005, 2, pp. 207-20, e N.A. Christakis - J.H. Fowler, Connected: The Surprising Power of Our Social Networks and How They Shape Our Lives, Little, Brown & C., New York 2009.
13 Si vedano: B. Hood, The Domesticated Brain, Pelican, London 2014; International Growth Centre, Escaping the Fragility Trap, Report of an LSE-Oxford Commission, 2018.
14 Si veda K. Thomas - O.S. Haque - S. Pinker - P. DeScioli, The psychology of coordination and common knowledge, in «Journal of Personality and Social Psychology», CVII (2014), pp. 657-76.
15 Cfr., ad esempio, R.B. Cialdini, Influence: The Psychology of Persuasion, Collins, New York 2007.
16 G.A. Akerlof - R. Shiller, Animal Spirits: How Human Psychology Drives the Economy, and Why It Matters For Global Capitalism, Princeton University Press, Princeton 2009, p. 54 (Spiriti animali, trad. it di Ilaria Katerinof, Rizzzoli, Milano 2009).
17 H. Mueller - C. Rauh, Reading between the lines: prediction of political violence using newspaper text, Barcelona Graduate School of Economics, Working Paper 990, 2017.
18 Sui tabù, si veda R. Bénabou - J. Tirole, Identity, morals, and taboos: beliefs as assets, in «The Quarterly Journal of Economics», CXXVI (2011), 2, pp. 805-55.
19 Ho sviluppato più ampiamente queste idee nel mio The cultural foundations of economic failure: a conceptual toolkit, in «Journal of Economic Behavior and Organization», 2016, 126, pp. 5-24.
20 Una buona introduzione è G.A. Akerlof - R.E. Kranton, Identity Economics: How Our Identities Shape Our Work, Wages, and Well-Being, Princeton University Press, Princeton 2011 (trad. it. Economia dell’identità. Come le nostre identità determinano lavoro, salari e benessere, a cura di Renato Spaventa, Laterza, Roma-Bari 2012).
21 T. Besley, Aspirations and the political economy of inequality, Oxford Economic Papers, n. 69 (2016), pp. 1-35.
22 Per chi sia interessato ai particolari, ho recentemente passato in rassegna questa nuova letteratura nel mio Politics, culture and development, in «Annual Review of Political Science», XX (2017), pp. 111-25.
23 World Happiness Report, 2017, a cura di J. Helliwell, R. Layard e J. Sachs, Sustainable Development Solutions Network, New York 2017.
24 Questi sentimenti sono stati espressi rispettivamente da John Perry Barlow e da Mark Zuckerberg.
25 Il termine tecnico è omologia.
26 Come si sostiene nel fondamentale studio di MacIntyre del 1981, l’essenza del linguaggio morale consiste nel trattare gli altri non solo come mezzi per un fine connesso a un interesse proprio, ma come fini a se stessi: A. MacIntyre, After Virtue [1981], A&C Black, London 2013.
27 Ho esposto l’identità condivisa, la reciprocità e le azioni orientate a un fine come una sequenza analitica, ma la prova empirica che questi tre elementi sono insieme necessari per un comportamento etico collettivo è stata presentata nell’opera del premio Nobel Eleanor Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge 1990 e dei suoi successori.
28 Per un’esaustiva analisi della teoria e dei risultati empirici, si veda P. Collier, Rational Social Man and the Compliance Problem, «Working Paper 2018/025», Blavatnik School of Government, Oxford University 2018.
29 È un fenomeno noto come ciclo elettorale: L. Chauvet - P. Collier, Elections and economic policy in developing countries, in «Economic Policy», XXIV (2009), 59, pp. 509-50.
30 R.D. Putnam, Our Kids: The American Dream in Crisis, Simon and Schuster, New York 2016, p. 221.
A Attualmente la migliore misura pratica del benessere viene eseguita mediante una scala composta da dieci gradini, la «scala della vita», su cui sono collocate delle circostanze immaginate, dalle peggiori alle migliori. Il risultato si è rivelato una misura più stabile rispetto a quella calcolata in base alle domande dirette sulla felicità, che vengono influenzate dall’umore del momento. I risultati relativi alla scala della vita sono riportati nel World Happiness Report, 2017, a cura di J. Helliwell, R. Layard e J. Sachs, Sustainable Development Solutions Network, New York 2017.
B Un esempio in tal senso è l’introduzione della cultura dei bonus nell’amministrazione pubblica.
C Uno dei fondatori di questo indirizzo filosofico, William James, scriveva: «Un organismo sociale di qualsiasi tipo, grande o piccolo, è quello che è poiché ogni suo membro procede a compiere il proprio dovere con la fiducia che gli altri membri contemporaneamente assolveranno il loro. Ogni volta che un risultato desiderato viene raggiunto mediante questa cooperazione di molte persone indipendenti, la sua esistenza come fatto è una pura conseguenza della reciproca fede preliminare di coloro che sono immediatamente coinvolti. Un governo, un esercito, un sistema commerciale, una nave, un college, una squadra di atletica, tutte queste cose esistono in base a tale condizione, senza la quale non solo niente viene compiuto, ma nemmeno viene tentato» (W. James, The will to believe, in «The New World: A Quarterly Review of Religion, Ethics, and Theology», 1896, 5, pp. 327-47). In questo capitolo illustrerò in che modo si costruisce la fiducia di cui parlava James.
D Da non confondersi con gli eclettici abomini morali sottintesi da quanti usano il termine conservatore come un insulto.
E Da non confondersi con gli eclettici abomini morali sottintesi da quanti usano il termine liberale come un insulto.
F Non prendo in considerazione la spiegazione alternativa secondo cui le pecore sono stupide.
G Le pecore possono dire «beeh», e molti altri animali sono capaci di utilizzare un linguaggio rudimentale, ma solo gli esseri umani sono stati in grado di padroneggiare la complessa grammatica occorrente per elaborare delle narrazioni. Si veda L. Feldman Barrett, How Emotions are Made: The Secret Life of the Brain, Macmillan, London 2017, cap. 5.
H Per qualche tempo i sociobiologi hanno pensato che la selezione naturale fra i gruppi potesse essa stessa portare al sorgere di valori pro-sociali innati come la reciprocità, ma le acquisizioni della ricerca oggi suggeriscono che ciò non consente di spiegare i nostri valori pro-sociali. Le api possono farlo utilizzando soltanto il linguaggio dei segni, ma ciò avviene perché il loro modo di riprodursi è diverso. Per una recente e chiara analisi della questione, si veda M. Martin, Why We Fight, Hurst, London 2018.
I L’analogia più prossima nel processo di selezione naturale è il fenomeno della «costruzione della nicchia», in cui i castori adattano l’ambiente fisico in cui vivono.
J A volte, come nella costruzione delle nicchie, anche l’habitat si evolve per adattarsi a determinate caratteristiche. Gli uccelli blu non dipingono di blu le scogliere, ma i castori alterano il corso del torrente lungo il quale vivono. Il modo con cui gli esseri umani adattano le norme però non è analogo alla costruzione delle nicchie: l’habitat in questo caso non è altro che il complesso delle norme degli altri.
K Questi dati sono oltretutto sottostimati, perché molte persone che lavorano in proprio (la categoria residuale), in realtà lavorano per un’azienda, essendo il lavoro autonomo uno strumento giuridico per ridurre le passività.
L Alcune società hanno raggiunto la felicità senza la prosperità: l’esempio più sorprendente è quello del Bhutan. Ma questo paese non è certo un esempio di società senza Stato. Semmai, è un insolito caso di uno Stato che ha messo al primo posto la finalità dell’agire e l’appartenenza invece del reddito, in particolare attribuendo importanza alla conservazione della cultura nazionale. Il suo popolo è il più felice del continente asiatico.
M E non si tratta di un fenomeno recente: è la celebre conclusione a cui arrivò nel 1960 il politologo Richard Neustadt, analizzando il potere del presidente degli Stati Uniti.
N Il sistema di credenze della Johnson & Johnson si articola in tre componenti: un’identità comune costruita attorno a un intento morale, individuato dal Credo nel fornire ai clienti prodotti sanitari di elevata qualità e a prezzi accessibili; reciproche obbligazioni degli impiegati a impegnarsi per ottenere questo intento; infine una catena causale che conduce a un interesse personale illuminato, secondo cui questo modello sta alla base della stabilità dell’azienda e dell’occupazione della sua forza lavoro – come si legge nel sito web, l’azienda è fra le pochissime che sono sopravvissute per oltre un secolo. Ringrazio John Kay per avermi segnalato questo esempio.
O Il periodo in questione è quello degli ultimi trentacinque anni, nel corso dei quali è stato loro chiesto se condividevano l’affermazione secondo cui «ci si può fidare della maggioranza delle persone».