Lunedì, 13 ottobre 2014
«Nike? Sono io. Eli!»
«Eli... dove sei?»
Nessuna risposta.
«Come stai?»
«Sto bene. Mi dispiace molto che sia passato così tanto tempo da quando ci siamo parlati. Ma... ho... ho avuto qualche problema.»
«Sono davvero preoccupata. Ti stanno cercando, Eli. Hanno fatto persino vedere una tua foto in tv.»
«Lo so. Non ho fatto niente, te lo giuro. Ma non mi fido di loro. Mi sbatteranno in galera per aver violato la libertà vigilata. Non voglio stare in galera quando arriverà il bambino.»
«Ma la polizia ha detto che ti proteggerà. Dal tizio che ha dato fuoco alla roulotte.»
«Ne sparano tante di frottole. Sono delle fecce. Non capisci. Ma che si fottano. Passerà. È così bello sentire la tua voce.»
«Anche per me.»
«Sono due settimane che non fumo né prendo niente.»
«Davvero? Che figata!»
«E tu? Come state tu e il bambino? State bene?»
«Sì, certo. Continua a dare calci.»
«Oh, cavolo, Nike. Mi manchi. Penso sempre a te e a quel diavoletto.»
«Anch’io ti penso. Quando... ti vedrò?»
«Non lo so. Adesso ho un’auto. Posso venire da te o...» Pausa. «Meglio di no. Gli sbirri staranno intorno a casa vostra, perché credono che io sia abbastanza stupido da farmi vedere.»
Pausa.
«Hai ricevuto la mia lettera?»
«No, non mi è arrivato nulla.»
Pausa.
«C’è qualcosa che non va? I tuoi ti hanno fatto storie per causa mia?»
«Be’... ovvio.»
«Oh, cavolo. Mi dispiace tanto.»
«Non è colpa tua.»
Un’altra pausa.
«Nike, devo andare. Ti richiamo. A presto, okay?»
«Eli, aspetta! Devo... Pronto? Elias? Pronto?»
La registrazione terminò. Ci fu un momento di silenzio nel salotto della famiglia Haverland. Nike era seduta tra sua madre e la collega di Pia, Merle Grumbach. Il suo viso era pallido, le mani aggrappate allo smartphone.
«Non sono riuscita a fissare un appuntamento con lui» disse, abbattuta. «Ha riattaccato così in fretta.»
«Esattamente dopo 28,4 secondi» annunciò il tecnico che era arrivato insieme a Pia. «Aveva paura che localizzassimo il suo cellulare.»
«Ho avuto l’impressione che non mi abbia creduto.» Nike era turbata.
«No, ti sei comportata bene» la rassicurò Pia. «Non si è sentito sotto pressione.»
La chiamata di Merle che la informava che Elias si era appena messo in contatto con la ragazza l’aveva strappata da un sonno profondo alle 4.57 del mattino e non era ancora del tutto sveglia. Anche i genitori di Nike avevano un’aria assonnata quanto la sua.
«Qualcuno vuole un caffè?» chiese il padre. Aveva la barba incolta, occhi iniettati di rosso, e i capelli gli si stagliavano dalla testa in tutte le direzioni. Il nome di un hotel era ricamato sul taschino del suo accappatoio di spugna bianca. L’aveva comprato in albergo o se l’era semplicemente fregato?
«Oh sì, volentieri!» esclamarono in coro Pia, Merle e il tecnico, e il signor Haverland scomparve verso la cucina. Poco dopo si udì un tintinnio di tazze, poi una caffettiera borbottò ed emise il profumo allettante del caffè appena preparato.
«Come ha fatto a procurarsi un’auto?» chiese Nike.
Era una bella domanda, la cui risposta causava in Pia sia preoccupazione sia speranza. Da un lato, Elias Lessing in auto diventava pericolosamente mobile, ma dall’altro, se si spostava e non rimaneva rintanato nel suo nascondiglio, era forse più facile da catturare.
«Neanch’io lo so.» Si avvicinò alle portefinestre del soggiorno e guardò in fondo alla strada, dove nella luce incerta del crepuscolo dell’alba regnava il silenzio. Un uomo faceva jogging, due cani trottavano ansimando accanto a lui. Dall’altra parte della strada, una donna dai capelli scuri spingeva una carrozzina contenente giornali al posto di un bambino, prima di infilarli nelle cassette della posta. La casa degli Haverland sorgeva su un terreno piuttosto piccolo in una zona residenziale esclusiva di Bad Soden. Come in tutte le cittadine di quell’area del Taunus, anche lì i terreni edificabili erano una rarità, motivo per cui due o addirittura tre abitazioni erano ormai schiacciate su un unico appezzamento dove un tempo sorgeva una sola casa. I garage sotterranei erano stati scavati nell’ardesia della montagna, ma i margini su entrambi i lati della strada erano comunque stracolmi di auto parcheggiate. I vicini si conoscevano davvero? Un’auto estranea avrebbe attirato l’attenzione? Pia era certa che Elias si sarebbe fatto vivo, prima o poi.
«Come procediamo?» Merle Grumbach si avvicinò a lei. Sul suo viso lentigginoso e con le fossette, che la faceva apparire più giovane di quanto non fosse in realtà, c’era un’espressione preoccupata.
«Pensi che la ragazza sia in pericolo?»
«Non lo so» replicò a bassa voce. «Non credo che le farebbe del male, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Il ragazzo è imprevedibile. Prima o poi si presenterà qui, se non è già nelle vicinanze. Un tizio che ha ucciso tre persone è sulle sue tracce. E se anche Elias non fosse pericoloso per Nike, l’assassino lo è di sicuro.»
«Credi che potrebbe mettere le mani sulla ragazza per stanare Elias?»
«Per dirne una.»
Pia annuì. I suoi occhi vagarono per la stanza. Porte a vetri ovunque. La casa era su un pendio. Dal bordo del campo si poteva facilmente guardare in ogni stanza con un binocolo. «So che è chiedere molto, ma gli Haverland devono abbassare le tapparelle e rimanere chiusi in casa.»
«Non possiamo portare Nike in un posto sicuro? È in stato di gravidanza avanzata.»
«Non piace nemmeno a me usarla come esca» ammise Pia. «Scopri se ci sono dei parenti da cui può stare finché non prenderemo Elias.»
Il padre di Nike tornò con un vassoio. Tutti presero una tazza di caffè. La signora Haverland aveva messo un braccio attorno alle spalle della figlia e scambiò uno sguardo inquieto con il marito. La suoneria stridente di un cellulare squarciò il silenzio teso. Tutti sussultarono spaventati, prima che Pia si rendesse conto che era il suo.
«Sì?» rispose.
«Ti ho svegliata?» Era l’agente di guardia.
«No. Che succede?» Ebbe un brutto presentimento. Una chiamata a quell’ora non era mai un buon segno.
«Abbiamo una donna gravemente ferita.» La collega confermò la sua premonizione. «A Ruppertshain, al campo sportivo. L’ambulanza e i colleghi sono già sul posto.»
«Arrivo. Resta in linea un istante» rispose Pia, rimettendo il caffè sul vassoio e uscendo nel corridoio. «Intensifica le ricerche di Elias Lessing. A quanto pare, adesso ha un’auto. Aumenta il controllo dei veicoli a Königstein, Kelkheim e Bad Soden e dintorni, soprattutto nelle ore di punta. E manda una pattuglia dagli Haverland in Egmontstraße a Bad Soden. Temo che il ragazzo sia diretto qui.»
***
Un elicottero dei soccorsi si trovava sul prato sopra il maneggio ai margini del bosco. Sullo stretto sentiero, che passava davanti al maneggio, c’erano un’ambulanza, i soccorritori, un’auto di pattuglia e, dietro, una Opel argentata della polizia giudiziaria di Hofheim. Pia parcheggiò la macchina dietro la Opel e scese.
Tariq, che l’aveva notata, le andò incontro.
«Oh, Pia, è Pauline» balbettò sconvolto. «L’uomo che l’ha trovata l’ha riconosciuta.»
Pia ebbe l’impressione di sentire una mano ghiacciata stringerle il cuore.
«Pauline Reichenbach? Che le è capitato?»
«È priva di sensi» replicò Tariq. «I soccorritori stanno cercando di stabilizzarla per poterla portare in ospedale.»
«Chi l’ha trovata?»
«Quel tipo con i capelli grigi e il cane.» Tariq indicò un gruppetto di persone sulla strada sopra il prato. Dietro di loro, si innalzavano gli edifici del maneggio, potenti e sinistri come un castello. «La Mercedes nera di fronte all’ambulanza è sua. Lascia l’auto lì ogni mattina, quando porta a spasso il cane.»
«E chi è quella gente?»
«Due sono del maneggio. Gli altri passavano di qui per caso.»
«Hai già parlato con loro?»
«Sì. Ma nessuno ha visto niente.» Tariq si morse il labbro. «Il paramedico è piuttosto pessimista. Ha gravi ferite alla testa.»
«Vieni» disse Pia. «Parliamo con i soccorritori.»
«Non ce la faccio.» Tariq esitò. «Non voglio vederla così.»
«Cerca di controllarti!»
Risoluta, Pia si voltò e corse oltre il recinto del maneggio verso lo stretto prato tra il centro ippico e un’alta siepe frangivento.
La nebbia si stendeva come un velo da sposa sui prati coperti di rugiada. I primi raggi del sole illuminavano la foschia e facevano brillare miliardi di piccole gocce di rugiada, ma Pia non aveva occhi per la bellezza di quell’alba. Ogni battito del cuore le pompava adrenalina nelle vene e, nonostante le informazioni che le aveva dato Tariq, sperava che la ragazza non fosse ferita troppo gravemente.
Le porte dell’ambulanza erano aperte e due paramedici e un’infermiera si affannavano intorno a una figura su una barella.
«Salve, signora Kirchhoff» disse il paramedico che aveva già visto in altri casi.
«Buongiorno.» Si risparmiò di sottolineare che il suo nome non era più Kirchhoff da due anni. «Com’è la situazione?»
«Le sue condizioni sono estremamente critiche. Dobbiamo ventilarla ed è in ipotermia.»
«Ce la farà?»
«Difficile da dire. A una prima occhiata, ha una frattura aperta del cranio e diverse ossa rotte. Hanno agito con estrema brutalità.»
«Oh, no» sussurrò Tariq, sgomento. Emise un singhiozzo, si voltò e si mise le mani sulla bocca.
«Grazie per l’informazione» disse Pia.
Ricordava l’entusiasmo con cui qualche giorno prima Pauline Reichenbach le aveva parlato del progetto di monitoraggio dei gatti selvatici. Una profonda tristezza la invase quando pensò a come la ragazza aveva flirtato con Tariq e aveva riso con spensieratezza, senza sapere cosa l’attendeva. Una vita giovane e promettente, con tutti i suoi desideri, le sue possibilità e i suoi sogni era stata distrutta per sempre? Ma perché? Da chi? Cosa aveva fatto Pauline per diventare il bersaglio di un’aggressione così brutale? Dove si era appostato il colpevole? Forse si erano dati addirittura appuntamento? Era lo stesso uomo che aveva ucciso Clemens e Rosie Herold e il vecchio parroco? Una furia impetuosa dilagò in lei, insinuando insicurezza e terrore nella sua anima. Adesso però non c’era spazio per tali pensieri. La ragazza era ancora viva. Aveva ancora una possibilità, per quanto minima.
***
«Vorrei svegliarmi così ogni mattina.»
Con tenerezza le scostò una ciocca di capelli dal viso e la strinse a sé. La pelle morbida sulla sua, la gamba destra sul suo fianco, la fronte nell’incavo del suo collo. Era felice di tenerla tra le braccia, di godere insieme a lei dello spegnersi di quella meravigliosa sensazione di piacere e di sentire come il suo battito cardiaco si calmava lentamente.
«Un modo ci sarebbe.» Al suono della sua voce, Bodenstein indovinò che Karoline stava sorridendo. «Andiamo a vivere insieme.»
«Wow.» Lui girò la testa e le baciò la tempia, indugiando con le labbra sulla sua pelle. Tutto ciò che fino a quel momento era sembrato complicato era diventato all’improvviso semplice e spontaneo. Andiamo a vivere insieme. Quattro parole che cancellavano tutte le loro controversie, tutte le distanze prese in modo avventato e tutte le tensioni inevitabili. «Dici sul serio?»
«Sì.» Karoline spostò leggermente la testa per guardarlo. «Ti amo. E non voglio perdere altro tempo. Se continuiamo ad aspettare il momento perfetto, ci sfuggirà.»
Quelle parole toccarono in lui qualcosa di profondo, la gola gli si serrò per la felicità. Aveva sperato che un giorno sarebbero arrivati a quel punto, ma ormai non ci contava più. Momenti del genere erano diventati troppo rari, troppo spesso non si erano parlati, si erano allontanati per paura di fraintendersi o di ferirsi senza volerlo. Il vuoto che si era creato non permetteva che le conversazioni andassero oltre argomenti futili e domande sulle questioni quotidiane. “L’inizio della fine” aveva ipotizzato. “E ora, tutt’a un tratto, questa frase inattesa!”
«Anch’io ti amo» sussurrò. «E penso che la tua idea sia meravigliosa. Quando l’hai deciso?»
«Ieri sera» replicò lei.
«Ieri sera?»
«Sì.» Annuì seria, tracciando i contorni del suo viso con l’indice. «Ieri sera, per la prima volta, ti ho sentito aprire la porta del tuo cuore. Finora avevamo parlato sempre di me, mai di te. Tu di me sai tante cose, ma io, fino a ieri, di te non sapevo quasi nulla. Per tutto questo tempo non mi hai mai mostrato come sei veramente. Ieri sera l’hai fatto. E ti ringrazio.»
Bodenstein rimase senza parole, commosso e colpito da ciò che Karoline aveva appena detto. Poteva forse biasimare solo se stesso per il fallimento delle sue relazioni? Non era mai stato capace di aprirsi? O si era tenuto tutto per sé perché avvertiva che né Cosima né Nicola né Inka avevano provato un sincero interesse per lui?
Abbracciò Karoline più forte e sospirò profondamente. La tenerezza e la gratitudine che provava per lei lo travolsero.
Era successo poco prima di mezzanotte, quando si era presentato davanti alla sua porta tenendo tra le mani lo scatolone polveroso con i ricordi d’infanzia che aveva recuperato dalla soffitta della casa padronale. Bodenstein non aveva idea di cosa ci fosse nello scatolone, ma quando Karoline aveva proposto di guardarci dentro, non aveva esitato per un secondo. Si erano seduti al tavolo da pranzo, avevano aperto lo scatolone e bevuto una bottiglia di Muscadet. Aveva mostrato a Karoline l’album con le sue foto d’infanzia che Cosima non aveva mai visto. E le aveva parlato di Maxi.
«È stato il tuo primo grande amore, vero?» aveva chiesto.
«In un certo senso» aveva ammesso, un po’ in imbarazzo. «Mi si è spezzato il cuore quando è scomparso.»
«Il mio primo grande amore è stato un cavallo» aveva replicato lei. «Non era mio, ma avevo avuto il permesso di occuparmene. Avevo dodici anni e quando l’hanno venduto mi si è spezzato il cuore per la prima volta. Pensavo che sarei morta per quanto stavo male.»
E all’improvviso parlare di ciò che la volpe aveva rappresentato per lui si era rivelato facile. Mai prima di allora aveva avuto qualcosa di suo, qualcosa che appartenesse solo a lui. La sua famiglia non era molto ricca, lui e i suoi fratelli avevano ereditato dai cugini solo vestiti e giocattoli. I cavalli della tenuta appartenevano ad altre persone; i gatti, i cani e le galline erano di tutti. E poi, di punto in bianco, quel piccolo animale selvatico era entrato nella sua vita, lo seguiva come un’ombra e gli aveva donato fiducia e amore incondizionato. Maxi era testardo e si lasciava toccare solo da lui, Wieland e Artur.
«Quando è scomparso, e con lui Artur, sono rimasto solo con il mio dolore» aveva detto. «Forse è stata l’educazione rigorosa dei miei genitori, forse la paura di essere di nuovo deluso e ferito, ma ho sempre avuto difficoltà ad abbassare la guardia.»
Aveva raccontato a Karoline di Artur, della banda di bambini e delle sue paure, e lei l’aveva ascoltato con attenzione. A ogni parola il suo cuore si era alleggerito, non sentiva più né dolore né sensi di colpa, anzi.
Insieme avevano svuotato lo scatolone, sfogliato gli album fotografici che odoravano di muffa e guardato tutti i frammenti di ricordi che i suoi genitori avevano conservato e di cui Oliver aveva dimenticato l’esistenza. Tutt’a un tratto, gli erano venuti in mente piccoli avvenimenti di ogni genere; divertenti, banali, tristi e anche cose che all’epoca gli erano sembrate straordinariamente importanti.
«Non l’avevo mai raccontato a nessuno» aveva detto alla fine, meravigliato.
«E allora?» aveva chiesto Karoline. «È stata dura?»
«No. Non con te. Ho la sensazione che ti importi davvero.»
Senza pensarci troppo, aveva aperto l’angolo più remoto della sua anima, e nessuna catastrofe si era abbattuta su di lui. Parlare di tutto quanto, condividerlo con la persona che amava e di cui si fidava lo aveva alleviato. Rivelare quei segreti a lungo repressi li aveva demistificati, i suoi demoni avevano perso il loro potere terrifico. Avevano parlato fino alle tre del mattino e lui si era reso conto che Karoline gli aveva dato la possibilità di fare pace con il suo passato. Le vecchie ferite sarebbero finalmente guarite.
***
Tariq era appoggiato al recinto del paddock, le braccia sullo steccato e lo sguardo fisso nel vuoto. Sembrava così smarrito che per un istante Pia fu tentata di abbracciarlo o di abbandonarsi a qualche altro gesto di conforto, ma non lo fece. Non era una cosa comune tra poliziotti.
«Ci avevi riparlato?» chiese invece.
Tariq girò la testa e la fissò con gli occhi rossi.
«Non provi nulla?» domandò con un tono di rimprovero. «La conoscevamo e adesso... forse morirà!»
Pia sapeva di apparire indifferente davanti a un evento così terribile, ma dentro di lei si agitavano sentimenti completamente diversi. La sua freddezza era una forma di autodifesa.
«Ne abbiamo parlato l’altro giorno mentre andavamo all’istituto di medicina legale» gli rammentò a mezza voce. «Nel nostro lavoro non c’è posto per le emozioni. Il nostro compito è scoprire chi ha fatto questo a Pauline e, per farlo, dobbiamo mantenere il sangue freddo. Non possiamo riportare l’orologio indietro, ma possiamo assicurarci che la vittima ottenga giustizia.»
«Non chiamarla vittima!» sbottò Tariq. Si passò una mano sugli occhi, massaggiandosi il dorso del naso con il pollice e l’indice. «Ti prego! Si chiama Pauline.»
Pia osservò pensierosa il suo profilo e notò come lottava contro il senso di orrore e impotenza, che assumeva una dimensione molto maggiore quando si conosceva di persona la vittima, o addirittura si provava qualcosa nei suoi confronti. Per Tariq quella era la prima indagine per omicidio e non si era ancora creato una routine in cui potersi rifugiare. Quel caso sarebbe stato il suo test, quello che ognuno di loro aveva affrontato a un certo punto della carriera, quando avevano deciso se continuare o meno la professione? Tariq avrebbe resistito o si sarebbe arreso? Non tutti avevano le risorse per poter sopportare momenti del genere.
«Tariq.»
«Lo so. Mi sto comportando in modo poco professionale. Puoi tranquillamente scriverlo nel tuo rapporto» disse con tono di sfida, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans.
«Non pensare che lascerò che un giovane collega promettente come te se ne vada in questo modo» ribatté lei con severità. «Hai deciso di unirti al nostro gruppo e ora sei uno di noi. Ci saranno sempre giorni di merda come questo, ma ci sono anche momenti in cui riusciamo a prenderli, questi bastardi.»
Il fantasma di un sorriso incerto fremette all’angolo della bocca di Tariq.
«Ehi» disse Pia. «Non arrenderti adesso. Pauline è giovane e forte. Può farcela.»
«Ma se lei... lei...» Tariq si interruppe. Tirò su col naso come un ragazzino. Si era innamorato di quella ragazza e adesso... Era una crudeltà, punto e basta. «Mi ha scritto.» Pescò lo smartphone dalla tasca, lo sbloccò, poi glielo passò.
Ho qualcosa per voi che potrebbe interessarvi, lesse Pia. Vorrei dartelo di persona.
Pauline aveva scritto il messaggio sabato alle 22.03, ma Tariq lo aveva visto solo la domenica, quando le aveva risposto. La piccola spunta grigia indicava però che la sua risposta su WhatsApp non era stata visualizzata. Significava che in quelle trenta ore Pauline aveva agonizzato chissà dove?
«Cosa voleva darti di così interessante?» rifletté Pia.
«Non lo so.» Tariq fece un respiro profondo. Sembrava aver recuperato un po’ di compostezza. «Ha scritto “voi”, quindi intendeva la polizia. Non era una questione personale.»
«Infatti.» Pia tirò fuori il cellulare per chiamare Bodenstein. «Kai cercherà di rintracciare il suo telefono. E dobbiamo trovare la sua macchina.»
«Me ne occuperò io» disse Tariq, felice di avere qualcosa che gli impedisse di rimuginare. Fece per allontanarsi, ma ritornò sui suoi passi. «Grazie, Pia.»
«Figurati. Abbiamo cominciato tutti da qualche parte. Non posso prometterti che andrà meglio. Ma imparerai a gestirlo.»
***
Quando Bodenstein scese dopo la doccia, Karoline era in cucina. Indossava una tuta grigia e una maglietta verde, i piedi erano infilati in un paio di Crocs. Si era legata i capelli scuri in una semplice coda. Sul bancone lo aspettava già una tazza di caffè fumante.
«Ri-buongiorno.» L’abbracciò, e lei si abbandonò nella sua stretta.
Sotto la doccia aveva pensato a quello che lei gli aveva detto. Abitare insieme, vivere insieme. Tornare a casa dalla persona che amava. Non si era mai sentito a casa nella sua abitazione a Ruppertshain, anche se ormai la occupava da ben quattro anni, e non sarebbe stato difficile per lui lasciarla.
«Ti ha squillato il telefono» lo avvertì Karoline. «Diverse volte, tra l’altro.»
«Vado a controllare.» Le baciò la punta del naso e prese il telefono, che aveva lasciato sul tavolo della sala da pranzo la sera prima. Tre chiamate da un numero sconosciuto, due messaggi.
Donna gravemente ferita a Ruppertshain, aveva scritto Kai alle 7.38. Ci vai? Pia e Tariq sono già lì.
Un brivido gli percorse la schiena. Un’altra tragedia a Ruppertshain! La gente era già agitata, che conseguenze avrebbe avuto quella notizia?
Pauline Reichenbach è stata trovata gravemente ferita al maneggio di Ruppertshain, le aveva scritto Pia alle 8.12, due minuti prima. Vieni?
«Porca puttana» borbottò Bodenstein. I pensieri gli si accavallarono nella mente. Non poteva essere una coincidenza! La ragazza aveva mostrato a Pia e Tariq il filmato della telecamera di monitoraggio per i gatti selvatici, sapeva come muoversi nel bosco. Aveva messo in qualche modo i bastoni tra le ruote del colpevole? Gli tremavano le mani.
«È successo qualcosa?» Karoline si preoccupò quando notò l’espressione sul suo volto.
«Sì. Devo andare a Ruppertshain» disse. «Hanno trovato una ragazza gravemente ferita. Conosco i genitori.»
«Oh, no! È terribile.»
Bodenstein bevve un sorso di caffè, mentre digitava la risposta a Pia con una mano sola. Sto arrivando. Dieci minuti.
Karoline non si era mai fatta sfuggire una parola su come si sentiva quando lui veniva chiamato per un cadavere o un ferito grave. Riviveva l’omicidio della madre? All’improvviso, si sentì in colpa nei suoi confronti.
Un’ombra era calata sulla giornata che era iniziata così bene, e più che mai Bodenstein ebbe l’impressione di essere immerso fino al collo in un caos di morte e violenza.
«Devo andare, purtroppo.» Si mise in tasca il cellulare. «Ti chiamo dopo.»
«Okay.»
«Grazie» disse. «Per tutto.»
«Grazie a te.» Un piccolo sorriso le sfiorò le labbra, ma i suoi occhi verdi rimasero seri. E poi lo avvolse tra le braccia, gli accarezzò il collo e lo strinse forte per un attimo. «Ci sei quasi, Oliver. È il tuo ultimo caso, dopo questo non dovrai più farlo, se non vorrai.»
***
«Di solito porto a spasso il cane agli Ontani.» L’uomo dai capelli grigi era pallido, la sua voce fragile. Era sotto shock e non c’era da stupirsi, visto che conosceva bene la ragazza ferita e i suoi genitori. «Ma da quando gli escavatori lassù stanno buttando tutto all’aria, vengo qua.»
Pia lo aveva subito riconosciuto come l’affabulatore gioviale del tennis club, il tizio che il giorno prima sedeva accanto a Henriette Lessing a raccontare aneddoti. Era un bell’uomo, il classico tipo ottimista da “il bicchiere è mezzo pieno”, che prendeva la vita di petto. Quando lui si presentò, qualcosa scattò dentro la sua testa, poi la memoria fece il collegamento: Jakob Ehlers era il marito di Patrizia, la donna che il sabato precedente si trovava in chiesa quando Bodenstein aveva scoperto il prete morto nella sagrestia. E adesso anche lui si era imbattuto in una persona gravemente ferita, che a prima vista poteva sembrare un cadavere. Era uno dei vecchi compagni di scuola di Bodenstein? Pia cercò di ricordare ciò che aveva letto nei rapporti del commissario. Poi ebbe un’epifania. Sua moglie, Patrizia Ehlers, era la sorella di Rosie Herold.
«A che ora ha parcheggiato l’auto e ha iniziato a camminare?» gli domandò.
«Alle sei meno un quarto» replicò Ehlers. «Vengo sempre così presto perché alle otto prendo servizio. Lavoro al municipio di Kelkheim.»
«Okay. Da che parte è andato?»
«Da qui fino al campo sportivo, poi giù per il sentiero dietro la sala polivalente, infine sono passato davanti alla clinica veterinaria verso la tenuta Bodenstein. Arrivato al bosco, ho percorso a piedi il sentiero che porta al maneggio. È stato il mio cane a trovare Pauline. Probabilmente io non l’avrei vista, era ancora buio.»
Si passò le mani sul viso, respirando piano. E all’improvviso, i suoi occhi si riempirono di lacrime.
«Ho... ho acceso la torcia. E poi... l’ho riconosciuta subito... Pauline. Oddio! Pensavo fosse morta!» La sua voce si affievolì, singhiozzò. «Conosco i suoi genitori da tutta la vita e Pauline è la figlioccia di mio fratello. Chi farebbe una cosa del genere?»
Frugò nelle tasche del giubbotto, tirò fuori un fazzoletto di carta spiegazzato e si soffiò rumorosamente il naso.
«Che cosa ha fatto dopo aver trovato Pauline?» chiese Pia con delicatezza.
«All’improvviso, accanto a me è apparso qualcuno. Correva. Non l’avevo sentito arrivare.» Jakob Ehlers si sforzò di darsi un contegno. «Aveva un cellulare e ha chiamato la polizia. O il 112, non lo so.»
«E dov’è questa persona?»
«È laggiù, con quelli del maneggio. È l’uomo con la giacca blu.»
«Ha incrociato qualcun altro?» insistette Pia. «Sulla strada per il campo sportivo? Al maneggio? Ha notato qualcosa che le è sembrato strano? Ci pensi con calma.»
Pauline doveva essere rimasta distesa nel prato per un bel po’ di tempo, almeno così sospettava il paramedico, perché i capelli e i vestiti erano bagnati di rugiada ed era in ipotermia. La speranza che Ehlers potesse aver visto l’aggressore era piuttosto scarsa.
«No.» Ehlers aggrottò la fronte, poi scosse la testa. «Era ancora buio pesto. È raro che qualcuno sia in giro così presto, in questo periodo dell’anno. E non ho notato nulla.»
Si calmò un po’. Il colore tornò sulle sue guance pallide. Con aria assente, accarezzò la testa del cane.
«Ma come ha fatto a vedere qualcosa se era ancora buio pesto?»
«Ho una torcia da testa.» Ehlers tirò un cordoncino che gli pendeva al collo. «E il mio cane ha un collare led.»
«Non le sembra strano camminare qui fuori da solo al buio? Soprattutto in questo periodo?»
«Che cosa intende?» domandò Ehlers, confuso.
«Ecco... Dopotutto negli ultimi giorni sono state uccise tre persone, persone che conosceva abbastanza bene.»
«Sì, ha ragione.» Ehlers annuì lentamente, quasi stupito, come se fosse la prima volta che quel pensiero gli passasse per la mente. «Non ci ho pensato proprio. Cioè, ho portato il cane. E... chi mai vorrebbe uccidermi?» Era sempre sorprendente assistere alla rimozione di cui era capace il cervello umano. Anche Pauline aveva ragionato così? Si considerava immortale, come molti giovani? Avrebbe potuto immaginare di essere in pericolo? Era una nuova vittima dell’assassino che aveva commesso i tre omicidi o la sua aggressione non aveva nulla a che vedere con loro?
In quel momento, Pia vide Bodenstein, che stava parlando con due poliziotti. Provò sollievo, ma allo stesso tempo un desiderio impellente di tenerlo lontano da tutta la faccenda.
«Ho un’altra domanda, signor Ehlers» disse all’uomo accanto a lei. «Ieri parlava con la signora Lessing, al tennis club. Le ha detto qualcosa su suo figlio Elias?»
«Ieri? Al tennis club?» Ehlers inarcò le sopracciglia, disorientato, il suo sguardo all’improvviso era vigile. «Non... non ricordo con esattezza.»
«Che cosa le ha detto?» Per Pia, la sua risposta evasiva nascondeva qualcosa.
«Solo che è molto preoccupata per lui. Perché la polizia lo sta cercando e lei non sa...» Ehlers si interruppe, evitando di guardarla.
«Perché lei non sa cosa?» insistette Pia.
«Non voglio dire sciocchezze» rispose Ehlers con evidente disagio. «Magari ho capito male.»
«Mi ascolti, signor Ehlers» lo incalzò. «Tre persone sono state uccise. Pauline Reichenbach è stata picchiata quasi a morte e non sappiamo se sopravvivrà. Si tratta di quattro persone che la conoscono o la conoscevano bene. Elias era alla Casa degli amici del bosco la notte in cui Clemens Herold è morto carbonizzato nella sua roulotte. Lui e Pauline si conoscono bene. Se sa o ha sentito qualcosa che potrebbe aiutarci, questo non è il momento di tacere in nome di chissà quale senso di lealtà.»
«Buon Dio! Non penserà che il ragazzo abbia potuto fare una cosa del genere?» Ehlers scosse la testa, allarmato.
«Non lo so» ribatté Pia. «Me lo dica lei.»
L’uomo prese un respiro profondo, lo trattenne per un attimo, poi espirò rumorosamente. Le sue dita giocavano con fare nervoso con il guinzaglio del cane. Pia trovava sempre un po’ ingiusto fare pressioni su persone che si trovavano in una situazione emotiva estrema, ma in momenti del genere era più facile ottenere risposte sincere.
«Henriette è preoccupata. Elias è imprevedibile e teme che possa fare qualcosa di... avventato, se messo alle strette» tergiversò Ehlers.
Pia lo fissò e attese. C’era di più. E di colpo ebbe la sensazione di essere molto vicina alla soluzione dell’enigma. Era Jakob Ehlers la persona su cui fare leva per arrivare all’origine del silenzio e mettere finalmente le mani su qualcosa di tangibile? Era un uomo stimato e rispettato in un paese dove tutti si conoscevano, dove quasi tutti gli abitanti erano legati per sangue o per matrimonio; senz’altro era a conoscenza dei piccoli e grandi segreti che venivano taciuti di comune accordo. Se fosse riuscita a cavargli qualcosa, avrebbe potuto provocare un effetto domino. Doveva provarci, fare appello alla sua coscienza e al suo senso di responsabilità.
«Signor Ehlers, in paese la stanno ad ascoltare» disse allora. Si sporse in avanti e lo guardò con attenzione. «Lei conosce le persone. Ci aiuti, prima che succeda qualcos’altro. La prego.»
Jakob Ehlers la scrutò. Serrò la mascella e strinse le labbra, pensieroso. Sospirò e si massaggiò la nuca con una mano.
«Ho sentito che...» esordì incerto, poi tacque di nuovo. Il suo sguardo divenne evasivo, si raddrizzò. Il cane, che era rimasto immobile accanto alla panchina, balzò in piedi.
«Jakob» disse Bodenstein alle spalle di Pia.
«Ciao, Oliver.» Un’espressione di sollievo passò sul viso di Ehlers, e Pia provò la delusione di un cacciatore a cui la preda è sgusciata via all’ultimo. Certe occasioni non si presentavano una seconda volta.
***
Erano passate da poco le nove quando Pauline fu stabilizzata al punto da poter essere trasportata al centro traumatologico di Francoforte. Bodenstein, Tariq e Pia guardarono i rotori dell’elicottero iniziare a girare. Poi il velivolo si alzò ripidamente in aria, virò e scomparve sopra le cime degli alberi. Il capo aveva avvisato i genitori della ragazza, che si erano già messi in viaggio per la città. I paramedici raccolsero il loro materiale e se ne andarono. Avevano fatto del loro meglio per salvare la vita a Pauline, non restava altro che sperare.
Kröger e la sua squadra erano arrivati. Già in tuta bianca e senza mostrare emozioni apparenti, avevano iniziato il loro meticoloso lavoro. In fondo alla stretta strada asfaltata che terminava al maneggio ai margini del bosco, due cavalli dietro una recinzione elettrica guardavano curiosi con le orecchie dritte. Di rado vedevano tanto movimento da quelle parti.
«Se solo poteste parlare» disse Pia alle bestie, poi si rivolse ai colleghi. «Cerchiamo di immaginare cosa possa essere accaduto. Perché Pauline è stata lasciata su questo prato? Il posto ha qualche significato o è stato scelto a caso?»
Alla luce rosa del primo mattino, i capelli di Bodenstein sembravano più grigi del solito, e lei notò le borse sotto gli occhi. Il capo aveva un’aria esausta, il che le impediva di rimproverarlo per aver interrotto la sua conversazione con Jakob Ehlers.
«Perché è stata aggredita?» domandò Bodenstein.
«Perché sapeva qualcosa» replicò Tariq. «Mi aveva scritto un messaggio, voleva darmi una cosa che ci avrebbe interessato.»
«Quando te l’ha inviato?»
«Sabato sera. Non l’ho visto fino a domenica mattina e ho risposto, ma lei non ha letto il mio.»
«Venerdì era dai Lessing» disse Pia. «Poco prima che arrivassimo noi. E sono sicura che abbia riconosciuto Elias nelle riprese della telecamera. Non so come, ma dev’essersi messa in mezzo a qualcosa e ha pestato i piedi a qualcuno.»
«Ma perché è ancora viva?» Bodenstein si guardò attorno. «Se l’aggressore l’ha assalita sabato sera, avrebbe avuto un giorno intero per completare il suo lavoro e ucciderla.»
«Forse si è fatto degli scrupoli perché la conosceva» ipotizzò Pia. «E credeva che tanto sarebbe morta comunque.»
«Pensi a Peter Lessing, vero?»
«Sì. O a Elias. Stanotte ha chiamato Nike Haverland e le ha detto che ora ha un’auto.»
«L’auto di Pauline?»
«Possibile.»
«Ma perché?» chiese Tariq. «Cosa poteva sapere Pauline di così tanto pericoloso per Elias o suo padre?»
«Questa è la domanda da un milione di euro» rispose Pia. «Dobbiamo trovare il suo cellulare. Ed Elias. Ho la sensazione che sappia qualcosa.»
La gente del maneggio non aveva visto o sentito nulla di sospetto. Bodenstein, Tariq e Pia salirono sulle proprie auto e tornarono all’impianto sportivo. Una volta arrivati, scesero e si appostarono all’incrocio. Da lì, una strada in salita portava fino al campo da tennis, poi ai margini del bosco e allo Zauberberg. Pia riusciva vedere l’alta recinzione metallica con le reti verdi che circondavano i campi da tennis. Meno di dieci ore prima, lei e Tariq avevano parlato lì con la signora Lessing. Una strada proseguiva dritta, oltre il campo sportivo di Ruppertshain, fino al centro ippico, al maneggio e al bosco. Tra l’impianto sportivo e la sala polivalente, una terza strada asfaltata scendeva al campo di aeromodellismo; dopo poco meno di un chilometro si concludeva con due sentieri sterrati. Attraverso la quarta strada, che passava sotto la sala polivalente e riportava a Ruppertshain facendo un’inversione a U, si raggiungeva l’impianto di depurazione delle acque di scarico e la clinica equina di Inka Hansen. Tra le strade, si estendevano i tipici frutteti di quella regione, inframmezzati da cespugli di more e gruppi di alberi. Tutto sommato, un terreno con ben poca visibilità, che rendeva facile per qualcuno del luogo muoversi senza farsi notare. Soprattutto di notte.
«Kim è convinta che la persona che ha ucciso gli Herold e il parroco abbia ucciso anche Artur.» Pia si fermò. «In linea di principio, sono d’accordo con lei, ma finché non sapremo com’è morto Artur, non possiamo affermare che sia stato ucciso da un bambino che ormai avrà cinquant’anni suonati.»
«E da chi, allora?» Bodenstein la scrutò con attenzione.
«Non lo so.» Pia sospirò. «Il mio istinto mi dice che non è così, ma non posso provarlo. Deve essere stato un adulto a mettere Artur e la volpe nella tomba. E quella persona oggi non ha una cinquantina d’anni, ma piuttosto sessantacinque o giù di lì.»
«Come Leo Keller, per esempio» commentò Bodenstein.
«Sì, per esempio.» Pia annuì. «Abbiamo già ipotizzato che potesse essere stato l’amante di Rosie Herold. Kai sta raccogliendo i nomi. Attraverso i dati dell’anagrafe, possiamo rintracciare chi viveva a Ruppertshain in quel periodo. Ma non possiamo limitarci a Ruppertshain. L’assassino può benissimo aver vissuto a Schneidhain, Eppenhain, Fischbach o Königstein. Per quanto tragica, l’aggressione di Pauline potrebbe finalmente spingere le persone a parlare. Dobbiamo solo stare attenti: potrebbero cercare un capro espiatorio e organizzarsi per farsi giustizia da soli.»
«Temo che tu abbia ragione.» Bodenstein arricciò le labbra. «Quindi come vuoi procedere?»
«Dobbiamo tenere una conferenza stampa il prima possibile» replicò Pia, indicando il nastro segnaletico sulla strada diretta al maneggio, dietro il quale si erano riuniti curiosi e giornalisti. «L’aggressione di Pauline attirerà la stampa. E se non sopravvive, ci saranno titoli a caratteri cubitali.»
Si strofinò il mento.
«Dobbiamo avvertire la popolazione, e dovremmo parlare con Leonard Keller e i tuoi vecchi compagni di scuola che non amavano Artur. Quindi c’è molto da fare.»
«Vorrei far vedere le foto di Clemens ai miei genitori. Potrebbero identificare molte di quelle persone» suggerì Bodenstein.
«Va bene. Di’ a Kai di stamparle e di mandargliele.»
«Inoltre, devo parlare con Inka.»
«Come mai?»
Bodenstein esitò un momento, poi infilò una mano nella tasca interna della giacca e tirò fuori una foto, dandola a Pia. Era in bianco e nero e leggermente ingiallita. L’istantanea mostrava un gruppo di bambini che giocavano con la volpe addomesticata e non prestavano attenzione al fotografo.
«Quando è stata scattata?»
«Non ricordo l’occasione» replicò Bodenstein. «Sarà stato inizio estate del 1972. Ecco, siamo io e Wieland. E questi sono Simone, Inka e Artur. Mi sono ricordato della foto e ho cercato nella soffitta dei miei genitori finché non ho trovato l’album in cui si trovava.»
Pia socchiuse gli occhi ed esaminò l’immagine. Il biondo Artur giocava con la volpe, che gli giaceva supina in grembo e inseguiva giocosamente la mano con le zampe anteriori. Le due ragazzine stavano a guardare.
«Ce n’è un’altra» disse Bodenstein tirandola fuori. «Deve essere stata scattata pochi secondi dopo.»
Anche se la foto mostrava i bambini in primo piano, lo sfondo era ben visibile. La ragazza dai capelli scuri si era voltata e stava guardando qualcosa che accadeva fuori dall’inquadratura della macchina fotografica. Artur si era alzato da terra e pure lui guardava altrove. La ragazzina bionda aveva allungato la gamba per dare un calcio alla volpe, che si era girata verso di lei digrignando i denti. La vista poteva ingannare, ma le foto, che congelavano la vita per una frazione di secondo, non mentivano.
«Qualcuno era geloso» osservò Pia, stupita.
«È stata esattamente la mia impressione.» Bodenstein annuì. «E voglio parlarne con Inka.»
***
Il centro traumatologico di Francoforte si trovava sulla Friedberger Landstraße, nel quartiere di Seckbach, non lontano dalla A661. Sul tetto dell’edificio principale si vedeva l’elicottero con cui Pauline Reichenbach era stata trasportata. Quando Pia gli aveva chiesto di interrogare gli abitanti, Tariq aveva brontolato, ma alla fine aveva accettato. Poi Pia aveva domandato a Cem di accompagnarla. Dovevano parlare con i genitori di Pauline fintanto che la ragazza era ancora viva e i ricordi erano freschi.
Dopo aver chiesto più volte la strada, trovarono finalmente la sala dove la famiglia di Pauline attendeva notizie... che fossero buone o cattive.
«Lasciateci in pace! Sparite!» sbottò Simone Reichenbach, quando Pia e Cem si presentarono. La rabbia e la paura scintillavano nei suoi occhi dietro le spesse lenti degli occhiali rettangolari con montatura nera. «Nostra figlia sta lottando per la vita! Al momento abbiamo cose più importanti di cui preoccuparci che rispondere a delle stupide domande!»
«Capisco come si sente, signora Reichenbach» disse Pia. «Ci dispiace doverla disturbare con le nostre domande. Ma vogliamo scoprire chi ha fatto questo a sua figlia.»
«Ah sì? Non avete nemmeno scoperto chi ha ucciso gli Herold e il parroco» sbraitò la donna con sdegno. «Fareste meglio a occuparvi prima di quello.»
«Crediamo che la persona che ha commesso gli omicidi intendesse uccidere anche sua figlia.»
«Come?» Simone Reichenbach raggelò. «Sapete chi è stato?»
«No, non lo sappiamo ancora. Ma Pauline probabilmente l’ha scoperto. Ecco perché l’assassino ha voluto zittirla.»
Il viso smorto della madre di Pauline era diventato bianco come un lenzuolo. Le sue dita fecero a pezzi un fazzoletto di carta.
Il marito stava alla finestra e fissava il parcheggio, muto. La sorella e il fratello di Pauline, Britta e Colin, entrambi sulla ventina, erano seduti dall’altra parte della sala d’attesa, impotenti e turbati.
«Quando è stata l’ultima volta che ha parlato con Pauline?» chiese Cem.
«Sabato» replicò Simone Reichenbach. «Mi ha chiamata. No, è passata. È venuta alla casa di cura. Sono... sono la direttrice dell’Abendrot, ma lo sapete già.»
Cem annuì.
«Le serviva la mia carta per il cash & carry, perché lei e Ronja volevano comprare alcune cose per la festa di un compagno di studi.»
«Ronja?»
«La migliore amica di Pauline. Ronja Kapteina. La figlia della guardia forestale. Si conoscono dall’asilo.»
«Che impressione le ha fatto? Era nervosa? Sembrava spaventata?»
«No, no.» La madre di Pauline scosse la testa con energia. «Era come sempre. Pauline è... è coraggiosa. Non ha paura di nulla.»
«Vive ancora con voi?» domandò Pia.
«No, si è trasferita un anno fa. Abita in un appartamento in condivisione a Kalbach, vicino all’università. Studia biologia. Ecco perché... ecco perché non ci siamo preoccupati. Vive la sua vita, a volte non la sentiamo per giorni interi.» Pezzetti di carta volarono a terra. «Pauline non ci racconta molto di quel che fa.»
«Perché tanto non vi interessa.» Era la prima volta che la sorella maggiore di Pauline apriva la bocca. «Vi importa solo di voi stessi!»
«Non è vero!» si oppose Simone Reichenbach, ma era sulla difensiva, il tono quasi colpevole.
«Eccome se lo è!» In apparenza, Britta Reichenbach era l’esatto opposto della sorella minore: magra, con un labbro superiore troppo corto, che mostrava le gengive quando parlava. Sembrava più grande della sua età, nel suo rigoroso tailleur grigio da donna d’affari e i capelli biondo cenere legati stretti. «Non sapete assolutamente niente di Pauline!»
«E tu ne sai di più?» La madre reagì con sarcasmo. «Ma non farmi ridere! Non ti importa nulla della nostra famiglia!»
«Con voialtri ci rinuncio» ribatté Britta. «Getto la spugna. Tanto non ha senso dirvi qualcosa, perché non ascoltate e non ve ne frega un cazzo di quello che ci succede!» La giovane donna si sporse in avanti. Sul suo collo si erano formate delle chiazze rosse. «Pauline e io ci telefoniamo almeno una volta alla settimana, a volte di più. E ci vediamo spesso. Ad esempio, so che era preoccupata per Elias e che voleva aiutarlo. Ma nessuno ha potuto o voluto dirle dove si trova. I suoi genitori sono un muro, al mulino non si è fatto vedere.»
«Quando è stata l’ultima volta che ha parlato con sua sorella?» domandò Pia prima che madre e figlia riprendessero ad accapigliarsi.
«La settimana scorsa, non ricordo che giorno era» rispose Britta. «Mi ha detto che il figlio dei vicini dei miei genitori, Elias, è ricercato dalla polizia per presunto omicidio. Non voleva crederci. Purtroppo Pauline a volte può essere molto ingenua. Crede sempre nella bontà di tutti, anche quando nessun altro ci crede.»
«Per esempio?»
«Per esempio, Elias e la sua famiglia di psicopatici.» Britta Reichenbach sbuffò. «Quelli sono un branco di squilibrati! Ma Pauline trova una giustificazione per tutto e tutti, e prova compassione per ogni persona emarginata e fallita di questo mondo.»
Le tremava la voce. All’improvviso una lacrima le scese lungo la guancia.
«Pauline è la persona più generosa e altruista che conosco,» sussurrò «la ammiro per il suo idealismo e la sua energia. Per me e per tutti quelli che la conoscono, lei è come... come una stella luminosa. Se... se morisse, allora...»
Singhiozzò e si nascose il viso tra le mani. I genitori non si mossero, il padre neanche si voltò. Solo il fratello l’avvolse tra le braccia e lei si appoggiò a lui. “Non proprio una famiglia modello” pensò Pia. Avrebbe voluto raccontare ai signori Reichenbach della faccenda di Artur, ma poi lasciò perdere. Non era il momento. Le parole di Britta avevano confermato i suoi sospetti, e per il momento le bastava. Pauline aveva scoperto una verità pericolosa.
***
Quando Pia e Cem lasciarono la sala d’attesa, incrociarono una donna di circa sessant’anni, snella, con i capelli bianchi e corti.
«E lei che ci fa qui?» mormorò Cem.
«Chi è?» chiese Pia.
«Il medico di famiglia di Rosemarie Herold. È venuta all’hospice la sera in cui io e il capo abbiamo trovato il corpo.»
«Anch’io la conosco.» Pia aveva spesso problemi con i nomi, ma non dimenticava mai le facce, soprattutto quelle che la colpivano per qualche motivo. La donna si trovava al tennis club il giorno prima, seduta accanto a Jakob Ehlers, e lui le aveva messo un braccio intorno alle spalle dopo aver fatto lo stesso con Henriette Lessing. «Chiediamole perché è qui.»
Tirò fuori il distintivo e sbarrò la strada alla dottoressa.
«Mi scusi. Possiamo scambiare due parole?»
Lo sguardo della donna sfiorò prima il viso di Pia poi il distintivo che le aveva messo sotto il naso.
«Sì.» La dottoressa aveva l’aria contrariata. «Di che si tratta?»
«Ieri sera non era al tennis club?» domandò Pia.
«Sì, c’ero» rispose inarcando le sopracciglia. «Perché?»
Era evidente che quella donna aveva trascorso molte ore su campi da tennis assolati; la sua pelle molto abbronzata e ormai coriacea era una catastrofe da un punto di vista dermatologico.
«Lei è il medico di famiglia di Rosemarie Herold. La dottoressa Basedow, giusto?» si intromise Cem. «Ci siamo incontrati alla casa di cura venerdì sera.»
«Esatto.» La fronte della donna si corrugò ancora di più.
«Perché si trova qui?»
«Sono il medico dei Reichenbach e un’amica di famiglia.» I suoi occhi azzurri esprimevano una diffidenza malcelata. «Ho saputo cos’è successo a Pauline. Ecco perché sono qui. Vorrei stare vicino ai suoi genitori e tentare di confortare Simone.»
«Ah. E da chi l’ha saputo?»
«Da Patrizia Ehlers.» La dottoressa sfoderò un sorriso privo di gioia. «In paesi così piccoli, le notizie viaggiano alla svelta. Quelle cattive ancora di più.»
«È il medico di famiglia dei Reichenbach da molto?»
«Sì, da quando ho rilevato lo studio del dottor Lessing. Sono praticamente trent’anni.»
«È passato molto tempo. Allora conosce quasi tutti a Ruppertshain.»
«Esatto.» Una risatina sardonica. «Anche se non mi ha facilitato le cose, la brava gente di Ruppsch. Dapprima non erano affatto contenti di dover andare da una dottoressa, da una donna. Ho faticato un po’, all’inizio.»
«Lo capisco.» Pia sorrise forzatamente. «Come poliziotta, non è molto diverso. I primi tempi, quando ero di pattuglia, la gente mi chiedeva quando sarebbe arrivato un “vero” poliziotto. Non è il massimo per l’autostima.»
«Mi sentivo anch’io così.» La dottoressa sorrise. Il ghiaccio si era sciolto.
«Il suo predecessore era parente di quei Lessing?» domandò Pia. «I vicini dei Reichenbach?»
«Sì. Il dottor Lessing era il padre di Peter.»
«So che non le è permesso parlare con noi dei suoi pazienti, a causa del segreto professionale,» disse Pia «ma senz’altro conoscerà Elias, no?»
«Certo.» La dottoressa Basedow tornò ad aggrottare la fronte. «Perché mi chiede di lui?»
«Anche Pauline conosce bene Elias. La sorella ci ha appena detto che era preoccupata per lui e che voleva aiutarlo. Sospettiamo che Elias possa avere qualcosa a che fare con l’aggressione di Pauline.»
«Cosa ve lo fa credere?» La dottoressa sembrava curiosa.
«Giovedì, quando siamo stati alla Casa degli amici del bosco, Pauline ci ha mostrato le riprese di una telecamera installata per monitorare la fauna selvatica. Si vede un uomo, molto sfocato, ma sono sicura che Pauline lo abbia riconosciuto subito. Era Elias. Lo stesso giorno, Pauline era dai genitori di Elias, ma l’ha negato, così come Peter Lessing. Perché? Cosa sa Pauline? Di cosa ha parlato con i Lessing? Chi può avere interesse a metterla a tacere? Perché Elias ha paura che possa tradirlo alla polizia? Suo padre vuole proteggere il figlio? O se stesso?»
«Che cosa vuole dirmi?» La dottoressa Basedow guardò Pia con attenzione.
«Sabato sera, sul tardi, Pauline ha inviato un messaggio a un mio collega. Aveva qualcosa che poteva interessarci e voleva consegnarcelo di persona. Ma poi non ha più risposto all’sms del mio collega. Letizia Lessing ci ha detto che Elias a volte è violento. Anni fa ha spinto sua sorella fuori dalla finestra della loro casa in costruzione e l’ha ferita gravemente.»
Un’espressione preoccupata apparve negli occhi della dottoressa.
«Capisco cosa vuole dire» dichiarò. «In effetti, non posso rivelarle molto. Solo una cosa: dovrebbe prendere con le molle quello che la famiglia Lessing le racconta.»
«Ah!»
Renate Basedow gettò uno sguardo all’orologio.
«Perché non viene nel mio studio all’una?» disse. «Immagino conoscerà il Zauberberg a Ruppertshain.»
«Sì, lo conosco» confermò Pia.
«Venga da sola, se possibile.» La dottoressa abbassò la voce e diede una rapida occhiata a Cem. «Non ho nulla di personale contro di lei. Ma sarebbe meglio dare l’impressione che sia venuta da me come paziente, non come agente di polizia.»
Detto ciò, si incamminò e scomparve nella sala d’attesa, dove i Reichenbach aspettavano la fine dell’operazione di Pauline.
«Ci hai capito qualcosa?» chiese Pia al collega.
«Non ancora» ammise Cem. «Ma ho l’impressione che abbia paura, il che non mi sorprende affatto. Le stanno uccidendo un paziente dopo l’altro. Se fossi in lei, anch’io mi sentirei tra l’incudine e il martello.»
***
«Abbiamo trovato l’arma con cui è stata aggredita la vittima, in un cespuglio, a pochi metri da dove giaceva la ragazza» risuonò la voce di Christian Kröger dall’altoparlante appoggiato su uno dei tavoli della sala comune. «Un piede di porco con tracce di sangue rappreso e i capelli della vittima. Siamo riusciti a trovare le impronte digitali, ad analizzarle con una scansione rapida e abbiamo ottenuto un riscontro nell’AFIS.»
«Fammi indovinare» disse Pia. «Sono di Elias Lessing.»
«No.» Kröger sembrava sorpreso. «L’uomo a cui appartengono le impronte digitali si chiama Ralf Ehlers.»
Porca miseria! Era quasi certa che fosse stato Elias ad aggredire Pauline. Almeno sarebbe stato logico e avrebbe spiegato l’auto di cui Elias aveva parlato con Nike al telefono.
«Ralf Ehlers?» Bodenstein alzò lo sguardo, stupito.
«Perché quest’uomo è nel nostro sistema?» chiese Pia.
«Non ti saprei dire» rispose Christian.
«Controllo io» si inserì Kai dal tavolo accanto.
Pia raccontò a Bodenstein della sua conversazione con la famiglia Reichenbach e dell’incontro con la dottoressa Basedow. Lei e Cem non avevano scoperto molto, ma almeno ora conoscevano il nome della migliore amica di Pauline e sapevano che aveva un appartamento a Kalbach, vicino all’università.
«Ho la sensazione che la Basedow stia cercando di dirmi qualcosa sui Lessing ma che abbia paura.» Pia pensò all’avvertimento che la dottoressa le aveva appena dato. «C’è qualcosa che non va in quella famiglia. Hanno qualcosa da nascondere. E continuo a chiedermi cosa sia.»
«A proposito, ho dimenticato di dirti che lo zio di Peter Lessing era a capo della polizia di Königstein, nel 1972. Ha aspettato cinque giorni prima di chiamare la giudiziaria. Purtroppo non possiamo più chiedergli perché, dato che è morto un anno dopo, in un misterioso incidente.»
Pia cercò di raccapezzarsi con tutti i nomi e le relazioni, ma non ci riuscì.
«Chi è questo Ralf Ehlers?» chiese a Bodenstein. «Un altro tuo vecchio compagno di scuola?»
«Sì» confermò. «È il fratello minore di Jakob, quello che ha trovato Pauline stamattina. La pecora nera della famiglia Ehlers. Tra l’altro, era sposato con Sonja, la figlia di Rosie. Ma dopo poco hanno divorziato.»
Pia ricordò la strana reazione di Bodenstein quando in riunione Kai aveva menzionato che Sonja Schreck aveva divorziato da un certo Ehlers. Gli chiese lumi.
«Non lo sapevo» rispose Bodenstein. «È che mi ha... be’... sorpreso.»
«Perché?»
«Ralf era... non so come descriverlo.» Il commissario scosse la testa. «Quando ero piccolo, lo trovavo inquietante. Era totalmente imprevedibile. Non sapeva mai quando doveva fermarsi.»
«Puoi essere più specifico?» Pia non riuscì a nascondere l’impazienza. Ogni volta che si trattava del passato, il capo perdeva tutta la sua concisione, abbandonandosi ad allusioni e a luoghi comuni.
«Avevo paura di Ralf e lui lo sapeva» disse Bodenstein. «Un giorno era il tuo migliore amico, e l’altro si divertiva a ridicolizzarti davanti a tutti. Con gli adulti la passava sempre liscia: nessuno ha mai pensato che potesse fare qualcosa di male, perché sembrava innocuo.»
«Vi devo disturbare un attimo» li interruppe Kai. «L’operatore del cellulare di Elias Lessing si è finalmente dato una mossa. Ci ha appena inviato la mappatura dei suoi spostamenti. Nelle ultime settimane è stato spesso in una zona tra due antenne radio. Ho controllato le coordinate. Si trova in un triangolo tra Eppenhain, Ruppertshain e Schloßborn. Secondo la mappa, si tratta per lo più di bosco. Ma c’è anche un edificio, un vecchio mulino.»
«Lo conosco» disse Bodenstein, cupo. «E so anche chi ci abita. È perfetto.»
«Cosa è perfetto?» domandò Pia.
«Il mulino delle lepri. Appartiene a Ralf Ehlers.»
«La sorella di Pauline non ha parlato di un mulino?» si intromise Cem.
«È vero!» Pia si sforzò di ricordare. «Ha detto che Elias non andava al mulino da tempo, o qualcosa del genere.»
«Questo signor Ehlers ha dei precedenti penali alquanto consistenti» annunciò Kai. «Diversi casi di lesioni fisiche aggravate. Detenzione di sostanze stupefacenti. Violazione di domicilio. Danni alla proprietà. Frode. Ricettazione. È stato in carcere per un anno per lesioni personali. E Pauline lo conosce abbastanza bene, a quanto sembra. Ho dato un’occhiata alle pagine Facebook, Instagram e Twitter della ragazza. È molto attiva su tutti i social network e gestisce anche un proprio blog, in cui parla soprattutto di tutela della natura. In rete ci sono anche molte sue foto in compagnia di uomini. Ha un debole per quelli maturi. E soprattutto per il signor Ehlers.»
«Ralf ha la mia stessa età.» Bodenstein era nauseato. «Pauline Reichenbach avrà al massimo venticinque anni.»
«È un bell’uomo, per la sua età.» Kai fece scorrere una serie di immagini sul suo schermo. «Più uno sugar daddy che un vecchio satiro.»
«Ah, grazie tante per il vecchio satiro» disse Bodenstein, offeso. «Siamo nati lo stesso anno, Ralf e io.»
«Dai» disse Pia, guardando l’orologio al muro. Tra due ore doveva incontrare la dottoressa Basedow. «Andiamo a trovare il tuo vecchio amico.»
***
«Rallenta» disse Bodenstein dal sedile del passeggero. «È qui vicino, sulla sinistra. Sì, laggiù!»
Pia mise la freccia e svoltò sulla sterrata. Seguiti da un’auto di pattuglia, procedettero a scossoni lungo la strada disseminata di buche e foglie autunnali che conduceva a una ripida discesa in mezzo al bosco fino alla valle del Silberbach. Un gruppo di edifici fatiscenti emerse dopo una curva. Un cancello di legno marcio pendeva storto dai cardini; delle mura che un tempo racchiudevano l’area erano rimasti solo due pilastri. Si fermò.
«Sei sicuro che sia là?» domandò. «Sembra che qui non ci viva nessuno.»
«Sì, quello è il mulino delle lepri» confermò Bodenstein. «Una volta si trovava ai margini della foresta, ma molto tempo fa. È disabitato da decenni e il bosco l’ha letteralmente inghiottito.»
«Non ci passerei la notte neanche morta. Fa paura.»
«Di recente Jakob mi ha detto che suo fratello ha acquistato il mulino per ristrutturarlo» replicò Bodenstein. «Non sembra aver fatto molti progressi.»
Gli altri due mulini di Schloßborn, che si trovavano in una posizione più felice, all’inizio della strada provinciale, anni prima erano stati restaurati dai nuovi proprietari e trasformati in veri e propri gioielli, ma quello, un tempo il più grande e imponente di tutti, era stato meno fortunato. Persino in piena estate, di rado un raggio di sole raggiungeva la valle, e le alte conifere davano all’insieme malandato di case, mulino e fienili un’aria inquietante.
Una vecchia Volvo blu scuro era parcheggiata davanti alla casa con il portellone posteriore aperto. Bodenstein, Pia e i due colleghi della pubblica sicurezza scesero, entrarono nel cortile e si guardarono intorno. In realtà, sembrava che la ristrutturazione degli edifici fosse iniziata, ma poi era stata interrotta. Nel cortile c’erano sabbia, ghiaia e calcinacci, ormai ricoperti di erbacce. In giro erano abbandonate parti di impalcature; delle pietre a incastro su un bancale erano già state attaccate dal muschio e una betoniera arrugginita languiva tra sacchi di cemento. Una montagna di spazzatura stava marcendo sotto diversi strati di foglie in decomposizione.
«Era da tanto che non vedevo un tale casino» disse Pia, schifata. «Come si fa a vivere in mezzo a questo sudiciume?»
«Scommetto che ci sono anche i topi.» Bodenstein fece una smorfia.
«È possibile» confermò Pia, che era solita prendere in giro il capo per quella sua fobia. Gettò un’occhiata all’interno della Volvo. «Comunque sia, c’è un cane, se non più di uno.»
Il sedile posteriore era abbassato, la superficie di carico era piena di coperte sporche disseminate di peli di cane.
«Avrei preferito dei gatti. Odio i topi.» Bodenstein restò nei pressi dell’auto, con la mano sulla maniglia della portiera, nel caso in cui un topo insolente fosse sbucato dalla montagna di rifiuti.
«Piantala» disse Pia con impazienza. «Andiamo a controllare se il nostro sugar daddy è in casa.»
Si diresse verso la porta d’ingresso, che era adornata da una corona di fiori di plastica sbiaditi, in un tentativo disperato di rendere quella squallida discarica un po’ più accogliente. Diverse paia di scarpe e di stivali di gomma affollavano i due gradini, davanti ai quali erano ammassati sacchi gialli e neri dei rifiuti.
Bodenstein la seguì, lo sguardo incollato a terra.
«Almeno fanno la raccolta differenziata» commentò Pia in tono beffardo.
Non c’era il campanello, quindi bussò con forza alla porta di legno, dalla quale la vernice verde di un tempo si era quasi del tutto sfaldata. Non successe nulla.
«Voi restate qui nel cortile» ordinò Bodenstein ai due agenti. «Noi facciamo il giro della casa.»
Sotto una tettoia erano conservate circa tre dozzine di bombole del gas, alcune arrugginite e vecchie, altre nuove e lucenti. Accanto c’erano taniche di benzina da venti litri.
«Vedi quello che vedo io?» sussurrò Pia.
«Eccome» replicò Bodenstein. Scattò una foto con lo smartphone e la mandò a Kai Ostermann.
Dietro la casa c’era un altro cortile, più grande, ridotto male come quello sul davanti. Il cemento era crepato ovunque, le erbacce e le radici degli alberi crescevano nelle fessure. Adiacente al fatiscente edificio del mulino, la cui ruota non esisteva più, si trovava un grande fienile di legno deteriorato, le cui porte a battenti erano chiuse. Accanto alla parete del fienile c’erano altre bombole del gas conservate in casse da imballaggio. E taniche di benzina. Gli alti pecci non lasciavano passare quasi per niente la luce del sole, così il cortile era immerso in un crepuscolo cupo. Il ruscello scrosciava, un generatore ronzava forte.
Di colpo riecheggiarono dei latrati furiosi, Bodenstein sussultò per lo spavento, ma i cani – due pitbull terrier e altri due grigio rossastri con orecchie a punta e occhi azzurri – erano per fortuna rinchiusi in due gabbie sul retro della casa. Erano i pitbull ad abbaiare, gli altri due se ne stavano lì immobili.
Una porta laterale del fienile si aprì e ne uscì un uomo. Anche se Bodenstein non lo vedeva da più di trent’anni, lo riconobbe subito. I capelli biondi erano diventati grigi e, a parte un pizzetto alla moda, per il quale era decisamente troppo vecchio, Ralf Ehlers non era cambiato per niente.
«Ehi, voi due!» gridò ai pitbull, che subito tacquero e saltarono sulla grata, scodinzolando. «Fate i bravi con i nostri ospiti!»
«Wow!» esclamò Pia. «Richard Gere!»
«No. Ralf Ehlers» ribatté Bodenstein seccamente.
L’uomo si voltò, sorpreso.
«Questa è proprietà privata!» urlò in tono sgarbato. «Sparite o sguinzaglierò i cani!»
«Ciao, Ralf» disse Bodenstein. «Che bell’accoglienza.»
Gli occhi dell’uomo si assottigliarono.
«Oliver?»
Si avvicinò. Capelli grigio-argento lunghi fino alle spalle, un viso abbronzato, occhi circondati da rughe di espressione. Indossava jeans slavati e una maglietta bianca aderente che metteva in risalto la sua figura tonica. Ralf Ehlers sembrava estremamente vitale e atletico e, a parte la chioma grigia, dimostrava molto meno dei suoi cinquantacinque anni. Non c’era da stupirsi che una ragazza come Pauline fosse attratta da lui.
«Ma sì! Oliver von Bodenstein!» esclamò Ehlers, più sbigottito che contento. «Non ti vedo da secoli!»
Bodenstein non contraccambiò la familiarità del tono e presentò Pia.
«Salve, signor Ehlers.» Pia tirò fuori il distintivo, ma lui non lo degnò di uno sguardo.
«Andiamo dentro. Gli estranei fanno agitare i miei cani.» Si sforzò di sorridere, ma non riusciva a nascondere il nervosismo.
«A cosa le servono tutte queste bombole?» chiese Pia.
«Quali bombole?» Per un attimo Ehlers rimase disorientato, poi sorrise. «Ah, quelle! Non sono mie, ma dei tizi a cui ho affittato il fienile.»
«Quali tizi?» domandò Bodenstein. «Che ci fanno?»
«L’ho affittato ad alcuni turchi, pagano bene» replicò Ehlers. «Ci fanno i dolci turchi, lì dentro. Non sarà mica un reato?»
Il dipartimento della sanità pubblica avrebbe avuto senz’altro da ridire sulle condizioni igieniche dell’impianto di produzione, ma Bodenstein non era interessato. Avevano quattro omicidi di cui occuparsi.
«Di sicuro avrà saputo che tre persone sono state assassinate negli ultimi giorni» dichiarò Pia.
«Sì, persino qui nella valle oscura mi è giunta voce.» Ehlers stava ancora sorridendo. «E io che c’entro?»
«Stamattina a Ruppertshain è stata trovata una giovane donna gravemente ferita» disse Pia. «E le sue impronte digitali sono state trovate sull’arma usata per aggredirla, signor Ehlers.»
«Come?» Ralf diede una rapida occhiata a Bodenstein. «È uno scherzo, vero?»
«No.»
«Ah. E chi dovrei aver ferito gravemente?» Il suo sorriso si contrasse, un balenio di collera apparve nel suo sguardo.
«Pauline Reichenbach.»
«Cosa?» Gli occhi di Ehlers si spalancarono. Smise di sorridere. Incredulità e orrore si diffusero sul suo volto. «Pauline? Oh, mio Dio! Ma lei... era ancora qui. Era...»
«Era... cosa?» chiese Pia con tono pungente.
«La mia Pauline!» Ralf Ehlers sembrava sinceramente turbato. «Come sta? Cos’è successo?»
Era la preoccupazione di un amico o l’interesse di un potenziale assassino convinto che la sua vittima fosse morta? Bodenstein lo guardò e si chiese se il suo comportamento fosse sincero o una recita. Sin da piccolo, era sempre stato un bravo attore: il ruolo del santerellino era il suo cavallo di battaglia.
«Ci piacerebbe saperlo da lei» disse Pia.
«Cosa vuole sapere da me?» Ehlers la fissò per un attimo, senza capire, poi il suo viso riprese colore. La preoccupazione si trasformò in rabbia. «Cosa cavolo vorrebbe insinuare? Perché dovrei voler fare del male a Pauline?»
«Forse perché avete avuto una divergenza di opinioni. Perché la sua giovane amante non voleva stare al suo gioco.»
«Giovane amante? Ma mi faccia il piacere!»
«Ha o non ha una relazione con Pauline?»
«Una relazione!» Ehlers scosse la testa. «A volte facciamo sesso, è vero, ma non è una relazione. Qui tutti ci amiamo. È così che facciamo noi.»
«Chi ama chi?» insistette Pia. «E chi è “noi”? Lei e tutte le ragazze con cui fa il grand’uomo, eh?»
«Non sa di che parla» l’accusò Ehlers.
«È vero. E neanche mi interessa, basta che le sue compagne di gioco siano maggiorenni» ribatté Pia bruscamente. «Dove si trovava tra le nove e la mezzanotte di sabato sera?»
«Non farà mica sul serio?»
«Credo proprio di sì. Le sue impronte digitali sono sull’arma usata contro Pauline» gli rammentò Pia, impassibile. «La sua fedina penale dimostra che è incline alla violenza. La dichiaro in arresto perché sospettato di aver aggredito e ferito gravemente Pauline Reichenbach. Se dovesse morire per le sue ferite, l’accusa sarà di omicidio.»
«Oliver!» Ehlers si rivolse a Bodenstein per chiedere aiuto, alzando le mani in segno di supplica, e un umile sorriso apparve sul suo volto, in cerca di comprensione. «Non puoi crederci sul serio! Pauline è la mia figlioccia! L’ho tenuta sopra la fonte battesimale! Mai e poi mai potrei farle del male! Sì, ho la fedina penale sporca, è vero, ma sono stati errori di gioventù. Delle stupidaggini! Sono sempre stato troppo impulsivo, ecco qual era il mio problema! Ma sono pentito. Sono anni che non faccio niente di male!» Gli occhi gli uscivano dalle orbite e agli angoli della bocca si formarono delle bollicine di saliva. «Sono cambiato, Oliver, davvero!»
Bodenstein era quasi propenso a credergli, ma poi notò il suo sguardo calcolatore. Era rimasto esattamente lo stesso, come da bambino: non accettava i limiti, non seguiva le regole ed era del tutto indifferente alle conseguenze delle sue azioni.
«Oliver, ti prego, ci conosciamo da una vita!» Come in passato, Ralf faceva di tutto per districarsi da una situazione critica. «Eravamo amici! Lo sai che non farei mai niente del genere.»
«Mi dispiace» replicò Bodenstein.
In realtà, non era minimamente dispiaciuto, e si vergognò un po’ della soddisfazione che provava. Ricordi dimenticati da tempo lo travolsero con una chiarezza assurda: Ora fai parte della banda. Fino alla morte. Chi ci tradisce sarà punito e dovrà morire. Quelle parole, che Ralf e Peter gli rammentavano costantemente, gli avevano causato molte notti insonni. Ai loro occhi lui aveva tradito la banda perché le aveva preferito la compagnia di Artur. Ed era stato punito.
All’improvviso un’ipotesi gli attraversò la mente e fu percorso da un brivido. Ma non era ancora il momento di porre la domanda a Ralf.
I due agenti li raggiunsero nel cortile e Pia lesse a Ehlers i suoi diritti. Ralf Ehlers comprese che si era appellato invano a una vecchia amicizia che lui stesso sapeva non essere mai esistita. Come in passato, quando doveva rendere conto e veniva messo alle strette, il suo meccanismo di difesa passò all’attacco in un battibaleno.
«Penso di sapere chi ha fatto questo a Pauline» affermò mentre lo ammanettavano.
«Ci servono rinforzi» disse Pia a Bodenstein. «Kai mi ha appena inviato sul telefono l’ordinanza di custodia cautelare e un mandato di perquisizione.»
«Perché? Che volete perquisire?» si intromise Ehlers. «Vi dirò tutto quello che volete sapere.»
Per la prima volta, la sua voce rivelò preoccupazione sincera, e non aveva nulla a che fare con le sorti di Pauline Reichenbach.
«Venga» gli disse uno degli agenti. «Andiamo.»
«Aspettate! No!» protestò Ehlers, puntando i piedi. «Che succederà ai miei cani?»
«Ci penseremo noi» disse Pia. «Come si chiamano?»
«Mayday. E Fiona» replicò lui. La preoccupazione si era trasformata in panico. «Ascoltate, io...»
«E gli altri due?»
«Non lo so. Elias li ha portati qui la scorsa notte.»
Pia lanciò un’occhiata a Bodenstein.
«Elias?» domandò Oliver. «Il figlio di Peter?»
«Sì.» Ehlers annuì con foga. «Viene spesso qui. Da anni, ormai. Ogni volta che non sopporta più di stare a casa sua.»
Non stava mentendo, come dimostrava anche la tracciabilità del cellulare di Elias. Ed era allo stesso tempo la spiegazione di ciò che Letizia Lessing aveva raccontato a Pia e Tariq: quando il fratello voleva starsene in pace, si rifugiava nel bosco, a volte per giorni.
«Quando è stata l’ultima volta che l’hai visto?» chiese Bodenstein.
Ehlers rifletté senza distogliere lo sguardo dal suo vecchio compagno di scuola. Fece roteare la testa come se volesse sciogliere i muscoli del collo. Aveva uno sguardo completamente inespressivo.
«Quando è stata l’ultima volta che Elias è venuto qui?» ripeté Pia.
«A parte la scorsa notte, quando ha portato i cani? Io comunque non l’ho neanche visto. E non saprei dirvi di altre sue visite recenti. Va e viene quando gli pare, e non mi avvisa mai.» Ehlers si strinse nelle spalle. «Sarebbe meglio chiederlo a Pauline. L’ha cercato dappertutto. E forse lo ha trovato.»
***
Dopo l’arresto di Ralf Ehlers, Pia riuscì ad arrivare giusto in tempo nello studio della dottoressa Basedow per il loro appuntamento dell’una. L’assistente, una donna tarchiata sulla quarantina, con i capelli a caschetto di un rosso rame e un tatuaggio tribale sul collo grasso, aprì a malapena la porta e, senza neanche degnarla di uno sguardo, le disse in tono lapidario: «Adesso siamo chiusi. Torni alle tre».
«Ho un appuntamento» replicò Pia, trattenendo la porta.
«Un secondo!» sbottò la donna corpulenta, sbarrandole la strada. «Non è così che funzionano le cose qui!»
«Va tutto bene, Petra.» La dottoressa Basedow apparve sulla soglia. «Avevo dimenticato di dirle che ho inserito un altro paziente.»
«Ma devo andare a prendere Marvin a scuola.» L’assistente lanciò un’occhiataccia a Pia, evidentemente preoccupata per la sua pausa pranzo.
«Vada pure» la tranquillizzò la dottoressa. «Posso sbrigarmela da sola.»
Aspettò che l’assistente scomparisse nella tromba delle scale, poi chiuse la porta e portò Pia nell’ambulatorio.
«Prego, si accomodi.»
«Grazie. Come sta Pauline?»
«Ha superato l’intervento» rispose la dottoressa prendendo posto dietro la scrivania. «È stata fortunata, nella sfortuna: la frattura del cranio, essendo aperta, ha permesso all’edema cerebrale di gonfiarsi e la pressione non ha causato danni così gravi come sarebbe successo in caso contrario. Ora è in coma farmacologico in modo che il suo corpo possa rigenerarsi... ma non è ancora fuori pericolo.»
Renate Basedow guardò Pia da sopra il bordo degli occhiali da lettura. Granelli dorati di polvere danzavano nei raggi di sole che filtravano dalla finestra. Per un istante regnò la quiete.
«Perché sono qui?»
Renate Basedow la fissò.
«Ho chiuso un occhio troppo spesso, quando invece avrei dovuto mostrare coraggio. Ma avevo paura delle conseguenze, lo confesso. Adesso tre persone che conoscevo bene sono state uccise, e una ragazza, che ha tutta la vita davanti a sé, rischia di morire. Non posso continuare a fingere che quello che succede qui non sia affar mio.»
Le sue dita giocavano irrequiete con le stanghette degli occhiali.
«Quasi tutti quelli che vivono qui sono miei pazienti. Molti di loro da trent’anni» continuò la dottoressa, senza un filo logico apparente. «Conosco i nomi, le malattie, e sono a conoscenza delle loro relazioni familiari, ma spesso penso di non conoscerli affatto. Ai loro occhi sono un’immigrata e probabilmente lo rimarrò sempre, anche se vivo qui fin dall’infanzia. I miei genitori sono stati tra i primi a costruire una casa nella vecchia cava, che all’epoca era un’area di recente urbanizzazione. Me ne sono andata per studiare, ho lavorato a Berlino, poi a Francoforte. La maggior parte dei miei compagni di studio e colleghi sognava grandi carriere, io no. Ho sempre voluto essere un medico di campagna. Per questo sono tornata a Ruppertshain quando mia madre mi ha detto che il dottor Lessing cercava qualcuno a cui cedere l’ambulatorio.»
Sospirò.
«I Lessing vivono qui da generazioni. Il dottore era stimato e rispettato... ed era un uomo. Io, invece, ero una donna giovane e discretamente attraente, e quindi di me non ci si poteva fidare. Quando mi incrociavano per strada mi sorridevano ma, sotto sotto, mi boicottavano. Di nascosto, la gente continuava a chiedere consiglio al vecchio medico invece di venire da me. Se non avessi convinto i Lessing ad affiancarmi per qualche tempo, probabilmente sarei andata in bancarotta nel giro di sei mesi. Lui era il “dottore”, ma era la moglie a tirare le redini dietro le quinte.»
«Perché il dottor Lessing le aveva ceduto lo studio? Era già così vecchio?» Pia non era brava a contare, ma se Peter Lessing aveva la stessa età di Bodenstein, allora suo padre non avrebbe avuto motivo di ritirarsi nel 1984.
«No, era malato. Parkinson» rispose la dottoressa, concisa. Si fermò per un momento e, quando riprese a parlare, il tono di voce era cambiato, prendendo una nota decisamente distaccata. «Due anni dopo è morto per un attacco cardiaco, con gran sorpresa di tutti. A soli sessant’anni. Al funerale si è riunito tutto il paese, ma nessuno ha versato una lacrima per l’uomo a cui dovevano così tanto. Fingevano sgomento, ma sotto sotto erano contenti che fosse morto. Fino ad allora avevo creduto che tutti lo stimassero, ma era il contrario. In realtà, lo odiavano.»
«Come mai?»
«Si dava delle arie per essere stato uno dei primi in paese a studiare e a ottenere una specializzazione, e gli piaceva far pesare la propria superiorità. Con un sorriso gentile sul viso, colpiva ogni punto debole delle persone. Era un uomo malvagio. E la moglie era ancora peggio. Era felice solo quando poteva seminare zizzania. Tutti avevano paura di loro. Dell’intera famiglia.»
L’ultimo commento attirò l’attenzione di Pia. Bodenstein non aveva detto la stessa cosa di Peter Lessing?
«Il fatto che le persone non siano fondamentalmente buone è stata forse la lezione più amara che abbia mai dovuto imparare in vita mia» continuò la dottoressa. «In passato ero ingenua e credevo senza ombra di dubbio nella bontà delle persone. Ma dietro le facciate amichevoli, a volte si spalanca un oscuro abisso di infamia ed egoismo. Il mio lavoro mi ha costretta a esplorare molti di questi abissi e pensavo che nulla potesse più sorprendermi. Ma piove sempre sul bagnato. Ci sono individui che farebbero meglio a non incontrarsi mai, perché tirano fuori il peggio l’uno dall’altro.»
Un’ombra le scese sul volto, per un breve istante la dottoressa non controllò più la propria mimica facciale, rivelando un antico dolore causato da un insulto o da un rifiuto che non aveva mai superato.
«Di chi sta parlando?» domandò Pia con delicatezza, sebbene le fosse difficile mascherare l’impazienza.
«Di mia sorella minore, ad esempio» replicò la dottoressa, sorprendendola. «Purtroppo si era innamorata di Peter Lessing e, nonostante tutti gli avvertimenti, era andata a vivere con lui. Lessing la trattava come spazzatura, la umiliava e la mortificava ogni volta che poteva e la prendeva in giro davanti a tutti. Nel giro di poco è diventata solo l’ombra di se stessa. Poi Peter ha conosciuto Henriette. Ha rotto con mia sorella in modo brutale e poco dopo si è sposato in pompa magna all’hotel del castello di Kronberg. Mia sorella non è mai riuscita a superare i danni emotivi che Peter le ha inflitto. Ha sofferto di depressione ed è diventata un’alcolizzata. Alla fine si è suicidata. Aveva trentasei anni.»
La dottoressa tacque. Con le braccia incrociate sul petto, si mordicchiò il labbro inferiore, assorta nei suoi pensieri. Pia non dubitò neanche per un secondo di ciò che le aveva appena raccontato. Pensò alla freddezza con cui Peter Lessing aveva trattato la moglie e al gatto che aveva ammazzato quando aveva appena dieci anni.
«Crede che Elias sia capace di uccidere qualcuno?» domandò.
«Vorrei poterle dire di no con convinzione, ma non posso.» Renate Basedow emise un profondo sospiro e si appoggiò allo schienale della sedia girevole. «Chi può dire di cosa è capace una persona quando è messa con le spalle al muro? Elias ha fatto molte cose stupide, ma mai del male a qualcuno. Ha un carattere fragile.»
Negli occhi della donna, Pia notò qualcosa che andava ben oltre la preoccupazione professionale per un paziente, e si domandò cosa fosse. Elias Lessing stava a cuore alla dottoressa, ma perché? C’era forse un legame che glielo rendeva speciale?
«Sua sorella ci ha detto che quando aveva sei anni Elias l’ha spinta dalla finestra della loro casa in costruzione e che è incline alla violenza.»
«Non ho mai creduto a quella storia della finestra» replicò la dottoressa Basedow. «Ma non c’è modo di confutarla. Da bambino, Elias aveva difficoltà a leggere e a scrivere e grossi problemi a concentrarsi. I suoi genitori sono molto esigenti, così alle elementari l’avevano costretto a prendere lezioni private. A causa della pressione a cui è stato esposto, ha sviluppato problemi comportamentali. I Lessing non avevano più fiducia nella pediatra, così sono venuti da me, affermando che era schizofrenico. All’epoca aveva circa quattordici anni, ma non ho visto segni di schizofrenia, quindi ho consultato la pediatra. Mi ha spiegato che i Lessing avevano insistito perché Elias fosse visitato da uno specialista o persino ricoverato in una clinica psichiatrica, lei si era rifiutata e loro erano venuti da me. Quando anch’io ho detto loro praticamente la stessa cosa, si sono infuriati. Mi hanno insultato e mi hanno chiesto di non dire mai più “certe stronzate”, soprattutto davanti a Elias. Secondo loro, il ragazzo era malato di mente. Punto e basta.» Sbuffò, più frustrata che arrabbiata. «Allora non ho insistito. Peter Lessing sa farsi temere.»
«Ha cercato di intimidire anche me» rispose Pia. «È un maniaco del controllo che per sentirsi bene deve dominare sulla sua famiglia e su tutti quelli che lo circondano.»
Renate Basedow le rivolse uno sguardo indecifrabile. Approvazione? Stupore?
«Sono rimasta sbalordita quando ho capito che Peter ed Henriette volevano sbarazzarsi del figlio rinchiudendolo in una clinica per malati di mente solo per coprire il loro fallimento come genitori. Alla fine lo hanno fatto, lo hanno imbottito di farmaci di cui non aveva bisogno. Quello che mancava davvero a Elias era l’amore, la comprensione e la pazienza. Invece è diventato una vittima dell’iperprotettività da un lato e di pretese eccessive dall’altro. Si è ribellato, ha fatto ogni sorta di sciocchezze, è scappato di casa più e più volte e alla fine è scivolato nella tossicodipendenza. È una tragedia per la quale non ho potuto fare nulla. Quella che credo sia malata è la sorella. Letizia è una mitomane incallita. Sa manipolare le persone, è molto intelligente e non si fermerebbe davanti a nulla pur di raggiungere il suo obiettivo.»
«Come il padre.» Pia non fece mistero del fatto che Peter Lessing non le piaceva. «Elias è malato?»
«A mio parere no. Semplicemente non era in grado di fronteggiare lo stress da prestazione e se ne è liberato nell’unico modo possibile.» La dottoressa Basedow scrollò le spalle.
«Perché mi sta dicendo tutto questo?»
La dottoressa si sporse in avanti e fissò Pia con un’urgenza inquietante. Il suo corpo era rigido per la tensione, il respiro si era fatto accelerato. Sapeva qualcosa e aveva paura.
«In paese in questi giorni si parla molto, soprattutto da quando è stato trovato lo scheletro del bambino. Non so quanto lei sappia di quello che è successo all’epoca. Avevo quindici anni quando il bambino scomparve, ma ricordo ancora l’atmosfera e le voci...»
Il suono dell’apertura della porta dello studio la mise a tacere. Poi la porta si richiuse e dei passi scricchiolarono sul pavimento in laminato. Renate Basedow si mise il dito indice sulle labbra e si alzò. Il suo linguaggio del corpo cambiò quando tornò a ricoprire il ruolo di medico.
«Per essere sicure, è meglio fare una radiografia della spalla» disse a Pia. La sua voce sembrava neutra, disinvolta e rilassata. «Le farò un’impegnativa per il radiologo. Sì, cosa c’è, Petra?»
«Oh, volevo solo farle sapere che sono tornata, dottoressa!» La segretaria gettò uno sguardo curioso alle spalle del suo capo.
«Sì, grazie.» La dottoressa le fece un cenno con la testa. «Può darmi le schede delle visite a domicilio? E ho bisogno dei risultati di laboratorio della signora Roos e del signor Bornemann.»
Era evidente che Renate Basedow non si fidava della sua collaboratrice. Probabilmente non si fidava di nessuno.
«Subito, dottoressa.»
La rossa si ritirò dopo un’ultima occhiata e chiuse la porta dietro di sé.
«Di cosa ha paura?» domandò Pia, ma la donna si astenne dal rispondere. Aprì in fretta un cassetto della scrivania, tirò fuori una spessa busta sbiadita e gliela mise davanti.
«L’avevo trovata nell’ufficio del dottor Lessing» disse a bassa voce. «Era fissata sotto la sua scrivania con delle puntine. L’avevo aperta, ovviamente, ma non ero riuscita a dare un senso al contenuto. Poi l’ho dimenticata. Me ne sono ricordata solo dopo l’omicidio di Rosie. Non so ancora perché Lessing l’avesse conservata, ma spero che l’aiuti.»
«Grazie» rispose Pia. «E grazie soprattutto per la sua fiducia.»
«Mi chiami se ha domande. Conosce il mio numero.» La dottoressa le diede una stretta fugace alla mano e Pia lasciò l’ambulatorio.
Una porta in corridoio sbatté. Il cuore di Pia martellava mentre infilava in tutta fretta la busta nello zaino. Aveva la sensazione di aver finalmente trovato il bandolo della matassa che l’avrebbe guidata attraverso quel groviglio lungo decenni di bugie e segreti.
***
Pia si affrettò a scendere le scale. Kai aveva cercato di contattarla, ma prima di richiamarlo telefonò agli Haverland per controllare se Elias si fosse fatto sentire. La risposta fu negativa.
Erano quasi le due. Era curiosa del contenuto della busta, ma voleva aspettare di essere in ufficio per aprirla. Bodenstein non rispose al cellulare, quindi gli lasciò un messaggio in segreteria. Nonostante il sole splendente, la terrazza del ristorante Merlin era vuota; c’erano solo tre auto nel parcheggio. La stampa era in agguato in paese, aveva saputo da Bodenstein. I rappresentanti dei media si erano piazzati al Grünen Wald; per la birreria e il forno Pokorny dirimpetto era una manna dal cielo. Fino a quel momento, da quelle parti, non si era mai visto un giornalista a caccia di scoop.
Seguendo un impulso, Pia corse su per le scale del ristorante. Nella sala tutti i tavoli erano vuoti: la notizia dell’aggressione di Pauline aveva già fatto il giro, l’orrore e la paura avevano ripulito le strade e paralizzato il paese.
«Ciao, Pia!» Bandi, il proprietario, mise giù il telefono quando la vide, si alzò dal tavolo nell’alcova vicino all’ingresso. Era pallido in volto e visibilmente sconvolto. «Oggi sei la mia prima cliente e probabilmente l’unica. Vuoi mangiare qualcosa?»
«Sì.» ’Fanculo le calorie. «Una pizza con...»
«...tonno, capperi e acciughe» concluse Bandi, che conosceva i suoi gusti. «E una Coca light.»
«Esatto.» Pia gli sorrise e si sedette a un tavolo. Bandi scomparve in cucina e lei colse l’occasione per richiamare Kai. Lo stomaco le brontolò nel silenzio.
«Pia, il questore è appena arrivato» le disse Ostermann in un sussurro, come se temesse di essere sentito. «È nella sala comune con Engel. Stanno aspettando che tu torni.»
«Grazie, Kai. Finisco di mangiare e arrivo.»
La pressione crebbe. Pia conosceva il questore di Wiesbaden solo dalle foto e dalle circolari sull’intranet. Nessuno dei suoi predecessori aveva mai onorato della propria presenza la polizia giudiziaria di Hofheim nei dieci anni in cui Pia aveva lavorato lì. Perché era venuto? Prima di prendere una decisione sul successore di Bodenstein, voleva inquadrarla e verificare come procedeva il suo primo caso? Cosa avrebbe dovuto dirgli quando lui le avrebbe chiesto i risultati?
«Hai notizie del capo e di Cem?»
«Il capo vuole rivolgersi a un esperto di interrogatori per Ralf Ehlers» la informò Kai. «Oh, già, nel fienile del mulino hanno scoperto una bella piantagione di cannabis. Con illuminazione, riscaldamento, sistema di irrigazione e tutti gli annessi e connessi. Christian e i suoi uomini sono già lì e i colleghi dell’antidroga stanno arrivando.»
«Ah, ora capisco cosa ci faceva Ehlers con le bombole del gas e la benzina.» Pia scosse la testa. «Sosteneva di aver affittato il fienile ad alcuni turchi che fanno dolci.»
«Se uno considera uno spinello come un dolce, non ti ha proprio detto una bugia.» Kai era divertito. «Oh, be’, a presto.»
Bandi tornò dalla cucina e le posò sul tavolo una Coca light.
«È terribile quello che sta succedendo qui» disse sedendosi di fronte a lei. «Conosco Pauline da quando era bambina. Ha lavorato per me come cameriera per un po’ prima di cominciare i suoi studi. Chi può fare una cosa del genere?»
«Speriamo di scoprirlo presto.» Pia bevve un sorso e contemplò l’indiano che conosceva gli abitanti di Ruppertshain meglio di loro stessi. «Quando è stata l’ultima volta che l’hai vista?»
«Non molto tempo fa.» Il ristoratore aggrottò la fronte riflettendoci, poi il suo volto si illuminò. «Sabato? Sì, era sabato. Nel parcheggio del cash & carry a Eschborn. Era lì con qualche amico e spingevano un carrello pieno di spesa.»
Era in linea con quanto aveva detto Simone Reichenbach.
«Conoscevi qualcuno di questi amici?»
«Di vista. Fanno parte di un’associazione per la tutela della natura. Pauline viene spesso qui con loro. Purtroppo non so come si chiamino. Ma... sì, ne conosco una. La figlia di Wieland.»
«La guardia forestale?»
«Sì, esatto.»
«Mmm. Che ora era?»
«Prima di pranzo. Dovevo comprare il filetto di manzo, il fornitore se l’era dimenticato. Quindi, sì, prima di mezzogiorno.»
«Grazie. Mi è di grande aiuto.»
Rimasero in silenzio per un momento. Dalla cucina proveniva un brusio attutito di voci. Una mosca ronzava contro il vetro della finestra.
«Mia moglie mi ha detto che oggi hanno chiuso l’asilo» annunciò Bandi, cupo. «Tutti i genitori sono dovuti andare a prendere i figli. E probabilmente chiuderò anch’io. Tanto non verrà nessuno.»
«Cosa si dice in paese?» domandò Pia. «Ti arriva sempre qualche voce, no?»
«Hanno tutti paura.» Bandi scosse la testa. «Tutti pensano di essere il prossimo.»
«E tu? Anche tu hai paura?»
Il ristoratore esitò, poi scrollò le spalle.
«Sì. Anch’io. Tutti sanno che conosco molte persone. Forse l’assassino pensa che io sappia qualcosa, anche se non è così.» Si sporse leggermente in avanti e abbassò la voce. «Basta che qualcuno ti veda uscire di qui. Capisci cosa intendo?»
«Sì, capisco.» Pia annuì. La sfiducia e la paura si trasformavano in pericolose paranoie a una velocità impressionante. Quanto tempo ci sarebbe voluto perché la paura si trasformasse in rabbia e la gente iniziasse a cercare un capro espiatorio?
«Manderò la mia famiglia da amici» disse Bandi. «Finché non sarà tutto finito.»
Arrivò la pizza. Pia se la fece mettere nel cartone, pagò e lasciò il ristorante.
Il ristoratore indiano non era certamente l’unico a pensarla così. Tutto il paese era in subbuglio e lei non poteva farne una colpa agli abitanti. Quei crimini non erano delitti passionali che si verificavano di tanto in tanto, spesso scatenati dall’alcol o dalla gelosia, dopo i quali le persone tornavano alla normalità nonostante lo spavento. Qualcuno stava perseguendo un piano omicida e non esitava a uccidere anziani e giovani donne. E si nascondeva tra loro.
***
Nonostante il questore la stesse aspettando, Pia fece una deviazione per parlare con Ronja Kapteina, la figlia della guardia forestale. Davanti alla casa del guardaboschi, che non era lontana dalla tenuta Bodenstein, in mezzo agli alberi, c’erano molte auto parcheggiate e Pia riconobbe qualche reporter.
«Domani avrete aggiornamenti!» si limitò a dichiarare alla tempesta di domande sulle condizioni di Pauline e sullo stato delle indagini, e si diresse verso la porta d’ingresso, che venne leggermente aperta, con cautela.
Pia mostrò il distintivo alla donna minuta con i capelli corti color melanzana.
«Ci assediano da ore» si lamentò Madeleine Kapteina. «Come fanno a sapere che Ronja è amica di Pauline?»
«Anche i giornalisti vanno su Facebook. Non ci vuole una gran scienza a scoprire chi è amico di chi. Devo parlare con sua figlia. C’è?»
«Sì, è in cucina, venga. E le dica di Facebook e di tutta quella robaccia di internet! Litighiamo sempre perché lei pubblica subito ogni stronzata. Penso che sia da incoscienti. Tutti possono sapere dove si trova e cosa sta facendo!»
Ronja Kapteina era seduta al tavolo della cucina davanti al suo portatile e – come Pia temeva – era impegnata a strombazzare su Facebook, Instagram e Twitter la propria preoccupazione per la sua migliore amica.
«Non riesco a capire» rispose scoppiando a piangere quando lei le chiese quando aveva parlato con Pauline l’ultima volta. «È orribile! Però la gente scrive cose molto carine. Guardi! #Prayforpauline! In qualche modo mi conforta.»
Tirò su col naso e girò il portatile per mostrarle lo schermo. Apparve la pagina Facebook di Pauline Reichenbach.
«Non ci facilita il lavoro, alimentando le speculazioni sui social» disse Pia, e si ripromise di chiedere a Tariq di sospendere momentaneamente il profilo di Pauline.
Si conoscevano sin dall’asilo, le raccontò Ronja e, nonostante l’evidente stato di shock, cercò di rispondere alle domande con sincerità. Sabato erano in effetti andate a fare la spesa al cash & carry, per una festa di compleanno che si era svolta la sera a Ginnheim, nella fattoria dei genitori dell’amico. Anche se Pauline aveva promesso di raggiungerli verso le nove e mezza, non si era presentata. Ronja le aveva inviato alcuni messaggi su WhatsApp, ai quali Pauline aveva risposto una volta. Quando intorno alle undici non si era ancora fatta vedere, Ronja l’aveva chiamata più volte al cellulare. Prima era partita la segreteria telefonica, poi le chiamate non erano più state inoltrate. Ronja mostrò volentieri a Pia la sua ultima chat di WhatsApp con l’amica.
Ho quasi fatto, devo solo salvare il mondo nel bosco, aveva scritto Pauline, aggiungendo qualche emoticon.
«Non ho idea di cosa volesse dire.» Ronja Kapteina prese un fazzoletto dal dispenser accanto a lei sulla panca e si soffiò il naso. «Ma è tipico di Pauline. Ha la sindrome della buona samaritana. La chiamiamo la Madre Teresa del Taunus, per ridere.»
Quando Pia chiese del rapporto di Pauline con il padrino Ralf, Ronja tergiversò finché lei non andò a chiudere la porta della cucina.
«Che cosa fate al mulino?» chiese alla giovane donna. «È una specie di comune hippy? Fumate canne, uno suona il sitar e lo zio Ralf è il grande guru che sceglie una di voi fanciulle quando siete fatte?»
Ronja arrossì.
«Non so perché tutti pensino male di Ralf» disse in tono scontroso. «È un tipo a posto. Se qualcuno non sa dove andare, può dormire da lui. E al mulino c’è sempre qualcosa da fare.»
«Ralf ha una relazione con Pauline?»
«Sì, può essere» ammise la ragazza. «Ma non è una cosa fissa. Un vero peccato.»
«Peccato?» ripeté Pia, incredula.
«Ecco... Si sente solo.» Ronja scrollò le spalle. «E Pauline è di animo buono.»
Pia scosse la testa. Se Ralf Ehlers avesse scoperto la vera ragione dell’affetto di quella venticinquenne, sarebbe stato un duro colpo per il suo ego.
Poi Ronja disse che Pauline non aveva assolutamente nulla a che fare con la piantagione di cannabis; pensava che la droga fosse una gran stronzata. Fino ad allora, la ragazza aveva risposto senza esitare a tutte le domande, anche se spesso interrotta dai singhiozzi, ma quando Pia menzionò Elias Lessing, si fece esitante.
«Pauline una volta ha inchiodato la macchina per portare un rospo da un lato all’altro della strada» disse Ronja. «Credo che Elias sia una specie di progetto-rospo per lei.»
Pia ringraziò la ragazza per le informazioni, le consigliò di stare attenta all’uso dei social, poi la salutò. Quando tornò in macchina, il suo smartphone le segnalò che aveva ricevuto un’e-mail. Henning aveva inviato il rapporto preliminare dell’autopsia sullo scheletro di Artur Berjakov. Quando dovette fermarsi al semaforo di Fischbach, aprì il file allegato, diede una scorsa alle prime frasi e decise di chiamare direttamente il suo ex marito. Rispose subito.
«Cos’è che significava perimortem?» chiese senza darsi la pena di salutarlo.
«Dovresti saperlo» replicò Henning, sarcastico. «Le lesioni perimortem sono quelle che si verificano nel lasso di tempo immediatamente prossimo al decesso di un individuo, cioè poco prima, durante o anche poco dopo la morte.» Senza abbandonare il tono saccente, rinunciò al gergo medico e passò a un linguaggio più comprensibile. «Lo scheletro era ben conservato, con molta probabilità il cadavere non è stato mai spostato dopo la sepoltura. La vittima ha subito fratture ossee multiple, ma non ho rilevato reazioni vitali del tessuto osseo, come la formazione di un callo incipiente, il che suggerisce ancora una volta che le fratture si sono verificate poco prima della morte, ma a mio parere non in contemporanea, e hanno avuto cause diverse. La frattura del polso destro e le rotture nette dell’ulna e del radio, così come la frattura del calcagno e della caviglia destra, indicano una caduta da una certa altezza. Questo tipo di lesioni al braccio e alla mano sono tipiche del tentativo di attutire una caduta. Le fratture comminute del femore destro e sinistro, quasi alla stessa altezza, suggeriscono che la vittima sia stata travolta da un veicolo mentre era sdraiata sulla schiena o sullo stomaco.»
«Il bambino è stato investito?» Pia si massaggiò con la nocca la tempia destra, dietro la quale le pulsava un mal di testa lancinante. «Quindi potrebbe essere stato ucciso in un incidente?»
«Pia, ti prego!» l’ammonì Henning. «È una mera supposizione che abbiano investito il bambino con un’auto. Se deliberatamente o accidentalmente, in tutta onestà non posso dirlo.»
Per un po’ Pia non disse nulla e cercò di dare un senso a quello che aveva sentito. E se Artur non fosse stato ammazzato? Faceva qualche differenza il modo in cui era morto?
«Ti piacerebbe sentire la mia inutile opinione su ciò che potrebbe essere accaduto, e sottolineo: potrebbe?» chiese Henning.
«Sì, certo.» Di rado il suo ex si abbandonava a speculazioni, era interessante guardare il caso dal punto di vista di un medico legale. Pia frugò nello zaino sul sedile del passeggero in cerca di un analgesico.
«Il bambino era ferito, probabilmente non poteva muoversi.» Henning si schiarì la gola. «Lo sai che non è nel mio stile fare supposizioni del genere, ma immagino che in qualche modo abbia raggiunto una strada sperando di trovare aiuto. Invece, è stato investito. Cos’è questo fruscio? Ma mi stai ascoltando?»
«Sì, certo. Cerco una pastiglia per il mal di testa.»
«Dovresti bere più liquidi.»
«Sì, papà.» Pia aveva trovato il blister e tirò fuori una pastiglia. Nel frattempo, teneva d’occhio la strada. «Sono stravolta.»
«Della serie: hai voluto la bicicletta...» rispose Henning, secco. Pia ingoiò la pillola senz’acqua. «Le ossa di animale provengono chiaramente da un esemplare del genere Vulpes vulpes, meglio conosciuto come volpe comune o volpe rossa. Ho consultato uno specialista per l’esame dello scheletro e sono d’accordo con lui che la volpe ha subito una frattura cervicale, il che probabilmente ha portato alla sua morte. Tuttavia, l’animale aveva anche diverse fratture costali e una frattura del cranio.»
Involontariamente, il ricordo della foto che Bodenstein le aveva mostrato balenò nella testa di Pia. Inka Hansen aveva preso a calci la volpe di proposito o si era difesa perché l’aveva aggredita?
Ringraziò Henning e riattaccò. Forse era stato tutto molto più banale di quanto pensassero. Forse Rosie Herold aveva investito il bambino per sbaglio e aveva nascosto il suo corpo in preda al panico, quando si era resa conto che non respirava più. Forse aveva bevuto e temeva problemi con la polizia. Artur era morto sul colpo? Se l’auto gli era solo passata sulle gambe, magari no. Ma come aveva fatto Rosie a sollevare quella pesante lapide da sola? Aveva chiesto aiuto al marito? O a qualcun altro? E perché la volpe morta era stata messa insieme al bambino nella tomba? Chi poteva voler nascondere la verità dopo più di quarant’anni, al punto da stroncare la vita di tre esseri umani con una tale brutalità? Era tutto così folle. Oppure no?
Pia sospirò. Tre morti e un’aggressione che potevano essere o meno collegate tra loro. Una rete quasi impenetrabile di supposizioni e segreti. Come poteva sbrogliare tutto senza commettere un errore che mettesse in pericolo un’altra vita?
***
L’incertezza era insopportabile. Perché Pauline non era stata da Nike, come gli aveva promesso? Almeno quella mattina era riuscito a parlarle, anche se solo per poco. Aveva una voce bizzarra, così diversa dal solito. Innaturale. E lui aveva avuto una strana sensazione. Aveva finto di fare jogging con i cani a Bad Soden, davanti alla casa dei genitori di Nike, sperando di vederla di sfuggita, ma invece di Nike aveva notato una sconosciuta alla finestra. E nel vialetto della casa degli Haverland c’erano due auto fin troppo poco appariscenti, con la targa di Wiesbaden. Solo gli sbirri guidavano macchine del genere! La donna alla finestra era una poliziotta! Fissava la strada ma non lo aveva riconosciuto. Evidentemente, con i capelli corti e gli occhiali, era molto diverso. Quindi gli sbirri si aspettavano che si presentasse da Nike, il suo sospetto era giustificato: avevano messo una cimice nel cellulare di Nike, al cento per cento! La delusione che lei fosse complice di un tale gioco infame per attirarlo in una trappola si era dissipata alla svelta. Probabilmente gli sbirri e i suoi l’avevano costretta a farlo.
Quello che non riusciva a capire era perché Pauline non le avesse portato la lettera, come aveva promesso. E che ci aveva fatto con il suo smartphone? Non vedeva l’ora di portarlo agli sbirri, e lui si fidava di lei. Aveva lasciato i cani al mulino e aveva guidato per ore alla sua ricerca, ma invano. Non era né con i suoi genitori né nel suo appartamento. Aveva addirittura spento il cellulare! La sua ultima speranza era Ralf. Lui sapeva sempre tutto.
Era sulla strada che portava a Schloßborn e stava per mettere la freccia, quando incrociò due pattuglie che imboccavano la sterrata nel bosco. Ebbe un tuffo al cuore e si costrinse a non farsi prendere dal panico prima di accelerare. Lo stavano cercando al mulino? Ralf aveva fatto la spia?
E adesso? Non gli restava che la Casa degli amici del bosco. Felicitas sarebbe stata incavolata nera con lui, e a ragione, ma non gli avrebbe mica staccato la testa. A volte sembrava contenta che lui le tenesse compagnia e che non fosse costretta a marcire da sola nel bosco. Era un disastro totale, esattamente come lui.
Attraversò Schloßborn in direzione di Glashütten, svoltò sulla B8 e dieci minuti dopo raggiunse il sentiero che portava alla Casa degli amici del bosco. In testa si ripeté più volte la spiegazione che avrebbe dato a Felicitas. Prima l’avrebbe fatta sfogare un po’, poi avrebbe chiesto scusa. Funzionava sempre. Qualche parolina gentile e si sarebbe sciolta come burro nella padella calda. Parcheggiò la Land Rover Defender nel garage, afferrò lo zaino e si diresse verso la casa.
La porta d’ingresso era solo socchiusa, il che lo sorprese un po’. Era riuscita a liberarsi dal bagno cieco del primo piano? All’improvviso non si sentiva con la coscienza a posto. Era stato via molto più a lungo del previsto e nel frattempo si era completamente dimenticato di Felicitas.
«Sono tornato!» gridò.
Al piano di sopra non si mosse nulla. Lasciò cadere lo zaino sul pavimento e diede un’occhiata in cucina. Nulla. Sul tavolo c’era solo il cavatappi, sul quale era ancora infilzato un tappo di sughero. Quindi era riuscita a uscire dal bagno. La sua coscienza sporca si placò un po’. Probabilmente era a letto, ubriaca. Spinse la porta del bagno, accese la luce con il gomito e il cuore gli si fermò. Il suo cervello si rifiutava di comprendere ciò che i suoi occhi vedevano. Sentì un rumore, un gemito soffocato, e gli ci volle qualche secondo per rendersi conto che era uscito dalla sua bocca. Con la forza di un martello da fabbro, il cuore riprese a battere, iniziò a sudare freddo in preda all’orrore. L’acido gastrico risalì nell’esofago.
«Merda!» esclamò premendosi una mano sulla bocca e barcollando di nuovo nel corridoio. Riuscì a malapena ad arrivare fuori, poi vomitò finché il sangue non gli arrivò alla testa e vide le stelle. Singhiozzando, si rannicchiò per terra, con le lacrime che gli scendevano sul viso. Felicitas era morta! Non aveva mai visto così tanto sangue in vita sua! Gli sbirri gli avrebbero addossato la colpa, senza dubbio! Le sue impronte digitali erano dappertutto, i suoi vestiti in ogni angolo. Doveva tagliare la corda, subito. Ma dove poteva andare?
***
«Engel ti vuole vedere all’istante» la informò il collega di guardia, quando Pia passò il blocco di sicurezza. «Nessuna deviazione, ha detto.»
«Ricevuto.» La porta di vetro si spalancò con un ronzio e lei andò dritta verso le scale. Ma poi si ricordò della busta nello zaino, girò i tacchi ed entrò nella sala comune. Tutte le scrivanie erano vuote, solo Kai occupava la sua postazione.
«Eccoti qua!» Alzò gli occhi dal computer. «Engel vuole vederti...»
«Lo so. Vado subito.» Pia tirò fuori la busta logora e la porse a Ostermann. «Non so cosa ci sia dentro. La dottoressa di Ruppertshain me l’ha passata prima. Forse puoi darci un’occhiata. Potrebbe essere spazzatura totale, ma potrebbe anche essere importante.»
«Certo.» Kai annuì. «Abbiamo quasi finito con il profilo dell’assassino. E Gianni Lombardi è arrivato. Ti aspetta per interrogare Ehlers.»
Pia annuì e si affrettò su per le scale fino al primo piano. Come ai tempi della scuola, quando veniva chiamata dalla preside, i pensieri le si accavallarono nella mente. Non traeva alcun vantaggio dalla relazione di sua sorella con la direttrice – anzi, il contrario – e Nicola Engel si atteneva scrupolosamente all’etichetta negli incontri privati. Dare del tu era impensabile e neppure la stessa Pia lo avrebbe voluto. Ma cosa voleva la direttrice? Le avrebbe fatto una ramanzina perché brancolavano ancora nel buio e non avevano fatto progressi reali? Aveva dimenticato o trascurato qualcosa? O qualcuno si era lamentato di lei?
Arrivata alla porta, Pia fece un respiro profondo, bussò ed entrò. L’assistente della direttrice le fece segno di passare. Alla scrivania, Nicola Engel stava leggendo qualcosa sul suo smartphone, ma lo mise via non appena lei apparve sulla soglia.
«Ah, è arrivata.» Era truccata e vestita alla perfezione come sempre, solo i suoi occhi dicevano che non aveva dormito molto la notte precedente. «Prego, si sieda. Come procede l’indagine?»
«Ehm...» esordì Pia, sentendosi particolarmente stupida. «Io... ci sono stati dei progressi stamattina.»
«Bene.» La direttrice sventolò la mano. «Mi racconterà tutto in presenza del questore.»
Emise un sospiro, sentendosi in difficoltà.
«Odio farlo durante un’indagine in corso. Cose del genere fanno perdere la concentrazione. Ma il questore ha insistito.»
“Ci siamo” pensò Pia, colma d’angoscia. “Ora mi toglie la direzione delle indagini e mi dirà che sarà Cem a succedere a Bodenstein.”
Le sudavano le mani e le faceva di nuovo male la testa.
«Già si immaginerà di che si tratta» disse Nicola Engel in tono professionale. «È sulla bocca di tutti.»
«Sì.» Pia sorrise a fatica. All’improvviso sentì di non poterne più. Si faceva in quattro, ma i grandi capi di Wiesbaden non lo apprezzavano. Con Nicola Engel, il comando regionale di polizia giudiziaria era già diretto da una donna, e non ne avrebbero messa una seconda a capo dell’ufficio 11. E la direttrice, che non voleva certo essere accusata di nepotismo, molto probabilmente aveva favorito Cem. Pia non aveva insistito per prendere il posto di Bodenstein, ma in segreto ci aveva un po’ sperato. La delusione crebbe in lei. Sarebbe stata giudicata come una sconfitta, dopo che più volte era stata informalmente a capo dell’ufficio 11? Ci avrebbe perso la faccia?
«A Wiesbaden hanno deciso chi sostituirà il signor von Bodenstein durante il suo periodo di congedo, o forse anche per più tempo» dichiarò la direttrice. «Il questore mi ha appena comunicato che hanno deciso di affidare a lei la gestione dell’ufficio 11. Congratulazioni.»
«Cosa?» Pia fissò la donna, il cuore che martellava, la bocca spalancata.
«Ho sostenuto la sua nomina, signora Sander. E non per ragioni politiche. Sono dell’opinione che lei sia il miglior successore che possiamo trovare per Bodenstein. Ora risolva il caso e non mi deluda.»
«Ehm, sì... sì, certo» balbettò Pia, completamente spiazzata da quella svolta inaspettata. «Grazie.»
«Non mi deve ringraziare. È una poliziotta eccellente e questa promozione è più che meritata.» La direttrice sorrise. «Ma non faccia più aspettare il questore. Ci vediamo presto.»
***
Stordita, Pia scese le scale per il piano terra. Capo dell’ufficio 11! Oddio! È una poliziotta eccellente! All’improvviso si sentì un’imbrogliona. Era davvero all’altezza del compito? Temeva i cambiamenti che la sua nuova posizione avrebbe inevitabilmente portato. I suoi colleghi l’avrebbero accettata come loro superiore? Aveva almeno l’autorità necessaria per imporsi?
«Tutto bene?»
Pia si girò di scatto, sorpresa. Kathrin Fachinger era uscita dal bagno e la guardava con preoccupazione.
«Sei bianca come un cencio.»
«Devo aver mangiato la pizza troppo alla svelta» mentì Pia, arrabbiandosi subito con se stessa. Doveva essere contenta della fiducia del questore e della direttrice e orgogliosa di sé, invece di lasciarsi divorare dal dubbio! Al suo posto, Cem avrebbe aperto con il botto diverse bottiglie di champagne, e probabilmente avrebbe richiesto nuovi biglietti da visita seduta stante.
Entrarono nella sala comune. Kim era seduta a uno dei tavoli piegata sul suo MacBook. Cem e Tariq erano arrivati; c’era anche Bodenstein che parlava con il questore, la sua addetta stampa personale e un uomo alto, dai capelli grigi, che Pia conosceva dai corsi di perfezionamento. Gianni Lombardi era un rinomato specialista in interrogatori, autore di diversi libri considerati testi di base e docente presso l’Accademia di polizia. Tuttavia, lei si diresse al tavolo su cui Kai aveva sparpagliato i suoi documenti. Fece segno a Tariq di raggiungerla.
«Stai bene?» chiese al giovane collega.
«Sì, tutto okay» la rassicurò lui.
«Il profilo Facebook di Pauline è stato cancellato fino a nuovo ordine?»
«Sì. Ma non ho voluto perdere tempo con una richiesta ufficiale e...»
«Fermo! Se hai fatto qualcosa di illegale, non voglio saperlo.» Pia annuì e si rivolse a Kai. «Vorrei che presentaste le vostre scoperte e il profilo del colpevole.»
«Okay.» Ostermann annuì.
«Cosa c’era nella busta?» chiese Pia.
«Vecchie cartelle cliniche, referti medici, protocolli. Sai cosa significano?»
«Posso solo immaginarlo.» Pia guardò il suo capo. Doveva assolutamente riferirgli della conversazione con la dottoressa Basedow e Ronja Kapteina. Ralf Ehlers era seduto in una delle stanze interrogatori e dovevano discutere del rapporto preliminare dell’autopsia su Artur Berjakov. Doveva anche spiegare la sua strategia ai colleghi. «Prima ce la sbrighiamo con il questore, poi ci incontreremo nella sala riunioni al piano di sopra. Solo l’ufficio 11, oltre a Christian, Kim e Lombardi.»
«Va bene, capo» rispose Kai e Pia sussultò leggermente. Gli lanciò un’occhiataccia. La notizia era già trapelata? Ma il collega aveva già chinato la testa sulle vecchie cartelle cliniche e non sembrava aver avuto secondi fini.
Controllò un attimo lo smartphone e si avvicinò a Bodenstein, salutò Gianni Lombardi e fece un cenno a Stefan Smykalla, l’addetto stampa dell’RKI, che non aveva un’aria particolarmente felice. Erano giorni che lo inondavano di domande e il telefono gli squillava ininterrottamente.
«Piacere di conoscerla, signora Sander.» Il questore le strinse la mano. Occhi scuri e indagatori che la scrutavano intensamente, una stretta di mano ferma e asciutta. «Stavamo parlando della conferenza stampa. Penso che sarebbe sensato tenerla alla questura di Wiesbaden. La logistica è ottimale. Organizzarla non sarà un problema, vero, signora Völker?»
«Assolutamente no» affermò la sua addetta stampa, e Pia capì perché Smykalla sembrava così frustrato.
«Grazie per l’offerta» replicò. «Ma terremo la conferenza stampa nella sala polivalente di Ruppertshain. Con la partecipazione degli abitanti.»
Il suo sguardo incrociò quello di Bodenstein e lesse approvazione nei suoi occhi.
«La ritiene una buona idea?» chiese la signora Völker, dubbiosa. «Tutto il paese è in tilt al momento.»
«Appunto» disse Pia, guardando Bodenstein. «Tu cosa ne pensi?»
«È una buona idea» rispose il capo. «Dopo l’aggressione a Pauline Reichenbach, abbiamo più che mai bisogno dell’aiuto della popolazione e dobbiamo mettere in guardia gli abitanti di Ruppertshain. Partiamo dal presupposto che l’assassino viva lì o che abbia legami molto stretti in paese.»
«Si riferisce al caso di quarantadue anni fa?» Nicola Engel si era unita al gruppo e non si sforzò di nascondere il proprio scetticismo. «Le ricordo che il suo dipartimento ha tre omicidi e un caso di aggressione da risolvere.»
Pia notò quanto Bodenstein fosse snervato. Quando aprì la bocca per rispondere, gli toccò brevemente il braccio.
«Abbiamo ragione di sospettare che il movente del nostro colpevole abbia in effetti a che fare con la morte di Artur Berjakov» disse. «Finora non abbiamo prove e stiamo ancora aspettando i risultati dal medico legale e dal laboratorio. Con una conferenza stampa a Ruppertshain, spero di raggiungere persone che potrebbero tacere perché non vedono il legame tra i due eventi o perché vogliono proteggere il colpevole per un senso di lealtà malriposto. Ora come ora, tutto il paese è sotto shock: l’asilo è chiuso, i ristoranti anche. Regnano paura e insicurezza e dobbiamo sfruttare questo momento a nostro vantaggio.»
«E se poi l’assassino si facesse prendere da una furia omicida per la paura di essere scoperto?» Nicola Engel non si faceva convincere facilmente. «Vuole assumersi questa responsabilità, signora Sander?»
«È già in preda a una furia omicida» replicò Bodenstein al posto di Pia. «Ha ucciso tre persone in quattro giorni e ha aggredito quasi mortalmente una ragazza.»
Dopodiché, nessuno osò aprire bocca. Fu il questore a rompere il silenzio, chiedendo a Pia di aggiornarlo sullo stato delle indagini. Tutti i presenti presero posto.
«La situazione attuale è la seguente» esordì lei. «Stamattina Pauline Reichenbach è stata trovata gravemente ferita su un prato fuori Ruppertshain. Ha superato l’intervento chirurgico, ma è in coma farmacologico e non è ancora fuori pericolo. Pauline è responsabile di un progetto di monitoraggio dei gatti selvatici per l’associazione per la tutela della natura. Giovedì ci ha mostrato le riprese di una delle sue telecamere in cui qualcuno correva per il bosco, poco dopo l’incendio della roulotte. Questa persona era il diciannovenne Elias Lessing di Ruppertshain, che da allora è ricercato. Anche Pauline Reichenbach è di Ruppertshain ed è la figlioccia di Ralf Ehlers, che abbiamo fermato in via precauzionale perché le sue impronte digitali sono state trovate sull’arma usata per l’aggressione, un piede di porco. Oggi si svolgerà l’interrogatorio.»
Guardò i volti attenti. Nessuno pose domande.
«Se le impronte digitali di Ehlers siano la prova della sua colpevolezza è ancora da vedere. In ogni caso, sono bastate per ottenere un mandato di fermo. In relazione all’omicidio di Rosemarie Herold, è stata trovata una sciarpa appartenente al figlio Edgar. Clemens Herold è stato ucciso con un martello, che possiamo ugualmente attribuire al fratello Edgar. La roulotte è stata incendiata grazie a delle bombole di gas propano, che avrebbero potuto essere di proprietà di Edgar Herold o Ralf Ehlers.»
«Pensa che qualcuno ci stia portando di proposito su una falsa pista?» chiese il questore.
«È una possibilità, che a sua volta suggerisce che il nostro colpevole sta seguendo un piano elaborato con meticolosità.» Pia annuì. «Forse ha facile accesso alla proprietà e alla bottega di Edgar Herold o al mulino di Ralf Ehlers, e non attira l’attenzione perché tutti lo conoscono. Lo stesso Herold non è più un sospettato ai nostri occhi, ha degli alibi che lo scagionano.»
«Vuole entrare così in dettaglio anche domani?» domandò l’addetta stampa, scettica.
«Naturalmente solo quel che serve ai nostri fini investigativi» rispose Pia con impazienza. «Ma se chiediamo collaborazione alle persone, dobbiamo dare alcuni nomi e luoghi. Renderemo senz’altro pubblico il profilo dell’assassino. I colleghi Ostermann e Omari e la dottoressa Freitag hanno preparato un dossier. Prego, Kai.»
Kai annuì e aprì il portatile.
«In primis, abbiamo esaminato la questione dal punto di vista criminologico e abbiamo anche tenuto conto del caso Artur Berjakov dopo aver studiato il fascicolo del 1972. Abbiamo analizzato i singoli casi e non abbiamo trovato alcuna prova di componenti sessuali, né un approccio sadico.»
Lo sguardo di Pia incrociò quello di Kim. La sorella le strizzò l’occhio e lei non poté fare a meno di sorridere. Nicola Engel l’aveva già informata della sua promozione.
«Per ogni crimine c’è un fattore scatenante e un movente» continuò Kai. «Il fattore scatenante dei primi tre omicidi è stato qualcosa che Rosemarie Herold ha detto e forse ha fatto, ormai è assodato. La ricerca del movente è più difficile. La domanda chiave è: perché è così importante per l’assassino che non si sappia nulla della morte di Artur? Che cos’ha da perdere?»
«Esiste anche la possibilità che gli omicidi non abbiano assolutamente nulla a che fare con Artur Berjakov» obiettò Nicola Engel. «Perché qualcuno dovrebbe commettere tre omicidi solo per coprire qualcosa successo quarantadue anni fa?»
«Perché questo qualcuno sa che il reato di omicidio non cade in prescrizione» ribatté Kai. «Ecco perché supponiamo anche che Artur sia stato assassinato e Rosemarie Herold lo sapesse o fosse addirittura coinvolta. Lo ha raccontato al parroco quando si è resa conto che sarebbe morta. E il parroco, che conosceva l’assassino, gli ha parlato. L’omicida si è sentito sotto pressione e non ha visto altra soluzione che mettere a tacere tutti coloro che ne erano a conoscenza. Se Pauline sia venuta a sapere qualcosa da Elias, mettendo così i bastoni tra le ruote all’assassino, o se sia stato un tragico danno collaterale, dobbiamo ancora stabilirlo.»
«Supponiamo che le vostre ipotesi siano corrette... perché ha dato fuoco alla roulotte?» domandò la direttrice.
«Perché aveva paura che Rosie Herold vi conservasse chissà quale prova. Un diario o qualcosa del genere.»
«E Clemens Herold è stato dunque una vittima accidentale?»
«No. Anche lui era a conoscenza dei fatti. Forse ha commesso lo stesso errore del parroco Maurer e ha parlato con l’assassino.»
«A proposito del parroco» intervenne Kim. «Ci siamo chiesti perché il colpevole in questo caso abbia cambiato approccio e siamo giunti alla conclusione che il finto suicidio doveva essere una falsa pista, come la sciarpa o le bombole del gas che ovviamente erano destinate ad attirare i sospetti su Edgar Herold. Al momento, è nostra opinione che sia meglio lasciare che il colpevole pensi che ci siamo cascati e crediamo che si tratti di suicidio.»
«Le azioni del nostro uomo non sono motivate da emozioni come l’odio, l’invidia o la gelosia» disse Kai. «È intelligente, agisce con razionalità e calcolo. Il suo modus operandi è sempre diverso, ma pianifica meticolosamente ciascuna delle sue azioni, non lascia nulla al caso e si adatta ai vincoli e alle condizioni locali. Nel caso di Rosemarie Herold, ad esempio, per uccidere ha scelto una modalità... discreta come lo strangolamento. Non ha nulla a che fare con il fatto che la conoscesse di persona, come spesso accade con un simile modus operandi, ma piuttosto con il fatto che non voleva provocare scalpore nell’ambiente in cui lui e la vittima si trovavano. Il nostro colpevole non si affida ad armi improvvisate, il che indica che è in grado di elaborare e attuare piani complessi. È abbastanza flessibile da reagire a eventi imprevisti. Lascia di proposito le armi che utilizza sulla scena del crimine per creare false piste. Nessuna traccia di dna. Riteniamo che l’assassino sia estremamente pericoloso perché non ha scrupoli ed è più che disposto a usare la violenza.»
«E come pensate di restringere il gruppo dei sospettati sulla base di queste informazioni?» chiese la direttrice. «Il vostro profilo si applica a centinaia di persone.»
Il cellulare di Bodenstein squillò. Il commissario diede un’occhiata allo schermo e uscì.
«Non proprio» replicò Kai. «Possiamo escludere le donne, il nostro soggetto è di sesso maschile. Le donne uccidono in modo diverso dagli uomini e inoltre anche una donna molto forte è fisicamente incapace di impiccare un cadavere, come ha fatto l’assassino con il prete. Possiamo anche escludere chiunque avesse meno di dieci anni nel 1972. Oggi il colpevole non può avere più di settant’anni, altrimenti sarebbe stato difficile per lui appiccare l’incendio della roulotte in quel modo. Infine, vive per forza a Ruppertshain.»
«Perché?» domandò il questore.
«Conosce bene i luoghi» disse Kai. «Può muoversi liberamente perché la sua presenza è familiare a tutti e quindi non attira l’attenzione. Attualmente stiamo lavorando sui dati dell’ufficio anagrafe di Kelkheim, Königstein e Glashütten, alla ricerca di uomini tra i sessanta e i settant’anni che vivevano nell’area nel 1972 e ci abitano tutt’oggi. Poi li elimineremo in base ai criteri che ho esposto e faremo controlli incrociati.»
«Mmm.» Pia aggrottò la fronte. «Ma se l’assassino avesse un altro movente oltre a quello di proteggere se stesso, se volesse proteggere la sua famiglia, la reputazione dei suoi genitori, per esempio, allora potrebbe essere più giovane, no?»
«Sì, assolutamente» affermò Kai. «Abbiamo considerato anche questa eventualità. Non si può escludere che non lavori da solo, potrebbe avere un complice. Qualcuno che commette per lui gli omicidi che ha pianificato.»
«In tal caso, anche stavolta, abbiamo un numero enorme di soggetti tra cui scegliere» commentò la direttrice. «Questo non ci porta a nulla.»
«Se mi è permesso, vorrei citare un passaggio del mio libro L’uomo, la bestia.» Kim sorrise amabile. «Un profilo non è altro che un sospetto fondato. Una ringhiera a cui appoggiarsi, non la chiave del mistero.»
***
«Mi ha appena chiamato Karoline» annunciò Bodenstein fuori dalla porta della sala comune. «È riuscita a trovare Valentina Berjakov, la sorella di Artur, grazie a internet. Lavora come interprete alle Nazioni Unite, a New York. Quando ha saputo che i resti di Artur sono stati ritrovati, ha deciso di venire a Francoforte con il primo volo disponibile.»
Il questore se n’era andato dopo essersi congratulato con Pia in privato per la sua imminente promozione e le aveva promesso tutto il sostegno necessario per le indagini in corso.
Pia trovò difficile concentrarsi. Capo dell’ufficio 11! Presto sarebbe stata responsabile di ogni caso, ma senza poter chiedere consiglio a Bodenstein. Ce l’avrebbe fatta? E soprattutto, voleva farlo?
«Ehi, cosa c’è che non va?» chiese Kai, quando anche Nicola Engel se ne andò. «Il questore non è stato gentile con te?»
«Ma sì, sì.» Pia sorrise distrattamente. «A proposito, hai fatto un ottimo lavoro su quel profilo. Siete stati davvero bravi.»
«Grazie.» Kai si limitò a scrollare le spalle. Trovava sempre difficile accettare i complimenti.
«C’è qualcos’altro?»
«La ricerca di Elias Lessing e dell’auto di Pauline Reichenbach procede a pieno ritmo» la informò salendo le scale con lei. «Abbiamo messo posti di blocco intorno a Ruppertshain. Al momento, nessuno entra in paese senza essere controllato.»
Avevano raggiunto il corridoio al primo piano, dove si trovavano i locali dell’ufficio 11, e si raggrupparono intorno al tavolo della sala riunioni. Fino a quel momento, gli interrogatori degli abitanti di Ruppertshain non avevano rivelato nulla che potesse essere utile all’indagine. Nessuno aveva visto o sentito nulla quella notte. Una cosa però era certa: Pauline Reichenbach era stata aggredita da qualche altra parte e poi scaricata al maneggio. Pia riferì delle sue conversazioni con la dottoressa Basedow, Bandi Arora e Ronja Kapteina.
«Adesso io e Lombardi interrogheremo Ralf Ehlers» annunciò. «Kathrin e Cem, voi andate al centro traumatologico e assicuratevi che Pauline Reichenbach sia trasferita in una stanza singola e sia protetta dalla polizia ventiquattro ore su ventiquattro. Nessuno, tranne i suoi genitori, i medici e il personale infermieristico accreditato, deve avere accesso alla sua stanza. Se il colpevole la trova, la sua vita sarà in grave pericolo. Tariq e Kai, voi lavorate sulle cartelle cliniche che ho ricevuto dalla dottoressa Basedow e continuate a elaborare il profilo dell’assassino insieme a Kim. Stefan, tu organizza la conferenza stampa per domani. Fatti dare da Kai tutte le informazioni necessarie. Capo, ho bisogno che torni a Ruppertshain.»
Tutti annuirono, il gruppo si disperse.
«Hai già letto il rapporto di Henning?» chiese Pia a Bodenstein. «L’ha mandato per e-mail a tutti e due.»
«Sì, l’ho letto.» Un’ombra scese sul volto del commissario. «Avevo sperato in una maggiore chiarezza, ma forse è impossibile dopo tanto tempo. Invece, ci sono solo nuovi misteri.»
«Il fatto è che Artur è caduto da qualche parte. E che il suo corpo è stato messo nella tomba insieme alla volpe morta» replicò Pia. «Tutto il resto è pura speculazione. Non possiamo sapere molto di più sulla sua morte.»
«Come facciamo a scoprire cos’è successo il 17 agosto 1972?» Bodenstein arricciò le labbra, assorto nei suoi pensieri. «Il passato è la chiave di tutto.»
«Chiediamo ai tuoi vecchi amici» suggerì Pia. «Non mi rende molto fiera sfruttare le paure della gente di Reichenbach, ma penso che saranno cooperativi quando capiranno che l’aggressione di Pauline potrebbe essere collegata a quella vecchia storia.»
«Okay.» Bodenstein annuì. «Devo farlo adesso?»
«Sì. Comincia con Inka Hansen. E Leonard Keller, è importante. Lombardi e io metteremo Ralf Ehlers sotto torchio.»
«E Peter Lessing?»
«Di lui» disse Pia «dovrebbe occuparsi Lombardi. Dopo tutto quello che ho saputo da Renate Basedow sulla famiglia Lessing, lo considero il sospettato principale.»
«Perché?»
«Pensa al profilo del colpevole: è intelligente, senza scrupoli e passa inosservato a Ruppertshain. Peter Lessing è sportivo e molto in forma. Potrebbe sopraffare una persona con facilità. È un lavoratore indipendente, quindi può andare in giro in auto senza dover rendere conto a nessuno. Già da piccolo, esercitava il potere e la pressione costringendo gli altri bambini al silenzio e alla connivenza, sotto la minaccia di rappresaglie violente. Torturava e uccideva animali, e questo è uno dei principali segnali di allarme nello sviluppo della criminalità violenta. Devo continuare?»
«Peter aveva undici anni quando Artur è scomparso» obiettò Bodenstein.
«Sì, è l’unico punto che mi dà da pensare» ammise Pia. «Ma forse Peter Lessing e Edgar Herold avevano fatto qualcosa insieme e la madre di Edgar voleva proteggere il figlio nascondendo il corpo di Artur. Lessing ne ha approfittato e ora vuole evitare che salti fuori.»
«Facendo cadere i nostri sospetti proprio su Edgar?» Bodenstein scosse la testa. «No, non credo che Peter sia il nostro assassino. Ma sono convinto che lui sappia cos’è successo allora. Come tutti gli altri.»
***
La notizia dell’aggressione di Pauline Reichenbach si era diffusa a macchia d’olio in tutta Ruppertshain. Il paese era in tumulto, animali di pezza e fiori erano stati lasciati fuori dal nastro della polizia sul luogo dell’aggressione e i giovani avevano acceso delle candele. Gli anziani andavano in pellegrinaggio verso la Wiesenstraße, dove vi si accalcavano in piccoli gruppi o erravano da soli, scioccati, storditi e inorriditi. Nessuno aveva informazioni specifiche, ma si sapeva che Pauline era più vicina alla morte che alla vita. Tutto il paese si sentiva imprigionato nella ragnatela del male. La diffidenza e la paura si insinuavano come veleno nelle menti di coloro che si erano comportati come se tutte quelle tragedie non li riguardassero. Le voci circolavano. Le speculazioni crescevano. Quasi nessuno credeva più che l’assassino venisse da fuori. E ciò significava che era uno di loro, qualcuno del paese. Quella consapevolezza aveva creato un’atmosfera diversa, ostile ed esplosiva, e una sola scintilla sarebbe bastata a innescare una pericolosa escalation.
I giornalisti erano affluiti a Ruppertshain da tutta la Germania. Chiunque non se la dava a gambe abbastanza in fretta si ritrovava con un microfono davanti alla bocca. A molti piaceva avere quei cinque minuti di gloria, e l’indomani internet e giornali sarebbero stati disseminati da una miriade di articoli su Pauline Reichenbach e su quanto fosse la ragazza più popolare di tutta Ruppertshain, anche se molti degli intervistati non conosceva nemmeno il suo nome fino a qualche giorno prima. I giornalisti erano avidi di frasi a effetto da inserire nei loro articoli e si accontentavano di tutto ciò che poteva diventare un titolone da prima pagina.
Gli agenti di polizia stavano ancora interrogando gli abitanti di Ruppertshain con metodica precisione; passavano di via in via, suonavano a ogni porta... nessuno veniva tralasciato.
Bodenstein era talmente immerso nei suoi pensieri che a stento ricordava come fosse arrivato da Hofheim a Ruppertshain, e la sua stessa casa gli sembrò estranea quando la superò sulla strada per la clinica equina. Più del solito, si sentiva combattuto; da un lato era il poliziotto obiettivo, un osservatore razionale, che metteva insieme il puzzle di informazioni e fatti in modo coerente, dall’altra era Oliver von Bodenstein, compassionevole, carico d’ira e pieno di dubbi sulla necessità e la correttezza di ciò che doveva fare. In genere, era in grado di conciliare le due sfaccettature di sé senza problemi, ma stavolta erano separate l’una dall’altra come se lui fosse composto da due persone diverse. Perché la sofferenza e la paura di Simone e Roman Reichenbach lo lasciavano così impassibile? Da dove veniva quella distanza... o era addirittura indifferenza? Si era persino sorpreso a pensare che finalmente avrebbero scoperto da soli cosa voleva dire vedersi portar via una persona cara. Nel momento in cui quel pensiero gli era passato per la mente, lo aveva sconvolto nel più profondo dell’anima, e da allora cercava il termine giusto per quei sentimenti meschini sorti in lui come bolle di gas velenose. Era perfidia? Soddisfazione? O, peggio ancora... un compiacimento perverso?
Svoltò a destra sullo stretto vicolo asfaltato che portava tra i giardini e i paddock, scendendo a valle fino alla clinica equina. Il clima di ansia che aveva travolto il paese non aveva toccato quel luogo, dove regnava un intenso viavai: i cavalli e i loro proprietari si muovevano ovunque. Con molta probabilità stavano parlando dei drammi che si erano verificati, ma ciò non li influenzava particolarmente. La vita continuava, qualunque cosa accadesse.
Bodenstein lasciò l’auto davanti alla casa di Inka, dove negli ultimi anni aveva spesso parcheggiato. Passò oltre gli uffici. I cavalli venivano visitati e portati in giro. Nel parcheggio c’erano furgoni per il trasporto con rampe di carico abbassate e diverse auto con rimorchio. I proprietari dei cavalli aspettavano la diagnosi o la visita, da soli o in gruppo.
Bodenstein chiese di Inka, ma nessuno l’aveva vista. Il suo fuoristrada era parcheggiato davanti alla porta della cucina di casa. Il bagagliaio era aperto, così come una portiera. Non appena raggiunse la macchina, Inka uscì dalla cucina con delle borse da viaggio in entrambe le mani.
«Ciao, Inka.»
Quando lei lo vide, lasciò cadere le borse in stato di shock, ma si riprese subito e portò i bagagli in macchina.
«E tu che ci fai qui?» Ovviamente, era tutt’altro che contenta della sua visita. La loro relazione e la sua fine avevano completamente distrutto la loro già fragile amicizia, segnata da malintesi e parole non dette.
Bodenstein gettò un’occhiata alla porta della cucina spalancata e vide altre due valigie e diversi scatoloni accanto al tavolo.
«Vai da qualche parte?»
«Un congresso. A... Vienna.» Sorrise nervosa. «Ho fretta. Che vuoi?»
Bodenstein notò la sua brutta cera. Dal suo sguardo trapelava agitazione. Inka non stava andando a un congresso, stava fuggendo. «Devo chiederti una cosa.»
«Proprio adesso? Sono già in ritardo.»
«Non sono qui per fare quattro chiacchiere, sono qui in veste di poliziotto. Non ci vorrà molto. Ma posso anche convocarti al commissariato, se preferisci.»
«Se è necessario.» Inka trascinò una delle valigie verso l’auto. Tutta la sua postura era sulla difensiva. «Allora, fai la tua domanda.»
Da dove iniziare? Chiederle perché si era incontrata con i suoi vecchi amici al Merlin? No, avrebbe solo messo nei guai il ristoratore. Bodenstein decise di non indugiare oltre.
«Ieri mattina abbiamo trovato uno scheletro nel bosco. L’autopsia ha dimostrato oltre ogni dubbio che si tratta dei resti di Artur Berjakov. Forse ti ricordi ancora di lui, era...»
«Non hai niente di meglio da fare?» lo interruppe Inka. «La figlia di Simone e Roman è in pericolo di vita e tre persone sono state assassinate! Dovrebbe essere più importante di quella vecchia storia.»
Fece per tornare dentro, ma lui le bloccò la strada.
«Credimi, so quel che faccio. Sospettiamo che colui che ha ucciso e seppellito Artur abbia anche assassinato Rosie, Clemens e il parroco Maurer. Probabilmente non ha solo questi omicidi sulla coscienza, perché voleva anche eliminare Pauline.»
Inka impallidì. Strinse le labbra.
«Io che c’entro? La cosa non mi riguarda e non so nulla.»
Si fece strada in modo rude e afferrò uno degli scatoloni. Lo sguardo di Bodenstein cadde sul contenuto. Fotografie incorniciate, libri, oggetti avvolti in carta di giornale. Non proprio il genere di cose che si portano a un congresso.
«Abbiamo trovato lo scheletro di Artur in una tomba del nostro vecchio cimitero di famiglia nel bosco. E accanto alle sue ossa c’erano quelle di Maxi, la mia volpe. Di sicuro ti ricordi di Maxi, no?» Si accorse che Inka si irrigidì per un attimo. «Maxi è scomparso la sera stessa di Artur. Ero quasi impazzito per la preoccupazione. Artur è uscito da casa nostra la sera del 17 agosto 1972, ma non è mai arrivato alla sua. Avevo promesso ai suoi genitori di prendermi cura di lui. Ancora oggi mi rimprovero per quello che gli è capitato. È stata colpa mia! Non avrei dovuto lasciarlo andare a casa da solo!»
Inka scaraventò lo scatolone nel bagagliaio.
«Lasciami in pace con queste vecchie storie!» sibilò tra i denti.
Bodenstein vide odio nei suoi occhi, ma anche orrore e paura. Era giunto il momento di affrontare i demoni della sua vita e lei lo aveva capito.
«Da cosa stai scappando?» domandò. «Non sono i bagagli per un viaggio di lavoro, ti stai trasferendo. Hai venduto la clinica equina e la casa dei tuoi genitori a Micha e Georg e vuoi prendere il largo. Perché?»
«Non sono affari tuoi.»
Si fissarono, poi Inka abbassò lo sguardo.
«Che cosa è successo, allora?» insistette lui, inesorabile. «Tu lo sai, Inka, vero?»
«Lasciami in pace!» sbottò lei con la voce soffocata dal pianto. «Sparisci dalla mia vita una buona volta!»
«Non posso lasciarti in pace» replicò Bodenstein. «Si tratta di un omicidio. Perché hai incontrato Simone, Roman e gli altri al Merlin, venerdì sera? Di cosa avete parlato? Cosa avete fatto?»
«Perché mi stai facendo questo?» sussurrò Inka senza guardarlo. «Hai la minima idea di quanto abbia sofferto? Sono più di quarant’anni che cerco di dimenticare ogni cosa. Faccio finta che non sia mai successo. È l’unico modo in cui posso sopportarlo.»
La sua risposta lasciò Bodenstein senza parole per un momento. Il sangue gli pulsava così tanto nelle tempie che aveva difficoltà a pensare.
«Tu hai sofferto?» ripeté incredulo. «Tu? Sei tu che hai sofferto?»
«Non... non capisci.» Evitò il suo sguardo.
Oliver ripensò alla foto che avrebbe documentato per l’eternità come Inka avesse preso a calci Maxi, un animale innocente. Per gelosia? O pura invidia?
«No, davvero non capisco» disse amareggiato. Tutto ciò che Inka e lui avevano vissuto insieme – il che andava ben oltre la loro relazione – si ridusse in cenere davanti a quel tono vittimistico. La consapevolezza che, in tutti quegli anni di amicizia, la donna aveva conosciuto la terribile verità e non ne aveva mai parlato con lui lo devastò nel profondo.
«Io... devo andare» balbettò Inka. Ancora una volta voleva fuggire, come aveva sempre fatto nella sua vita quando le cose si facevano spiacevoli.
Bodenstein aprì la portiera del conducente e tolse la chiave di accensione.
«Tu non vai da nessuna parte.» Parlò con la massima calma, nonostante il violento tumulto che lo sconvolgeva. «Ti dichiaro in arresto perché sospettata di essere coinvolta nell’omicidio di Artur Berjakov il 17 agosto 1972.»
«Come?» Inka lo fissò con gli occhi sgranati.
«Hai il diritto di rimanere in silenzio e di rivolgerti a un avvocato. Tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te.»
«Non farai sul serio?» La sua voce era poco più di un sussurro, il suo sguardo in preda al panico, come quello di un animale in trappola.
«Oh, sì» disse lui con freddezza. Tutti i sentimenti amichevoli che aveva provato per quella donna erano scomparsi. Non era più la bella e desiderabile Inka per cui si era consumato d’amore in segreto per tutta la giovinezza. Davanti a lui c’era una donna sfiorita intorno ai cinquant’anni, con il viso segnato dalle sofferenze e le borse sotto gli occhi stanchi. Una sconosciuta. Una bugiarda. Una donna che gli aveva mentito in modo imperdonabile e che lui non aveva mai conosciuto sul serio. Una rabbia divorante si scatenò dentro di lui.
Prima di perdere le staffe e di fare o dire cose di cui poi si sarebbe pentito, si voltò e prese un po’ le distanze. Inka si era accovacciata davanti alla porta di casa e singhiozzava istericamente, ma la scena non lo intenerì. Le dita gli tremavano così tanto che riuscì a sbloccare il cellulare e a chiamare Pia solo al terzo tentativo.
«Oliver, che c’è? Sei già stato da Inka Hansen?»
«Sì. Sono qui» le rispose. «Ho bisogno di un mandato d’arresto per Inka Hansen. Per concorso nell’omicidio di Artur Berjakov. Fa’ arrivare una pattuglia alla clinica equina. Ho qualcosa di urgente da fare altrove.»
La sua voce si incrinò. Chiuse la chiamata. Mi dispiace, Artur, mi dispiace tanto. Ti prego, perdonami per non averti protetto. Ma troverò chi ti ha ucciso e farò in modo che riceva la giusta punizione.
***
«Il capo ha arrestato la sua ex?» Cem scosse la testa, incredulo. «È fuori di testa.»
«Non fare lo stupido!» lo contradisse Pia.
«Dovrebbe essere escluso dall’indagine, per il suo stesso bene» replicò Cem. «È troppo coinvolto.»
«Abbiamo bisogno di ogni uomo, al momento» ribatté Pia, anche se sotto sotto era d’accordo con il collega. Era preoccupata per il capo. Mai prima d’allora aveva visto Bodenstein così agitato, nemmeno nel caso di cinque anni prima, quando il migliore amico del padre era stato ucciso a colpi di pistola e la sua famiglia era diventata il bersaglio di criminali determinati e senza scrupoli.
Pia conosceva Inka Hansen fin dal primo caso a cui aveva lavorato con Bodenstein, quando era entrata nella polizia giudiziaria e la moglie di un collega di Inka era stata assassinata. Quella donna non le era mai andata a genio. Inka Hansen era una persona strana: chiusa, inavvicinabile, impossibile da decifrare. Pia non aveva mai capito perché il capo ne fosse così affascinato. E ora cos’era successo? Cosa aveva scoperto Bodenstein che lo aveva portato a credere che Inka Hansen avesse qualcosa a che fare con l’omicidio di Artur Berjakov?
«Dirò a Kai di occuparsi del mandato d’arresto» disse Cem, appena tornato dal centro traumatologico. Le condizioni di Pauline erano stazionarie. Era stata trasferita in una stanza meglio protetta e un agente di polizia avrebbe piantonato la porta ventiquattro ore su ventiquattro.
«Grazie.» Proprio nel momento in cui Bodenstein l’aveva chiamata, Pia aveva finito l’interrogatorio di Ralf Ehlers.
Il padrino di Pauline Reichenbach aveva dapprima rinunciato all’assistenza legale e si era mostrato collaborativo, ma di punto in bianco aveva cambiato idea. Alla vista di Gianni Lombardi, che aveva la nomea di riuscire a far parlare tutti, l’avvocato convocato in fretta e furia aveva subito consigliato al suo cliente di non aprire bocca, e così l’interrogatorio era stato rinviato al giorno dopo. Ralf Ehlers doveva passare la notte in custodia; l’indomani sarebbe stato portato davanti al gip, che avrebbe poi dovuto decidere se le impronte digitali di Ehlers sul piede di porco fossero sufficienti per trattenerlo.
Sulla strada per la sala comune, Pia si fermò al distributore automatico e prese una Coca-Cola Zero. Gianni Lombardi optò per una Sprite. L’aria secca e soffocante delle piccole stanze interrogatori faceva venire sete.
«Che ne pensi? Ehlers potrebbe essere estraneo al tentato omicidio di Pauline» disse Pia. «Sembrava sinceramente turbato. Dopotutto, è la sua figlioccia, anche se non sono consanguinei.»
«Ha una relazione sessuale con la figlia dei suoi più vecchi amici» commentò Lombardi. «Da un punto di vista legale non è un problema, dato che sono entrambi grandi e vaccinati, ma da quello morale è piuttosto discutibile. Ma la cosa non lo infastidisce neanche un po’. Ehlers è una persona che si sente al di sopra della legge. Può guardarti negli occhi e mentire spudoratamente, quindi non credo a niente di quello che dice, se non che tiene ai suoi cani.»
«Ma perché avrebbe dovuto uccidere Pauline?» rifletté Pia. «E se avesse avuto qualcosa da nascondere, non sarebbe stato certo disposto a darci un campione di saliva, no?»
«Ehlers è un collerico.» Lombardi vuotò la bottiglia e la buttò nel cestino accanto al distributore di bevande. «Sa essere affascinante e amichevole se tutto va come vuole lui. Ma se qualcuno lo contraddice, va fuori di testa. Soprattutto se ha bevuto. La prima moglie ha tagliato la corda in tempo, ma la seconda... la picchiava con una tale brutalità che è stata ricoverata più volte in ospedale.»
«Non l’ha mai denunciato.» Pia, che conosceva i precedenti di Ehlers e il comportamento di uomini del suo calibro, scosse la testa, frustrata. Solo in rarissimi casi le donne osavano denunciare i mariti violenti. E spesso pagavano con la vita, quando non riuscivano a mettersi in salvo, lontano dai loro aguzzini.
«Forse Pauline ha fatto qualcosa che lo ha mandato in bestia» ipotizzò Lombardi. «Ha dato di matto e l’ha colpita in testa con il piede di porco.»
«Si addice al suo temperamento collerico» fece Pia. «Ma perché lasciare l’arma vicino al corpo? Ha preso il piede di porco e l’ha gettato sull’erba. Non ha senso.»
«Forse è così. Nella sua logica, non si ritiene un criminale e considera i suoi reati e i suoi illeciti come semplici sciocchezze» disse Lombardi. «Coltivazione illegale di cannabis, traffico di stupefacenti, aggressioni, possesso illecito di armi, evasione fiscale, frode... trova ragioni e scuse convincenti per tutto. Ehlers è abbastanza intelligente da riconoscere la sua posizione e la minaccia alla sua libertà, ma è completamente privo di coscienza morale e di rimorsi.» Lombardi si strinse nelle spalle.
Pia ripassò l’interrogatorio nella mente. E all’improvviso comprese qualcosa che fugò tutti i suoi dubbi sulla teoria di Bodenstein e le fece vedere la luce alla fine del tunnel. Una possibilità diventava probabilità.
«Ehlers non ha nulla a che fare con il tentato omicidio di Pauline» disse, cercando di mantenere un tono di voce calmo, anche se quasi scoppiava per l’agitazione. «Ecco perché non voleva un avvocato! Sapeva di essere innocente, anche se non aveva un alibi. Pensa dopo quale delle tue domande ha chiesto un legale.»
Lombardi guardò Pia con occhi socchiusi, poi annuì.
«Potresti avere ragione.» Sorrise in segno di apprezzamento. «Si è preoccupato davvero solo quando gli ho chiesto di Artur Berjakov. Che significa?»
Non era insolito coinvolgere specialisti esterni che non avevano nulla a che fare con l’indagine vera e propria, per interrogare i sospetti. Lombardi aveva ricevuto da Bodenstein un elenco di domande e alcune spiegazioni, ma non ne conosceva l’esatto contesto.
«Significa che Bodenstein ha sempre avuto ragione, la sua ipotesi era giusta.» Pia tirò fuori il cellulare. Doveva contattare subito il capo. «All’epoca c’era un gruppo di bambini, una specie di banda di cui Bodenstein faceva parte. Quando Artur è venuto a Ruppertshain con la sua famiglia ed è diventato amico di Bodenstein, gli altri bambini si sono ingelositi. Tormentavano Artur, lo odiavano letteralmente. Il mio capo ha sempre creduto che avessero qualcosa a che fare con la scomparsa di Artur, ma io avevo i miei dubbi; dopotutto, i bambini avevano solo undici o dodici anni all’epoca.»
«Jon Venables e Robert Thompson avevano dieci anni, nel 1993, quando rapirono e torturarono a morte il piccolo James Bulger, di due anni» ribatté Lombardi. «E anche qui in Germania, purtroppo, non mancano i casi di bambini che uccidono altri bambini.»
Ma certo! I bambini avevano ucciso Artur e anche la volpe di cui erano gelosi, e i loro genitori si erano sbarazzati dei due corpi per proteggere i figli! E quando Rosie Herold, spinta da rimorsi tardivi, lo aveva confessato al parroco, aveva innescato la catastrofe. L’omicidio è un reato che non cade in prescrizione. Tuttavia, se i bambini fossero stati i colpevoli, all’epoca non avevano l’età per essere ritenuti penalmente responsabili e non avrebbero potuto essere condannati neanche da adulti. Ma la stampa sarebbe comunque andata a nozze con quella storia, e la notizia avrebbe potuto distruggere reputazioni, vite e famiglie. Il movente degli omicidi e del tentato omicidio era quello di coprire un crimine vecchio di quarantadue anni, proprio come sospettava Bodenstein.
«Che hai intenzione di fare adesso?» chiese Lombardi.
«Li convocheremo tutti» rispose Pia. «Uno di loro crollerà. E allora parleranno anche gli altri.»
***
Non sapeva più dove andare. Ogni accesso a Ruppertshain era controllato dalla polizia, motivo per cui aveva lasciato il Defender al parcheggio del Landsgraben. Aveva aspettato che facesse buio e poi aveva proseguito a piedi. Non poteva andare da Nike. Felicitas era morta. Gli sbirri erano appostati al mulino. Ed era successo qualcosa a Pauline, l’aveva sentito alla radio. Per un attimo aveva pensato di andare a trovare la dottoressa Basedow, ma se poi l’assassino le avesse fatto del male, proprio come con Felicitas, solo perché lei lo aveva nascosto? Per quanto odiasse il padre, era l’unica persona che poteva aiutarlo. Non voleva suonare il campanello. Lo avrebbero riconosciuto sul monitor della telecamera di sorveglianza e avrebbero chiamato subito la polizia. Ma conosceva un altro modo per entrare in giardino senza essere visto, e da lì in casa. Qualche minuto dopo, stava strisciando tra i cespugli dietro il laghetto con le carpe. Ed ebbe fortuna! Sua sorella era seduta in terrazza a fumare. Non prestava attenzione a ciò che la circondava, ma fissava lo smartphone.
«Letizia?» Era la voce di sua madre. «Ti ho preparato il tè, tesoro.»
Elias si rannicchiò tra i cespugli. L’impugnatura della pistola, infilata nella cintura dei pantaloni, gli si conficcò tra le costole. Sua madre uscì sulla terrazza. Doveva fare in fretta. Determinato, si alzò e attraversò il prato verso di lei.
«Elias!» La madre lo fissò come se fosse un fantasma.
«Ciao» disse, bloccandosi. Sudava e tremava dappertutto, le mani umide.
«E tu che ci fai qui?» esclamò Letizia, ostile. «Ti è proibito venire in casa. E la polizia ti sta cercando. Sono stati qui e hanno chiesto di te.»
«Che è successo a Pauline?» domandò. La sua voce era roca per la tensione.
La madre e Letizia si scambiarono un’occhiata.
«È in coma» replicò sua sorella. «Pensa un po’, qualcuno voleva ucciderla. Non c’è da stupirsi, davvero, considerando i barboni che frequenta.»
Si strinse nelle spalle e schioccò la lingua con disprezzo.
Mille pensieri gli inondarono il cervello. Pauline aveva il suo cellulare. Aveva la lettera. E sulla lettera c’era l’indirizzo di Nike!
«Meglio che chiamiamo la polizia» disse Letizia alla madre. Afferrò lo smartphone.
All’improvviso fu assalito da un odio vertiginoso. Lo avevano tormentato, respinto e cacciato via, gli avevano rubato la vita. Fece un passo verso la sorella e le strappò il telefono di mano. L’apparecchio fece un pluf quando affondò nel laghetto.
«Hai qualche rotella fuori posto?» In preda alla rabbia, Letizia lo pungolò sul petto. I suoi occhi scintillanti erano come il vetro. Gelidi. Glaciali.
«Elias, ti prego. Vattene!» intervenne la madre, in ansia. «Se ti servono soldi, posso dartene un po’.»
«Non mi servono i tuoi soldi» gracchiò senza distogliere lo sguardo da Letizia.
«Ti prego, Elias. Non fare nulla a tua sorella. Altrimenti... dovrò chiamare la polizia. E non voglio farlo.»
«Io non devo fare nulla a mia sorella?» Guardò incredulo la madre. «Non ti stai un po’ confondendo?»
Di colpo gli fu tutto chiaro, come se un interruttore fosse stato premuto nella sua testa. I suoi genitori avevano sempre creduto più a Letizia che a lui. Non avevano mai capito che razza di vile strega fosse la sorella.
All’improvviso un abisso si spalancò davanti ai suoi occhi. La madre l’aveva tradito di nuovo. Come tante volte in passato. Sempre, in realtà. Stufo di essere umiliato e insultato, non sopportava più la sensazione di inadeguatezza e di fallimento. Proprio quando aveva deciso di cambiare, quando era riuscito a disintossicarsi, tutto era andato storto, porca miseria! I volti della madre e della sorella si offuscarono dietro un velo di rabbia cieca e logorante. “Hai una pistola” disse una voce nella sua testa. “Sparagli e basta. E dopo avrai la tua pace.”
***
«Pia!» Tariq alzò lo sguardo quando lei entrò nella stanza. Le fece un cenno concitato. «Abbiamo trovato qualcosa di strano! Dai un’occhiata.»
«Cosa avete?»
«Le cartelle cliniche che hai portato non sono complete» spiegò Tariq. «Alcune non sono altro che fogli sparsi e sono vecchi.»
«Vecchi di quarantadue anni?» suggerì Pia.
«Esatto.» Tariq sorrise, gli occhi luccicanti. «Ci sono le cartelle cliniche di Peter Lessing, Ralf Ehlers, Klaus Kroll, Roman Reichenbach, Karl-Heinz Herold, Inka Hansen e Leonard Keller.»
Kai, Kim e Tariq avevano unito quattro tavoli e distribuito tutti i documenti sopra. Sulla LIM avevano annotato le prime conclusioni.
«Ognuno di loro aveva una o due ferite» riassunse Kai. «Tagli, contusioni, una distorsione alla caviglia, lividi. Non è insolito, a prima vista, ma tutti si sono fatti male il...»
«...17 agosto 1972.»
«Esatto.»
«Karl-Heinz Herold era il padre di Edgar e Clemens» disse Pia. «Che tipo di ferita aveva?»
«Una contusione sulla mano destra» replicò Kai. «Un dito è stato addirittura amputato.»
«Ci si può procurare una ferita del genere quando sollevi una lapide, ad esempio» osservò Tariq.
«E Inka Hansen?» domandò Pia.
«Un morso di cane che si era infettato» disse Kai. «Il suo trattamento è stato lungo, ha sviluppato una setticemia.»
«Perché non è stata morsa da un cane ma da una volpe» concluse Pia.
Esultò dentro di sé. Era la svolta che tutti stavano aspettando! Grazie alla dottoressa Basedow, avevano l’informazione che metteva all’improvviso le loro indagini sulla pista giusta.
«Sono stati tutti trattati dal dottor Hans-Peter Lessing. Quando è venuto fuori ciò che i figli avevano fatto, i genitori hanno accettato di tenere tutto segreto. Il dottor Lessing ha fatto scomparire i fogli delle cartelle cliniche in modo che la polizia non potesse trovarli per caso.»
«Allo stesso tempo, il cognato, Raimund Fischer, in qualità di capo della stazione di polizia di Königstein, ha impedito il coinvolgimento della polizia giudiziaria di Francoforte finché le ferite dei bambini non sono guarite» dichiarò Bodenstein alle sue spalle. Era entrato nella sala inosservato. «Ossia, per cinque giorni.»
«Eccoti!» esclamò Pia, sollevata. «Abbiamo trovato prove che ti danno ragione.»
Voleva raccontargli dell’interrogatorio di Ralf Ehlers, ma l’espressione di Bodenstein la fece tornare sui propri passi.
«Ho scoperto perché i bambini erano in giro nel bosco quella sera» disse lui, pallido ma determinato. «Ho cercato negli archivi del club sportivo di Ruppertshain, gestito con la tipica scrupolosità tedesca dal 1954. E lì ho fatto una scoperta molto interessante.»
In poche parole, raccontò ciò che aveva scoperto e le conclusioni che ne aveva tratto.
«Ipotesi azzardata.» Gianni Lombardi, che non aveva familiarità con la geografia della zona, corrugò la fronte, scettico.
«Mi sto aggrappando a un fuscello» ammise Bodenstein. «Ma è un fuscello resistente.»
«Parleremo con tutti quelli che si trovavano lì dopo la conferenza stampa di domani» promise Pia al suo capo. «Uno di loro vuoterà il sacco.»
«Quello che non capisco è perché questo dottore non ha semplicemente bruciato le cartelle dei pazienti nel camino» intervenne Tariq. «Voleva proteggere i suoi amici, ma ha conservato tutta questa roba, non ha alcun senso.»
«Invece sì.» Bodenstein fece un sorriso amareggiato. «Non erano grandi amici. Vivevano solo nello stesso posto e sono diventati una specie di setta dopo quello che è successo. Il dottor Lessing ha conservato le prove per avere una leva di ricatto, chiaro e semplice. E immagino che abbia giocato quella carta più di una volta.»
«Che schifo» disse Tariq, nauseato.
«No» replicò Bodenstein. «Purtroppo è umano. E noi poliziotti non possiamo che essere contenti che la gente sia così meschina, perché ora abbiamo qualcosa da cui partire.»
«Ci siamo imbattuti in un’altra cosa» disse Kai. «La cartella clinica di Leonard Keller era invece completa, insieme ai referti degli ospedali e dei centri di riabilitazione dove è stato curato dopo il tentato suicidio. Una cosa del genere viene sempre inviata al medico di famiglia. Nel fascicolo del caso di Artur, abbiamo trovato le foto di questa pistola abbattibuoi che Keller aveva usato per tentare di uccidersi. Ed è allora che siamo rimasti interdetti.»
«Perché?» chiese Pia.
«Be’, ho cercato su internet cosa sia esattamente una pistola abbattibuoi» disse Tariq con zelo. «Il nome corretto è pistola pneumatica a proiettile captivo e il dispositivo sembra un avvitatore elettrico un po’ più grande. Un percussore viene spinto nel cranio dell’animale grazie alla pressione del gas. Il dispositivo è stato inventato all’inizio del XX secolo dal direttore del mattatoio di Straubing per stordire gli animali prima della macellazione e risparmiare loro inutili sofferenze. Quindi si può dire che questi arnesi sono comunissimi nei macelli. Ne esistono diversi modelli, tra cui quello penetrante, dove il pistone si introduce nel cervello dell’animale da macello, e quello smussato, che ha l’estremità del pistone appiattito e non trafigge il cervello. Leonard Keller ha usato quest’ultimo. Ed è qui che arriva il bello!»
Fece una pausa drammatica per assicurarsi che tutti lo seguissero con attenzione.
«Le munizioni sono cartucce a salve il cui propellente spinge fuori il pistone. Queste cartucce si distinguono per colore, perché per un maiale non serve la stessa forza di propulsione che si usa per un bue. Osservando da vicino le foto, abbiamo notato che Keller utilizzava cartucce verdi, quelle con le prestazioni più deboli, che vengono utilizzate per maiali, vitelli o pecore. E ci siamo chiesti perché lo avesse fatto.»
«Be’, ha semplicemente agguantato la pistola in macelleria ed è corso nella sua capanna» disse Pia.
«No, no, no.» Tariq scosse la testa con energia. «Leonard Keller era un macellaio esperto. Ha imparato il mestiere alla macelleria Hartmann, dopodiché ha lavorato per un anno al mattatoio di Francoforte prima di tornare dagli Hartmann. Quindi sapeva il fatto suo e avrebbe sicuramente usato una cartuccia a salve blu o rossa per andare sul sicuro. Se vuoi buttarti di sotto per ucciderti, scegli la Main Tower e non una casa a due piani dove è molto più probabile che ti spezzi le gambe o che ti ritrovi su una sedia a rotelle per il resto della tua vita, con un po’ di sfortuna.»
«Ma qualcun altro, che non sapeva come muoversi così bene, che non aveva molto tempo e probabilmente aveva paura, avrebbe agito esattamente come hai appena detto tu, Pia» concluse Kai. «Sarebbe sgattaiolato di soppiatto nella macelleria e avrebbe preso la pistola, fine.»
Pia cominciò a comprendere dove i suoi colleghi volevano andare a parare.
«Keller si sarebbe premuto la pistola contro la fronte come si fa con gli animali da macello» aggiunse Kim. «Non all’occipite, cosa comunque difficile per ragioni anatomiche.»
«Abbiamo chiesto a Christian di fare una simulazione al computer.» Kai sembrava molto soddisfatto. «In base alla statura di Leonard Keller, alla posizione del foro del proiettile nel suo cranio e alle dimensioni e al peso della pistola, abbiamo dedotto l’altezza del colpevole.»
Pia assorbì tutto quello che avevano detto. Si scambiò uno sguardo con Bodenstein.
«Wow» esclamò allora, impressionata. «Avete ragione.»
«Non è stato un tentato suicidio, ma un omicidio mancato!» confermò Tariq con un sorriso trionfante.
«Ai colleghi non è venuto in mente, all’epoca.»
«Perché volevano assolutamente avere un colpevole per poter chiudere in qualche modo quella vicenda incresciosa» disse Bodenstein con un’espressione corrucciata.
«E dato che il bravo dottore probabilmente sapeva chi fosse il potenziale assassino, ha aggiunto anche la cartella di Keller ai suoi documenti di ricatto» concluse Tariq. «E a lui va tutto il nostro ringraziamento.»
***
Il sospetto che Leonard Keller non avesse cercato di suicidarsi, ma fosse sopravvissuto a un tentato omicidio, cambiò tutto. Il grande orologio sulla parete della sala comune segnava le otto e dieci, e tutti i presenti capirono di doversi preparare per il turno di notte. Kim e Tariq tolsero i nastri di carta che Kim aveva usato sui suoi appunti per creare il profilo del colpevole e ricominciarono tutto da capo.
Bodenstein dettò a Tariq Omari e a Kai Ostermann i nomi e le parentele, poi passarono agli amici e ai loro genitori; nel frattempo origliava con un orecchio teso Pia al tavolo accanto, che ragguagliava Gianni Lombardi per l’interrogatorio di Inka Hansen.
C’era molto da fare e da considerare e, soprattutto, restava da chiarire da chi e perché l’attacco a Leo Keller fosse stato perpetrato, appena due settimane dopo la scomparsa di Artur, quando la polizia giudiziaria di Francoforte aveva da tempo preso in mano le indagini. Che cosa sapeva? Avrebbe potuto mettere in difficoltà qualcuno? Perché non avevano tentato di ucciderlo prima? Oppure non sapeva nulla ma era stato semplicemente scelto come capro espiatorio per sbarazzarsi finalmente dei poliziotti ficcanaso, senza preoccuparsi di rovinare tutta la sua famiglia? Purtroppo nel loro lavoro si trovavano spesso davanti a persone disposte a tutto per coprire i propri crimini.
Il cellulare di Bodenstein suonò. Karoline. Si scusò, si alzò e uscì nel cortile.
«Valentina ha preso un volo notturno per Francoforte. Atterra domani mattina alle 6.20. Le ho offerto di stare da me. Va bene?»
«Sì. Se per te va bene.»
«Certo.» Fece una breve pausa. «Come stai?»
«Ero da Inka, prima, e l’ho arrestata.»
Gli bastò dirlo ad alta voce per rendersi conto della mostruosità di ciò che aveva fatto. Fino a quel momento le sue azioni erano sembrate chiare e logiche, soprattutto alla luce di ciò che Ostermann e Omari avevano scoperto, ma ora cominciava a dubitarne. E se Inka non c’entrasse nulla? Faceva parte della sua famiglia, era la suocera di suo figlio. Avrebbe dovuto tenerlo presente?
«E se avessi commesso un errore?» chiese, sospirando. «Forse mi sono completamente perso.»
«Devi seguire tutte le piste» ribatté Karoline. «E se fosse innocente, ti scuserai e la lascerai andare. Ma secondo me hai ragione.»
«Perché?» chiese Bodenstein, sorpreso.
«Non te lo so dire con esattezza» rispose lei. «È una sensazione. Ho incontrato Inka solo un paio di volte, ma ho sempre avuto l’impressione che lei... mmm... che fosse falsa, che nascondesse qualcosa.»
Falsa. Aveva colpito nel segno. Da quando erano amici e anche nei due anni in cui erano stati una coppia, Inka non si era mai veramente aperta con lui. C’era un confine invisibile che lei non gli permetteva di attraversare. Le loro conversazioni riguardavano sempre la vita di tutti i giorni o lui e la sua famiglia, ma non si erano mai concentrate su di loro. Non appena l’argomento andava in una direzione che la metteva a disagio, Inka sollevava un muro. Se qualcosa non le andava bene, rimaneva in silenzio o si ritirava. Spesso si era chiesto perché lei si comportasse così, magari era a causa di Sophia. Aveva provato a parlarne con lei, ma invano.
«Vorrei che il caso fosse risolto» disse Bodenstein, sospirando di nuovo. «Vorrei partire con te. Con te e le ragazze, da qualche parte, il più lontano possibile.»
«Ci sto.» Poteva quasi sentire il sorriso nella voce di Karoline. «E poi verrai a vivere con me, e penseremo a comprare una bella fattoria da qualche parte.»
Bodenstein avrebbe voluto andare da lei all’istante, ma non poteva. Doveva aiutare a preparare la conferenza stampa del giorno dopo e non voleva dare a Pia l’impressione che la stesse abbandonando, anche se era quello che avrebbe voluto fare.
«Ci riusciremo» replicò sorridendo a sua volta. «Farò tardi oggi. Forse dovremo passare la notte qui.»
«Nessun problema. Scrivimi un messaggio quando hai finito. Altrimenti, ci vediamo domani alla conferenza stampa, okay?»
«Okay. Non vedo l’ora di vederti.»
«E io te. Ti amo.»
«Anch’io ti amo.» Si sentì il cuore più leggero, esaltato al pensiero che Karoline lo stesse aspettando, quella sera e per il resto della sua vita, se tutto fosse andato bene, e lui non aveva dubbi al riguardo. Provava empatia nei suoi confronti, e avrebbe fatto i conti con quei sentimenti meno nobili di cui da un lato si vergognava, ma che dall’altro lo spingevano e gli davano la forza necessaria per chiudere per sempre il capitolo più oscuro del suo passato.
Rincuorato e un po’ più sereno, stava per tornare nell’edificio quando una limousine scura si fermò accanto a lui. Il finestrino laterale si abbassò con un ronzio.
«Ciao, Oliver» disse Florian Clasing. «Mia sorella mi ha chiamato e mi ha chiesto di venire qui. Hai arrestato Inka.»
Clasing era uno dei penalisti più famosi in Germania ed era il fratello di Anna-Lena Kerstner, la moglie di uno dei soci di Inka alla clinica equina. Bodenstein lo conosceva da tempo e l’amicizia tra loro si era sviluppata nel corso degli anni.
«Ciao, Florian. Sei l’avvocato di Inka?»
«Non le ho ancora parlato, ma penso di sì» affermò Clasing in tono serio. Parcheggiò l’auto nel primo posto libero, spense il motore e scese. «Di che si tratta?» chiese. «Di cosa l’hai accusata? C’entra la serie di omicidi?»
Ne era al corrente, ovvio. Sui giornali, gli omicidi e le fallimentari indagini della polizia erano stati l’argomento dominante degli ultimi giorni. Tuttavia, non era ancora trapelato che potessero esserci dei collegamenti con la scomparsa di Artur. Bodenstein doveva pertanto informare l’avvocato.
Mentre si recavano all’ingresso dell’RKI, spiegò in breve a Clasing il motivo per cui aveva messo Inka in custodia cautelare.
«Lo sai che non basterà mai per il gip» disse Clasing quando lui ebbe finito.
«Ne sono consapevole.» Bodenstein annuì. La guardia lo aveva visto e aveva premuto il cicalino della porta d’ingresso. «A dire il vero, spero che Inka ci dirà cos’è successo all’epoca. Non credo che abbia un omicidio sulla coscienza. Ma sa qualcosa, qualcosa di essenziale per noi.»
«Posso parlarle?» domandò Clasing.
«Certo. Ma è la mia collega Pia Sander a condurre le indagini. Le farò sapere che sei qui.»
«Bene. Aspetterò.» Clasing guardò l’orologio, poi Bodenstein. «Inka sa essere molto testarda. Spero di poterla persuadere a parlare con te. Che succede se non lo fa?»
«Possiamo trattenerla per ventiquattro ore» ribatté Bodenstein. «Ma se riesco a convincere il gip che esiste il rischio di fuga o di inquinamento delle prove, allora rimarrà in custodia per un po’.»
«Questo rischio non esiste.»
«Purtroppo sì.» Bodenstein fissò l’avvocato. «L’ho beccata mentre caricava la macchina per svignarsela. Ti hanno informato della vendita della clinica equina, presumo.»
Clasing si strinse nelle spalle invece di rispondere.
«Questa argomentazione, e il fatto che ieri abbia richiesto online un nuovo documento per l’autorizzazione all’ingresso negli Stati Uniti, dovrebbe convincere il gip di un rischio di fuga reale.»
***
Erano seduti davanti a lui come bambini spaventati. Aveva legato loro braccia e gambe, e per farli stare zitti gli aveva tappato la bocca con del nastro adesivo rinforzato. A Letizia lo aveva avvolto anche intorno alla testa. Le avrebbe fatto parecchio male se e quando qualcuno l’avesse liberata. Una piccola vendetta per tutto ciò che gli aveva fatto.
Dopo essersi assicurato che non potevano liberarsi a vicenda, era andato di sopra, si era fatto una lunga doccia e si era rasato. Poi si era messo dei vestiti puliti e aveva preparato una borsa da viaggio. Non si sentiva così bene da anni. Si era fatto due panini e aveva cotto qualche uovo in padella, solo allora era tornato nel locale caldaie. Purtroppo sapeva per esperienza che la porta era insonorizzata, quindi non era preoccupato, nel caso fossero riusciti in qualche modo a togliersi i bavagli. Nessun rumore poteva filtrare fino alla strada.
Si era seduto davanti a loro su uno sgabello e si era messo a parlare. Ora dovevano starlo a sentire. Non potevano urlargli contro, andarsene o rinchiuderlo da qualche parte. Adesso toccava a lui.
I suoi genitori rimasero inorriditi quando raccontò loro come Letizia lo avesse usato, addirittura avesse abusato di lui per i suoi scopi meschini, per anni, senza lasciargli mai la benché minima possibilità di difendersi. Spiegò loro perché si era comportato in modo così strano ed era scappato più e più volte. Aveva ardentemente sperato che qualcuno gli parlasse, gli chiedesse cosa non andava. Ma negli anni solo una persona gli aveva creduto, cioè la dottoressa Basedow. E suo padre l’aveva talmente intimidita che non aveva fatto nulla. Per paura.
«Mi sono disintossicato e sono pulito da quasi due settimane» disse. «E mi sono informato sui sintomi della schizofrenia paranoica che mi volevate accollare a tutti i costi. Pronti per una lezioncina? Ho trovato alcune teorie molto interessanti su internet.»
Puntò la pistola prima contro il padre, che annuì come un pupazzo con la testa dondolante, poi contro la madre.
«Secondo la cosiddetta “teoria dell’influsso ambientale”, nata nei primi anni Settanta, le malattie mentali insorgono soprattutto in famiglia. Le ricerche hanno dimostrato che nelle persone schizofreniche spesso almeno un genitore non ha dato loro la possibilità di sviluppare la propria immagine di sé e i propri obiettivi.» Sorrise con freddezza. «Più ci pensavo, più mi diventava chiaro che si adattava perfettamente al quadro delle famiglie generatrici di schizofrenia: genitori che hanno la tendenza a dominare, ma che non comprendono per niente i bisogni e i sentimenti dei loro figli. Genitori che fanno finta di essere amichevoli, non apertamente repressivi, che impongono la loro volontà in maniera distorta ma spietata, il che a sua volta è un enorme stress per il bambino. Allora, vi ricorda qualcosa?»
Si alzò e diede un calcio a Letizia.
«Non siete stati voi a farmi impazzire, ma questa qua» disse. Poi strappò il nastro dalla bocca della sorella e le conficcò la canna della pistola nelle costole. «Raccontagli com’è andato veramente l’incidente! Forza! Nessuno ti interromperà!»
«Non... non so cosa intendi» piagnucolò.
A quel punto lui premette il grilletto. Lo sparo fu assordante, il contraccolpo più forte del previsto. L’intonaco cadde dal muro.
«Il prossimo proiettile ti beccherà il ginocchio» disse alla sua odiata sorella, minaccioso. «Forza, inizia a parlare!»
***
Inka Hansen si era rifiutata di parlare con Florian Casting, che così se n’era andato senza aver ottenuto nulla. Aveva ascoltato la lettura dei suoi diritti con volto impassibile e si era limitata ad annuire quando Pia le aveva comunicato che l’interrogatorio sarebbe stato filmato e registrato. Da mezz’ora mentiva spudoratamente. Sperava ancora di riuscire a cavarsela in qualche modo?
«Dove stava andando in realtà?» domandò Pia.
«A un congresso. A Vienna.»
«Ma non c’è nessun congresso veterinario a Vienna, abbiamo controllato.»
«Io... volevo portare mia figlia nel... nel Sud della Francia.»
«Ah. E dove voleva andare nel Sud della Francia?»
«A... ad Arles.»
«Mmm. In questo caso, avrà senz’altro prenotato un hotel, giusto?»
«No. Volevamo solo fare un giro. Fermarci dove ci piaceva di più.»
«Perché ieri ha richiesto un documento di autorizzazione per l’ingresso negli Stati Uniti?»
«Perché sono stata invitata a un congresso anche lì.»
Le bugie si susseguivano una dopo l’altra con aplomb. Pia sospirò. Ne aveva abbastanza.
«Ricorda Maxi, la volpe che Oliver aveva allevato?» cambiò argomento.
«Sì.» Inka Hansen le lanciò uno sguardo sospettoso.
«Le voleva bene?»
«Voglio bene a tutti gli animali.»
«Mmm.» Pia ingrandì la foto che Bodenstein le aveva dato e la mostrò alla veterinaria. «Ma qui non sembra che Maxi le piacesse molto.»
Piccole perle di sudore apparvero sulla fronte di Inka Hansen.
«Odiava Maxi, vero?» chiese Pia. «Non sopportava di vedere Oliver con la volpe, era invidiosa e gelosa perché non voleva avere più niente a che fare con lei e i bambini del paese, aveva preferito un bambino russo come compagno di giochi. Non è così?»
Inka Hansen non rispose. Fissò un punto dietro la spalla di Pia.
«Dottoressa Hansen» la incalzò. «Un bambino è morto, aveva solo undici anni. Lei stessa ha una figlia. La lascia davvero così impassibile che la famiglia di Artur abbia dovuto vivere nell’incertezza per più di quarant’anni?»
Spinse verso di lei le foto dello scheletro di Artur, steso sul tavolo di metallo dell’istituto di medicina legale sotto una luce abbagliante.
«Guardi le foto!»
Com’era prevedibile, Inka Hansen non mostrò alcuna reazione. Sembrava concentrata, come se stesse facendo un esame in cui non le era permesso commettere errori. Con la cordialità e gli appelli ai sentimenti materni non sarebbero arrivati da nessuna parte, era giunto il momento di tirare fuori l’artiglieria pesante.
Lombardi consultò i suoi appunti. Bodenstein aveva messo lui e Pia al corrente di ogni dettaglio.
«Di cosa ha paura, dottoressa Hansen? Qualcuno la minaccia? È questo il motivo per cui all’improvviso ha venduto la sua clinica ben avviata e vuole lasciare Ruppertshain?»
La compassione nella voce di Gianni Lombardi fece deglutire Inka Hansen. Lei scosse la testa, cambiò posizione e si tirò il lobo dell’orecchio. Il suo sguardo vagava sempre di più verso il vetro a specchio dietro il quale Bodenstein osservava l’interrogatorio.
«Di chi ha paura?» insistette Lombardi. «Di cosa la minacciano?»
«Non ho paura di nessuno.» Inka Hansen scosse la testa, ma tutto il linguaggio del corpo indicava che stava mentendo. «Che significano tutte queste domande continue?»
«Che mi dice di Peter Lessing?» domandò Pia, notando il sussulto della veterinaria. Bingo! Proseguì senza pietà. «Ricorda come lui e gli altri bambini torturavano e uccidevano animali, all’epoca? Rane, porcellini d’India, conigli, gatti. Era presente? Si divertiva? Forse le piaceva vederli agonizzare, sentire le urla mentre morivano, avere quel potere sulla vita e sulla morte?»
Ciò che stava facendo era brutale e crudele. Pia odiava interrogatori del genere, il cui unico scopo era di colpire l’interlocutore nel suo punto più sensibile per strappargli i segreti che l’interrogato voleva tenere per sé a tutti i costi.
«No, non mi ricordo.» Inka Hansen si rifiutava con ostinazione di collaborare. «Non so di cosa parlate.»
«Parliamo del 17 agosto 1972» disse Pia. «Avevate undici anni. Un bambino, che conoscevate bene e che aveva la vostra stessa età, è scomparso quel giorno senza lasciare traccia.»
«Non vi posso aiutare» replicò la veterinaria. «Non mi ricordo.»
«Artur avrebbe la sua età oggi. In tutti questi anni, ha mai pensato a cosa potesse essergli successo?»
«Oppure non doveva farlo?» domandò Lombardi. «Perché lo sapeva già?»
Nessuna risposta.
«Ieri, quando ha saputo che erano state ritrovate le ossa di Artur e Maxi, è rimasta sorpresa?»
«Come si sentirebbe se sua figlia sparisse senza lasciare traccia e lei non potesse sapere cosa le è successo?»
Pia e Lombardi si alternavano e ognuna delle loro domande colpiva Inka Hansen come una coltellata, Pia lo capì dal balenio di panico nei suoi occhi e dal modo in cui teneva le mani avvinghiate, ma nulla scalfiva il suo riserbo. A prescindere da ciò che le chiedevano, la sua risposta era sempre la stessa.
«Non so di che parlate. Non mi ricordo.»
Pia e Lombardi si scambiarono una rapida occhiata. Da cosa era così terrorizzata? O meglio, da chi?
«Vuole qualcosa da bere?» chiese Lombardi. «Posso prenderle un bicchiere d’acqua. Possiamo fare una pausa.»
«No, non voglio nulla da bere. Voglio andare a casa» disse Inka Hansen. «Non potete trattenermi qui. È abuso di potere.»
«Possiamo trattenerla per ventiquattro ore» la corresse Pia. «E lo faremo. Domani sarà portata davanti al gip che deciderà se può uscire o deve rimanere in custodia. E le dico fin da ora che dopo tutte le bugie che ci ha raccontato, le sue possibilità di tornare a casa sono scarse.»
Solo allora Inka Hansen sembrò cominciare a rendersi conto della gravità della sua situazione. «Ma che volete da me?» esclamò con voce aggressiva. «Il vostro capo ha motivi puramente personali per trattenermi qui. Vuole vendicarsi di me! Probabilmente è dietro lo specchio a fregarsi le mani mentre vi accanite su di me, vero?»
Eccole, le emozioni che Pia stava aspettando! Inka Hansen era finita in un vicolo cieco e opponeva resistenza. Si stavano avvicinando al punto che lei temeva.
«Nessuno si sta accanendo.» Pia scosse la testa. «Vogliamo solo sapere cosa è successo la sera in cui Artur è scomparso.»
«Vi ho già detto che non mi ricordo!»
«Non le crediamo.»
«Forse possiamo aiutarla un po’.» Lombardi si sporse leggermente in avanti. «Nel pomeriggio del 17 agosto 1972 si è tenuta una partita di calcio a Schneidhain, per i cosiddetti campionati estivi. La squadra esordienti di Ruppertshain ha perso miseramente.»
La bocca di Inka Hansen reagì con uno spasmo rivelatore quando venne menzionata la partita di calcio. Probabilmente non si aspettava che qualcuno potesse ricordare un tale evento insignificante, dopo tanti anni.
«Cos’è successo dopo che lei e gli altri bambini siete tornati dalla partita di calcio attraverso il bosco? C’era anche lei, no? Vi siete imbattuti per caso in Artur?»
«Non mi ricordo.» Il volto segnato di Inka Hansen era una maschera di pietra. Il suo respiro si fece più veloce. Il sudore le gocciolava dal mento.
«Sta mentendo» affermò Pia con pacatezza.
«No» mormorò Inka Hansen, guardandosi le mani.
«Invece sì.» Pia non si arrese. «È spaventata a morte. Una paura folle e pietosa. Tre persone sono state uccise perché sapevano troppo. Potrebbe essere lei la prossima o forse sua figlia! Lei e i suoi amici avete fatto qualcosa di brutto e avete giurato di non dire mai una parola al riguardo. Per quarant’anni avete represso ciò che era successo allora, ma ora il passato vi ha raggiunto. Domani parleremo con tutti i suoi vecchi amici. Uno dopo l’altro. Ralf Ehlers è già nella stanza vicina. Lo abbiamo arrestato oggi. Non credo che i Reichenbach saranno così ostinati come lei a mantenere il silenzio, quando sapranno il motivo per cui la loro figlia è stata quasi picchiata a morte e per cui forse non uscirà mai dal coma.»
«Non ho fatto nulla!» sbottò la veterinaria. La sua voce era acuta.
«Ma sa. Era lì» ribatté Pia. «E anche se non potete essere perseguiti legalmente perché al momento del delitto eravate ancora minorenni, il suo nome finora irreprensibile sarà collegato a quattro omicidi. Macchie del genere restano per sempre. Non se ne libererà mai, qualunque cosa faccia.»
Silenzio.
Le parole di Pia sortirono il loro effetto. Inka Hansen si rese conto che tutte le menzogne e le negazioni erano inutili. Socchiuse gli occhi per reprimere le lacrime in aumento.
Lombardi sparse altre foto sul tavolo. Il corpo carbonizzato di Clemens Herold, uno spettacolo atroce. Il cadavere scheletrico di Rosie Herold con le labbra blu. La testa gonfia di Adalbert Maurer con tracce di sangue secco sul naso e sulla bocca. Occhi morti e vacui. Incubi su carta lucida.
«Guardi le foto» ordinò.
«La figlia della sua migliore amica è stata picchiata e gettata come un sacco della spazzatura su un prato, a meno di cinquecento metri in linea d’aria da casa sua» disse Pia. «La cosa non la tange?»
«Sì, certo» bisbigliò Inka Hansen.
«Di cosa avete discusso venerdì quando ha incontrato i suoi vecchi amici? Avete deciso tutti insieme di dire che non ricordate nulla?»
La veterinaria aveva incrociato le braccia davanti al petto, nel vano tentativo di costringere il suo corpo tremante a stare fermo.
«Guardi le foto, porca miseria!» urlò Lombardi così bruscamente che la Hansen trasalì. «Guardi cosa avete combinato lei e i suoi amici! Quattro persone che conosceva molto bene: bruciate vive, strangolate, soffocate e picchiate quasi a morte! Lo sa cosa si prova a essere bruciati vivi? O a venir strangolati tra atroci sofferenze e a mente lucida? Riesce a immaginare cosa avrà pensato Pauline quando il primo colpo del piede di porco le ha frantumato lo zigomo?»
Lo sguardo di Inka Hansen errò sulle foto e Pia vide la sua resistenza spezzarsi. Il suo viso impallidì, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si accasciò, mise le mani davanti al viso e cominciò a piangere, se per rimorso o per autocommiserazione Pia non lo sapeva, e non le importava.
«Dottoressa Hansen» insistette. «Cos’è successo quel giorno? Ce lo dica!»
«No, no!» piagnucolò la veterinaria. «Non posso dirlo davanti a lei.»
«Okay.» Pia si alzò in piedi. «Esco.»
Lasciò la stanza degli interrogatori ed entrò in quella d’osservazione. Si sedette accanto a Bodenstein in silenzio. Lombardi ora interpretava il ruolo dell’ascoltatore sensibile e comprensivo, e così riuscì finalmente a fare breccia in lei.
«Artur ha rovinato tutto!» singhiozzò, angosciata. «Prima ero così felice, poi lui è arrivato e di colpo è cambiato tutto. Volevamo... volevamo solo dargli una bella lezione! Non volevamo che morisse. Solo che lui... che lui scomparisse. Per far tornare tutto come prima.»
«Che cos’è successo esattamente?»
«Eravamo alla partita di calcio.» Parlava con una vocina seccante e piagnucolosa. «I ragazzi avevano perso la partita e avevano litigato con l’allenatore. Per punirli, li aveva fatti tornare a Ruppertshain a piedi. Simone e io siamo andati con loro per solidarietà. Faceva caldo, era molto umido quel giorno, nell’aria c’era il sentore di un temporale in arrivo. Peter e Edgar, in particolare, erano furiosi. Volevano andare a nuotare nel laghetto antincendio e lì... Artur era lì.» Singhiozzò di nuovo. «Artur era sul molo e giocava con... con Maxi.»
Pia lanciò una rapida occhiata al capo, ma l’espressione di Bodenstein era impenetrabile. Si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia, fissando attraverso il vetro a specchio la donna che una volta era stata il suo grande amore. Cosa gli passava per la testa?
«Chi era Maxi?» chiese Lombardi.
«La volpe. La volpe addomesticata di Oliver» rispose Inka Hansen, asciugandosi le lacrime dalle guance con entrambe le mani. «Artur è scappato quando ci ha visto e noi lo abbiamo seguito. Era solo un gioco. Non volevamo fargli del male, forse solo spaventarlo un po’. Di solito non era mai solo. Oliver badava sempre a lui.» La sua voce aveva preso un tono amareggiato. Si tolse le mani dal viso, si schiarì la gola, parlò più veloce, come se volesse togliersi il pensiero. «Peter, Edgar e Ralf si sono arrabbiati perché Artur ci aveva seminato, ma poi l’abbiamo visto. Si era arrampicato su un albero. I ragazzi volevano aspettare, ma Simone doveva tornare a casa. Ecco perché... ecco perché ce ne siamo andate, io e Simone. È tutto quello che so. Solo il giorno dopo ho saputo che Artur non era tornato a casa quella sera. Peter ha chiamato la banda, ci siamo visti nel nostro luogo d’incontro segreto. Peter ci ha fatto giurare sulla vita dei nostri genitori di non dire a nessuno che avevamo incontrato Artur. Doveva essere successo qualcosa di brutto, era evidente, ma i ragazzi non hanno mai detto a me e a Simone di cosa si trattava.»
«E vi siete tutti attenuti a quel giuramento?» chiese Lombardi.
«Credo. Sì.» Inka Hansen annuì, scostandosi una ciocca di capelli dal viso. Sembrava sollevata. Più tranquilla. Si raddrizzò.
Gianni Lombardi la guardò senza dire nulla. Passò un minuto, poi un altro. Il silenzio era uno dei modi più efficaci per creare incertezza. Pochissime persone sapevano sopportarlo.
«Perché non dice nulla?» Funzionò. Inka Hansen si era convinta che la storia che aveva raccontato sarebbe bastata.
Lombardi non rispose. Incrociò le mani, si mise le dita sulla bocca e sul naso e fissò la veterinaria. La donna si agitò sulla sedia, si passò una mano sui capelli e sull’orecchio. I suoi occhi guizzavano da destra a sinistra. Il nervosismo aumentava di secondo in secondo. Accavallò le gambe. Poi le allungò.
Tre minuti di silenzio.
Quattro minuti.
«Che significa?» insorse. «Dica qualcosa. Se non ha altre domande può lasciarmi andare.»
«Sto aspettando che continui a parlare» disse infine Lombardi.
«Io? E che altro devo dire? Ho raccontato tutto.»
«No. Non è vero.»
«Ah, no? E cos’è che non ho detto?» La sua voce cambiò, divenne acuta.
«Non ha paura» disse Pia a Bodenstein dietro lo specchio. «Ha uno scheletro nell’armadio.»
«Come mai Maxi l’ha morsa?» domandò Lombardi.
«Cosa glielo fa credere?» Gli occhi di Inka Hansen si spalancarono in un finto stupore. Rise un po’ troppo forte.
«La cicatrice sulla sua mano destra. Non viene da quel morso?»
«No.» La veterinaria infilò la mano tra le ginocchia. «Sono stata morsa da un cane.»
«Nel 1972 quel morso le ha causato una setticemia.» Lombardi rimase impassibile e le passò una copia della cartella clinica. «Per questo motivo, dal 18 al 24 agosto, ha ricevuto cure quotidiane dal dottor Lessing.»
Inka Hansen sbiancò. Deglutì a fatica. L’orrore era evidente.
«Allora?»
«Maxi...» mormorò e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Sì, mi ha morsa. Volevo solo accarezzarlo.»
«Gli ha spezzato il collo?»
«No!» esclamò. «Non sono stata io! I ragazzi hanno minacciato Artur che avrebbero ucciso Maxi se non fosse sceso dall’albero.»
«E poi?»
Bodenstein si alzò di scatto.
«Vado a casa» annunciò con fermezza. «Non ce la faccio più.»