Martedì, 14 ottobre 2014
Poco dopo la mezzanotte Bodenstein superò il cartello di Ruppertshain e svoltò a destra nella strada dove si trovava casa sua. Avrebbe preferito di gran lunga andare direttamente da Karoline, ma aveva promesso a sua suocera di prendere altri vestiti e giocattoli per Sophia. La confessione di Inka lo aveva scosso e spaventato. Non aveva mai pensato di poter essere stato lui la causa scatenante di quei terribili eventi. Gli altri si erano offesi per il fatto che lui si fosse allontanato da loro e avevano sfogato la loro rabbia su Artur.
Inka si considerava una vittima, non una colpevole. Era patetico quanto a lungo aveva negato, come si era impigliata in scuse e con quanta disperazione aveva implorato comprensione per le sue azioni. Neanche una singola parola di pentimento le era passata per le labbra. Come aveva potuto tenerselo per sé per tutti quegli anni? Come era riuscita a stare con lui nonostante sapesse quelle cose? Dopotutto, erano stati una coppia per due anni, avevano condiviso i pasti, il letto... la loro vita. Cosa avevano pensato gli altri che ne erano a conoscenza? Che umiliazione! Si erano presi gioco di lui per la sua ingenuità, la sua dabbenaggine? Ah, ah, se solo lo sapesse, quel fessacchiotto di Bodenstein! La sua rabbia impotente si mescolò all’amarezza.
Aveva adorato Inka per tutta la giovinezza e gli si era spezzato il cuore quando l’aveva sorpresa in un box, dopo il suo grave incidente a cavallo, a pomiciare proprio con Ingvar. Per dimenticarla era andato ad Amburgo a studiare. Solo anni dopo lei gli aveva confessato che non c’era mai stato nulla di serio con Ingvar e che era sempre stata innamorata di lui! Era stato fin troppo disposto a crederle. Ma era la verità? E se tutto quello che lei gli aveva detto fosse stata una bugia? Come sarebbe stata la sua vita se non avesse avuto un incidente così grave, sì, se non fosse stato Ingvar Rulandt, bensì lui, a diventare un saltatore a ostacoli di successo, il suo sogno di allora? Inka sarebbe diventata sua moglie? Non osava immaginare quanto sarebbe stata terribile la sua delusione se fosse venuta alla luce la menzogna su cui Inka aveva basato tutta la sua vita!
Bodenstein era esausto, ma allo stesso tempo sveglissimo e con un forte desiderio di vendetta. Gli venne in mente la maledizione che la madre di Artur aveva lanciato: la malattia, la sfortuna e la morte straziante avrebbero afflitto tutti coloro che si erano resi colpevoli della scomparsa di suo figlio, comprese le famiglie, i figli e i nipoti, finché non fosse stata fatta giustizia per Artur. Bodenstein non era superstizioso, ma almeno Rosie Herold aveva pagato il suo crimine con la malattia e con una morte terribile. E anche Inka non era mai stata felice, perché le ombre del passato l’avevano perseguitata per tutta la vita.
Lasciò la macchina sul vialetto e scese. Solo quando il rilevatore di movimento accese i riflettori sotto il balcone notò la sagoma che lo stava aspettando in agguato nel buio. L’attacco lo colse di sorpresa. Quando venne assalito, Bodenstein perse l’equilibro, inciampò e cadde a terra.
***
Si sentiva stanco morto, ma i suoi pensieri non volevano calmarsi. Se solo avesse avuto più tempo per riflettere sugli eventi del presente e del passato, per collegarli e scartare tutte le bugie e le false piste! Nonostante la confessione di Inka Hansen, c’erano ancora troppi elementi sconosciuti del puzzle; qualcosa non quadrava. Mancava ancora qualche pezzo perché tutto si incastrasse.
Distesa accanto al marito che russava pacifico nell’oscurità, Pia non trovava requie. Il suo sguardo vagava verso i numeri rossi che la sveglia proiettava sul soffitto della camera da letto. Aveva raccontato a Christoph la confessione di Inka, dopotutto conosceva da molti anni la veterinaria, che insieme ai suoi colleghi si occupava degli animali all’Opel Zoo. Era rimasto sbalordito tanto quanto lei.
00.49.
Pia chiuse gli occhi e ripassò il racconto di Inka Hansen, un’inquietante concatenazione di sfortunate coincidenze. La storia sembrava coerente e corrispondeva alle fratture ossee che Henning aveva trovato sullo scheletro di Artur. Artur, per cui la volpe contava più della sua stessa sicurezza, era caduto da una certa altezza mentre cercava di scendere dall’albero e si era gravemente ferito, ma non era stato in grado di salvare la volpe, perché i bambini avevano spezzato il collo all’animale nella loro rabbia. Dopodiché, solo Inka e Simone Reichenbach erano corse a casa, in teoria. Che cosa avevano fatto gli altri bambini? Avevano ucciso Artur o lo avevano semplicemente lasciato ferito e indifeso nel bosco? Dal punto di vista del diritto penale, l’omissione di soccorso era irrilevante; nessuno dei bambini era condannabile, all’epoca. Ma il senso di colpa avrebbe tormentato quelli che ne avevano uno per il resto della vita. E se lo meritavano.
Com’erano finiti Artur e Maxi nella tomba del cimitero di famiglia? Se ciò che Inka Hansen aveva detto era vero, nessuno aveva parlato dell’incidente a casa. Quindi, come aveva fatto Rosie Herold a sapere cos’era successo? Uno dei bambini aveva rotto il giuramento e aveva parlato?
01.36.
Doveva essere andata così, altrimenti perché il padre di Peter Lessing avrebbe dovuto far sparire le prove sotto forma di cartelle cliniche? Ma perché aveva annotato le ferite nelle cartelle cliniche se lo sapeva fin dall’inizio? Era forse diventato sospettoso e aveva colto l’occasione per raccogliere elementi compromettenti su alcuni abitanti del paese? Era stato messo al corrente solo in un secondo momento, quando era diventato inevitabile? O era successo qualcos’altro? Gli era venuta l’idea di nasconderli dopo aver saputo che il figlio era coinvolto?
01.55.
Doveva scoprire che rapporti univano quelle persone all’epoca, le animosità, le inimicizie che c’erano a Ruppertshain nel 1972. Il dottor Lessing aveva conservato quei documenti per un motivo; aveva uno scopo. Ma quale?
***
«Pezzo di merda!» sibilò Thordis, il cui viso simmetrico era distorto dalla rabbia. «Come ti è saltato in mente di arrestare mia madre?»
Bodenstein, che tremava per lo shock, si rimise in piedi e si tolse la sporcizia dai vestiti. Anche se si aspettava che la nuora si sarebbe prima o poi messa in contatto con lui, l’attacco notturno e la sua rabbia lo colsero di sorpresa.
«Mi degni di una risposta?» l’apostrofò Thordis. «È una stupida vendetta perché ti ha lasciato o cazzate simili?»
«Prima di tutto, tua madre non è stata arrestata, ma è in custodia cautelare, e in secondo luogo...»
«Risparmiami certi cavilli» lo interruppe Thordis in malo modo. «Arrestata o in custodia cautelare... è la stessa identica cosa!»
«...non mi ha lasciato lei, l’ho lasciata io» concluse Bodenstein. Il battito del suo cuore si era di nuovo stabilizzato. «Ora vattene da qui, prima che ti denunci per violazione di domicilio.»
«Voglio parlare con mia madre, e subito!»
«Direi proprio di no.»
«Hai mandato via il suo avvocato!» lo accusò Thordis. «Ti farà causa!»
Nella casa vicina, dall’altro lato della strada, si alzò una tapparella.
«Clasing è passato e ci ha parlato.» Bodenstein riuscì a malapena a controllarsi. Non era dell’umore di subire le accuse ingiustificate di un’arpia isterica. «L’ha mandato via lei.»
«Stai mentendo» sbuffò Thordis con rabbia. «Quando la lascerai andare?»
«Non credo così presto. Ha confessato. A quanto pare, non voleva che Florian sentisse quello che aveva da dire, perché se ne vergogna a morte.»
«Confessato?» ripeté Thordis con una risata beffarda. «E cosa aveva mia madre da confessare? Illuminami!»
Il suo tono sarcastico esasperò Bodenstein.
«Lei e alcuni amici hanno causato la morte di un bambino» rispose seccamente.
«Non è vero» affermò Thordis, ma la sua sicurezza cominciava a vacillare. «Cercavi solo qualcosa per metterla in ginocchio!»
«E per quale motivo? Del resto, lei e gli altri hanno solo ucciso il mio migliore amico.»
Lo sconcerto della nuora lo riempì di una soddisfazione maligna. Le amare delusioni e le intuizioni degli ultimi giorni avevano fatto emergere in lui tratti caratteriali davvero squallidi, che non avrebbe mai pensato di avere.
«Sono passati quarantadue anni, ma l’omicidio non cade in prescrizione.»
Thordis impallidì. I muscoli della mascella le vibrarono, strinse le mani a pugno, come se volesse saltargli addosso di nuovo. Non era rimasto nulla del carisma che la rendeva una donna così straordinariamente bella.
«Non credo a una sola parola di quello che dici» sibilò. «La odi e vuoi incastrarla, è chiaro.»
«Non la odio, la disprezzo» la corresse Bodenstein. «Quanto tua madre sia brava a mentire, tacere e inventarsi delle scuse, dovresti saperlo meglio di chiunque altro. O ti ha già detto chi è tuo padre?» Aveva assunto di proposito un tono denigratorio per ferirla. Quello era il suo punto debole, e lui lo sapeva. «Non ti sei mai chiesta perché te l’ha nascosto, eh?»
All’improvviso Thordis aveva gli occhi lucidi e Bodenstein si rese conto di quanto fosse vile e crudele quello che stava facendo. Aveva sfogato la sua rabbia nei confronti di Inka sulla figlia, che non aveva nulla a che fare con quella faccenda. La sua rabbia svanì quando vide le lacrime della nuora.
«Non avrei dovuto dirlo» dichiarò con voce contrita. «Mi dispiace.»
«Non è altro che la verità.» La giovane donna aveva all’improvviso un’aria così triste e smarrita che le fece pena.
«Non volevo ferirti» disse dolcemente. «Ero molto deluso da quello che tua madre ha detto oggi e me la sono presa con te. Non è stato giusto. Ti prego, perdonami.»
Thordis lo fissò per un momento. Le tremava il labbro inferiore, poi il resto del suo sangue freddo svanì e scoppiò in lacrime. Si gettò tra le sue braccia e pianse con una disperazione che Bodenstein non vedeva da molto tempo. La strinse forte, le accarezzò la schiena e borbottò parole rassicuranti, proprio come avrebbe fatto con Sophia.
«È a me che dispiace.» Parlava smozzicando le parole, interrotte dai singhiozzi. «Per tutta la vita ho voluto un padre come te. E da quando sei diventato mio suocero, mi sono comportata così male nei tuoi confronti.»
«Non ce l’ho con te» disse, e lei pianse ancora di più. La condusse alle scale, si sedettero sui gradini e lui tirò fuori un pacchetto di fazzoletti di carta dalla tasca del cappotto. Thordis si soffiò il naso, scossa dalla crisi di pianto.
«Non capisco proprio perché mia madre faccia un tale mistero su chi sia mio padre.» La sua voce si incrinò. «Io e Lorenz litighiamo sempre per questo.»
«Perché non sai chi è tuo padre?» chiese Bodenstein, sorpreso.
«Perché è per questo che non voglio avere figli!» Thordis ricominciò a singhiozzare e si avvolse le braccia attorno al busto. «Non so che tipo di geni ho in me! Mamma deve avere un motivo per non dirmi chi è mio padre! Forse è stata violentata da qualche psicopatico!»
Il profondo dolore e la disperazione che quelle parole esprimevano riaccesero la rabbia di Bodenstein nei confronti di Inka. Quella donna aveva lasciato una vera scia di distruzione! Per puro egoismo o per vigliaccheria, tormentava la figlia invece di dirle la verità.
«Vieni» disse a Thordis. «Andiamo in casa, ci prenderemo un raffreddore qua fuori. Scrivi un messaggio a Lorenz, così saprà che stai bene e che resterai qui stanotte.»
«Sei così carino con me, e io ti ho assalito!» La ragazza fu di nuovo sopraffatta dal dolore. «Mi dispiace tanto.»
«Non fa niente. Ti ho detto delle cose crudeli.» Bodenstein le afferrò la mano e la tirò su. Le mise un braccio intorno alle spalle e la sostenne fino alla porta d’ingresso. «Andiamo, ragazza mia. Beviamoci un cognac. O due.»
***
Alle tre e quaranta, in piena notte, Bodenstein suonò a lungo alla porta dei Lessing, senza percepire il minimo segno di vita all’interno. Tutte le altre case della via erano buie, ma non come quella davanti alla quale si trovavano. Qua e là un numero civico era illuminato, l’occhio rosso di una telecamera di sorveglianza brillava. La casa dei Lessing, tuttavia, era avvolta nell’oscurità e nel silenzio più totale.
«C’è qualcosa che non va. Ci sono due auto, ma niente si muove» osservò Pia. «Il telefono di Lessing è spento.»
Non aveva detto una parola sulla chiamata di Bodenstein che l’aveva svegliata da un sonno profondo. Circostanze eccezionali richiedevano misure eccezionali, lo sapevano entrambi. Ci aveva messo solo mezz’ora ad arrivare a Ruppertshain e nel parcheggio dello Zauberberg, dove Bodenstein la stava aspettando con due pattuglie. Nel breve tragitto verso casa dei Lessing, le aveva raccontato della conversazione con Thordis e le aveva spiegato perché voleva parlare con urgenza con Peter Lessing. I motivi delle azioni del padre di Lessing all’epoca potevano essere il pezzo mancante del puzzle che cercavano; anche Pia era giunta alla stessa conclusione.
«Che facciamo adesso?» chiese uno degli agenti in uniforme.
«Voi cercate di entrare in giardino e controllate la situazione da lì» ordinò Pia. «Noi continuiamo a suonare il campanello.»
I due colleghi scomparvero nel buio. Quando i loro passi smisero di risuonare, ripiombò il silenzio. Si sentiva solo il fruscio del vento tra gli alberi del bosco vicino. Era ancora asciutto, ma l’aria profumava di pioggia. Pia continuava a sbadigliare di nascosto, i suoi occhi non erano ancora ben aperti, ma la sua mente lavorava a pieno ritmo.
«L’ostinazione con cui Inka nasconde alla figlia chi è il padre è assurda» disse nel silenzio della notte. «A meno che non abbia qualcosa di veramente terribile da proteggere. Nell’interrogatorio di ieri ha reagito con paura al nome di Peter Lessing. Non credo che abbia paura di lui perché sta infrangendo una promessa di quarantadue anni fa.»
«Bensì?»
«Forse Inka aveva una relazione con il padre di Peter. Cosa c’è di peggio e di più imbarazzante di una relazione con il padre di un amico d’infanzia? È possibile che la madre di Lessing l’avesse scoperto e avesse paura dell’umiliazione se un giorno si fosse venuto a sapere. E se fosse stata lei a conservare le cartelle cliniche per avere in mano uno strumento di ricatto? La dottoressa Basedow mi ha detto che era lei che portava i pantaloni a casa Lessing.»
«Teoria interessante. Ma non riesco a immaginare il vecchio Lessing farsi coinvolgere in un affare così rischioso» sottolineò Bodenstein. «L’avrebbe reso vulnerabile al ricatto ed era troppo scaltro per cadere in quella trappola.»
Uno dei due agenti tornò a riferire che la porta a vetri scorrevole della terrazza era spalancata.
«Bene. Entriamo» decise Bodenstein. «Ho un brutto presentimento.»
«Fermo! Non senza un giubbotto antiproiettile.» Pia aprì il bagagliaio della sua auto, tirò fuori due gilet in kevlar e ne porse uno al capo. Si misero in tasca le torce e si fecero strada verso la casa.
Una prima goccia di pioggia colpì il viso di Bodenstein mentre scavalcava il recinto del giardino e si infilava tra i cespugli dietro l’agente di pattuglia. Pia lo seguì. Sul prato estrassero le armi di servizio e le torce. Nessuno proferì una parola.
«Guarda!» Pia indicò il tavolo in teak. C’era un vassoio con due tazze, una teiera, zucchero e una brocca per il latte. «Sembra che stessero per bersi una bella tazza di tè, ma sono stati sorpresi da qualcuno» disse.
Bodenstein fu il primo a entrare in quella casa tetra. Silenzio di tomba. Né l’allarme né i rilevatori di movimento funzionavano. Nessun ronzio di un frigorifero. I rilevatori di fumo sul soffitto non lampeggiavano.
«Qualcuno ha staccato la luce» sussurrò.
Lentamente si fecero strada attraverso la casa, controllando ogni stanza, i nervi tesissimi. Pia aprì la porta ai due colleghi che stavano aspettando in strada e continuarono a perlustrare la grande casa. I letti nelle camere erano vuoti e inutilizzati. Trovarono il quadro elettrico nel seminterrato. L’interruttore di sicurezza era chiuso. Bodenstein lo spinse e le luci si accesero. I frigoriferi tornarono in funzione. Sullo sportello del quadro elettrico era attaccato un foglietto di un giallo squillante. La sorpresa vi aspetta nel locale caldaia!
Bodenstein e Pia si scambiarono una rapida occhiata. Cosa li aspettava dietro la pesante porta di metallo laccata di rosso?
«Odio i locali caldaia sin da allora» mormorò Pia.
«Almeno qui sembra fare caldo.» Bodenstein ricordava fin troppo bene le ore che avevano passato insieme anni prima nella fredda e gelida caldaia della casa di un sospettato, prima di essere liberati.
Uno degli agenti girò la chiave nella serratura. Un odore pungente di urina e feci li assalì. Peter e Henriette Lessing erano seduti sul nudo pavimento di cemento, imbavagliati e legati per i piedi e le mani. Strinsero gli occhi nella luce accecante. Sembravano sfiniti ma incolumi. Sollevato, Bodenstein, che si aspettava un bagno di sangue, rimise l’arma di servizio nella fondina, si chinò su Henriette Lessing e le tolse il nastro dalla bocca.
«È ferita?» chiese, rannicchiandosi di fronte a lei per liberarle mani e caviglie. La puzza di urina era insopportabile. Con molta probabilità, erano lì da un bel po’.
«No.» La signora Lessing si passò la punta della lingua sulle labbra secche. «Ho solo sete.»
Il marito non si mosse, era appoggiato al muro e fissava dritto davanti a sé.
«È stato Elias a rinchiudervi qui?» chiese Pia alla donna.
«Sì. Ma non ha fatto nulla.» La signora Lessing si mise a piangere. «Mi vergogno così tanto. È tutto così orribile. Oddio, vorrei essere morta.»
«Dov’è sua figlia? La sua auto è davanti al garage. Ha una Mini verde scuro, vero?»
«Elias... l’ha presa con sé.» La signora Lessing singhiozzò.
Era sconvolta.
«Dovete trovare il ragazzo.» Peter Lessing si alzò e si massaggiò i polsi gonfi. «Non è lui il responsabile di questa situazione.»
Ogni forza ed energia sembravano aver abbandonato il suo corpo, era invecchiato di anni da quando Pia lo aveva visto il giovedì precedente. Lui e la moglie erano sotto shock, non poteva esserci altra spiegazione per la loro mancanza di preoccupazione per la figlia.
«Parla per enigmi» disse Pia. «Ma che è successo?»
«Elias ha una pistola» si limitò a dire Lessing e, accompagnato da Bodenstein, lasciò il locale caldaia. Non degnò la moglie di uno sguardo. “Se i miei genitori si sono mai amati, è stato tanto tempo fa. Ora provano disgusto l’uno per l’altra” aveva detto Letizia.
Pia aiutò Henriette Lessing.
«Non lo sapevamo» balbettò, afferrando di riflesso il ciondolo della sua collana. «Davvero, non ne avevamo idea, mi creda. Abbiamo fatto degli errori terribili!»
«Prima di tutto si deve calmare, poi mi dica cos’è successo con esattezza.» Pia sospettava ciò di cui parlava Henriette Lessing, ma la donna era così sconvolta che dubitava di ottenere qualcosa di sensato da lei. Tuttavia, doveva provarci. «Perché pensa che Elias voglia fare del male alla sorella?»
«Posso... posso persino capirlo» sussurrò la signora Lessing. «È orribile. Noi... eravamo sulla terrazza quando all’improvviso Elias è apparso davanti a noi. Letizia l’ha trattato in modo molto sprezzante, come... come ha sempre fatto. Elias ha buttato il suo cellulare nello stagno e ci ha rinchiuse nel seminterrato. A un certo punto ha anche rinchiuso mio marito con noi. E poi... poi ha detto cose... cose così terribili! Letizia ha costretto Elias a fare tutte quelle cose, e noi abbiamo creduto che fosse malato di mente! Quando Letizia ha avuto quel grave incidente in realtà era perché era ubriaca... lo sapeva nascondere bene, ma lo era. Elias non l’aveva spinta! Pensavamo che Elias fosse un bugiardo, uno... psicopatico, ma ha fatto solo quello che la sorella maggiore l’ha obbligato a fare! Per questo mio marito l’ha sempre... oddio, come potrò mai rimediare?»
Si premette una mano sulla bocca, stava per andare in iperventilazione. La puzza che emanava dai vestiti della donna fece quasi rivoltare lo stomaco di Pia. Doveva assolutamente informare i colleghi che Elias era armato.
«Che cosa ha sempre fatto suo marito?» insistette.
«Lui... rinchiudeva Elias nel locale caldaia e spegneva le luci ogni volta che faceva qualcosa di sbagliato.» Henriette Lessing aveva le lacrime che le scorrevano lungo le guance.
«E lei l’ha lasciato fare?» domandò Pia, incredula.
«Voleva solo che tornasse in sé e capisse cosa fosse giusto e cosa sbagliato» insorse la donna. «Credevamo che Elias avesse bisogno di una mano ferma! Il padre di Peter faceva lo stesso con lui e diceva che non gli faceva male!»
Pia non credeva alle sue orecchie.
«La prego! Trovi mio figlio!» implorò la signora Lessing, prendendo la mano di Pia. «Sono terrorizzata dal fatto che farà qualcosa di cui si pentirà per il resto della sua vita!»
«Lo stiamo cercando da cinque giorni» replicò lei bruscamente. «Se foste stati sinceri con noi fin dall’inizio, avremmo potuto parlargli molto tempo fa e tutto questo non sarebbe successo!»
«Ha ragione a rimproverarmi. Abbiamo fatto soffrire Elias così tanto. Non potremo mai rimediare.» Henriette Lessing lasciò la mano di Pia. Si mise le mani sul viso e cadde in ginocchio. «Credo che Letizia sia nel tombino del garage. Spesso rinchiudeva Elias lì, quando era bambino.»
***
La pistola che aveva Elias era sicuramente vera, visto il proiettile deformato incastrato nella parete del locale caldaia. Pia trovò il bossolo sotto il lavandino.
«Nove millimetri» dichiarò preoccupata, facendo scivolare il bossolo e il proiettile in una busta per le prove.
Elias aveva sparato un colpo nella piccola stanza per dare enfasi alle sue parole. Agitare una pistola per intimidire la gente era una cosa, un’altra era premere il grilletto. Elias aveva superato quell’inibizione, il che significava che in futuro non avrebbe esitato a usare la pistola se si fosse sentito minacciato. Il ragazzo si trovava in una situazione eccezionale, estremamente emotiva. Aveva rubato la BMW X5 nera di sua madre e aveva con sé una pistola carica.
Pia passò le nuove informazioni al quartier generale e salì le scale. I colleghi avevano infatti trovato Letizia Lessing nel tombino in garage, legata mani e piedi, imbavagliata, gli occhi bendati con del nastro adesivo rinforzato. Per la sorpresa generale di tutti i presenti, Letizia non era rimasta minimamente traumatizzata, era solo furibonda per la situazione imbarazzante in cui si era trovata.
Mezz’ora dopo, Pia era seduta di fronte alla ragazza. Letizia sorseggiava una tazza di caffè fumante, che teneva tra le mani come per scaldarsi.
«Mi racconti cos’è successo.»
«Mio fratello è entrato in giardino e ha minacciato me e mia madre con una pistola» disse Letizia, soffiando sul caffè. «Ci ha rinchiuse nel seminterrato e ci ha legate. Poi ha teso un’imboscata a mio padre. Per inciso, non è più come nelle foto che usate per trovarlo. Si è tagliato i capelli e porta gli occhiali.»
«Cosa voleva Elias da voi?» domandò Pia.
«Non lo so.» Si strinse nelle spalle. «Agitava una pistola e quando ho provato a chiamare papà, ha gettato il mio cellulare nello stagno. Poi ci ha rinchiuse.»
«Ma deve aver avuto un motivo per venire qui.»
«Se lo aveva, non ce lo ha detto.»
«Suo fratello ha corso un grosso rischio, perché a Ruppertshain ci sono poliziotti ovunque e blocchi stradali a ogni entrata» insistette Pia. «Deve avervi detto qualcosa quando vi ha portate nello scantinato.»
«Non so cosa volesse da noi!» protestò la ragazza. «Ero spaventata a morte perché quel pazzo mi puntava contro una pistola! Sono rimasta in cantina al buio per un’eternità e poi mi ha rinchiusa in quel buco!»
Di punto in bianco, le lacrime le brillavano negli occhi e le mani le tremavano. Erano gli effetti tardivi dello shock o era tutta scena? Le parole della dottoressa Basedow lampeggiarono nella testa di Pia come un’insegna al neon: “Letizia è una mitomane incallita. Sa manipolare le persone, è molto intelligente e non si fermerebbe davanti a nulla pur di raggiungere il suo obiettivo”.
«Mio fratello è completamente fuori di testa!» La ragazza singhiozzò, premendosi velocemente il pugno sulle labbra. La disperazione le scurì gli occhi, offriva uno spettacolo pietoso. «È malato di mente e ora ha una pistola! Mi serve la protezione della polizia! E non mi sorprenderebbe se Pauline fosse...»
«Adesso basta! Smettila di mentire!» Pia si girò, sbigottita. Henriette Lessing era dietro di lei, il viso pallido per la rabbia. «Fai le valigie e vattene da questa casa, razza di bugiarda!»
«Ma mamma! Come fate a credere a tutte le stronzate che ha detto? L’ha fatto solo per vendicarsi di me!» Implorante, Letizia alzò le mani, le lacrime le rigavano le guance. «Si è inventato quella storia su due piedi perché è sempre stato geloso di me.»
«Allora Elias le ha parlato» osservò Pia che cominciava a essere stanca di quella famiglia. «Pensavo non sapesse perché fosse qui?»
«Non l’ho mai detto» affermò Letizia con sfrontatezza, asciugandosi le lacrime. Riuscì persino a sfoderare un sorrisino. Una sociopatica, che aveva recuperato terreno e che era convinta di poter uscire dalla sua situazione precaria. «Avrebbe dovuto lasciarmi finire di parlare.»
A quel punto la pazienza di Pia si esaurì. Per quasi una settimana non aveva dormito a malapena, aveva tre omicidi e un’aggressione da risolvere. Non aveva più voglia di perdere tempo.
«Adesso basta» disse bruscamente. «Signora Lessing, ora le farò delle domande e voglio risposte concise e corrette. Si risparmi i sensi di colpa e gli aggettivi superflui, altrimenti questa conversazione continuerà in commissariato. Sono stata chiara?»
«Sì.»
«Allora, perché Elias era qui?»
«Non dire sciocchezze, mamma!» si intromise Letizia.
«Zitta!» sbottò Pia.
«Elias ci ha raccontato quello che sua sorella gli ha fatto in tutti questi anni» disse la signora Lessing. «Non ne avevamo la minima idea. Siamo stati da decine di medici perché pensavamo che avesse dei problemi. Non sapevamo spiegarci il suo comportamento.»
«Lui è...» ricominciò Letizia.
Allora Pia fece un cenno a uno degli agenti seduti al tavolo da pranzo in attesa degli sviluppi.
«Porti questa donna a Hofheim per interrogarla. Se ne occuperà il collega Lombardi non appena prenderà servizio.»
L’agente annuì, felice di avere qualcosa da fare.
«Ehi, che significa?» insorse Letizia. «Mi prendi per il culo, stupida puttana?»
«L’avevo avvertita» replicò Pia con freddezza.
«Venga» disse l’agente, allungando la mano.
«Non toccarmi, bastardo!» sibilò Letizia fra i denti. «Toglimi quelle cazzo di mani di dosso o ti denuncio!»
«Letizia!» esclamò la madre, indignata.
«Sono già quattro oltraggi a pubblico ufficiale secondo il paragrafo 185 del codice penale. Le costeranno cari.» Pia sorrise, sapendo che la sorella di Elias si sarebbe imbestialita. E così fu.
Letizia apostrofò Pia, la madre e i due poliziotti con ogni tipo di insulti e si rifiutava di uscire di casa.
Peter Lessing, che era seduto in soggiorno con la faccia nascosta tra le mani, si alzò ed entrò nella zona cucina. Prima che qualcuno potesse fermarlo, sollevò il braccio e colpì la figlia con un sonoro schiaffo che quasi la fece cadere.
«Ci hai ingannato per troppo tempo» disse con voce strozzata. «Esci da casa mia e non pensare mai più di attraversare quella soglia.»
«Te ne pentirai» disse Letizia digrignando i denti. Con odio, sputò ai piedi del padre. Quindi si voltò e, con il mento sollevato, affiancata dai due agenti, salì le scale fino all’ingresso.
***
Peter Lessing si era fatto la doccia e si era seduto su uno sgabello al bancone della cucina, con una tazza di caffè davanti a sé che non toccò. Bodenstein era appoggiato al piano di lavoro in granito, anche lui con un caffè in mano. Entrambi gli uomini rimasero in silenzio quando Pia si unì a loro.
«Suo figlio ha rubato l’X5 di sua moglie» lo informò.
«È dotata di un gps integrato» disse lui. «Come antifurto. Ci è stata già rubata un’auto.»
“Allocco chi ci crede” pensò Pia tra sé. “Vuoi solo controllare dove va tua moglie.”
«Per favore, fate in modo che non accada nulla a Elias» disse Lessing con voce stanca.
«Non posso garantirlo» rispose Pia. Doveva frenare la sua viscerale avversione per quell’uomo e non poteva lasciarsi andare a commenti avventati. «Se tira fuori la pistola a un blocco di polizia, avrà un problema.»
Lessing emise un sospiro. Durante quella notte sembrava cambiato. Non era rimasto nulla della sua arroganza. Fissò stoicamente il giardino, che stava cominciando a prendere forma nel grigiore chiaro del mattino.
«So che ha passato dei brutti momenti» disse Pia. «Ma dobbiamo farle qualche domanda. Va bene?»
«Sì. Certo.»
Informò brevemente Lessing dei suoi diritti e, per una questione di forma, gli chiese il permesso di registrare la conversazione, poi attivò la funzione dello smartphone e lo mise sul bancone accanto a lui.
«Riguarda gli omicidi che sono avvenuti negli ultimi giorni. Tutte le vittime sono persone che conosceva, giusto?»
«Sì, è corretto» replicò Lessing.
Con disappunto di Pia, l’uomo collaborò senza alcuna obiezione. Le sue risposte furono brevi e precise, evitò digressioni e giustificazioni.
«Che rapporto aveva con i suoi genitori?» chiese.
«Perché me lo domanda?» Per la prima volta il suo sguardo cercò quello di Pia.
«Erano severi o... permissivi?»
«Erano molto severi.»
«Come hanno reagito quando hanno scoperto che torturava animali?»
Con sorpresa di Pia, Lessing reagì alla domanda solo con un debole sorriso.
«Ascolti» disse. «Non so cosa Oliver le abbia detto su di me. Sì, una volta ho ucciso un gatto e me ne vergogno ancora. Era una specie di... prova di coraggio, avevo dieci anni e sono stato punito.»
«Non ha detto ai suoi amici di tacere minacciandoli di punizioni?»
«Sì. È vero.»
«E poi com’è andata? Uno di loro ha comunque parlato?»
«No. Mi sono tradito da solo.» Peter Lessing si passò una mano sul viso. «Avevo gli incubi. Ho ricominciato a farla nel letto. I miei genitori hanno notato il mio malessere e me l’hanno chiesto. Non andavano tanto per il sottile. A un certo punto, gliel’ho raccontato.»
Pia, che si aspettava resistenza o scuse, lanciò una rapida occhiata a Oliver. Ciò che Lessing diceva sembrava credibile. Bodenstein annuì leggermente per farle segno di continuare.
«Chi le aveva chiesto di fare questa “prova di coraggio”?» domandò.
Una lieve esitazione.
«Non me lo ricordo più.»
Era una bugia. Se lo ricordava benissimo. Ma Pia lasciò perdere la questione, per il momento.
«Dov’era tra le 21 e le 23 di venerdì scorso?»
«Qui.»
«E nella notte tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana?»
«A Erfurt. Per lavoro.»
«Avrà sicuramente la ricevuta dell’albergo, no?»
«No, ma ho gli scontrini della benzina» replicò Lessing. «Sono tornato a casa. Mi piace guidare di notte quando le autostrade sono vuote e posso pensare in pace. Sono arrivato verso mezzanotte.»
«E dov’era tra le otto e la mezzanotte di sabato sera?»
«Sempre a casa. Abbiamo bevuto una bottiglia di vino e siamo andati a letto piuttosto presto.»
Non tentò neanche una volta di inventarsi un alibi. Non sapeva quando erano stati commessi gli omicidi? O la sua apertura era un segno della sua innocenza?
«Il 17 agosto 1972 si è fatto un taglio profondo alla mano destra.» Pia cambiò argomento all’improvviso. «Com’è successo?»
Fino a quel momento, nessuna domanda aveva davvero interessato Lessing, ma ora lei notò un leggero rossore ricoprirgli il collo. Una vena sulla tempia cominciò a pulsare. Si raddrizzò.
«Se è successo, non me lo ricordo.» Era chiaramente una bugia, smascherata dalla reazione inconscia del suo corpo. «Sono passati più di quarant’anni.»
«Forse le si rinfrescherà un po’ la memoria se le dico che lei e la squadra esordienti avevate perso una partita di calcio sei a zero contro lo Schneidhain nel pomeriggio del 17 agosto.»
«Ho giocato a calcio per quindici anni.» Lessing ora era in allerta. «Da quando avevo cinque anni. Crede che mi ricordi ogni singola partita?»
«No, non lo credo.» Pia sorrise comprensiva e Lessing si rilassò un po’. «Ma forse quella sì. Perché poi lei e i suoi amici avete incontrato Artur Berjakov al laghetto antincendio della tenuta Bodenstein.»
Il viso segnato di Lessing divenne rosso.
«Negare non serve» disse Pia con freddezza. «Ieri abbiamo parlato con Inka Hansen e Ralf Ehlers. Nel caso gli avesse ricordato il vecchio giuramento, quando vi siete visti da Merlin venerdì sera, sappia che lo hanno rotto ieri.»
Lessing sollevò la testa e guardò di nuovo fuori dalla finestra. La contrazione del pomo d’Adamo tradì il suo tumulto interiore, che cercò di nascondere con un’espressione impassibile.
Lo smartphone di Pia cominciò a ronzare sul bancone.
«Una volta lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung ha detto: “L’uomo sano non tortura gli altri, in genere è chi è stato torturato che diventa torturatore”. È diventato così per un motivo. Suo padre la umiliava e la rinchiudeva in cantina se faceva qualcosa di sbagliato ai suoi occhi. E sua madre glielo lasciava fare, probabilmente. Proprio come sua moglie la lasciava rinchiudere Elias nel locale caldaia. Se non avesse causato così tanta sofferenza, sarei dispiaciuta per lei.»
«Sarebbe troppo semplice incolpare i miei genitori per tutti gli errori della mia vita.» Lessing la guardò. Era impallidito e aveva gli occhi spenti. «Sì, è vero, non erano genitori amorevoli e comprensivi. Mio padre aveva un temperamento violento e la mano pesante, ma era gestibile. I metodi di mia madre erano più perfidi. Fingeva di capire, ma non voleva altro che il controllo. Non riuscivo mai a nasconderle nulla, mi interrogava finché non sapeva tutto. E poi c’erano le punizioni. Punizioni molto dure e umilianti.»
Si passò la mano sul viso.
«Non ho mai capito come comportarmi con lei. Le volevo bene e la odiavo, ho sempre pensato di non essere all’altezza delle sue aspettative. Di conseguenza, ero sempre furioso, ma la mia rabbia non era diretta contro di lei e contro mio padre, ma contro quelli che consideravo inferiori a me. Volevo fare di meglio con i miei figli, ma ho fallito miseramente e ho ripetuto gli errori dei miei genitori.»
«È per questo che non è tornato a Ruppertshain finché non è morta?»
«Sì.»
«E perché si è trasferito qui? Poteva costruirsi casa altrove.»
«Non lo so nemmeno io.» Scrollò le spalle.
«Lo sa benissimo» controbatté Pia. «Voleva controllare chi doveva mantenere il segreto, dopo la morte di sua madre. Soprattutto dopo aver saputo che anche la sua vecchia amica Inka Hansen era tornata a Ruppertshain.»
Sentendo quel nome, Lessing sussultò in modo quasi impercettibile, e Pia capì di aver centrato il bersaglio.
«Era stata lei a chiederle di uccidere il gatto?» Pia incrociò lo sguardo attonito di Bodenstein.
«Sì» disse Lessing, piano.
«Era stata un’idea di Inka Hansen anche quella di inseguire Artur nel bosco?»
«Sì.» La voce dell’uomo adesso era ridotta a un sussurro. Appoggiò i gomiti sul bancone e nascose il viso tra le mani.
«Perché aveva un tale potere su di lei?»
Alla domanda seguì un silenzio agghiacciante, ma Pia era paziente. Al piano superiore della casa, una porta si aprì e lei segnalò a Bodenstein con uno sguardo di impedire che Henriette li raggiungesse. Lessing non avrebbe detto una parola in presenza della moglie.
«Cosa sapeva Inka Hansen su di lei, un bambino di dieci anni, all’epoca?» domandò Pia con delicatezza.
«La madre di Inka era amica della mia» disse Lessing con voce rauca. «Avevo un... un problema di cui ho sofferto molto. Nessuno lo sapeva, a parte Inka perché mia madre glielo aveva detto. Mi prendeva in giro e mi minacciava di dirlo a tutti. Pensavo che sarei morto di vergogna, e per questo la odiavo. Ma non potevo farci nulla.»
«Che problema era?»
Lessing deglutì, in preda a una lotta interiore. Chiuse gli occhi.
«Fimosi.»
Pia, che si aspettava chissà quale rivelazione, rimase per un attimo interdetta dalla banalità del problema. Lessing riaprì gli occhi, notò il suo stupore.
«Sì, lo so che questo può sembrarle ridicolo, e oggi io stesso riesco a malapena a crederci. Ma allora era orribile e umiliante per me. Inka mi aveva in pugno. E ne ha approfittato. Sapeva sempre tutto e non solo su di me. Sua madre era quella che oggi si definirebbe “con molti agganci”.»
All’improvviso sembrava sollevato, come se confessarlo gli avesse tolto un pesante fardello.
«Siamo tornati a Ruppertshain perché ho ereditato la casa dei miei genitori e di colpo avevamo un bel terreno edificabile» continuò. «È stato solo dopo che ci siamo trasferiti che Inka è ricomparsa. Se avessi voluto vendere la casa avrei dovuto delle spiegazioni a Henriette. Avrei dovuto raccontarle tutta questa vergognosa storia e proprio non potevo.»
«Invece, ha preferito sopprimere tutto.»
«Sì. Vedevo Inka solo da lontano. Teneva le distanze da tutti noi. Ha facilitato le cose.»
«Ma adesso è tutto riemerso» disse Pia. «La storia di Artur che lei e i suoi amici volevate mantenere segreta. All’improvviso ha dovuto confrontarsi di nuovo con il suo passato.»
Lessing aspettò che continuasse.
«Perché si è incontrato con i suoi vecchi amici da Merlin, venerdì sera? Di cosa avete discusso?»
«L’incontro è stato un’idea di Simone. Ci ha raccontato che Rosie era stata uccisa e che Oliver era a capo delle indagini. Sapevano anche che la roulotte di Rosie era andata a fuoco e persino che eravate venuti a parlare con me.»
«E poi?»
Lessing fece un respiro profondo, lo trattenne per un momento ed espirò.
«Eravamo d’accordo che in nessun caso avremmo detto nulla sulla questione con Artur, nel caso in cui Oliver avesse interrogato qualcuno di noi» disse. «Nessuno doveva parlare.»
«Perché avete pensato che questa storia potesse essere collegata ai tre omicidi?» chiese Pia.
«Perché...» Il suo sguardo si spostò su Bodenstein. «Perché, da allora, abbiamo sempre temuto che un giorno, per una stupida coincidenza, la questione sarebbe venuta fuori.»
«Ah. Il senso di colpa è un fardello terribilmente pesante, signor Lessing, farebbe bene a disfarsene» disse Pia, e gli occhi di Lessing si abbassarono.
Quella notte dovette ammettere con se stesso di aver fallito su tutta la linea. Quello che aveva imparato da Elias era che tutta la sua vita era uno sfacelo. Era una vittima divenuta carnefice, ma il suo fallimento era ingiustificabile.
«A volte le situazioni sfuggono al nostro controllo senza volerlo. E a volte questo porta alla catastrofe. Sappiamo che lei e i suoi amici avevate incontrato Artur sulla via del ritorno dalla partita di calcio. Gli avete dato la caccia e lui non aveva alcuna possibilità perché eravate in nove. Disperato, Artur si è arrampicato su un albero, ma lei e i suoi amici non avete avuto pietà, nel vostro odio. Lei ha ucciso la volpe che Artur voleva proteggere. Supponiamo però che non sia stato lei a uccidere Artur, ma che il bambino si sia trascinato ferito fino alla strada e sia stato poi investito da Rosie Herold. Suo padre ha scoperto tutto. E se l’è tenuto dentro per anni.»
Lessing era impietrito. I suoi occhi si sgranarono, il viso perse tutto il colore.
«Pensiamo che insieme a Rosie Herold e a suo marito, suo padre abbia nascosto il corpo di Artur e la carcassa della volpe nel cimitero di famiglia dei Bodenstein nel bosco. Suo zio, che all’epoca era a capo della polizia di Königstein, impedì che la polizia giudiziaria venisse chiamata per giorni. Sapendo ciò che era successo, i suoi genitori hanno fatto scendere un velo di silenzio su tutta la faccenda. Suo padre ha nascosto tutta la documentazione delle ferite che lei e i suoi amici avevate riportato quel giorno nel bosco, in modo che la polizia non la trovasse. Supponiamo che l’abbia usata per ricattare gli altri genitori per anni, quando gli serviva.»
«Non è vero!» sussurrò Lessing.
«Sì, invece. Temo che lo sia.» Pia annuì. «Lei e i suoi amici siete stati indotti a credere dai vostri genitori che avevate ucciso Artur. Ancora oggi lei pensa di essere un assassino.»
Lessing crollò su se stesso e Pia poté quasi vedere qualcosa rompersi in lui.
«In paese c’è un uomo che conosce il segreto e vuole impedire che venga rivelato con ogni mezzo possibile. Pensiamo che Rosie abbia confessato a Clemens e al parroco la sua identità. Ecco perché dovevano morire tutti e tre. E l’ironia della sorte è che questa persona è stata vista proprio da suo figlio mentre dava fuoco alla roulotte. Quest’uomo conosce il nome di Elias. Elias è un pericolo per lui. Lo ucciderà se lo troverà prima che possiamo metterlo in salvo.»
«Oh, mio Dio» sussurrò Lessing, appoggiando la testa sulle braccia. Il suo orrore era reale. Non gli era rimasta più energia per fingere. E Pia colse l’occasione.
«Ancora due domande, signor Lessing. Come è morta sua madre?»
«È caduta dalle scale» mormorò. «Frattura del collo femorale. Doveva essere operata, ma non è sopravvissuta all’intervento.»
«Ha mai avuto una relazione sessuale con Inka Hansen?» domandò Pia.
Lessing alzò la testa.
«Nessuna relazione.» Nei suoi occhi apparve una scintilla di odio. «Ma l’ho scopata una volta.»
«E quando è stato?»
«Al matrimonio di Simone e Roman. Era disperata perché Oliver era lì con la sua ragazza e non la degnava di uno sguardo.» Lessing fece una risata amara. «Mi sono occupato di lei, l’ho confortata e ho flirtato un po’. Ci è cascata subito, come fa spesso. Non è mai stata né osservatrice né sensibile. Siamo andati nel bosco. Molto romantico. Fino a quel luogo. Non l’ha nemmeno riconosciuto. Poi le ho mostrato che il problema con cui si era divertita così tanto non esisteva più.»
«È stato nell’estate del 1983, giusto?»
«Sì.» Lessing annuì. «Poco dopo se n’è andata in America. E mi ha scritto che era incinta. Le ho risposto che era una balla. Sono addirittura andato in America nel gennaio del 1984. Era in stato di gravidanza avanzata e molto felice di vedermi. Credeva sul serio che l’avrei sposata. Come se potessi semplicemente dimenticare tutto quello che era successo e quello che mi aveva fatto! Le ho detto in faccia che la odiavo e che si poteva scordare che mi sarei preso cura di lei e del bambino. Poi l’ho piantata lì. Ho avuto la mia vendetta. Mi ha scritto per anni, ma ho buttato le lettere senza aprirle. Per me, il capitolo Inka è concluso.»
«Perché non le ha chiesto il mantenimento?» chiese Pia.
«Troppo orgogliosa.» Lessing sbuffò con amarezza. «Non ha nemmeno messo il mio nome sul certificato di nascita.»
***
«Sodoma e Gomorra» disse Pia, scuotendo la testa mentre lasciavano la casa dei Lessing. «Non riesco a crederci.»
«Sono senza parole» replicò Bodenstein, rassegnato. «Devo prima assorbire tutto quanto.»
Peter Lessing salì sull’autopattuglia per ripetere e firmare la sua dichiarazione all’RKI di Hofheim.
Ancora una volta il cellulare di Pia vibrò. Infastidita, accettò la chiamata.
«Pia, mi dispiace tanto» annunciò la voce di una donna dopo il primo squillo.
«Chi è?» chiese Pia, indispettita. Odiava quando le persone non si presentavano.
«Sono io, Merle. Nike è sparita! Quando sua madre è andata a controllarla, la sua stanza era vuota!»
«Porca puttana!» imprecò Pia dal profondo del cuore. «Com’è successa una cosa del genere?»
«Anch’io devo dormire» rispose Merle, offesa. «E non posso dormire sul tappeto di una diciassettenne.»
«Elias Lessing ha una pistola.» Pia ignorò l’accusa della collega. «E ha rubato la X5 della madre.»
«Fantastico.»
«Ha lasciato un messaggio?»
«No. Nulla. Ma credo che avesse un secondo indirizzo e-mail. E un iPad, di cui i suoi genitori si sono dimenticati di parlarci. Le telecamere di sorveglianza della casa mostrano che è semplicemente uscita dalla porta del seminterrato alle 3.58 del mattino con uno zaino in spalla. Temo che Nike abbia fatto il doppio gioco.»
«Ho paura di sì.» Una pioggerellina fine cadde da basse nuvole grigie. Pia camminò intorno all’auto di servizio con la testa china. Bodenstein le tenne aperta la portiera del passeggero e lei si lasciò cadere sul sedile. «Abbiamo fatto tutto il possibile, Merle. Andate a casa e dormite un po’.»
«Che è successo?» chiese Bodenstein, avviando il motore.
«Nike è scappata» replicò Pia, cupa. «Non ha mai avuto intenzione di aiutarci a prendere Elias. Adesso sarà con lui, il che non ci rende per niente facile intervenire. Porca miseria.»
«Forse è così» disse Bodenstein. «Se la ragazza è con lui, possiamo contattarlo sul suo cellulare.»
«Se ce l’ha con sé.»
«Elias l’ha chiamata, quindi abbiamo il numero del cellulare che usa, giusto?»
«No. Era un numero privato.»
«Come comunicavano i due?»
«Per e-mail. Nike ha lasciato la casa dei suoi genitori attraverso il seminterrato poco prima delle quattro. Con uno zaino.»
«Devono avere una meta.» Bodenstein svoltò in Robert-Koch-Straße e si diresse verso lo Zauberberg, dove era parcheggiata l’auto di Pia. «Un posto in cui si sentono al sicuro. Elias sa che è ricercato e che ci sono controlli ovunque.»
Il cellulare di Pia squillò di nuovo. In uno dei vivai del club di pesca Taunusruh era stata trovata un’auto. I vigili del fuoco erano già sul posto per recuperare il veicolo.
«Dov’è il club di pesca Taunusruh? Lo sai?» chiese Pia a Bodenstein. «Hanno trovato un’auto in uno dei laghi.»
«Nel bosco lungo la B8. Proprio dove si svolta per la Casa degli amici del bosco» rispose lui, fermandosi accanto alla macchina di Pia sotto la terrazza del ristorante Merlin. «Abbiamo i risultati del dna del sangue che abbiamo trovato sulla Land Rover della signora Molin?»
«Non ne ho idea.» Pia comprese dove voleva andare a parare il capo. «Vuoi dire che Elias non ha la macchina di Pauline ma ha preso la Land Rover?»
«È una possibilità» confermò Bodenstein. «Perché abbiamo pensato che avesse preso l’auto di Pauline?»
«Perché l’amica di Pauline, Ronja, ha detto che Pauline voleva incontrare Elias.»
«È da giovedì che cerchiamo Elias, ma nessuno lo ha visto prima di ieri sera» riepilogò Bodenstein, spegnendo il tergicristallo che stava graffiando il parabrezza ormai asciutto. «Forse è sempre stato nella Casa degli amici del bosco. Se il sangue sulla Land Rover fosse suo, Felicitas Molin potrebbe averlo scovato nel bosco e nascosto in casa sua.»
«Elias ha rinchiuso due cani al mulino di Ralf Ehlers!» Pia finalmente aveva capito. «Alla Casa degli amici del bosco ci sono dei cani, ne sono sicura. Ho sentito abbaiare quando siamo stati lì giovedì mattina.»
«Ma perché li ha presi?»
Pia e Bodenstein si scambiarono un’occhiata.
«Facciamo così...» disse lei con fermezza. «Abbiamo ancora quattro ore prima della conferenza stampa. Io e Cem andiamo al club di pesca e alla Casa degli amici del bosco. Dopo la conferenza stampa, porteremo a Hofheim tutti quelli che erano presenti alla partita di calcio. Li metteremo di fronte alle dichiarazioni di Inka Hansen e Peter Lessing, compreso Ralf Ehlers. E non individualmente, ma tutti insieme. Vedrai, sotto pressione, succederà qualcosa.»
«Bene.» Bodenstein annuì. «E per Leo Keller? Vorrei averlo in custodia per la sua stessa sicurezza, nel caso in cui il suo nome venga menzionato nella conferenza stampa e la gente si faccia venire in mente stupide idee.»
«Abbiamo ancora spazio per lui?» Pia fece una smorfia, aprì la portiera e tirò fuori il cellulare per chiamare Cem.
«Lo metterò da qualche parte» rispose Bodenstein. «Oh! Pia...»
«Sì?» Stava per scendere dall’auto, si fermò e lo guardò.
«Stai facendo un ottimo lavoro» disse. «Davvero. Sarebbero degli stupidi a non fare di te il mio successore.»
«Grazie.» Pia esitò, ma poi decise che era il momento giusto per dire a Bodenstein quello che aveva rivelato solo a Christoph. «Lo sai che preferirei che tu rimanessi. Ma... ieri Nicola Engel mi ha detto che a Wiesbaden hanno preso una decisione.»
«Ah sì? E quale?»
«Il posto è mio.»
«Cavolo, è fantastico!» Bodenstein sorrise. «Congratulazioni! Oh, Pia, sono contento! Avevo la sensazione che Engel non ti avrebbe scelta perché ero stato io a raccomandarti.»
«Immagino che sia stato un grande sforzo per lei.» Anche Pia tentò di sorridere, senza successo. «Ma alla fine mi ha sostenuta.»
«Non avrebbe potuto decidere diversamente. Sei la migliore per questo lavoro e lo sanno tutti.»
«Grazie.» Pia scese, ma poi si chinò di nuovo all’interno dell’abitacolo. «Ma se tra un anno avrai nostalgia dell’ufficio 11, sarò felice di lasciarti di nuovo la tua scrivania.»
***
«Speriamo di non trovare un altro corpo nel bagagliaio» disse Pia a Cem mentre, centimetro dopo centimetro, la gru estraeva la Toyota arrugginita di Pauline Reichenbach dal vivaio. L’acqua fangosa si riversava dai finestrini aperti, i corpi argentei dei pesci morti sguazzavano sulla superficie del lago. Dal serbatoio spaccato, la benzina era fluita nel lago e aveva ucciso i pesci d’allevamento; l’olio del motore galleggiava sull’acqua. Cinque anziani si erano posizionati sotto la pioggerella e dalla riva assistevano alle operazioni di recupero con le facce accigliate, le mani nelle tasche dei loro giubbotti da pesca. Un omino grasso con un cappello da baseball sbiadito si stava sfogando da una ventina di minuti con i colleghi della polizia di Königstein e con il responsabile delle operazioni dei vigili del fuoco. I suoi lamenti coprivano addirittura il motore dell’autogrù.
«L’auto non è finita qui stamattina» replicò Cem. Durante il tragitto Pia gli aveva raccontato quello che era successo la notte precedente. «Andiamo alla Casa degli amici del bosco a parlare con la signora Molin.»
Come un gentiluomo, teneva un ombrello sulla testa della collega. Indossava un elegante impermeabile color antracite e stivali di gomma abbinati; sembrava un modello a un servizio fotografico all’aperto.
«Ehi, voi! Lei è il capo della polizia?» L’uomo grasso si diresse verso di loro; a quanto pareva, dagli agenti e dai vigili del fuoco non aveva ottenuto quel che sperava. Gli si piazzò davanti, mise le mani sui fianchi e guardò Cem con diffidenza malcelata. «È straniero, vero?»
«In fondo siamo tutti stranieri» replicò lui con educazione. «La mia famiglia viene dalla Turchia.»
«Oh, be’. Almeno parla un po’ la nostra lingua.» L’uomo grasso scrollò le spalle e parlò un po’ più forte, come se Cem avesse problemi di udito. «Mi capisce?»
«A malapena. Parli lentamente e articoli. A volte ho problemi con il dialetto assiano.»
L’uomo non aveva alcun senso dell’ironia.
«Mi chiamo Kohl, Werner. Sono il presidente dell’A punto S punto D punto di pesca Taunusruh dal 1974.»
Pia faticò a trattenere un sorriso.
«Uno, nove, sette, quattro, è l’anno della fondazione, ha capito?»
«Penso di sì, signor Kohlwerner» confermò Cem, serissimo. «E che significa A punto S punto D punto?»
Pia gli diede una gomitata. Non avevano tempo da perdere.
«Ma è l’associazione sportiva dilettantistica, per Dio!» Werner Kohl annuì per rafforzare il concetto. «Ci sono ventotto membri e dodici sono attivi. E adesso abbiamo perso cinquantamila euro con ’sta carognata!» Kohl agitò le braccia per enfatizzare le sue parole. «Trote, tinche, carpe... tutti gli avannotti per la prossima stagione! Tutto in malora, ’sti farabutti! La recinzione, l’argine, tutto il lago è fottuto, guardi! Non è la prima volta, ma non c’è mai stato un casino simile!»
«Se lei è il presidente, è meglio che parli direttamente con il mio capo.» Cem fece un cenno a Pia. «Io sono solo il portatore di ombrelli.»
«Eh? Che?» Attraverso gli occhiali bifocali imbrattati, Werner Kohl guardò Pia con sdegno. «La ragazza è il suo capo?» Si rivolse ai compagni pescatori e alzò le braccia. «Ci hanno mandato uno straniero e una donna... come si è ridotta la polizia! Dico solo: povera Germania!»
Pia conosceva bene i tipi come quello, che avevano riserve su tutto ciò che andava oltre il loro orizzonte limitato, e sapeva che bastava un minimo di autorità per intimidirle. Mostrò il distintivo e come per caso tirò la giacca di lato in modo che l’uomo grasso potesse vedere la sua arma di servizio.
«Sono la commissaria capo Sander della Squadra Omicidi di Hofheim» disse in tono severo. «Capisco la sua agitazione e quindi mi limiterò a ignorare i suoi commenti discriminatori, signor Kohl.»
«Squadra Omicidi?» Il faccione di Kohl divenne rosso come un peperone.
«Il veicolo appartiene a una giovane donna che è stata vittima di un’aggressione» continuò Pia. «Questo lago e l’area circostante sono possibili scene del crimine e, a questo punto, chiedo a lei e ai suoi colleghi di allontanarvi.»
«Proprio non capisco.» Kohl era sbalordito. «Che è venuta a fare ’sta tizia al nostro lago?»
«Di sicuro non ha affondato l’auto da sola» rispose Pia, seccata, e di fronte a una tale ottusità Cem si voltò per ridere.
«Quindi non sono stati quei farabutti di Königstein?»
«Temo di no. Non ha sentito che giovedì scorso un uomo è morto nell’incendio di una roulotte al campeggio della Casa degli amici del bosco?»
Come si faceva a essere così fuori dal mondo?
«Be’, ho passato una settimana nell’Harz con mia moglie.» Kohl si grattò la testa imbarazzato e si voltò verso gli amici pescatori, perplesso. Faceva fatica a comprendere quella situazione.
Pia ebbe allora un’idea.
«Avvicinatevi, signori.» Fece un cenno agli uomini. «Essendo pescatori appassionati, verrete qui spesso, vero?»
Un cenno collettivo fu la risposta.
«Avete notato qualcosa giovedì scorso?»
I cinque si scambiarono sguardi silenziosi.
«C’era un gran bordello nel bosco» disse infine uno. «Qualcosa ha preso fuoco.»
Evvai!
«Kurti e io avevamo appena pulito il filtro del grande lago» disse un altro, un uomo magro con un labbro leporino e un tic nervoso. «Poi è arrivata una caterva di auto dei tipi della tv. E si sono dovuti fermare proprio lì, perché la signora andava a tutta birra con il suo fuoristrada. Ha sbandato là in fondo, per poco non buttava giù la recinzione.»
Pia rizzò le orecchie.
«Aveva mai visto quella donna?»
«Certo. È la sorella di Manuela. Della Casa degli amici del bosco. Una vera stronza. Manco saluta quando passa.»
Mormorio di approvazione da parte dei colleghi pescatori.
«E più o meno quando è stato?» insistette Pia.
«Non lo so. Verso le nove? Vero, Kurti?»
«Sì» confermò l’interessato, senza aggiungere altro.
«L’ha vista anche tornare?»
Kurti e Labbro leporino scossero la testa.
«Oh, be’... due o tre ore dopo.»
«Mi sono chiesto che cavolo avrà fatto così a lungo nel bosco, perché quel sentiero non va da nessuna parte.»
«Quindi la donna è ripassata due o tre ore dopo» ripeté Pia con pazienza. «Ed è tornata alla Casa degli amici del bosco?»
«Esatto. Ma... quella strega bionda era seduta sul sedile del passeggero» prese la parola Kurti. «C’era un altro a guidare.»
Forse Elias Lessing? Il che avrebbe spiegato perché l’unità cinofila aveva perso le sue tracce nel mezzo del bosco. Pia li ringraziò e annunciò che i pescatori avrebbero dovuto in seguito confermare le loro dichiarazioni, poi lei e Cem si diressero al carro attrezzi su cui si trovava l’auto di Pauline Reichenbach.
***
«A punto S punto D punto» mormorò Pia, scuotendo la testa e infilandosi un paio di guanti in lattice. Poi salì sul carro attrezzi, aprì la portiera del conducente della Toyota e diede un’occhiata all’interno della macchina.
Cem, che l’aveva seguita, si occupò del bagagliaio.
«Nessun corpo» annunciò. «Almeno non umano.»
Gettò alcuni pesci morti nel sottobosco dall’altra parte del sentiero. Pia si sporse all’interno della macchina. Aveva un odore salmastro. Aprì il vano portaoggetti, anch’esso pieno d’acqua. Nel fango era quasi impossibile identificare i singoli oggetti; ci avrebbero pensato gli uomini di Christian. Spostò la mano sul ripiano laterale e toccò qualcosa con la punta delle dita. Uno smartphone!
«Ho qualcosa» disse.
«Anch’io. C’è un sacco di roba qui. Tra cui un portatile. Cosa ci facciamo con tutte queste cose?»
«Nulla. Dovranno controllarle i tecnici.» Pia mise il telefono in una busta per le prove e saltò giù dal carro attrezzi. Ma cos’era successo? Pauline, che aveva riconosciuto Elias dalle riprese delle telecamere di monitoraggio, era andata alla Casa degli amici del bosco e aveva fatto pressione sul figlio del vicino affinché si consegnasse alla polizia? Ed Elias l’aveva quasi picchiata a morte, temendo che potesse tradirlo? Aveva spinto la sua macchina nel laghetto per nascondere le tracce e portato il suo corpo in fin di vita a Ruppertshain con la Land Rover della donna-gufo? Ma dove era stata nel frattempo? Era scomparsa sabato sera tardi ed era stata trovata ferita lunedì mattina.
«Temo che Elias sia fuori controllo» disse dirigendosi verso l’auto di servizio. «Non c’è nessuno di cui si fidi.»
«E ora ha anche la sua ragazza incinta» concordò Cem preoccupato, aprendo la portiera del passeggero.
Perché Elias aveva portato i cani al mulino di Ralf Ehlers? Perché non aveva ucciso Pauline? Credeva di averlo fatto?
Cem accelerò e fece un violento movimento dello sterzo per evitare una profonda buca. Il bosco ombroso divenne più rado. Il ristorante per escursionisti e la casa adiacente spuntarono tra i tronchi degli alberi.
«Il garage è vuoto» disse Pia, passandoci davanti. «La Land Rover non c’è più. Merda! Elias si è sempre spostato con la Land Rover mentre noi cercavamo la Toyota!»
Due colleghi in uniforme li stavano aspettando nel parcheggio. Cem e Pia scesero e si guardarono attorno. Il bosco era silenzioso. Nessun uccello cinguettava, si sentiva solo la pioggerellina che cadeva sulla grande radura. Nulla si muoveva intorno alle roulotte.
«Abbiamo fatto un giro intorno agli edifici» disse uno degli agenti. «Sembra che non ci sia nessuno.»
«Okay, entriamo.» Pia annuì. «Noi usiamo l’ingresso principale, voi sorvegliate la porta di servizio accanto al garage, così nessuno potrà svignarsela.»
Si dispersero, Pia e Cem si avvicinarono alla casa, che era direttamente collegata al ristorante. La porta d’ingresso era socchiusa. Si scambiarono un’occhiata ed estrassero le armi di servizio. I giubbotti antiproiettile erano nel bagagliaio. Pia esitò. La responsabilità ricadeva su di lei. Era meglio indossare i giubbotti prima di entrare in casa? Cosa avrebbe fatto Bodenstein?
«Okay?» sussurrò Cem.
Pia annuì, tesa, l’arma spianata. Riusciva a sentire il battito del suo cuore fino alla punta delle dita. Cem spinse la porta con il piede ed entrò, lei lo seguì. L’aria calda li avvolse, mescolata all’inconfondibile odore di un corpo in stato avanzato di decomposizione.
«Aman allahım!» esclamò Cem, gonfiandosi le guance, disgustato. «Siamo arrivati troppo tardi!»
Pia deglutì a fatica per reprimere il bisogno violento di vomitare. Seguirono lo stretto e buio corridoio con le armi spianate, aprirono una porta dopo l’altra e guardarono in tutte le stanze. I soffitti in legno scuro le facevano sembrare più basse e più piccole di quanto già non fossero. Le pareti rivestite in legno, piene di quadri kitsch comprati al centro bricolage, non miglioravano la situazione. Il piccolo ufficio era vuoto, così come la camera da letto, il cui letto matrimoniale era stato usato solo da un lato. Anche la cucina era in ordine. Il bagno era dietro l’ultima porta del corridoio. L’odore di carne in putrefazione divenne più forte.
«Eccola qui» disse Cem, trattenendo un conato di vomito. «Puah, è nauseabondo.»
La vasca era mezza piena, l’acqua aveva assunto un colore rugginoso. Nell’acqua giaceva il corpo della signora Molin, ed era tutt’altro che una bella vista. Indossava un vestito che una volta era bianco, ma era diventato rosa a causa dell’acqua insanguinata. Il bordo della vasca era macchiato di sangue secco, sul pavimento giacevano i frammenti di una bottiglia, un bicchiere mezzo pieno di vino rosso era appoggiato sullo sgabello accanto alla vasca. Cem si chinò sul corpo e lo esaminò.
«Sembra che le abbiano tagliato la gola» disse con voce sobria. «Se così è stato, almeno non ha sofferto a lungo.»
Per quanto Pia nutrisse poca simpatia per la signora Molin, nessuno meritava una morte del genere.
«Perché è nella vasca con i vestiti addosso?» si domandò ad alta voce.
«L’omicida deve averla sopraffatta e spinta nella vasca» ipotizzò Cem. «Lei aveva fatto scorrere l’acqua, preparato una bottiglia di vino e voleva farsi un bel bagno caldo. Ma prima che potesse entrare nella vasca, è stata aggredita.»
«Mmm.» Pia annuì pensierosa. «Può darsi. Chiamo Kai.»
Mise via la pistola, tirò fuori il cellulare e fuggì fuori. Aspirò avidamente l’aria fresca, poi compose il numero e mise al corrente il collega in modo telegrafico.
«Anche noi abbiamo delle novità» disse Ostermann. «Sui vestiti di Pauline Reichenbach il laboratorio ha trovato peli di cane.»
«Ha senso» replicò Pia. Elias aveva sistemato Pauline priva di sensi nel vano portabagagli della Land Rover, in cui venivano trasportati i due cani dei gerenti.
«Ah, e poi il sangue sulla Land Rover della signora Molin era di Elias Lessing.»
Non c’era da stupirsi. I pezzi del puzzle si stavano ricomponendo.
«La X5 rubata della signora Lessing è stata localizzata a Bad Soden» continuò Kai. «Purtroppo i colleghi hanno trovato solo il gps e non l’auto.»
Quindi Elias aveva rimosso il dispositivo e il veicolo non poteva più essere localizzato. Pia terminò la chiamata e tornò dentro. Cem stava scendendo le scale.
«Era in camera al piano superiore, accanto al letto» le disse, porgendole un foglietto che aveva già messo in una busta per le prove. Pia trovò difficile decifrare la calligrafia scarabocchiata.
Scusa tanto se ti ho rinchiusa. Devo parlare con Nike, assolutamente. Spero che tu mi capisca. Prendo in prestito il tuo telefono e il portatile, poi ti restituirò tutto. Ti prego, non andare dagli sbirri! Ti spiegherò. Non preoccuparti dei cani, li porto con me. Ti riporterò anche l’auto. A proposito, è quasi a secco. A presto!
Pia alzò lo sguardo. «L’ha scritto Elias.»
«Non credo che abbia ucciso la signora Molin» disse Cem. «Voleva tornare.»
«E forse l’ha fatto» replicò Pia. «Era arrabbiata, c’è stata una rissa, le ha tagliato la gola e l’ha spinta nella vasca da bagno.»
«Poi è fuggito e nel panico ha dimenticato di chiudere la porta d’ingresso» aggiunse Cem. «Può essere.»
Lasciarono la casa per non distruggere alcuna traccia.
«Ha dato rifugio a Elias» disse Cem con tristezza. «Per proteggerlo, ha mentito a me e a Bodenstein quando siamo stati qui venerdì. Come ringraziamento per il suo aiuto, quel piccolo bastardo l’ha fatta fuori.»
«Forse non gli stava dando rifugio di sua spontanea volontà. Forse l’ha intimidita e minacciata. E quando Pauline si è presentata, la situazione si è inasprita.» Pia pensò al padre di Elias. Peter Lessing sapeva di aver commesso gli stessi errori dei genitori con i suoi figli. La frase di Jung che gli aveva citato era fondata. Di solito le persone associavano la violenza fisica a quella sessuale quando si parlava di abusi su minori, ma la violenza psicologica era spesso molto più brutale e produceva effetti ancor più duraturi. I genitori esercitavano un incredibile potere sui propri figli, che erano impotenti alla loro mercé. E per quanto grave fosse l’abuso, il bambino faceva di tutto per proteggere i genitori. Fino al giorno in cui diventava adulto. Quali dinamiche si agitavano in quella famiglia disfunzionale, all’apparenza rispettabile e prospera da generazioni? Elias voleva vendicarsi per l’ingiustizia subita o quello che aveva fatto era un disperato grido d’aiuto? A prescindere dalle sue motivazioni, non cambiava il fatto che costituisse un pericolo per chiunque si trovasse sulla sua strada.
***
Bodenstein attraversò il piazzale del municipio di Kelkheim, un edificio funzionale degli anni Settanta sul Gagernring, di fronte al palazzetto per le manifestazioni culturali. Di solito la notizia del ritrovamento di un cadavere gli dava sempre una forte carica di adrenalina, ma quando prima, al telefono, Pia gli aveva riferito che lei e Cem avevano trovato il corpo di Felicitas Molin nella vasca da bagno alla Casa degli amici del bosco, lui non aveva quasi reagito. Troppe cose inconcepibili gli erano piombate addosso negli ultimi giorni e si sentiva come anestetizzato. Gli sembrava che il sistema limbico del suo cervello a volte si spegnesse semplicemente per proteggersi; il resto della sua mente, invece, lavorava a pieno ritmo con una sobrietà quasi patologica, immune da sentimenti come rabbia e delusione.
Compose il numero di Tariq Omari. La vecchia vedova Keller, che aveva visto mezz’ora prima, gli aveva detto che Leo era andato al lavoro con il motorino alle sei e mezza, come faceva ogni mattina. Certo, aveva voluto sapere perché volesse parlare al figlio con una tale urgenza. Sapeva cosa stava succedendo a Ruppertshain e temeva che la gente si sarebbe ricordata dei sospetti contro Leo se «tutta quella robaccia» fosse riemersa. Proprio per quel motivo voleva portare Leo alla stazione di polizia, per la sua stessa sicurezza, perché condivideva le sue paure, aveva assicurato alla donna. Poi la signora Keller gli aveva dato il numero di cellulare di Leo, ma non era riuscito a contattarlo.
Negli uffici amministrativi del cimitero, che si trovavano al piano terra del municipio, una simpatica signora gli aveva detto che quella mattina Leo lavorava al cimitero principale, ma non rispondeva mai al telefono se non conosceva il numero. Bodenstein capiva perfettamente perché Leo non amasse parlare. La donna gli promise di chiamarlo subito per dirgli di andare alla casa funeraria.
«Sì, capo?» rispose Omari quando Bodenstein stava per arrendersi. «Sto per arrivare a Ruppertshain.»
«Prima va’ a prendere Leonard Keller al cimitero di Kelk-heim e portalo alla stazione di polizia. I colleghi ne sono al corrente e Keller è stato informato. Sta aspettando nella casa funeraria. Digli che questa misura serve solo a proteggerlo e che la madre lo sa. Andrò da lui dopo la conferenza stampa e gli spiegherò tutto.»
«Ricevuto.» Tariq annuì. «E poi?»
«Poi vai a Ruppertshain» disse Bodenstein. «Assicurati che ci siano abbastanza veicoli disponibili per trasportare sei persone a Hofheim. Di’ a Lombardi di restare in attesa. E anche Inka Hansen, Ralf Ehlers e Peter Lessing devono essere presenti.»
«Va bene, capo. A dopo.»
Tariq Omari si era rivelato un vero colpo di fortuna per l’ufficio 11. Con lui nulla doveva essere ripetuto due volte, nessun compito era troppo difficile o troppo scomodo. Bodenstein ricordava una situazione ben diversa quando Frank Behnke e Andreas Hasse si lamentavano di continuo della ripartizione dei compiti. Sempre più spesso c’erano stati litigi che avevano esercitato una cattiva influenza sull’atmosfera dell’ufficio. Era felice che Pia gli subentrasse. E con Cem Altunay e Tariq Omari avrebbe avuto dei colleghi in gamba. Cem avrebbe superato il fatto che Pia era stata preferita a lui.
Dovette aspettare di nuovo che il passaggio a livello di Kelkheim si aprisse, poi attraversò Fischbach fino a Ruppertshain. Karoline era andata a prendere Valentina Berjakov all’aeroporto e si stava dirigendo con lei alla Schönwiesenhalle, dove Bodenstein le avrebbe incontrate. Come doveva essere per Valentina tornare in paese dopo tutti quegli anni? Lei e la sua famiglia erano stati trattati con ostilità. E se lei lo avesse rimproverato per non essersi preso cura del fratello e aver così reso possibile tutta la tragedia? Oliver non aveva ancora avuto il tempo di pensare a come sarebbe andato l’incontro con la sorella di Artur, ma di colpo sentì crescere l’ansia.
A Ruppertshain era in corso una vera e propria migrazione, per questo, quando svoltò dalla strada Ober den Birken nella Wiesenstraße, Bodenstein dovette avanzare a passo d’uomo. Intorno alla sala polivalente si era scatenato l’inferno. I furgoni con le parabole di tutti i tipi di emittenti televisive erano parcheggiati ai lati della strada, l’interesse dei media era maggiore del previsto. Un nutrito contingente di polizia faceva passare i visitatori dopo un’accurata perquisizione. Visto lo spaventoso panico di massa che aveva avuto luogo qualche anno prima a Ehlhalten, e che aveva portato a un morto e a molti feriti gravi, stavolta facevano entrare solo un numero limitato di persone.
Bodenstein oltrepassò la barriera dopo un cenno del poliziotto e trovò un posto nel parcheggio affollatissimo. La strada che portava al maneggio era di nuovo percorribile, e molte persone si recavano in pellegrinaggio sul luogo dove era stata trovata Pauline. Le squadre di cameramen filmavano la montagna di fiori, animali di pezza e candele ammucchiati lungo la recinzione del campo sportivo che sarebbero rimasti lì finché Leo Keller e i colleghi della nettezza urbana non se ne sarebbero sbarazzati nel giro di pochi giorni.
Si era alzato un vento freddo, scacciando le nuvole cariche di pioggia e turbinando tra i rami degli alberi che circondavano il piccolo parcheggio. Foglie autunnali colorate stormivano, danzando e frusciando sul pavimento bagnato e lucido. Un magnifico ginkgo biloba con le sue foglie gialle e dorate brillava alla luce del sole di ottobre. Prima che Bodenstein entrasse nella sala, fece un respiro profondo. Presto avrebbe potuto semplicemente godersi le giornate senza dover pensare agli assassini e ai morti. All’improvviso non vedeva l’ora che arrivasse il suo ultimo giorno all’ufficio 11.
***
Nella cucina della sala polivalente, Pia stava parlando con il procuratore Rosenthal, Kim e Nicola Engel. Anche Kai, Cem, Stefan Smykalla e l’addetta stampa della questura la stavano ascoltando con attenzione. Bodenstein si guardò intorno. Dov’era Karoline con Valentina?
«Eccoti qui!» Pia si interruppe a metà frase, abbandonò il gruppetto e si precipitò verso di lui. Aveva un’aria esausta. Tutta la squadra era a pezzi. Avevano lavorato per diverse notti e non avevano ancora nessuna pista solida. «Tutto indica che Elias è rimasto con Felicitas Molin per qualche giorno» disse a bassa voce. «Abbiamo trovato una sua lettera in cui diceva che gli dispiaceva di averla rinchiusa, ma aveva assolutamente bisogno di andare da Nike. Ha portato i suoi cani al mulino di Ehlers e guidava la Land Rover della sorella della signora Molin. Elias andava spesso al mulino. Quindi non avrebbe dovuto essere un problema per lui rubare il piede di porco.»
«Quando è morta la signora Molin?»
«Domenica da mezzogiorno in poi, secondo Henning» rispose Pia. «Tutti i termosifoni della casa erano accesi e lei era sdraiata nella vasca da bagno, che all’inizio era probabilmente piena di acqua calda, quindi è difficile determinare l’ora esatta del decesso.»
«Mmm.» Bodenstein, che poteva immaginarsi le condizioni in cui si trovava il corpo, non invidiava la collega per averlo visto. «Perché Elias avrebbe dovuto uccidere quella donna e picchiare Pauline quasi a morte?»
«Se è stato lui, si è trattato senz’altro di un raptus. Forse Pauline voleva convincerlo a consegnarsi alla polizia. Elias ha scaricato la sua auto nel lago per coprire le tracce. La pistola che porta con sé appartiene al cognato della signora Molin. Nella Casa degli amici del bosco Christian ha trovato un porto d’armi e munizioni.» Pia si fermò un attimo, mordicchiandosi il labbro inferiore, pensierosa. Era pallida per la tensione. «E la signora Molin si sarà arrabbiata perché Elias l’ha rinchiusa. Se l’ha assalito al suo ritorno, lui potrebbe aver dato fuori di matto.»
«In ogni caso, Elias ora è armato e pronto a usare la pistola. E ha Nike Haverland con sé. Se fosse innocente, si presenterebbe alla stazione di polizia» disse Bodenstein. «Finora avevamo ipotizzato che non sapesse guidare, ma non è vero. È solo senza patente.»
«E se fosse in combutta con il padre?» chiese Pia. «Avrebbero potuto procurarsi le bombole del gas e la benzina al mulino; nessuno avrebbe notato la loro mancanza. Elias è uno scassinatore esperto; potrebbe aver preso la sciarpa di Edgar Herold per lasciare una falsa pista. Lessing ha manipolato il figlio ed Elias fa di tutto per compiacere il padre. E se dovesse venire fuori qualcosa, Lessing punterebbe il dito contro il ragazzo, che ha diciannove anni e potrebbe ancora sperare in un processo al tribunale dei minori. A differenza sua.»
Tutte le conversazioni si erano interrotte. Incuriositi, i presenti si erano radunati attorno a Pia e Bodenstein per seguire lo scambio di idee.
«Iniziamo tra venti minuti, gente» li sollecitò Stefan Smykalla. «Cominciate a concordare quello che volete dire là fuori.»
Bodenstein ignorò l’addetto stampa.
«Prima non ho avuto l’impressione che Lessing stesse recitando. È preoccupato di aver commesso gli stessi errori dei genitori con i propri figli. E sembrava realmente scioccato quando gli hai detto che non erano stati lui e gli altri a uccidere Artur. Perché avrebbe dovuto uccidere quattro persone adesso?»
«Lessing voleva tenere tutto nascosto sotto il tappeto.» Pia parlava velocemente, i suoi occhi brillavano febbrili per l’adrenalina. «Quando stamattina l’abbiamo affrontato riguardo alla ferita del 1972, si è stupito! Non sapeva che la dottoressa Basedow avesse le cartelle cliniche del padre e neanche gli altri lo sanno. Danno per scontato che le abbia Lessing.»
L’intuito di Bodenstein si opponeva alla teoria di Pia. Cercava in modo spasmodico di individuare la giusta strada in quel labirinto di false piste.
«Comunque non ha importanza» si intromise Nicola Engel. «Tutti i reati sono caduti in prescrizione perché i colpevoli erano minorenni.»
«Le cartelle cliniche sono una prova» ribatté Pia.
«Di cosa? Dei bambini si erano fatti male. Possono esserci spiegazioni del tutto innocenti.» La direttrice interpretava il ruolo dell’avvocato del diavolo, dimostrando ancora una volta la sua conoscenza dettagliata del caso. «Karl-Heinz Herold era un fabbro, che io sappia. Una contusione con la perdita di un dito è un tipico rischio professionale. Inoltre, abbiamo le confessioni di Lessing e della signora Hansen, no?»
«Purtroppo nessuna vera confessione.» Pia scosse la testa.
«Allora si assicuri di ottenerle» rispose Nicola Engel.
«Penso che stiamo guardando le cose in modo fin troppo razionale» intervenne Kim, che fino a quel momento aveva seguito la discussione in silenzio. «Stiamo parlando di custodire un segreto. In gioco ci sono stati d’animo, vecchie inimicizie. Gira tutto intorno al potere e alla reputazione. La verità potrebbe scuotere le gerarchie del paese. Quindi, se fossi in voi, non farei appello alla razionalità delle persone, ma al loro cuore e alla loro coscienza. Dovete smuoverli da un punto di vista emotivo, è l’unico modo per farli parlare.»
Si aprì una porta. Il brusio di voci salì e si smorzò di nuovo.
«Potrei dire io qualche parola.»
Tutti si voltarono e Bodenstein ebbe un tuffo al cuore alla vista di Karoline. Poi i suoi occhi si posarono sulla donna accanto a lei. Valentina. La sorella di Artur. La bella ragazza dalle gambe lunghe con le trecce bionde era diventata una donna di mezza età snella e attraente. La sua bellezza gli tolse il fiato per un attimo. I capelli, un tempo biondi, erano diventati grigi, ma gli occhi erano gli stessi di allora: color fiordaliso e vispi, anche se colmi di tristezza.
«Sono la sorella di Artur, direi che sarebbe molto emotivo se prendessi io la parola.» La voce, calda e melodiosa, evocò all’istante in Bodenstein il ricordo delle allegre serate con i Berjakov. La voce di sua madre aveva lo stesso identico timbro. “E ha gli occhi di Artur” gli passò per la testa. Ma il pensiero non lo fece soffrire, anzi, fu confortante.
«Valentina!» esclamò sorridendo. «Non sei cambiata per niente!»
«Anch’io ti ho riconosciuto subito.» Il tedesco di Valentina era fluido e senza alcun accento. «Assomigli a tuo padre.»
Si osservarono, cercando con affetto qualcosa di familiare nei lineamenti dell’altro. Bodenstein aveva diciassette o diciotto anni quando l’aveva vista l’ultima volta. Dopo essersi diplomata al liceo, era andata a studiare in Inghilterra grazie a una borsa di studio, e poi non l’aveva più vista.
«Grazie per essere venuta» le disse con voce roca.
Con un gesto cordiale, lei allungò le mani e lui le prese.
«Grazie a te per non avere mai mollato» replicò Valentina. A quanto pareva, non era arrabbiata con lui, non gli portava rancore per aver fallito. «Mamma era molto felice quando le ho detto che finalmente hanno trovato Artur.»
«Oh!» Bodenstein era stupito. «Non sapevo che tua madre fosse ancora viva!»
«Ha ottantasei anni. Si è trasferita a Long Island dopo la morte di papà.» Valentina sorrise per la prima volta, ma era un sorriso triste. «Purtroppo soffre di demenza senile. I giorni buoni sono sempre più rari.»
Gli lasciò le mani. Bodenstein la presentò ai colleghi.
«Ci sarebbe molto d’aiuto se potesse dire qualche parola alla stampa» intervenne Pia. «Se la sente?»
«Sì, certo.» Valentina annuì. «Farò tutto il possibile per scoprire cosa successe quel giorno.»
E all’improvviso Bodenstein seppe come doveva svolgersi la conferenza stampa. Kim aveva assolutamente ragione. Non importava cosa avessero scoperto fino a quel momento o quali sospetti avessero. Si trattava di rompere il silenzio, subito.
***
Dov’era finito Tariq? Sarebbe dovuto arrivare da tempo! Bodenstein guardò nella sala attraverso la porta socchiusa. La stampa si affollava davanti al podio. Al tavolo avevano preso posto Pia, il procuratore Rosenthal, Valentina Berjakov e Nicola Engel. Metà Ruppertshain si era radunata dietro la falange della stampa con le sue macchine fotografiche e i suoi microfoni.
Bodenstein notò tra la folla volti familiari e anche molti giovani, amici di Pauline Reichenbach, probabilmente. Vide Wieland con la moglie e la figlia. Bandi. Sonja Schreck e il marito Detlef, Irene Vetter, Jakob Ehlers con Patrizia e sua madre. I Pokorny, gli Hartmann, Klaus Kroll. La dottoressa Basedow. Luzia Landenberger dell’Abendrot. Anche i suoi genitori erano venuti, insieme a Quentin e a Marie-Louise. Gli omicidi avevano messo in subbuglio l’intera regione. L’assenza dei Reichenbach era comprensibile; erano restati in ospedale accanto alla figlia. E non si stupì che mancassero anche Edgar Herold ed Henriette Lessing.
Che fosse stata la paura o, piuttosto, la curiosità a spingere la gente a venire era irrilevante. Più la gente si informava, più alta era la possibilità che un testimone avesse il coraggio di parlare, anche in considerazione dell’aggressione a Pauline. La verità era molto vicina. Qualcuno doveva solo rompere il silenzio.
Nessuno gli prestò attenzione quando lasciò la cucina. Tutti seguivano con attenzione le parole introduttive di Nicola Engel. Cem si era posizionato davanti, con le spalle al podio, e guardava la folla come un addetto al servizio d’ordine a una partita di calcio.
«Oliver!» Suo padre gli tese la mano quando gli passò accanto.
Bodenstein si fermò e si accovacciò.
«Che c’è?»
«Ecco, queste sono le foto che ci ha mandato il tuo collega» sussurrò il padre, tirando fuori una borsa di stoffa da sotto la sedia. «Non sappiamo esattamente cosa state cercando, così abbiamo scritto i nomi delle persone sul retro. Spero che vi aiuti.»
«È fantastico. Grazie di tutto.»
«Chi è la donna accanto al tuo capo?» La madre si sporse in avanti e la esaminò con sguardo scrutatore.
«È Valentina Berjakov.» Bodenstein si mise la borsa in spalla. «È venuta fin qui da New York.»
Era il turno di Pia. Descrisse gli omicidi e le circostanze dei delitti, poi parlò di Pauline. Accanto al tavolo c’era una moderna lavagna multimediale, che Kai gestiva tramite il portatile. Mostrava le immagini delle vittime quando erano in vita e la foto segnaletica di Elias Lessing. Nel momento in cui apparve il viso sorridente di Pauline, un sospiro collettivo si levò dalla folla.
«Stamattina alla Casa degli amici del bosco è stato trovato il corpo di una donna» continuò Pia. «Crediamo che sia la quinta vittima del nostro assassino. L’omicida conosce molto bene la zona, quindi è probabilmente qualcuno a voi familiare e che, per questa ragione, non attira l’attenzione. Pertanto, vi chiediamo di pensare se, al momento in cui sono avvenuti gli omicidi, vi è capitato di notare qualcosa che potreste non aver considerato importante.»
Elencò di nuovo le scene del crimine, le date e gli orari. In sala non volava una mosca. Bodenstein non staccava gli occhi da Klaus Kroll, Konni Pokorny e Andi Hartmann. Pia si attenne esattamente alla recita organizzata, che avrebbe dovuto mettere il colpevole alle strette. Era stata un’idea di Kim Freitag quella di annunciare un test genetico di massa su tutti gli uomini tra i venti e i settant’anni, per aumentare ulteriormente la pressione.
«Pensiamo che il movente degli omicidi sia di nascondere un crimine avvenuto molti anni fa qui a Ruppertshain.» La voce di Pia sembrava posata e seria quando toccò il tema principale della conferenza stampa. La foto di Artur con Maxi in braccio apparve sulla LIM. Rideva alla macchina fotografica, pieno di gioia di vivere e in apparenza spensierato. «Domenica sono stati trovati i resti di Artur Berjakov, scomparso il 17 agosto 1972. Il suo corpo era stato nascosto nella tomba di un cimitero privato insieme a una volpe morta, Maxi. I più anziani tra voi ricorderanno bene gli eventi. Le indagini della polizia giudiziaria. Gli interrogatori. E anche i due uomini che sono stati erroneamente sospettati del crimine. L’esistenza di due famiglie è stata distrutta da errori e falsi sospetti. Crediamo che in mezzo a noi oggi ci siano persone che conoscono la verità e sanno cos’è successo allora. Che possano dire a noi e ai parenti come e perché un ragazzino di undici anni è morto. Speriamo che, a differenza del passato, queste persone trovino la forza e il coraggio di parlare prima che altri facciano la stessa fine.»
Pia tacque. I giornalisti la tempestarono subito di domande.
«Cosa le fa pensare che gli omicidi possano essere collegati a questo vecchio caso?» gridò qualcuno.
«Abbiamo degli indizi molto chiari» rispose Pia.
«Quali?»
«Per motivi di indagine, non posso dirvi di più al momento» fu la sua risposta. «A parte ciò, abbiamo due confessioni.»
Per qualche secondo nella sala calò un silenzio tombale. Klaus Kroll, Andi Hartmann e Konni Pokorny non batterono ciglio. Chi tra gli anziani di Ruppertshain poteva sapere qualcosa? Nessuno voltò la testa. Le persone erano immobili, come congelate, come se temessero di far ricadere i sospetti su di sé con sguardi o gesti avventati. Un’indicazione della coscienza sporca di tutto il paese.
«Avrete maggiori possibilità di fare domande più tardi» disse Pia ai giornalisti.
Sullo schermo venne mandata per poco una foto dello scheletro di Artur, davanti alla quale la gente reagì con un sussulto di sorpresa. Subito dopo riapparve l’immagine di un Artur sorridente con Maxi in grembo. Pia fu di proposito concisa nelle spiegazioni sui risultati dell’autopsia: Artur si era rotto le ossa in una caduta da una notevole altezza. Inoltre, i femori mostravano fratture comminute, che indicavano che era stato investito da un’auto. Si trattava di fatti che non erano conosciuti quarantadue anni prima.
Riflettete, gente. Ricordate!
«Oggi la sorella di Artur è con noi» disse poi Pia. «Vive a New York, ma è venuta subito qui quando ha saputo che i resti del fratello sono stati trovati dopo quarantadue anni. Prego, signora Berjakov.»
Un mormorio si diffuse nella sala e l’agitazione si placò solo quando Valentina tolse il microfono dal suo supporto e si alzò. Fece il giro del tavolo per posizionarsi davanti. E rimase lì per un po’, a guardare le persone sedute di fronte a lei. Una bella donna in un semplice abito nero, l’anello di congiunzione tra un passato a lungo dimenticato e il presente. Una tempesta di flash si abbatté su di lei. Nessuno si aspettava quel colpo di scena. La storia sarebbe stata la notizia di apertura di tutti i media.
«Quarantacinque anni fa,» iniziò con voce chiara «alla mia famiglia è stato permesso di venire in Germania dall’ex Unione Sovietica. Parlavamo tedesco e ci sentivamo tedeschi perché i nostri antenati erano emigrati in Russia nel XVIII secolo, dove speravano in una vita migliore. Dopo la Seconda guerra mondiale, però, i nati tedeschi sono stati deportati da Stalin in Siberia o in Kazakistan. I genitori di mio padre hanno cambiato il loro nome tedesco da Berger a Berjakov, ma non è stato di grande aiuto. Venticinque anni dopo la fine della guerra, i tedeschi soffrivano ancora di estrema oppressione ed esclusione; non c’erano pari opportunità. Avevo dodici anni quando finalmente abbiamo avuto il permesso di venire in Germania, ricevendo i certificati di naturalizzazione e i passaporti tedeschi. Ci siamo trasferiti a Ruppertshain perché ci viveva un lontano parente. Eravamo tedeschi in Germania, almeno era quello che pensavamo. Ma abbiamo trovato solo rigetto. Più di questo... era puro odio. In Unione Sovietica venivamo chiamati “fascisti”, qui eravamo i “Rasputin”, gli sporchi russi. È stato uno shock per me e mio fratello minore Artur. Non riuscivamo a capire l’ostilità che ci veniva mostrata. Non avevamo fatto niente a nessuno. I nostri genitori accettavano lavori che nessun altro voleva fare. Soprattutto Artur viveva nella paura costante perché veniva minacciato e picchiato dai bambini del paese. A casa non ne parlava, non voleva che i nostri genitori si preoccupassero. Artur era un bambino dolce, sveglio, di talento e intelligente. Voleva andare al liceo per diventare neurochirurgo o astronauta, ma non gli è stato concesso un futuro.»
Si interruppe e fece un respiro profondo. La sua voce era composta. Niente istrionismi, niente accuse, niente amarezza. Un destino ingiusto sopportato con coraggio. Una donna bellissima, circondata da un’aura di tristezza, che non dava a vedere quanto fosse difficile per lei parlare di quella storia e riaprire le ferite cicatrizzate. Le telecamere erano incollate a lei.
«La sera del 17 agosto 1972, mio fratello ha incontrato le persone sbagliate. Non è mai tornato a casa. La nostra vita non è più stata la stessa da allora. Per quarantadue anni abbiamo vissuto senza sapere cosa gli fosse successo. I miei genitori erano devastati e io ho giurato a me stessa, in quel momento, di non legarmi mai troppo a un essere umano o a un animale. Artur non è stata l’unica vittima dell’assassino. Anche i miei genitori ne sono stati colpiti. E anch’io. L’assassino di Artur continua a uccidere. È qualcuno che probabilmente tutti conoscete. Vive qui. Se sapete qualcosa, non tacete più! Ricordate e abbiate il coraggio di andare alla polizia! Vi prego! Assicuratevi che non muoiano altre persone e che non soffrano altre famiglie. Vi ringrazio per avermi ascoltata, anche a nome di Artur, che non vedeva l’ora di diventare adulto e non ha mai potuto esserlo. Se non fosse stato ucciso, oggi avrebbe cinquantaquattro anni.»
La costernazione della gente era quasi palpabile. Alcune donne si asciugarono gli occhi. Bodenstein si accorse di aver trattenuto il respiro, commosso dalle parole di Valentina. La donna posò il microfono sul tavolo e lasciò il palco. I giornalisti avanzarono, urlando le loro domande alla rinfusa; l’addetto stampa non riuscì a prendere la parola, allora ci rinunciò scrollando le spalle.
“Fantastico” pensò Bodenstein, profondamente commosso. Era proprio quello che aveva sperato. Aveva la sensazione che qualcosa stesse per iniziare a muoversi.
***
Bodenstein fu il primo a lasciare la Schönwiesenhalle. Pia gli aveva consigliato di restare in disparte e di lasciare a lei e a Lombardi gli interrogatori ai suoi ex compagni di scuola, perché temeva che la sua presenza avrebbe inibito la loro volontà di parlare. Ecco perché si trovava ai margini del piccolo piazzale a guardare la gente che, in parte silenziosa e depressa, in parte indignata e concitata, gli passava davanti. Sguardi timidi lo sfioravano e venivano subito distolti quando lui li ricambiava. Nessuno era ansioso di parlargli. La conferenza stampa li aveva sconvolti, ma sarebbe bastato a convincere finalmente qualcuno a rompere il silenzio?
Nel corso della sua vita professionale, Bodenstein aveva perso l’idealismo che lo aveva ispirato all’inizio della carriera, eppure aveva sempre creduto che al mondo ci fossero più persone perbene che malvagie. Ma era vero? Guardò quei volti e con crescente frustrazione riconobbe una sconvolgente verità: alla maggior parte di quella gente non importava nulla di quello che succedeva. Erano felici che non avesse colpito loro e le loro famiglie. Preoccupati per la propria comodità e per la sicurezza del loro piccolo e limitato mondo, nessuno di loro si sarebbe esposto volontariamente andando alla polizia. Forse, però, c’era anche la preoccupazione di denunciare un vicino e di essere visto poi come un nemico qualora il sospetto si fosse rivelato sbagliato. Vista così, non si poteva biasimare il loro comportamento.
Bodenstein fece il giro della sala polivalente per raggiungere l’auto. Tariq Omari aveva tentato di contattarlo sette volte. Lo richiamò.
«Ha funzionato?» chiese.
«No!» replicò Tariq. «Non era nella casa funeraria. Ho camminato per tutto il cimitero e ho parlato con i colleghi di Keller, ma neanche loro sapevano dove fosse. Temo che se la sia svignata.»
«Leo è disabile e ha solo un motorino» disse Bodenstein con un pizzico di fastidio. «Non può essere andato lontano.»
«Cosa faccio adesso?»
«Vieni a Ruppertshain. Ci incontreremo a casa della madre di Keller nella Wiesenstraße.»
Terminò la conversazione e si immobilizzò di colpo perché Andi Hartmann, Konni Pokorny e Klaus Kroll stavano salendo su un autobus con espressione impassibile. Quando il bus uscì lentamente dal parcheggio, Bodenstein entrò nella cucina della sala polivalente attraverso l’ingresso posteriore. Karoline si voltò verso di lui, notò la sua tensione.
«Mi prenderò io cura di Valentina» lo rassicurò. «Non preoccuparti.»
«Grazie.» Bodenstein si costrinse a sorridere, poi partì alla ricerca di Pia. Era con Kim dietro la sala, in attesa che i giornalisti lasciassero andare la sorella di Artur.
«Leo Keller è scomparso» disse. «Tariq e io andremo di nuovo da sua madre. Forse è tornato a casa perché aveva paura.»
«Okay.» Pia aggrottò la fronte. «La Land Rover della signora Molin è stata trovata in un parcheggio vicino al bosco.»
«Elias l’ha lasciata lì ed è andato a piedi dai suoi genitori» suggerì Bodenstein. «E poi ha preso la BMW della madre. Ma non può nascondersi per sempre. Dovrà fare il pieno, prima o poi, e allora lo troveremo.»
«Sono preoccupata per la ragazza» replicò Pia. «E se usasse Nike come ostaggio?»
«Non lo farà.» Bodenstein provò a sembrare convincente, ma non ne era davvero sicuro. Il ragazzo era una bomba a orologeria. «L’assassino che lo insegue è il pericolo maggiore sia per loro sia per il bambino.»
«Manderò a prendere i Reichenbach all’ospedale e li farò portare a Hofheim» disse Pia. «Li voglio tutti insieme quando arriverà l’ora della verità, tutti e nove. Nessuno oggi se ne va senza una confessione, anche se ci vorrà tutta la notte.»
Vedendo la sua espressione decisa e nello stesso tempo inquieta, Bodenstein sapeva che Pia non avrebbe mollato finché non avesse ottenuto dei risultati. Conosceva quella sensazione, quella voglia fredda e formicolante di caccia che ti faceva dimenticare la stanchezza e lo sfinimento e ti permetteva di superare te stesso. Per un agente di polizia giudiziaria era indispensabile quanto la pazienza, la perseveranza, la resistenza e una buona capacità di deduzione. Lui le aveva perdute. Con il passare dei mesi si era allontanato sempre più dalla sua forma ottimale e l’ultimo caso lo stava spompando. Era spinto da una motivazione completamente diversa, per niente professionale: il desiderio di vendetta.
***
«Merda.» Elias colpì il volante con la mano. «Dobbiamo fare benzina.»
Erano in riserva e l’autonomia era di soli sessanta chilometri. Tutto era molto più complicato di quanto avesse pianificato. Viaggiare sull’autostrada fino alla casa vacanza dei suoi genitori in Francia non era più un’opzione. Nike aveva affermato che i poliziotti potevano riconoscere le targhe delle auto usando le telecamere nei ponti di controllo per il pedaggio dei camion. Elias non aveva idea se fosse vero, ma non voleva correre rischi. E tutte le stazioni di servizio erano sotto sorveglianza video. Non appena fosse arrivato a una pompa di benzina, l’avrebbero preso.
Che fare? Dove potevano passare la notte? Aveva pensato di svitare la targa e scambiarla con quella di un’altra auto, però Nike aveva protestato con veemenza. Ma cosa credeva? Che sarebbe stata una vacanza? I nervi di Elias erano a pezzi e la situazione non sarebbe migliorata se Nike avesse continuato a piangere a dirotto. Il suo entusiasmo iniziale per l’insolita libertà era all’improvviso svanito quando avevano sentito per la prima volta alla radio l’avviso di ricerca della polizia, che veniva trasmesso ogni mezz’ora dopo il notiziario sul traffico.
La polizia sta cercando Elias Lessing di diciannove anni in relazione a diversi casi di omicidio. Guida una BMW X5 nera con targa MTK-HB 129. Elias Lessing è alto 1,78 ed è molto magro, ha i capelli biondo scuro e corti. A volte può portare gli occhiali. È in compagnia della studentessa diciassettenne Nike Haverland, incinta di nove mesi. Elias Lessing è armato e pericoloso. Vi preghiamo di non avvicinarvi a lui quando lo vedete, ma di contattare la stazione di polizia più vicina.
Nike voleva sapere cosa intendessero quando parlavano di casi di omicidio. Alla fine, Elias aveva ammesso di aver trovato Felicitas morta nella vasca da bagno. Lui non c’entrava niente, le aveva giurato solennemente, eppure aveva visto il dubbio nei suoi occhi. E dietro al dubbio, la paura.
Il parcheggio del piccolo monte Feldberg era deserto. Poteva essere un vantaggio, ma anche un pericolo, perché un’auto solitaria avrebbe attirato l’attenzione. Ma non aveva molta scelta. Niente carburante nel serbatoio. Nessun nascondiglio.
«Ed ecco un altro avviso della polizia» ripeterono gli altoparlanti. Elias spense bruscamente la radio.
«Eli» sussurrò Nike con voce tremante. «Ti prego. Siamo ragionevoli.»
«Cavolo, te l’ho spiegato cento volte!» sbottò. «Non voglio andare in galera!»
«Ma che vuoi fare, allora? Non puoi nasconderti per sempre!»
La verità in quelle parole era la parte peggiore di tutta la faccenda. Non poteva fuggire per il resto della sua vita, e nemmeno per tre giorni, non poteva reggere.
Perché non era rimasto in quella cazzo di roulotte? Perché si era fatto prendere dalla curiosità ed era sgattaiolato fuori? Adesso quel tizio che aveva dato fuoco alla roulotte conosceva il suo nome, grazie a quegli stupidi avvisi di ricerca: era in una situazione di merda!
«La donna della polizia giudiziaria era davvero molto gentile» disse Nike con titubanza. «Se glielo spieghiamo, si sistemerà tutto.»
Com’era ingenua! Non si sarebbe sistemato nulla! Aveva derubato Felicitas, aveva guidato senza patente, aveva minacciato la sua famiglia con una pistola e li aveva rinchiusi in cantina. E probabilmente lo avrebbero accusato dell’omicidio di Felicitas! Elias lasciò cadere la testa sul volante. All’improvviso non aveva più forze. Non voleva più avere paura. Perché gli sbirri non avevano preso il tizio che voleva ucciderlo? Allora tutto sarebbe finito e lui avrebbe potuto iniziare una nuova vita. Insieme a Nike. E presto con un bambino che sarebbe stato solo loro.
«Cosa facciamo quando diventa buio?» chiese Nike. «Siamo nel bel mezzo del bosco.»
«Conosco il posto» replicò, quasi assente. «Non ti preoccupare. Mi prenderò cura di te.»
«Lo so.»
Sentì la sua mano sulla coscia e l’afferrò. Si fidava di lui. Ancora. Doveva arrendersi, altrimenti avrebbe distrutto per sempre tutto quello che c’era tra di loro.
«Okay» disse. «Domani andremo alla polizia.»
«Davvero?»
Elias girò la testa e guardò Nike. Vide il suo sorriso e il barlume di speranza nei suoi occhi.
«Sì. Davvero.» Anche lui fece un sorriso, poi accese il motore. «So dove possiamo stare stanotte.»
***
Tariq stava già aspettando davanti al cancello del cortile di Annemarie Keller. Al piano terra della casa a tre piani si trovava l’ex emporio, chiuso da oltre quarant’anni. Le veneziane sbiancate dal sole erano state abbassate e dietro la porta di vetro era appeso un cartello ingiallito che diceva TEMPORANEAMENTE CHIUSO. Vedendolo, Bodenstein si ricordò di un caso che aveva portato lui e Pia in un altro paese. Anche lì, la comunità aveva distrutto senza pietà una famiglia e la sua esistenza costringendo praticamente alla quarantena i genitori di un sospettato.
Suonò il campanello e poco dopo si aprì una finestra al primo piano. L’anziana signora Keller si sporse.
«Di nuovo tu.» La sua mancanza di entusiasmo era evidente. «Leo non c’è.»
«Dobbiamo parlarle, signora Keller» disse Bodenstein, impassibile. «Leo è scomparso e sono preoccupato.»
La donna lo fissò dall’alto come un falco per alcuni secondi. Poi chiuse la finestra senza commentare.
«E adesso?» domandò Tariq.
«Aspettiamo» rispose Bodenstein. «Ha difficoltà a camminare.»
«Non ho avuto l’impressione che volesse parlare con noi» obiettò Tariq.
«Invece sì» lo rassicurò Bodenstein. «Vedrai.»
Passarono alcuni minuti. Poi si sentì un rumore dietro il cancello. Una chiave girò nella serratura e il piccolo battente si aprì. La signora squadrò brevemente Tariq, fece cenno di entrare e richiuse con cura il cancello dietro di loro. Il cortile quadrato, pavimentato con pietre a incastro, era impeccabile. Non una sola erbaccia cresceva tra le fessure; il piccolo orto sul retro era ordinato, e gli ultimi fiori autunnali sbocciavano nelle aiuole. Verso la strada si trovava un edificio basso che in passato doveva essere stato una stalla per cavalli.
«Il mio Leo è innocente» annunciò la signora. «Non ha fatto quello di cui lo accusavano allora!»
«Neanche noi lo crediamo» replicò Bodenstein. «Ma avremmo comunque voluto tenerlo con noi per qualche giorno per la sua sicurezza. Non mi piace non sapere dove sia.»
«Ha paura che ricomincerà tutto da capo.» La signora afferrò le maniglie del deambulatore. Sotto la pelle pallida e chiazzata per l’età, le vene blu serpeggiavano. «E anch’io. Leo è un bravo ragazzo. Non mi ha mai delusa. E non ha avuto vita facile. Per Leo sarebbe stato meglio se se ne fosse andato allora. Ma non voleva lasciarmi sola. È un tormento per lui non sapere cosa fosse successo.» La sua voce divenne fragile, le lacrime brillavano nei suoi occhi azzurri e acquosi. «Lo sai bene cosa ci hanno fatto allora! Nessuno è più venuto a comprare da noi. Cambiavano il lato del marciapiede solo per non dover passare davanti a casa nostra! E poi tutte quelle brutte voci che giravano, su quello che Leo faceva ai ragazzini! Era un allenatore di calcio e adorava farlo. Mio figlio non riusciva più a sopportarlo e ha provato a togliersi la vita!»
Singhiozzò e fece una smorfia sofferente. Il vecchio dolore era ancora lì, così come il dubbio lancinante.
«Signora Keller, vogliamo proteggere Leo.» Bodenstein si sporse in avanti e mise una mano sulla spalla della donna. «Abbiamo scoperto che non aveva tentato il suicidio. Qualcuno voleva ucciderlo con la pistola abbattibuoi.»
«Cosa?» Un’espressione di sorpresa apparve sul viso della donna. «Ma... ma... l’avevano detto tutti! I poliziotti! E i dottori! Tutti qui in paese lo dicevano. Gli avevano anche trovato la pistola in mano.»
«Qualcuno ha attentato alla vita di Leo e ha fatto in modo che sembrasse un suicidio» ribatté Bodenstein. «Abbiamo le prove.»
La notizia sconvolse la vecchia signora. Si premette una mano sul petto, poi spinse il deambulatore verso una panca di legno appoggiata al muro della casa e vi si accasciò con un gemito. Si soffiò il naso, lasciò cadere il fazzoletto con noncuranza. I suoi occhi vagarono per il cortile.
«Non capisco» gracchiò confusa. «Tutti gli specialisti. La polizia giudiziaria. Non possono essersi sbagliati così! È uno dei vostri trucchi, vero?» Guardò Bodenstein con sospetto e lui si rese conto di quello che la donna aveva passato nella sua vita. Ricordava la generosità dei Keller. Ogni bambino che entrava nel loro negozio poteva scegliere una caramella dal barattolo. Facevano credito a chi non aveva abbastanza soldi e non reclamavano mai i debiti. Nessuno li aveva mai ringraziati. L’ostracismo della comunità aveva portato il marito all’alcolismo e il negozio di alimentari al fallimento. Quell’anziana donna aveva tutte le ragioni per essere sospettosa.
«No, signora Keller. Leo è innocente» le assicurò. «Sappiamo che all’epoca non ha fatto nulla. Qualcuno l’ha usato come capro espiatorio per distogliere l’attenzione da se stesso.»
«Oddio, oddio, oddio» mormorò l’anziana. Una lacrima le scorreva lungo la guancia rugosa, poi un’altra. «Cosa faccio adesso? Oh, se solo il mio Heinz fosse ancora vivo! Ma sono sola, non ho che Leo.»
«E lui resterà con lei» la rassicurò Bodenstein con pazienza. «Dove può essere ora? Devo parlare con lui.»
Annemarie Keller si soffiò di nuovo il naso, si asciugò le lacrime dalle guance e si alzò. L’incertezza era scomparsa dai suoi occhi e aveva lasciato il posto a un’altra espressione.
«Non ho mai voluto credere che il mio Leo avesse tentato il suicidio. Conosco mio figlio» disse. Il suo tono di voce era cambiato. «Chiunque abbia fatto questo al mio Leo, è lo stesso che ha ucciso Rosie, il figlio e il prete?»
«È possibile» ammise Bodenstein con prudenza.
«Ed è di qui?» All’improvviso si era accesa una luce minacciosa nei suoi occhi, che allarmò Bodenstein.
«Supponiamo che sia così, sì.»
«Capisco.» La signora Keller fissò il cortile e masticò la sua dentiera. «Stamattina, dopo il tuo arrivo, ho chiamato Leo. Gli ho detto di nascondersi da qualche parte finché tutto questo non sarà finito.»
«Ma perché?»
«Perché non ci fidiamo più di nessuno» rispose l’anziana con un sorriso amaro. «Soprattutto della polizia.»
***
«Francamente, non posso biasimarla» confidò Bodenstein a Tariq Omari quando ritornarono in strada. «All’epoca i nostri colleghi avevano dei pregiudizi nei confronti di Leo e l’hanno bollato come colpevole senza alcuna prova reale, solo per chiudere il caso. Da allora, tutti credono che Leo abbia abusato di Artur, lo abbia ucciso e abbia seppellito il suo corpo da qualche parte. Se anche adesso trovassimo il vero assassino, non potremo mai compensare l’ingiustizia che ha subito.»
«È così convinto che non sia stato lui?» chiese Tariq. «Potrebbe essere lui l’uomo con cui si vedeva Rosie Herold. Una donna sostiene di averlo visto uscire dal bosco. Perché avrebbe dovuto inventarselo?»
«Certo, i dubbi rimangono» ammise Bodenstein. «Ma in Germania si è innocenti fino a prova contraria.»
Mise le mani nelle tasche della giacca e fissò con attenzione il sanatorio che troneggiava maestoso sopra il paese. Il sole era tramontato, la notte calava. Nel limpido cielo autunnale si vedeva una pallida mezzaluna. Se si fosse trovato nei panni di Leo dove si sarebbe nascosto? Aveva amici di cui poteva fidarsi?
«La capanna» disse infine, più a se stesso che a Tariq, e si diresse verso la propria auto. «Seguimi.»
Percorsero la Wiesenstraße fino alla sala polivalente, lasciarono le macchine al parcheggio e scesero lungo la stradina di fronte all’impianto sportivo, che conduceva al campo per l’aeromodellismo e alla tenuta Bodenstein. A sinistra, dietro le recinzioni arrugginite e le alte siepi, si estendevano terreni privati che non avevano l’aria di essere particolarmente ben tenuti.
«Negli anni Sessanta e Settanta la gente di Francoforte aveva acquistato questi terreni agricoli e vi aveva costruito seconde case abusive» spiegò al collega. «Tutti hanno piantato piccoli abeti perché crescono più in fretta. Purtroppo, col tempo, non si sono presi cura di loro come si deve, ed ecco il risultato.»
Abeti, cespugli di more e sottobosco erano cresciuti indisturbati e ora formavano un bosco fitto e scuro, in cui si ergevano, sparpagliate, casupole fatiscenti e in rovina. Un solo appezzamento di terreno era l’eccezione: era ben curato e meticolosamente ordinato, come il cortile della vedova Keller.
«Ecco la capanna di Leo» disse Bodenstein, scuotendo leggermente il cancello di filo metallico, che non solo era chiuso a chiave ma anche fissato con un robusto lucchetto per biciclette. «Venivamo spesso qui da bambini. Gli alberi non c’erano ancora e giocavamo a calcio sul prato.»
«Come entriamo?» chiese Tariq.
«Scavalchiamo» replicò Bodenstein sollevando una gamba e infilando la punta di una scarpa nella rete.
«È violazione di domicilio, capo» gli ricordò Tariq.
«Come? Non riesco a sentirti.» Bodenstein saltò. «Su, andiamo!»
«Questa è istigazione alla violazione di domicilio.» Tariq si strinse nelle spalle. «Tanto per la cronaca.»
Era buio dietro le piccole finestre della capanna. Nessuna traccia del motorino di Leo Keller. Uno spesso strato di aghi di abete attenuò il suono dei loro passi mentre camminavano intorno alla capanna. Era già così buio, sotto gli alberi, che a malapena si vedeva a un palmo dal naso.
«Non c’è nessuno» osservò Tariq. «Dobbiamo anche fare irruzione?»
«Ci puoi contare» rispose Bodenstein dirigendosi verso la porta d’ingresso. Non era chiusa, Leo sembrava fare affidamento sul lucchetto al cancello.
Bodenstein entrò nella capanna e spinse l’interruttore della luce. La lampada da soffitto si accese. Dentro aleggiava un odore di umidità e aria viziata. Uno strato di polvere copriva i pochi mobili. Sulle piastrelle lisce c’erano escrementi di topo.
«Non sembra abitato» commentò Tariq. «Ma qualcuno dev’esserci stato di recente.»
«Da cosa lo capisci?»
«Impronte di suole di scarpe nella polvere.» Tariq indicò il pavimento. «Là, le vede? Qualcuno ha attraversato la capanna.»
«Eccellente» disse Bodenstein. «Scatta qualche foto.»
Seguì le impronte delle scarpe in cucina, attento a non cancellarle. Nella piccola stanza c’era un angolo cottura con pensili, fornelli, forno e frigorifero. Un tavolo con due sedie. Sul muro era appeso un calendario del 2011 aperto al mese di marzo. Non c’era nulla in giro. Il lavandino era asciutto. Bodenstein aprì il frigorifero, che era spento, con lo sportello socchiuso. All’improvviso l’odore del sangue gli riempì le narici. Gli scompartimenti erano vuoti, tranne qualche tubetto di senape e due lattine di birra. Nel freezer scoprì un sacchetto di plastica. I suoi battiti accelerarono. Tirò fuori un paio di guanti in lattice dalla tasca della giacca e se li infilò, poi prese il tubetto. Non era molto pesante. Ci gettò un’occhiata dentro.
Nessuna parte del corpo, solo un pezzo di stoffa in cui era stato avvolto qualcosa. Con attenzione tirò fuori lo straccio e lo stese. Il suo cuore divenne pesante alla vista del coltello con la lama macchiata di sangue. Solo venti minuti prima aveva assicurato con piena convinzione all’anziana signora Keller che credeva che Leo fosse innocente. E ora questo!
«Capo, ho fotografato...» Tariq entrò in cucina e ammutolì. «Che cos’è?»
«Una maglietta piena di macchie di sangue» replicò Bodenstein. «E un coltello da cucina. Erano avvolti in un sacchetto di plastica, nascosti nel freezer.»
«Oh» fece il giovane uomo.
«Penso di essermi sbagliato» borbottò Oliver depresso. Pia aveva ragione. Il suo coinvolgimento personale nel caso aveva offuscato la sua obiettività e la sete di vendetta lo aveva condotto sulla strada sbagliata. «Ci serve la Scientifica» disse. «E un mandato di perquisizione per la casa dei Keller.» Emise un sospiro. «E poi dobbiamo emettere un avviso di ricerca per Leo.»
***
«Aspetta un secondo in auto» disse a Nike. «Prima vedo se la via è libera.»
«No, ti prego, lasciami venire con te!» Gli afferrò il braccio, in preda all’ansia. «Non voglio restare qui da sola in mezzo al bosco. Ho paura.»
Elias esitò per un momento, poi scrollò le spalle. Continuava a dimenticare che di notte quasi tutti trovavano il bosco minaccioso. Lui, invece, no. Si sentiva a proprio agio nel silenzio del bosco.
«Okay» disse.
Aveva parcheggiato la BMW nera tra gli spessi abeti dietro il fienile, ben nascosta. Scesero e Nike gli prese la mano.
«Dove siamo?» sussurrò.
«Un mio amico vive qui» replicò lui.
«Qui? In mezzo al bosco?»
«Sì. È un vecchio mulino.»
La polizia era stata laggiù? Aveva cercato Pauline, forse? Si chinarono sotto i rami bassi degli abeti e raggiunsero il piccolo cancello attraverso il quale si entrava nel cortile sul retro del mulino. I rami secchi si spezzarono sotto le loro scarpe, un gufo volò sopra la loro testa. Nike emise un piccolo grido di paura e gli si premette più vicino.
«Cos’è stato?» sussurrò.
«Solo un gufo.»
«Oddio, ho tanta paura!»
«Non devi. Ci sono qui io con te.»
Elias alzò la testa e si mise in ascolto. Nel silenzio assoluto, si sentiva solo il gorgoglio del torrente. Il generatore non ronzava più, il che significava che gli sbirri avevano scoperto la piantagione nel fienile e avevano fatto piazza pulita. Tentò di aprire il cancello, ma non riuscì a smuoverlo.
«Dai, passiamo dall’altra parte» disse, tirando Nike con sé. I suoi occhi si erano abituati all’oscurità, conosceva ogni centimetro del mulino e non aveva problemi a muoversi nel sottobosco.
Nike continuava a inciampare e sarebbe caduta se lui non l’avesse sostenuta. All’improvviso gemette per il dolore e si fermò. Lo lasciò andare e si premette entrambe le mani sulla pancia.
«Che hai?» chiese preoccupato.
«Mi fa malissimo» sussurrò spaventata. «Credo di dovermi sdraiare. E devo andare subito in bagno.»
«Ci siamo» la rassicurò. «Siamo arrivati. Dai, sono solo pochi metri.»
Le prese di nuovo la mano e la tirò dietro di sé. Avevano raggiunto l’ingresso. La vecchia Volvo di Ralf era nel cortile con il portellone posteriore aperto. I cani non si muovevano e in casa era tutto buio. C’era qualcosa che non andava.
«Non credo che ci sia» disse Elias piano.
«E adesso?»
La voce di Nike tremava. Era vicina alle lacrime. Se fosse stato da solo avrebbe passato la notte in macchina o da qualche parte nel bosco. Ma Nike non stava bene. La sua preoccupazione per lei e per il bambino era più forte della strana sensazione che si era insinuata in lui.
«So dov’è la chiave» rispose. «Staremo qui stanotte.»
«Ma sei sicuro? Non possiamo mica entrare così!»
«Ralf è un mio amico. Di certo non gli dispiace.» Elias si chinò e sollevò un vaso di fiori in cui si era seccata un’ortensia. Cercò a tastoni la chiave, la trovò e aprì. Entrarono in casa. Quando chiuse a chiave dietro di sé, provò sollievo per la prima volta dopo giorni. Lì erano al sicuro. La polizia non sarebbe tornata presto.
Accese la lampada a stelo accanto al comò e abbassò la luce, poi mostrò a Nike il bagno.
«Dai, sdraiati sul divano prima.» Le accarezzò il viso e lei si appoggiò a lui.
«Dà sempre calci» sussurrò, prendendogli la mano e mettendola sul ventre. «Lo senti?»
«Sì!» Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Suo figlio! Il suo bambino! Presto sarebbe nato, avrebbe respirato e sarebbe stato solo loro!
Nike gli sorrise. Era così bella. Ed era con lui. Tutto il resto non contava. Avrebbe pensato al futuro più tardi. Per ora erano al sicuro e potevano riposare.
Mise il braccio attorno alle sue spalle, la condusse in soggiorno e si bloccò. Il sangue gli si gelò nelle vene. Nella penombra davanti a loro c’era un uomo, e aveva una pistola puntata contro di loro. Elias si rese conto di aver commesso il più grande errore della sua vita quando aveva deciso di portare Nike al mulino.
***
Il gruppo era radunato in silenzio attorno al grande tavolo di una sala riunioni senza finestre nel seminterrato dell’RKI. Il soffitto basso faceva sembrare la stanza più piccola di quanto non fosse. La brillante luce al neon dava ai volti una malsana tonalità verdastra. Nessuno parlava. Tutti sapevano perché si trovavano lì. Il passato li aveva raggiunti, era il momento della verità. Non se l’aspettavano, dopo tanto tempo. Come d’abitudine, gli uomini lanciavano sguardi furtivi a Peter Lessing, ma l’ex portavoce della banda di bambini sedeva immobile a capotavola e si fissava le mani giunte. Era un assassino? Pensava al figlio in pericolo di morte? Alla moglie? O semplicemente a come tirarsi fuori da quel guaio in modo relativamente indolore?
Pia li guardò uno dopo l’altro. La banda. I capi. I gregari. Seduto accanto a Lessing c’era Klaus Kroll, fratello di Rosie Herold e Patrizia Ehlers, presidente dei vigili del fuoco volontari, dell’associazione frutticoltori e orticoltori, presidente onorario del club sportivo, poliziotto della città di Kelkheim e, in ultimo, contadino di Ruppertshain, alto e di buon carattere, con i capelli folti e scuri, solo striati di qualche filo grigio. Riusciva a malapena a nascondere il nervosismo, si agitava sulla sedia di plastica, non sapendo come sistemare le enormi mani e le lunghe gambe. Era in gioco tutto ciò che significava qualcosa per lui: la sua reputazione, la sua posizione, la sua autorità. E se fosse stato lui ad aver commesso gli omicidi? Avrebbe potuto entrare nella bottega di Edgar Herold senza attirare l’attenzione. Faceva parte di Ruppertshain come l’ex sanatorio, era praticamente trasparente.
Gli occhi di Pia si posarono su Andreas Hartmann. Lo stesso valeva per lui. La sua macelleria, sopra la quale viveva, era proprio di fronte alla bottega di Herold. Anche lui aveva molto da perdere. Ricordava ancora l’ostracismo che aveva colpito e rovinato la famiglia Keller dopo aver accusato Leo di essere un assassino di bambini? Sarebbe potuta capitargli una cosa simile se fosse emerso quello che era successo all’epoca. Secondo la descrizione di Bodenstein, Hartmann era una testa calda, si offendeva facilmente e serbava un rancore viscerale, ma nonostante quelle caratteristiche, che lo rendevano imprevedibile, Bodenstein non lo considerava un assassino a sangue freddo; in fin dei conti non era abbastanza scaltro.
Lo stesso valeva per Konstantin Pokorny, il fornaio, il classico gregario, che era stato escluso come colpevole semplicemente a causa della sua enorme mole e delle sue pessime condizioni fisiche.
Pia lanciò un’occhiata all’orologio al muro e scambiò uno sguardo con Gianni Lombardi. Dov’era finito Bodenstein? Dovevano cominciare senza di lui? Voleva farla finita con tutta quella storia, all’istante.
Hartmann masticava e rimasticava il chewing gum. Con le mani in tasca, le gambe distese sotto il tavolo, voleva comunicare disinvoltura, ma non gli riusciva. Gli occhi gli guizzavano a destra e a sinistra, si sentiva a disagio come Konni, Edgar e Klaus.
Bussarono alla porta. L’agente, seduto su uno sgabello vicino alla porta, si alzò e aprì. Tutti girarono la testa.
«Ciao, ragazzi.» Ralf Ehlers sorrise e andò a sedersi dove Lombardi gli aveva indicato, all’altro capo del tavolo. «Che bello vedervi. Proprio come ai bei vecchi tempi, no?»
Nessuno gli rispose. Il suo avvocato all’inizio aveva protestato con forza all’idea di Pia, ma poi aveva riconosciuto l’opportunità che l’accordo rappresentava per il suo cliente. A Ehlers importava solo che i suoi cani stessero bene, non sembrava preoccupato per una possibile condanna per la coltivazione illegale di hashish. A differenza di tutti gli altri, l’intera situazione sembrava divertirlo.
Inka Hansen, dal canto suo, era bianca come un cencio, con borse marcate sotto gli occhi. Senza alzare lo sguardo, si mise a sedere. La prima notte in cella cambiava una persona che non era abituata a stare rinchiusa. L’improvviso isolamento, l’impotenza, la sensazione di essere soli con se stessi, i propri pensieri e le proprie azioni, lasciavano quasi sempre il segno. Quella notte Inka Hansen si era spezzata. Non era altro che l’ombra di se stessa.
Alla fine arrivarono i genitori di Pauline. Presero posto, muti, gli occhi rossi per le lacrime; il dolore e l’angoscia trasparivano da tutti i pori della loro pelle.
L’imbarazzo calò nella stanza. A eccezione di Ralf Ehlers, nessuno osava guardare i due.
«Allora» esordì Pia. Stava dietro la sedia di Peter Lessing, Lombardi si era posizionato all’estremità opposta del tavolo. L’aria era già soffocante. Non c’era nulla da bere. Solo un tavolo vuoto. Pia non era interessata a creare una piacevole atmosfera di conversazione. «Sapete tutti perché siete qui.»
«Io non lo so» sbottò Simone Reichenbach in modo aggressivo. «So solo che mi lamenterò della sua inciviltà. Allontanarci dal capezzale di nostra figlia senza preavviso e trascinarci qui è inammissibile!»
«Stiamo cercando di scoprire chi ha aggredito sua figlia» replicò Pia con freddezza. «Sapete tutti cos’è successo all’epoca. E ora lo sappiamo anche noi. Vogliamo capire da voi...»
«Che diritto ha di fare l’inquisitore con noi?» la interruppe Simone Reichenbach con rabbia. «Mia figlia è in coma e lei sta rivangando una storia vecchia con il pretesto di risolvere degli omicidi!» Spinse la sedia indietro con energia, si alzò e si guardò attorno. «Perché sopportate queste stronzate? All’epoca eravamo bambini... dieci, undici anni! È stato un tragico incidente, nient’altro!»
Roman cercò di prendere la mano della moglie, ma lei se lo scrollò di dosso come un fastidioso insetto.
«Non è stata in grado di catturare Elias in cinque giorni!» Simone Reichenbach alzò la voce in modo accusatorio e puntò il dito contro Peter Lessing. «Tu ed Henriette avete lasciato in giro un pazzo! Tutti in paese sanno di cosa è capace il ragazzo! Se si viene a sapere che ha fatto qualcosa a mia figlia, lo farò a pezzi con le mie stesse mani!»
Lombardi lanciò a Pia uno sguardo interrogativo, ma lei si limitò a scuotere leggermente la testa. Non intervenire.
«Non credo che Elias abbia fatto qualcosa a Pauline» dichiarò Ralf Ehlers. «Lo conosco. Viene spesso da me. Come Pauline. Vengono da me, i vostri figli, e mi vomitano addosso quanto sono disperati e quanto voi non li ascoltiate! Tutto il resto è sempre più importante per voi: il lavoro, il successo, la reputazione!»
«È facile fare lo zio figo con i figli degli altri» ringhiò Roman Reichenbach. «Abbiamo proibito a Pauline di frequentare un barbone come te.»
«Ma le piace venire dal suo padrino.» Ralf Ehlers sfoderò un sorrisetto malizioso, l’insulto non gli fece né caldo né freddo. «I vostri figli si sentono a loro agio con me perché li prendo sul serio e li rispetto per quello che sono.»
«Non fare finta di essere un fulgido esempio per i giovani» disse Andi Hartmann in tono cinico. «Sei un fannullone che non ha fatto niente di buono nella sua vita!»
«A qualcuno rode il fegato.» Gli occhi di Ehlers brillarono con aria divertita. «Ho avuto senz’altro una vita migliore di te, che hai sgobbato come un mulo per servire il dio denaro. Non sono mai stato ricco, ma non mi è mai mancato nulla. Ho visto tutto il mondo.»
«Anche la prigione» commentò Klaus Kroll.
«È stata pur sempre un’esperienza.» Ralf scrollò le spalle.
«Ti fai mantenere dalle femmine, bah!» mormorò Konni Pokorny. «Io non lo farei mai.»
«E quale donna vorrebbe mantenerti?» ribatté Ehlers. «Ma guardati! A proposito, Sylvia ogni tanto viene a casa mia, si fuma una canna e si lamenta della sua vita di merda con te.»
«Non lo farebbe mai!» Il grosso fornaio divenne rosso. «Non dire stronzate!»
«Non dico stronzate.» A Ehlers piaceva provocare gli altri. Si appoggiò allo schienale e intrecciò le dita sul ventre. «Siediti, Simone. Mi infastidisce vederti lì fissa come un tir con le ruote sgonfiate.»
«Come ti permetti di parlare così a mia moglie?» tuonò Roman Reichenbach. «Pensi ancora che tutto ti sia permesso, eh?»
«Certo che sì.» Ehlers sogghignò. «Non ho bisogno di leccare il culo a nessuno come fate voi. O di farmi sgridare da una vecchiaccia acida. Ehi, Edgar, scommetto che adesso hai una voglia pazzesca di tirare il collo alla tua Conny per farle chiudere quella fogna, no?»
«Tua madre si vergogna di te come una ladra» sibilò Simone Reichenbach sputacchiando. «Se non avesse avuto tuo fratello e Patrizia, quella poverina non avrebbe saputo a che santo votarsi.»
«Ma li ha. Quindi a me che dovrebbe fregare? Tanto sono stufo marcio di questa stupida setta familiare.»
«Non sei cambiato per niente!» esclamò Roman Reichenbach, disgustato. «Sempre lo stesso stronzo egoista.»
«E tu sei ancora lo stesso codardo!» ribatté Ralf, imperturbabile. «Ti nascondi dietro tua moglie come ti nascondevi dietro tua madre!»
Gli animi si stavano infiammando, ma Pia non pensò di intervenire, sebbene fosse un gioco rischioso. Fino a quel momento, Inka Hansen e Peter Lessing erano stati gli unici ad aver ammesso quanto accaduto, ma senza entrare nei dettagli. Se gli altri tacevano e negavano, le loro confessioni non valevano nulla. Con pazienza, Pia aspettava che si dimenticassero presto dei poliziotti che li circondavano, dei microfoni e della telecamera, e si mettessero a parlare senza remore. E funzionò. Tutto a un tratto si ersero trincee di avversione, veleno e cattiveria. Prima erano uniti nell’attaccare Ralf Ehlers, ma presto diventò un tutti contro tutti. Solo Peter Lessing, Inka Hansen e il silenzioso Klaus Kroll ne rimasero fuori.
«Chi di voi ha spezzato il collo alla volpe?» chiese Lombardi all’improvviso, mentre tutti prendevano fiato.
«È stato lui!» urlarono Hartmann, Edgar Herold e il grasso fornaio senza pensare, indicando Klaus Kroll.
Calò un tale silenzio che si sarebbe addirittura sentita una mosca volare. Ralf Ehlers applaudì con indolenza.
«Razza di idioti» disse. «Alcune persone sono avare di raziocinio come altri lo sono di denaro.»
«È vero, signor Kroll?» domandò Pia. «Ha ucciso lei la volpe?»
«Sì, è vero» ribatté il poliziotto. «Le ho rotto il collo.» I suoi occhi si posarono su Inka Hansen e l’odio gli si leggeva in faccia. Emozioni così violente dopo tanti anni! «È stata lei a chiedermi di farlo perché da sola non ci riusciva. Odiava quella volpe.»
«E poi cos’è successo?» chiese Pia. Il suo cellulare vibrò. Lo tirò fuori e lesse il messaggio che Bodenstein le aveva inviato.
«Quando la volpe è morta, sono corso a casa» rispose Kroll. «Artur era ancora vivo. Sì, l’ho piantato in asso, è vero. Ma nessuno di noi lo sopportava.»
«Ha ucciso la volpe davanti ad Artur rischiando così che lo andasse a raccontare?» Lombardi scosse la testa. «Ho difficoltà a crederci.»
«Ma è quello che è.» Kroll scrollò le spalle. «Mi è dispiaciuto per quel che ho fatto a Maxi. Me ne sono pentito, moltissimo. Non è passato un giorno, da allora, in cui non ho pensato a quella volpe. Un paio di volte sono andato nel bosco a cercarla, perché almeno volevo seppellirla.» Le sue labbra carnose si contorsero in un sorriso amaro. «Ma all’epoca non mi importava se Artur lo avrebbe detto a Oliver. Tutto ciò che contava per me era Inka. Solo più tardi ho capito che mi stava solo usando. Troppo tardi.»
***
Come stordito, Bodenstein si guardò intorno nell’appartamento di Leo Keller, che si trovava nel lungo casale che una volta era stato una scuderia. Sopraffatto, si rese conto di aver fallito del tutto e di aver condotto l’intera indagine nella direzione sbagliata. Pavimenti in parquet, mobili di gusto, una cucina moderna, uno studio con librerie su tre pareti che arrivavano fino al soffitto. Sulla scrivania un computer e pile di bloc-notes e fogli stampati. Attrezzi da palestra. Accanto al letto in camera, un libro, un paio di occhiali da lettura. La cresta dell’onda di Thomas Pynchon. Non proprio la lettura che ci si aspettava da un impiegato comunale con danni cerebrali.
Per quasi tutta la sua vita adulta Bodenstein aveva vissuto a Kelkheim e ogni tanto aveva visto Leo da lontano, sul suo motorino o mentre lui e una brigata di operai della città piantavano fiori, tagliavano alberi, spazzavano la neve o svuotavano i bidoni della spazzatura. Nella sua divisa da lavoro arancione, faceva parte del paesaggio urbano, e Bodenstein non lo aveva mai collegato alla scomparsa di Artur, che lui stesso aveva represso, ma solo alla misteriosa tragedia che aveva reso così presto il giovane bello e atletico un invalido e un emarginato sociale. Adesso, però, era diverso.
Cos’era successo all’epoca? Perché il tentato omicidio con una pistola da mattatoio? Chi era stato? E chi era in realtà Leo Keller?
«Capo?» Cem apparve sulla soglia. Era arrivato direttamente dalla Casa degli amici del bosco e aveva portato con sé Kröger e la squadra della Scientifica.
All’inizio l’anziana signora Keller si era rifiutata di aprire la porta dell’ex scuderia finché Bodenstein non aveva minacciato di forzarla. Uno sguardo alle due stanze al secondo piano della casa gli era infatti bastato per rendersi conto che Leo non ci viveva.
«Che succede?» Bodenstein si voltò.
«Abbiamo trovato qualcosa. Devi venire a vedere.»
Seguì Cem nell’anticamera. Qualcuno aveva tirato giù le scale pieghevoli per la soffitta, e lui salì i ripidi gradini dietro Cem. Sopra l’ex scuderia c’era una stanza in cui a stento si poteva stare in piedi. Sotto un lucernario, una vecchia poltrona era circondata da svariate lavagne bianche su cui erano scritti numerosi nomi in diversi colori. Le frecce collegavano alcuni dei nomi, alcuni erano barrati, altri erano cerchiati. Lo sguardo di Bodenstein si posò sul nome che sovrastava tutti gli altri, come un’intestazione in grassetto: Artur Berjakov.
Oliver rabbrividì quando lesse i nomi cancellati.
Raimund Fischer † 1973
Franziska Hartmann † 1978
Heinz Keller † 1981
Hans-Peter Lessing † 1984
Karl-Heinz Herold † 1998
Gerlinde Lessing † 2001
Heribert Hansen † 2001
Rosie Herold † 2014
Clemens Herold † 2014
Adalbert Maurer † 2014
«Sembra la lista delle vittime di un serial killer» disse Cem al suo fianco. «Un serial killer estremamente lucido e organizzato.»
Qualcosa non tornava. Leo aveva subito gravi lesioni cerebrali. Era stato in coma per mesi. Non era nelle condizioni di fare una cosa del genere. Oppure sì?
«Capisci cosa significa?» chiese Christian Kröger.
Bodenstein fissò le lavagne con un misto di orrore e fascino. I ricordi degli incontri con Leo Keller gli esplosero in testa. Il modo maldestro in cui si muoveva. La balbuzie. Lo sguardo vacuo. I rivoli di saliva che gli colavano dall’angolo della bocca. Bodenstein non riusciva ad associare quella persona con ciò che stava vedendo. Era semplicemente impossibile.
«No, non capisco» replicò. «Temo solo che siamo stati vittime di un inganno gigantesco. Per oltre quarant’anni.»
***
«Allora» disse Pia con energia. «Adesso basta con le accuse. Calmatevi tutti e collaborate, e tra cinque minuti avremo finito.»
Il breve messaggio che Bodenstein le aveva inviato aveva reso di colpo l’interrogatorio poco importante. Ma lei e Lombardi avevano ormai fatto troppa strada per fermarsi. Doveva andare fino in fondo, il più velocemente possibile.
Con le braccia conserte camminava intorno al tavolo e guardava i volti delle nove persone che non erano più amici da molto tempo.
«Tutti voi che siete qui seduti avete vissuto per quarantadue anni nella ferma convinzione di aver ucciso Artur» esordì. «Voi stessi eravate dei bambini quando avete fatto qualcosa di moralmente riprovevole e antisociale. Perché bullizzavate un bambino che non vi piaceva, come si direbbe oggi. Per quello che è successo la sera del 17 agosto 1972 siete già stati tutti puniti. La vostra coscienza sporca ha gettato un’ombra sulla vostra vita, perché immagino che nessuno di voi abbia mai dimenticato quello che è accaduto quel giorno.»
Gli occhi di Pokorny, Hartmann e dei Reichenbach la seguivano con un misto di speranza e la silenziosa richiesta di assoluzione, tutti gli altri evitavano il contatto visivo.
«All’epoca avete giurato di non parlarne con nessuno. Quindi, anche se eravate solo dei bambini, sapevate di aver fatto qualcosa di brutto. È pura speculazione quando dico che avreste potuto salvare la vita di Artur se foste andati subito a cercare aiuto, invece di lasciarlo ferito e indifeso nel bosco. Avete così accettato che potesse capitargli qualcosa di orribile. Anche sulla motivazione di questo comportamento si può solo speculare. Avevate paura della punizione o non ve ne fregava niente di Artur? Qualunque cosa fosse, ognuno di voi dovrà affrontare le proprie azioni da solo, per noi non ha importanza. Il fatto è che uno di voi ha rotto il silenzio concordato, perché i vostri genitori hanno scoperto l’accaduto. Forse a causa delle ferite che avevate riportato nel bosco, forse perché uno di voi voleva togliersi quel peso dalla coscienza o perché la voglia di confidarsi era più forte del giuramento. Poco importa. I vostri genitori l’hanno scoperto e se ne sono occupati... con terribili conseguenze per tutti gli interessati.»
Pia si fermò dietro la sedia di Simone Reichenbach e guardò Edgar Herold. Non aveva alcuna prova di quello che stava per fare, era uno sparo nel buio.
«Signor Herold» si rivolse direttamente al fabbro. «Sospettiamo che sia stato lei a raccontare ai suoi genitori cosa avevate fatto.»
Tutti fissarono l’uomo. Alzò la testa di scatto, diventò rosso come un pomodoro.
«Non è vero! Lo giuro!» protestò. «Mi sarei morso la lingua piuttosto che dire qualcosa! Dovete credermi, davvero!»
Sollievo. Era esattamente la risposta in cui sperava.
«Le credo, signor Herold» disse. «E ora le dirò cosa penso sia successo. Sua madre Rosemarie si era vista con qualcuno, quella sera, come faceva spesso alle spalle di suo padre. Forse aveva avuto un incontro amoroso, in ogni caso era qualcosa di proibito, che non doveva essere scoperto. Nonostante le sue gravi ferite, Artur era riuscito a raggiungere la strada o un parcheggio nel bosco nella speranza di trovare aiuto. Non voleva lasciare la volpe morta, a cui era molto legato, nel bosco, così l’aveva portata con sé. Che alla fine sia stato per un incidente o per un atto intenzionale, è stato investito da un’auto, molto probabilmente da quella di sua madre, signor Herold, che Artur potrebbe aver sorpreso con il suo amante. Nel panico e nella paura di essere scoperti, sua madre e l’amante segreto non hanno trovato altra soluzione se non nascondere il corpo del bambino da qualche parte. Forse era già morto, ma forse l’hanno ucciso prima di mettere il suo cadavere e quello di Maxi in una tomba al vecchio cimitero di famiglia dei von Bodenstein, che non veniva più usato da tempo.»
«Oh, mio Dio» sussurrò Simone Reichenbach, premendosi una mano sulla bocca.
Tutti gli altri erano scossi. Solo pian piano si rendevano conto che non erano stati loro a uccidere Artur come avevano creduto nel corso degli anni, ma qualcun altro, ma ciò non migliorò la situazione. Anzi. Avrebbero potuto salvarlo. Ma non l’avevano fatto.
«Ed ecco cos’è successo dopo» continuò Pia. «Il dottor Lessing, che era il medico di Ruppertshain all’epoca, ha scoperto la faccenda. Come e da chi, non lo sappiamo. Ma si è assicurato che Rosemarie Herold, il suo amante e tutti voi la faceste franca. Suo cognato Raimund Fischer, allora capo della polizia di Königstein, ha ritardato di quasi una settimana l’intervento della polizia giudiziaria. Il dottor Lessing ha fatto sparire in modo apparentemente disinteressato le cartelle cliniche di tutti voi, che documentavano le ferite che avevate riportato quella sera. La polizia giudiziaria è stata fuorviata di proposito. Sul momento, eravate tutti sollevati, ma poi il dottor Lessing ha iniziato a ricattare le persone coinvolte. Non aveva distrutto le cartelle, ma le aveva conservate. Era interessato solo al potere. E ormai ne aveva. Aveva in pugno i vostri genitori.»
Pia notò come l’atmosfera nella stanza cambiò.
«Il dottor Lessing è diventato molto potente a Ruppertshain in questo modo» disse. «Era già un uomo influente, ma ora aveva il controllo perché molte persone erano in debito con lui. Ma la gente odia dover essere in debito. Lessing era sì potente, ma impopolare. Quando è morto, nessuno l’ha compianto. E, proprio come suo padre, Peter Lessing vi ha tenuti tutti sotto scacco fino a oggi. Era il vostro capobanda. Era al comando e tutti gli obbedivate. Il segreto con cui vi ha ricattato non è più tale. Sappiamo che non avete ucciso Artur.»
Tutti gli sguardi si posarono sul padre di Elias. L’insicurezza e la paura si trasformarono in odio e disprezzo.
«Voglio che ora cerchiate di ricordare gli eventi di quella sera» insistette Pia. «Forse vi vengono in mente dettagli che avete dimenticato o represso nel tempo. Nomi. Voci. Supposizioni. Se sappiamo chi ha incontrato Rosie Herold quella sera, allora abbiamo la persona che sta ancora cercando con tutti i mezzi di mantenere questo segreto. Colui che ha ucciso quattro persone e probabilmente voleva anche uccidere Pauline.»
Simone Reichenbach singhiozzò.
«È stato tanto tempo fa» commentò Klaus Kroll. «Se Rosie si vedeva con qualcuno, ormai sarà morto.»
«Se all’epoca aveva una ventina d’anni, adesso ne avrà poco più di sessanta» rispose Pia. «E se davvero non è più in vita, allora forse ha un figlio che vuole evitare che il buon nome del padre venga infangato post mortem.»
Ci fu un momento di silenzio totale.
«Quella sera mia madre non è tornata a casa» esordì Edgar Herold, e tutti, tranne Pia, ne sembrarono sorpresi. L’uomo appoggiò i gomiti sul tavolo e si nascose il viso tra le mani. Continuò a parlare con voce ovattata. «Mio padre era fuori di sé per la rabbia, ma non poteva andarsene perché lei aveva la macchina. Era ubriaco, come al solito, e si è sfogato su di me. Non osava più avvicinarsi a mio fratello Clemens, aveva paura di lui, perché una volta aveva reagito. A un certo punto era così sbronzo che si è addormentato, e io e Clemens siamo corsi a cercare nostra madre. Quella sera c’era stato un violento temporale e temevamo che potesse aver avuto un incidente. Per strada abbiamo incontrato Leo, il nostro allenatore di calcio. Era un amico di mio fratello ed era furioso. Pensavo che ce l’avesse ancora con noi per quella schifosa partita di calcio. Clemens si è arrabbiato e voleva litigare con Leo. Ho colto al volo solo poche parole e ho chiesto a Clemens perché nostra madre era una puttana e cosa significava. Ma non me l’ha detto.» Alzò lo sguardo e fissò Pia con un’espressione che rifletteva tutta la disperazione per una vita andata a rotoli. Il suo viso rude era cinereo. Davanti a lei c’era un ragazzino di undici anni spaventato; aveva sviluppato un carattere duro e cinico come autodifesa contro la mancanza d’amore, la violenza e la falsità che dominavano in casa dei suoi genitori. All’improvviso Pia provò pena per quell’uomo. «Da quella notte mi chiedo cosa sia successo ad Artur. Non posso dimenticarlo. Niente è più stato come prima. Mia madre e mio padre non hanno mai smesso di urlarsi addosso e litigare, e io pensavo che fosse colpa mia.»
Il suo sguardo cadde su Peter Lessing, che non aveva ancora alzato la testa neanche una volta.
«Ci hai messo tu in questo pasticcio!» esplose il fabbro all’improvviso. «Sei stato tu a non voler tornare indietro! Tu hai urlato addosso a Konni e Roman perché volevano correre alla tenuta per chiedere aiuto! Tu ci hai costretti a stare zitti e a non dire niente! È colpa tua se è andato tutto a puttane, perché hai attaccato briga con l’arbitro e ti ha dato il cartellino rosso! Ecco perché abbiamo perso la partita! Ecco perché siamo dovuti tornare a casa a piedi, ed ecco perché eri così furioso da sfogarti con Artur quando l’abbiamo incontrato!» Herold balzò in piedi, la sua sedia si ribaltò. «Perché non racconti di come ci hai ammorbato con la tua storiella inventata per farci dire tutti la stessa cosa, così nessuno avrebbe spifferato niente!»
Peter Lessing alzò lo sguardo e fissò Herold con occhi spenti. Pia non si sarebbe sorpresa se avesse perso la calma di fronte a quelle pesanti accuse. Ma niente sembrava più tangerlo.
«Ora aprite quelle fogne e dite la verità!» urlò Edgar Herold ai suoi vecchi amici che erano seduti lì, rigidi e a disagio. «Non serve più a niente mentire!»
«Edgar ha ragione, ma non del tutto» disse infine Ralf Ehlers. «Peter ci ha proibito di andare a chiedere aiuto. Non gli piaceva Artur, come a tutti noi. Ma era Inka a volerlo più di tutti; era gelosa di Artur perché era il migliore amico di Oliver e non gli interessava più stare con noi.»
«È la verità?» domandò Pia al gruppo.
Esitazione. Disagio. Nessuno guardava Inka Hansen, che se ne stava seduta lì, impietrita, a guardarsi le mani.
«Sì, è vero» confermò alla fine il grasso fornaio. «Era Inka in realtà a comandare. E Peter la odiava per questo.»
Tutti gli altri fecero un cenno di assenso.
«Peter ci aveva convinti a dire che non avevamo mai incontrato Artur» aggiunse Roman Reichenbach. «In teoria, eravamo andati dritti a casa a piedi da Schneidhain.»
Silenzio.
«Ma allora cos’è successo esattamente?» chiese Gianni Lombardi. «Quando ce l’avrete detto potrete andarvene.»
Dovevano mettere la parola fine a quella storia, anche se ormai era chiaro che non li avrebbe per forza messi sulle tracce dell’assassino di Rosie e Clemens Herold e del parroco Maurer. Ma il fiume di ricordi di quelle persone avrebbe potuto far emergere un nome, portandoli così sulla giusta strada.
Fu Edgar a rompere il silenzio teso. «Abbiamo inseguito Artur finché non si è arrampicato sull’albero come uno scoiattolo. Nessuno di noi era così bravo ad arrampicarsi. Siamo rimasti di sotto ad aspettare che tornasse giù. Inka se l’è presa con la volpe che l’aveva morsa. Poi Klaus ha afferrato Maxi e Inka gli ha urlato di tirargli il collo. Artur ha urlato di non farlo, che sarebbe venuto giù, ma era già troppo tardi. Si è affrettato così tanto che è scivolato ed è caduto. Simone, Klaus e Andi sono scappati via. Poi Roman e Konni. Alla fine, siamo rimasti solo Ralf, Peter, Inka e io. Inka era come impazzita, non la smetteva di prendere a calci Artur finché Ralf e io non ci siamo spaventati. L’abbiamo trascinata via. Già tuonava e ci saremmo messi nei guai se non fossimo tornati a casa prima della tempesta.» La voce di Herold tremò. Una lacrima gli scorreva sulla guancia non rasata. «Artur ci ha... ci ha chiamati. Ci ha supplicati di aiutarlo. Io... mi sono voltato. E non dimenticherò quell’immagine fino alla morte. Artur rannicchiato... e... e la volpe morta tra le sue braccia e... e piangeva...» Le lacrime gli rigavano il viso. «Da quel giorno non riesco più a guardarmi allo specchio. Mi vergogno di essere stato un codardo. Me ne pento. E l’ho pagata cara, mi creda. Per quarantadue anni. Ogni dannato giorno.»
***
Dopo che Edgar Herold ebbe cominciato a parlare, anche la lingua degli altri si sciolse all’improvviso; il sollievo di liberarsi di quel peso dopo tutto quel tempo era evidente sui loro volti. Lo stesso non si poteva dire di Inka Hansen. Non aveva detto una parola, anche quando, con una franchezza estrema, Lessing aveva rivelato ai suoi vecchi compagni di come lei lo ricattasse. Alla fine Pia aveva lasciato andare tutti tranne Ralf Ehlers, che ancora non sapeva spiegare perché il piede di porco fosse finito sul prato con sopra le sue impronte digitali e le tracce di sangue di Pauline.
Pia riordinò i documenti. Aveva fretta di andare a Ruppertshain per raccontare a Bodenstein dell’interrogatorio. Per tutto il tempo aveva avvertito una specie di formicolio alla nuca e la netta sensazione che le fosse sfuggito qualcosa. Non era il padre di Lessing l’uomo che si era visto con Rosie Herold per un incontro proibito; in quel caso non avrebbe conservato le prove ma avrebbe distrutto ogni traccia. No, Lessing aveva semplicemente colto l’opportunità di ricattare qualcuno. Un rivale con il quale si contendeva il controllo del paese? O qualcuno da cui pretendeva gratitudine? Che aveva molto da perdere? Quel qualcuno era il padre di uno dei bambini?
Mentre saliva le scale, le tornò in mente Jung. Il suo principio di sincronicità si riferiva a eventi correlati nel tempo, non associati a un rapporto di causalità ma comunque percepiti come collegati e connessi tra loro. Pia si immobilizzò. Ora che conosceva la storia era chiaro che le cose stavano proprio così. I bambini che avevano inseguito Artur e lo avevano abbandonato, ferito, non avevano nulla a che fare con ciò che avevano fatto Rosie Herold e l’uomo sconosciuto. Erano due eventi che si erano succeduti e che solo a posteriori erano stati visti come collegati. Nessuno dei bambini aveva detto ai genitori dell’incidente nel bosco. Erano stati gli adulti a trarre le loro conclusioni, e così – volenti o nolenti – avevano portato i loro figli a credere di aver ucciso Artur. Un’altra tragedia causata dalla mancanza di fiducia da parte dei bambini e dalla brama di potere del dottor Lessing.
Ma cosa c’entrava Leonard Keller con quella faccenda? Se fosse stato lui lo sconosciuto che si vedeva con Rosie, non avrebbe detto in faccia a Clemens che la madre era una puttana. Leo Keller aveva visto qualcosa. Qualcosa di fatale. Con chi ne aveva parlato? Chi aveva compromesso con ciò che sapeva? E perché il suo tentato omicidio era avvenuto solo molti giorni dopo quella sera?
Pia corse su per gli ultimi gradini e gettò uno sguardo alla sala riunioni, trasformata nel quartier generale della commissione speciale, per informarsi sulle reazioni alla conferenza stampa. Lasciò vagare lo sguardo sui colleghi che, nonostante l’ora tarda, erano ancora all’opera e pienamente concentrati, senza perdere neanche un minuto a pensare che il loro turno era già finito da un pezzo. La tv al muro sfarfallava silenziosamente. Spezzoni della conferenza stampa erano stati inseriti in ogni notiziario. Alle nove di sera, la registrazione completa su YouTube aveva già avuto più di tre milioni di visualizzazioni. In innumerevoli commenti, la gente esprimeva la propria compassione per Valentina Berjakov e per i parenti delle vittime, mentre rivolgevano aspre critiche alla polizia. Perché non c’era ancora stato un arresto? Perché era così difficile catturare un assassino? L’impazienza era causata da tutte quelle serie americane, in cui profiler, tecnici di laboratorio o addirittura analisti informatici risolvevano casi complessi con l’aiuto delle ultime tecnologie apparentemente nel giro di poche ore o giorni, e lo spettatore era portato a credere che bastava inserire alcuni dati in un computer e – puff – si otteneva la foto del colpevole o della vittima, compresi la biografia, l’indirizzo, i dati bancari e telefonici e le coordinate esatte della sua posizione attuale. In realtà il lavoro era estremamente arduo e consisteva nello studiare con meticolosità montagne di documenti e nel setacciare grandi quantità di dati, senza trascurarne neanche uno.
«Abbiamo un sacco di indizi inutili, come al solito.» Kathrin Fachinger si girò sulla sua sedia e si tolse l’auricolare dall’orecchio. «In realtà, finora ho ricevuto solo due telefonate davvero interessanti.»
Insieme a quattro colleghi, rispondeva alle chiamate che arrivavano sul nuovo numero verde. Sfogliò le liste e aggrottò la fronte. Ogni chiamata veniva considerata una traccia a cui veniva assegnato un numero.
«Traccia numero 47: una certa signora Antje Ortenstein ha detto che negli anni Settanta e Ottanta Rosemarie Herold amava frequentare un ristorante chiamato Sweet Pussycat, a Königstein, in Georg-Pingler-Straße. In quel periodo la Ortenstein lavorava lì come cameriera.»
«È qualcosa» disse Pia. «La donna verrà qui?»
«No.» Kathrin scosse la testa. «Vive a Flensburg. Ho il suo indirizzo e numero di telefono. E poi abbiamo la traccia 111. Claudia Ellerhorst viveva a Ruppertshain ed era amica di Valentina Berjakov. Arriva domani e ha lasciato il suo numero di cellulare nel caso qualcuno volesse parlarle prima.»
Pia aveva sperato in qualcosa di più, ma sapeva anche che più un evento era lontano nel tempo, più difficile era ottenere indizi utili.
«Ci sono novità dal laboratorio» annunciò Kai senza alzare lo sguardo dal portatile. «I peli di cane trovati sui vestiti di Pauline Reichenbach sono lunghi, neri e ondulati.»
«Ciò significa che non provengono dai pitbull di Ralf Ehlers. E nemmeno dai cani che Elias ha rinchiuso al mulino» concluse Pia. «Meraviglioso.»
«Lo smartphone e il portatile dell’auto di Pauline sono probabilmente irrecuperabili. Sono stati troppo a lungo in acqua.» Kai alzò lo sguardo, si strinse le mani dietro la testa e allungò la schiena. «Ma i tecnici stanno facendo l’impossibile. Nessuna novità su Elias e la sua ragazza. Sono scomparsi dalla faccia della terra.»
«Richiama gli Haverland. Chiedigli delle amiche di Nike con cui ha un rapporto stretto. O di una zia. E informati se hanno una casa per le vacanze da qualche parte.»
«È quasi mezzanotte» sottolineò Kai.
«Non credo che stiano dormendo» ribatté Pia. Il suo sguardo si spostò sulla foto segnaletica di Elias, appesa a una delle lavagne. All’interno della Casa degli amici del bosco, le sue impronte digitali erano ovunque. Tutti sembravano credere che fosse stato lui a uccidere Felicitas Molin. Ma quel ragazzo mingherlino e delicato era davvero capace di un atto così brutale? Ci volevano molta forza e un’immensa furia per tagliare la gola di una persona fino alla vertebra cervicale con un coltello da cucina.
Dove si stava nascondendo? Nella zona, la situazione si era fatta troppo scottante per lui. A un certo punto avrebbe dovuto fare benzina. Avrebbe rischiato di fermarsi a un distributore? Si aspettava che qualcuno dichiarasse di averlo visto in una stazione di servizio e sperava solo che nessuno facesse la parte dell’eroe e spingesse il ragazzo a usare la pistola.
Quali altre opzioni aveva? Di chi altri poteva fidarsi Elias? Felicitas Molin era morta. Pauline era in coma. Ralf Ehlers era in cella. Indugiò. Cosa aveva detto prima Ehlers? Non credo che Elias abbia fatto qualcosa a Pauline. Lo conosco. Viene spesso da me.
«Fermati!» disse a Kai, che stava già per chiamare la signora Haverland. «Penso di sapere dove sono Elias e Nike!»
«E dove?»
«Al mulino di Ralf Ehlers!» Pia tirò fuori il cellulare e selezionò il numero di Bodenstein dai preferiti. «Ci va spesso! Ci ha portato i cani di Felicitas Molin. Porca miseria, perché non ci ho pensato prima?»