Venerdì, 10 ottobre 2014

Sulla strada per Francoforte, Tariq era insolitamente silenzioso, ma Pia non se ne lamentava. Bodenstein le aveva telefonato a tarda notte per informarla che Rosemarie Herold era stata assassinata. Lui e Cem erano andati all’hospice, avvisati da un membro del personale, e la sua decisione di far portare il corpo di Rosie dal medico legale aveva scatenato un certo clamore. Edgar Herold aveva protestato con veemenza, così come la direttrice della casa di cura, che temeva per la reputazione della struttura. Bodenstein, tuttavia, non si era fatto dissuadere: aveva confiscato il corpo e contattato la procura. Il procuratore aveva condiviso i dubbi del commissario capo sulla morte dell’anziana, così come il giudice istruttore, e quella mattina era stata emessa l’ordinanza per procedere all’autopsia.

L’ufficio 11 lavorava spesso a casi diversi in contemporanea, ma due omicidi nel giro di due giorni erano alquanto insoliti in una cittadina come Kelkheim. Kathrin sarebbe presto andata in maternità e Bodenstein in congedo non retribuito, mentre Tariq aveva ancora poca esperienza; il personale era estremamente ridotto.

Il giorno prima, Pauline Reichenbach non aveva risposto al cellulare, si era limitata a replicare con un sms al messaggio di Pia. Affermava di non avere riconosciuto l’uomo nelle riprese. Alla domanda sul perché fosse stata dai Lessing, aveva risposto, dopo una piccola esitazione, che lei e Letizia, la sorella di Elias Lessing erano amiche e che voleva solo dirle una cosa. Pia dubitava che fosse la verità, ma non le veniva in mente un motivo per cui Pauline avrebbe dovuto mentirle. Ciò non le impediva di provare una strana sensazione.

All’altezza del Radisson Blu, la cui sorprendente forma ricordava un disco blu, rimasero imbottigliati nel traffico intenso. Il picco dell’ora di punta era già passato, ma durante la Fiera del Libro nei dintorni del complesso fieristico di Francoforte c’era molta più attività del solito. Pia si ricordò che quella sera doveva assolutamente raccontare a Christoph del suo scontro con Peter Lessing. Il giorno prima era tornato a casa ancora più tardi di lei, poi Bodenstein aveva chiamato, e lei se n’era dimenticata.

«Comunque sia, perché sei all’ufficio 11?» chiese Tariq all’improvviso.

Pia esitò. Nessuno gliel’aveva mai chiesto in maniera così diretta. In qualche modo, nel corso degli anni, era semplicemente successo. Dopo l’episodio traumatico che aveva messo a soqquadro tutta la sua vita e che l’aveva privata per sempre della sua spensieratezza, aveva abbandonato gli studi e aveva fatto domanda per entrare in polizia. Sua sorella Kim, che non riusciva mai ad astenersi dall’analizzare i suoi simili, sosteneva che quella decisione fosse il risultato del suo desiderio inconscio di sicurezza: diventando poliziotto, non si sarebbe più sentita impotente. Forse era vero, ma Pia non ci aveva mai riflettuto sul serio. La formazione le era piaciuta. Poi aveva conosciuto Henning e attraverso di lui il mondo degli omicidi.

«Mi ha sempre affascinata sciogliere enigmi difficili» rispose. «Inoltre, l’ufficio 11 era considerato molto ambito.Tutti volevano entrarci, ero ambiziosa e avevo tutte le intenzioni di farcela. E ci sono riuscita abbastanza alla svelta. Ma era molto diverso da come me l’ero immaginato, e i miei colleghi erano dei brutti macho che mi rendevano la vita difficile. Ero l’unica donna e per giunta la moglie di un medico legale. A un certo punto mi sono stufata e mi sono presa una pausa.» Non corrispondeva del tutto alla verità, ma Pia non aveva mai parlato con nessuno del vero motivo della pausa. «Per alcuni anni sono stata praticamente una casalinga, ma poi mi è stato offerto un lavoro nella sezione dell’ufficio 11 di Hofheim e ho colto l’occasione.»

«Mmm.» Tariq annuì pensieroso. «Come fai a sopportare tutto questo? La crudeltà di questi crimini, i rapporti con i parenti, la violenza?»

«Devi imparare a tenerti distaccato senza diventare indifferente o insensibile» replicò Pia. «Cerco di sviluppare una certa distanza in modo da poter rimanere obiettiva. E non vedo il mio lavoro come una missione contro i mali di questo mondo. Il motivo per cui mi piace lavorare qui, anche se spesso è frustrante e orrendo, è la sensazione che, chiarendo le circostanze della loro morte, posso restituire alle vittime un po’ della loro dignità umana, oltraggiata dal male che hanno subito. E non solo. Per i parenti, che diventano automaticamente vittime anche loro, la condanna di un colpevole è un gran sollievo. Ecco perché sono all’ufficio 11 e ho alla fine deciso che da qui non voglio più andarmene.»

«Ma i casi su cui lavori ti toccano comunque?»

«Certo» rispose Pia. «Soprattutto se la vittima non viene identificata o se si tratta di bambini o adolescenti. Sono drammi che mi arrivano dritti al cuore. Per me, non c’è niente di più triste di un cadavere anonimo sepolto o abbandonato da qualche parte e di cui nessuno sente la mancanza. Ed è proprio per questo che mi piace fare il mio lavoro.»

Dopo la fiera, l’ingorgo diminuì. Se non ci fossero stati altri contrattempi, sarebbero riusciti ad arrivare all’istituto in tempo per l’inizio dell’autopsia.

«E tu che mi dici? Perché sei voluto entrare nell’ufficio 11?»

«Quando ero all’università, una mia compagna di studi è scomparsa. Viveva nel mio stesso studentato» rispose Tariq. «Il suo corpo è stato trovato diciotto mesi dopo. Era stata violentata, strangolata e smembrata. È stato terribile il modo in cui la sua famiglia ha sofferto, nell’incertezza. La polizia non ha mai mollato finché non ha risolto il caso. Ne sono rimasto molto colpito. Ecco perché sono diventato un poliziotto.»

«Oh, be’. Ognuno ha le proprie ragioni per scegliere di diventare un investigatore» disse Pia. Passarono davanti alla stazione e attraversarono il Friedensbrücke fino al quartiere di Sachsenhausen. Alla luce del sole, lo scintillio del Meno rivaleggiava con quello delle facciate di vetro degli istituti bancari.

«Perché Bodenstein vuole smettere?»

«Siamo tutti dediti al lavoro, fortemente motivati e spesso sottoposti a forti tensioni. Facciamo parte di un gruppo ad alto rischio.» Sul lato destro apparve il complesso edilizio dell’ospedale universitario. «Prima o poi, molti di noi raggiungono il limite della sopportazione. Forse è quello che è successo a lui. Negli ultimi anni abbiamo seguito alcuni casi davvero pesanti che hanno logorato tutti noi.»

«Penso che sia un peccato che se ne vada» disse Tariq.

«Anch’io.» Pia sospirò. «È di gran lunga il miglior capo che abbia mai avuto.»

«Credi che tornerà, passato l’anno sabbatico?»

«Non lo so, Tariq. Purtroppo non ne ho la minima idea.»

***

«Non riesco proprio a immaginare chi possa aver fatto questo alla mamma.» Sonja Schreck era esterrefatta. Le sue dita erano avvinghiate intorno a una tazza di caffè con sopra il logo dell’Eintracht Frankfurt, gli occhi rossi e gonfi. «Tutti le volevano bene!»

«Io non avrei scelto una stanza al piano terra.» Detlef, il marito di Sonja, era seduto con le gambe divaricate e le braccia incrociate sul petto. «Con tutta la marmaglia che gira ovunque, non mi sorprenderebbe se un tizio avesse voluto sgraffignare qualcosa.»

«Non hanno preso nulla» replicò Bodenstein. «L’orologio da polso era sul comodino e il borsellino era aperto sulla credenza.»

I tre erano seduti al tavolo in una cucina disordinata. Davanti a sé Oliver aveva una tazza di caffè che aveva classificato come imbevibile dopo un solo sorso e che aveva preferito lasciar raffreddare prima che gli rovinasse lo stomaco. Il legno chiaro del piano del tavolo era disseminato di cerchi marroni, notò il piallaccio a buon mercato, i bordi scheggiati e le ante storte delle credenze.

«Chiunque può entrare e uscire da lì indisturbato.» Detlef sventolò la mano con rabbia. «Hanno risparmiato su tutto, ma nessuno si lamenta, perché tanto le persone lì non rimangono a lungo. E i parenti sono contenti di rifilare il lavoro a qualcun altro. Simone si riempie ben bene le tasche! Una vera miniera d’oro, ha detto poco tempo fa. Ha praticamente trovato il pozzo di San Patrizio.» Sbuffò con malanimo. «E non è la prima volta che succede qualcosa, vero, Sonny?»

Il suo viso gonfio da ratto era diventato rosso per l’indignazione, respirava a fatica. Il giovane brufoloso di un tempo era diventato un uomo robusto. I baffoni mascheravano il labbro leporino che lo aveva sfigurato in giovane età, tenendo lontane le ragazze. I capelli biondo cenere avevano lasciato il posto alla calvizie, aveva rasato la chierica e le ultime ciocche rimaste sopra la fronte. In passato, Detlef Schreck era solito orbitare intorno a Clemens Herold, Jakob Ehlers, Leo Keller e i loro amici. Non aveva mai fatto parte della banda, era più un tirapiedi dei ragazzi più in vista. Se li era arruffianati lasciando che facessero benzina di nascosto ai loro motorini alla stazione di servizio dei genitori, finché il padre non lo aveva scoperto e gliele aveva date di santa ragione. Cosa ci aveva trovato la bella Sonja in quel tipo?

«Sai chi aveva la chiave della roulotte di tua madre?» intervenne Bodenstein quando Detlef riprese fiato.

«Ah, la roulotte. Lì mamma era felice.» Gli occhi di Sonja divennero di nuovo lucidi. Si avvolse una ciocca di capelli attorno all’indice. Lo smalto scuro si era sfaldato, le cuticole erano infiammate. «Clemens e io abbiamo le chiavi. Edgar non le voleva.»

«Qualcuno l’ha usata ultimamente?»

«Sì, Clemens. Ci andava spesso per stare in pace e tranquillità. Voleva scrivere una cronaca della famiglia. Per la mamma, quando avrebbe compiuto settantacinque anni. Ma adesso non li festeggerà mai.»

«E tu gli hai creduto! Una cronaca, roba da far ridere i polli!» Suo marito fece una risata sprezzante. «Si scopa chissà quale baldracca in quel catorcio e Mechthild è troppo stupida per capirlo.»

«Piantala!» strillò Sonja tutt’a un tratto, e per lo spavento Bodenstein quasi rovesciò la tazza di caffè. «Non è per niente vero!»

«Vedrai che alla fine verrà fuori!» borbottò il marito, offeso, scattando in piedi. «Vado in officina. Non starò qui a farmi urlare addosso.»

Uscì battendo i piedi, rosso in viso. Poco dopo la porta si chiuse.

«Mi dispiace» disse Sonja. «In realtà Detlef non è così, ma quando si parla di Clemens vede rosso. Non so nemmeno io perché.»

Bodenstein ebbe l’impressione che il cognato non fosse l’unico con cui Detlef avesse dei problemi.

«Non sapevo che foste sposati.»

«Sono diciassette anni a giugno. È difficile credere come vola il tempo.» Sonja prese un fazzoletto da una scatola e si soffiò il naso. «Un momento sei giovane, hai tutto il tempo del mondo... e poi ti rendi conto che sei già a metà della tua vita.»

«Però eri già stata sposata, vero?»

«Sì.» Sonja scoppiò a ridere, sembrava tutt’altro che felice. Si rabbuiò. «Ero giovane e stupida e pensavo di aver accalappiato l’uomo migliore del paese.»

«Che è successo?» chiese Bodenstein. Non pensava a lui da molto tempo, ma in quel momento si ricordò di Ralf Ehlers e della sua natura imprevedibile. Ralf non sapeva quando fermarsi, oltrepassava sempre il limite. Non di rado aveva messo in difficoltà l’intera banda, con le sue idee folli. Con dispiacere dei suoi genitori borghesi, era diventato uno sregolato a cui il lavoro ripugnava. Bodenstein ignorava cosa facesse e dove vivesse adesso.

«Ah, non è successo nulla di speciale» rispose Sonja dopo un istante di esitazione. «È che mi immaginavo che sarebbe andata diversamente. Volevo una famiglia, dei bambini, una casa, ma in testa Ralf aveva solo chimere e sciocchezze. Voleva andare in Asia! Fare il giro del mondo! Da dove venissero i soldi era l’ultimo dei suoi problemi. Mi considerava una borghesuccia e forse aveva ragione. Ero troppo codarda per lasciarmi tutto alle spalle. La mamma aveva tanto bisogno di me.» Un sorriso malinconico le attraversò il viso. «Così ho deciso di vivere una vita sicura: apprendistato, marito, casetta, tre figli, un salone da parrucchiera. Ogni tanto vacanze in Austria o in Italia. Insomma. Inutile chiedersi col senno di poi cosa sarebbe stato meglio.»

Il secondo matrimonio di Sonja non l’aveva resa felice ed era desolante vedere quanto si fosse rassegnata.

«Oh, è che... mi uccide sapere che le ultime parole che ho scambiato con la mamma non siano state molto gentili. E ora... ora non posso nemmeno più scusarmi con lei.»

Da giovane Sonja era una ragazza incantevole, un angelo pieno di vita, delicato. Lei e il bel Ralf dovevano essere stati una coppia da sogno. Adesso, sui quarant’anni, sembrava esausta. L’insoddisfazione per la sua vita le aveva tirato giù gli angoli della bocca, gli occhi erano spenti.

«Quando le hai parlato l’ultima volta?» chiese Bodenstein.

Sonja lo fissò in silenzio per un po’, poi la tristezza la travolse di nuovo e singhiozzò.

«Lunedì, credo. Sì, lunedì, è quando ho il negozio chiuso. Avevo promesso alla mamma che sarei andata a farle i capelli. Anche se ormai non ne aveva quasi più. Le avevo preso una parrucca. Ha sempre voluto essere carina.»

«Qual è stato l’argomento della vostra ultima conversazione?» chiese Bodenstein con cautela.

Sonja lottò con se stessa per un momento, poi cedette.

«Mi ha detto che papà non era il mio padre biologico. Così, come un fulmine a ciel sereno. Grandioso, vero?» I suoi occhi verdi si riempirono di nuovo di lacrime. «Ero sotto shock e mi sono arrabbiata. Perché non me l’aveva mai detto?» Scosse la testa con sdegno al ricordo della conversazione. «Quando ho voluto sapere il nome di mio padre, mi ha risposto che me l’avrebbe detto un’altra volta, non si sentiva molto bene. Allora sono esplosa! Cioè, era in un hospice, con un cancro all’ultimo stadio. Chi poteva sapere se ci sarebbe stata una un’altra volta? Gliel’ho detto in faccia, e anche che mi aveva rovinato la vita perché mi aveva sempre tarpato le ali. Adesso provo una tale vergogna!»

Bodenstein abbozzò una smorfia colma di compassione. Non era raro che le persone si lavassero la coscienza di fronte alla morte e rivelassero di punto in bianco segreti custoditi per tutta la vita, a prescindere dall’effetto che tale confessione avrebbe avuto sugli interessati.

«Ti ha detto qualcos’altro?» chiese. «Hai avuto l’impressione che fosse abbattuta o che avesse paura di qualcosa o qualcuno?»

«No. Era di buonumore.» Sonja si soffiò forte il naso in un fazzoletto, lo accartocciò e lo lanciò in direzione del secchio della spazzatura, mancandolo. «Per tutta la vita ho avuto il terrore che un giorno si sarebbe beccata un malanno. Ecco perché non ho mai osato lasciare Ruppertshain. Avevo la sensazione che mi sarei dovuta prendere cura di lei. Da quando ne ho memoria, è stata sempre depressa. A volte non si alzava dal letto per giorni.»

«Ah sì?» Bodenstein, che aveva conosciuto Rosie come una donna allegra ed estroversa, era perplesso. Non ne aveva mai sentito parlare.

«Esteriormente ha sempre finto che tutto andasse bene, ma senza le pillole si sarebbe di sicuro impiccata molto tempo fa» dichiarò Sonja, afflitta. «È per questo che si è presa il cancro, te lo dico io. I sensi di colpa l’hanno divorata.»

«Perché mai doveva avere sensi di colpa?» chiese Bodenstein, anche se sospettava che fossero state le infedeltà a lacerare Rosie. «Perché non ti ha mai detto chi era tuo padre?»

«Non era così importante per lei.» La voce di Sonja si fece amareggiata. «Mia madre si teneva dentro molti altri segreti. Mi ha detto che era solo colpa sua, questa maledizione. Perché aveva una vita umana sulla coscienza.»

***

Erano le dieci meno cinque quando finalmente raggiunsero l’istituto di medicina legale in Kennedyallee, e per fortuna Pia trovò un parcheggio nel cortile. Henning non sopportava i ritardatari. Si affrettarono lungo il corridoio rivestito in legno, oltrepassando diversi uffici. Le porte dell’aula, dove si svolgevano le lezioni per gli studenti di medicina, erano spalancate e la sala era vuota. Ronnie Böhme, l’assistente alle autopsie più anziano dell’istituto, uscì dal seminterrato, dove si trovavano le due sale autoptiche.

«Ciao, Pia» la salutò.

«Ciao anche a te, Ronnie. Con chi iniziamo?»

«I medici hanno deciso di lavorare in parallelo.» Ronnie squadrò rapidamente Tariq. «Dato che siete in due, non sarà un problema.»

«Il procuratore è già arrivato?»

«No. Non verrà.» Ronnie proseguì e Pia condusse il nuovo collega verso le scale. Le sale autoptiche si trovavano nel seminterrato dell’edificio.

«Ai sensi dell’articolo 87, paragrafo 2 del codice di procedura penale, in particolare l’articolo 33, paragrafo 4 delle direttive in materia di procedura penale e procedimenti sanzionatori amministrativi, la procura non è più obbligata a partecipare a un’autopsia, ma può avvalersi del diritto di essere presente a sua discrezione» citò Tariq durante la discesa.

«Non ti sfugge nulla, Einstein.» Pia sorrise, bussò alla porta socchiusa di una piccola cucina ed entrò.

Henning e il collega Frederick Lemmer erano appoggiati al piano di lavoro, bevendo caffè, già vestiti per il compito che li attendeva.

«Buongiorno» li salutò Pia. «Polizia giudiziaria a rapporto.»

«Ah, hai portato i rinforzi.» Henning fissò Tariq Omari da sopra il bordo degli occhiali. «La sua prima autopsia?»

«Sì. E sono molto curioso di assistere» replicò Tariq con gli occhi che brillavano. «Come ha detto ieri: ogni teoria è grigia.»

«Ma davvero?» Henning finì il caffè e Frederick Lemmer sorrise. Tutti nell’istituto sapevano quanto Henning gongolasse di gioia quando, durante un’autopsia, qualcuno diventava verde e se ne usciva barcollante trattenendo i conati di vomito. Aveva l’abitudine di prendere in giro i poliziotti e i procuratori che, anche dopo anni, non reggevano certi spettacoli, ma Tariq non sembrava essere una possibile nuova vittima.

«Giù è tutto pronto, boss. Il corpo carbonizzato nella 1, l’altro nella 2» annunciò Ronnie. «Potete iniziare.»

«Ah sì, grazie. A proposito, ieri abbiamo passato ai raggi X il telaio della roulotte» disse Henning a Pia. «Abbiamo fatto una scoperta interessante.»

«Abbiamo, abbiamo, abbiamo! Che mi tocca sentire!» mugugnò Ronnie. «Non ricordo qualcun altro ai raggi X a parte me.»

«Abbiamo trovato una protesi all’anca, un dato molto utile per l’identificazione del cadavere.» Henning ignorò di proposito il suo assistente, ma enfatizzò la prima persona plurale del verbo avere con particolare insistenza. «Ma c’è molto di più, abbiamo... vieni a vedere con i tuoi occhi.»

Entrò nella sala 1 e Pia e Tariq lo seguirono.

Il corpo della roulotte giaceva sul tavolo lucido in acciaio inox al centro della sala autoptica nella cosiddetta postura dello schermidore, causata dal restringimento indotto dal calore di muscoli e tendini. Pia deglutì alla vista di quel corpo appena umano. Nel giro di pochi minuti, il calore estremo aveva trasformato un uomo un tempo alto e forte, che respirava, sentiva, rideva, faceva progetti e amava, in un grumo di tessuto e ossa. E adesso era in attesa di essere tagliato e smembrato alla luce abbagliante del neon al fine di scoprire se la sua morte fosse avvenuta prima dello scoppio o nel corso dell’incendio.

Pia osservò i poveri resti e serrò i pugni nelle tasche. Qual era stato il suo ultimo pensiero? Aveva sentito il calore, aveva capito che la situazione era disperata e che stava per morire, o aveva già perso conoscenza? Cosa si prova a sapere che la morte è inevitabile? Cosa penserei in un momento come questo? A chi? Forse a ciò che non sono riuscita a fare prima di morire? Pia serrò la mascella e combatté contro la compassione che minacciava di travolgerla. E dire che qualche istante prima, in auto con Tariq, si era vantata di saper tenere le distanze. La verità era che più invecchiava, meno era in grado di mantenere quel distacco indispensabile.

La voce di Henning le risuonò nell’orecchio, e Pia si voltò. Il momento di debolezza era passato. Tariq osservava il corpo da vicino con rispettoso interesse e sembrava non avere problemi.

«Ecco, guardate qua!» Henning si era avvicinato al computer che aveva sostituito gli schermi luminosi ai quali una volta si fissavano le pellicole radiografiche. Ormai era tutto digitalizzato. «Quello a sinistra è lo stato post mortem, constatato ieri. E questa è la panoramica dentale ante mortem che un dentista di Königstein ci ha inviato stamattina per e-mail.»

Indicò una malocclusione prominente dei denti anteriori inferiori e diverse capsule e otturazioni. Non c’era alcun dubbio che fossero della stessa persona. Il sospetto di Bodenstein fu così confermato: l’uomo carbonizzato nella roulotte al campeggio della Casa degli amici del bosco era Clemens Herold.

***

«...cinquantasette, cinquantotto, cinquantanove, sessanta.»

Un’ora. Oppure aveva contato male? La sete l’aveva quasi portata alla pazzia. Quante ore potevano essere? Da quanto tempo era lì dentro? Se l’era fatta nei pantaloni, puzzava in modo insopportabile come se fosse nella gabbia di un animale feroce, le prudeva la testa. Per tutta la vita Felicitas aveva prestato molta attenzione al suo aspetto, Stefan aveva persino definito con sarcasmo il suo amore per l’ordine come un «leggero disturbo ossessivo-compulsivo», cosa che l’aveva sempre fatta inalberare. Se un giorno fosse stata ritrovata, sarebbe stato perlomeno ironico essere ricordata come una pezzente lurida e puzzolente. Cosa avrebbe detto il rapporto della polizia? Rabbrividì al pensiero, ma in qualche modo l’aiutò a sfuggire dalla crescente disperazione. Almeno per un po’. Le si era addormentata la gamba sinistra, che formicolava quando la muoveva.

Qual era l’ultimo giorno che ricordava? Martedì, no, mercoledì. Oppure giovedì? C’era stato un incendio, laggiù al campeggio, nel cuore della notte. Felicitas si massaggiò le tempie. La testa le faceva un male cane e il bernoccolo sulla fronte era grande come un uovo di gallina. Per di più, la schiena e i fianchi le si erano anchilosati a causa della durezza del metallo. Cos’era accaduto? Qual era l’ultima cosa che riusciva a ricordarsi? Si costrinse a calmarsi per potersi concentrare. Il rumore di un motore nel cuore della notte. L’esplosione. I latrati furiosi dei cani. Il bel commissario con la figlioletta. La zucca vicino alla finestra che l’aveva messa in ridicolo. Poi aveva incontrato la commissaria bionda che l’aveva trattata con tanta condiscendenza, quella cretina. Infine si era fatta la doccia, si era lavata i capelli e aveva fatto la valigia, perché voleva andarsene dalla casa nel bosco. Qualcuno aveva suonato il campanello. E poi? Il blackout portò Felicitas quasi alla follia. Per quanto si sforzasse, il vuoto nella sua memoria non poteva essere colmato.

All’improvviso sentì qualcosa raschiare e raggelò. Il cuore le martellava nel petto. Doveva gridare aiuto oppure no? E se il suo rapitore fosse venuto a ucciderla? Non aveva nulla con cui difendersi!

«Dio mio, ti prego, aiutami!» sussurrò, in preda al panico. «Ti giuro che...»

Un altro rumore, come se qualcuno togliesse un catenaccio. E un barlume di luce!

«Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome» si mise a pregare con disperazione e fervore, per la prima volta dopo anni.

Uno scricchiolio.

«Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà.»

La paura esplose dentro di lei.

Il metallo che raschiava sul metallo.

«Come in cielo così in terra.»

Come poteva aspettarsi che Dio l’aiutasse a uscire da quella situazione drammatica dopo che l’aveva ignorato per metà della sua vita? Ma non erano forse i peccatori, gli apostati, gli oppressi, i figlioli prodighi verso i quali lui nutriva pietà?

«Ti prego, Dio mio» sussurrò come se avesse perduto il senno. «Farò tutto, tutto, qualsiasi cosa, se tu...»

Con un cigolio assordante il coperchio della cassa si aprì, una luce brillante inondò la sua prigione. Batté le palpebre. La paura della morte la travolse come un’onda nera quando si ritrovò faccia a faccia con la canna di una pistola.

***

Bodenstein riattaccò il telefono, appoggiò il mento sulle mani e tirò un sospiro. Il cadavere della roulotte era stato identificato grazie ai denti: Clemens Herold. Anche il numero seriale della protesi all’anca aveva poi confermato che si trattava proprio di lui. E Rosie era stata strangolata. Così la domanda ipotetica di prima era diventata un dato di fatto: chi era interessato alla morte di Clemens e Rosemarie Herold?

Secondo lo stato molto sommario delle informazioni attuali, la risposta era: Edgar o Sonja. Nessuno dei due sembrava nuotare nel denaro e ora avrebbero potuto contare su un’eredità o su una somma assicurativa. La soluzione era così semplice? Si trattava dello stesso assassino? In fondo avevano a che fare con due omicidi completamente diversi. Eliminò Sonja dalla lista dei sospettati. Non la reputava capace di uccidere madre e fratello. Quanto al marito, Detlef, e a Edgar, era tutt’altra storia. Erano in combutta? Nessuno dei due sopportava Clemens. Inoltre, Edgar si vergognava dello stile di vita della madre. Ma bastava come movente? Bodenstein aveva spesso incontrato persone che si rifiutavano di credere che qualcuno di loro conoscenza fosse capace di commettere un omicidio. Ed eccolo a trarre le stesse conclusioni.

Tornò a pensare al passato. Si ricordò quando girovagava per prati, campi e boschi con Edgar, Ralf, Peter e gli altri che facevano parte della loro “banda”. Insieme avevano giocato, litigato, si erano presi a botte e avevano fatto pace. Solo quando dovevano affrontare quelli di Fischbach ed Eppenhain le rivalità interne venivano dimenticate, e diventavano tutti pappa e ciccia.

Nella mente di Bodenstein misteriose finestre si affacciavano su eventi a lungo dimenticati. Non ci pensava da anni, ma a un tratto si ricordò del loro “quartier generale”, una capanna mezza diroccata in mezzo al bosco, dove tenevano i loro trofei e i loro tesori, dove avevano fatto progetti o semplicemente bighellonato. Un giorno avevano scoperto che i ragazzi più grandi avevano profanato quel centro del loro universo parallelo segreto. Si erano incontrati lì con le ragazze, avevano fumato, bevuto alcolici e devastato tutto. Clemens, Jakob, Detlef e gli altri avevano più o meno quindici o sedici anni, all’epoca; Clemens guidava una motocicletta Kreidler Florett rosso fiammante, di cui andava molto fiero. Peter, Ralf e Edgar avevano meditato vendetta. Di chi era stata l’idea di tagliare i tubi dei freni delle moto? Rabbrividendo, Bodenstein ricordò la trepidazione maligna con cui si erano immaginati i loro fratelli e Detlef farsi male in un incidente, forse addirittura morire. Jakob e Detlef si erano accorti della manomissione, Clemens no. La mattina dopo aveva inforcato la moto e allo svincolo sulla strada principale aveva tagliato la strada a un’auto che aveva la precedenza. Era stato ricoverato per varie fratture e un trauma cranico, la moto ridotta a un ammasso di ferraglia. Era stata molto di più di una stupida ragazzata, e Bodenstein ricordava che nessuno dei tre capibanda aveva mostrato il minimo rimorso. E anche se i ragazzi più grandi avevano capito di chi era la colpa ed erano stati tutti quanti interrogati dai genitori e persino dalla polizia, la verità non era mai venuta a galla: avevano tutti tenuto la bocca chiusa.

Pensieroso, Bodenstein si appoggiò allo schienale della sedia, incrociò le mani dietro la testa e guardò fuori dalla finestra verso il cielo azzurro di ottobre. Erano trascorsi quarantacinque anni da allora. Era ipotizzabile concludere che Edgar avrebbe potuto uccidere il fratello odiato in una maniera così brutale? Più a lungo ci rifletteva, più gli venivano in mente altre situazioni spiacevoli, situazioni che aveva quasi rimosso con gli anni. Si rese conto che una paura onnipresente aveva gettato un’ombra sulla sua infanzia. Se ne era liberato solo all’inizio del liceo, quando aveva cambiato scuola. Era un solitario per natura, non si era mai sentito a suo agio nella banda, soprattutto con Peter e Edgar, che trovava minacciosi. Ma ogni goffo tentativo di sfuggire dal condizionamento del gruppo era fallito. Quando saltava un appuntamento, si presentavano a casa sua, si aggiravano per le stalle e i fienili della tenuta, scrutando in giro con sguardi freddi e calcolatori, come se stessero cercando di capire dove avrebbero potuto fare danni se Bodenstein non avesse capitolato. Era stato un periodo orribile, in cui aveva imparato che esistevano persone che erano crudeli e senza scrupoli per natura. Allora considerava Inka il suo unico alleato, anche se non era sicuro del perché. Inka non aveva mai preso apertamente le sue parti, né aveva mai cercato di impedire gli scherzi crudeli della banda. Si era sempre limitata a guardarlo, con i suoi insondabili occhi azzurri, senza mai dire una parola.

La faccenda del gatto aveva messo fine alla sua infanzia spensierata. La minaccia di Peter di fare del male a Maxi se lo avesse tradito era stato il suo primo contatto con la crudeltà e il terrore, e spesso l’inquietudine l’aveva tenuto sveglio la notte. Sapeva che ne erano capaci. Temendo per la vita di Maxi, per settimane la notte aveva fatto entrare di nascosto la volpe nella sua stanza e l’aveva lasciata dormire nel suo letto, ma alla fine non era riuscito a proteggerla.

I bambini di un tempo erano diventati gli uomini di oggi. Avevano famiglia, erano impegnati in associazioni e svolgevano la loro professione, ma il carattere di una persona, la sua essenza profonda, non cambia, al contrario. Con gli anni, i difetti tendono addirittura a rafforzarsi rispetto ai pregi.

La suoneria del cellulare strappò Bodenstein dai suoi pensieri.

«Ciao, mamma» disse quando riconobbe il numero sullo schermo.

«Ciao, Oliver.» La voce della madre sembrava preoccupata. «Spero che non mi consideri una ficcanaso, ma... è vero che Rosie è stata uccisa

«Chi te l’ha detto?»

«Il fruttivendolo l’ha raccontato a Marie-Louise.»

Era inutile perdersi in congetture sulle fonti del fruttivendolo di Kelkheim che forniva il ristorante del castello gestito dalla cognata di Bodenstein. La sera prima, alla casa di cura, molte persone avevano notato la polizia e la Scientifica perlustrare la zona, avevano visto il medico legale e il veicolo delle pompe funebri che aveva trasportato il corpo di Rosie al dipartimento di medicina legale.

«Sì, è vero» rispose.

«Oh, il mondo è un posto spaventoso» dichiarò sua madre, turbata. «Eravamo andati a trovarla da poco, dopo che Clemens ci aveva detto di averla portata in quell’hospice perché ormai non aveva più speranze di guarigione.»

«Dove e quando Clemens te l’ha detto?» Bodenstein prese penna e blocchetto per prendere appunti. «Te lo ricordi?»

«Sì, certo. Sarò anche vecchia, ma non sono rimbambita.»

«Scusa, non intendevo offenderti.»

«Alla festa del raccolto alla nostra fattoria. Il 4 ottobre.»

«Sai con chi era?»

«No, c’era così tanto da fare che non me ne sono accorta.»

«E quando sei andata da Rosie?»

«Due o tre giorni dopo.»

«Questa settimana, allora.»

«Sì, aspetta un attimo. Era lunedì pomeriggio. Tuo padre aveva un appuntamento con il dermatologo al centro medico, e io sono andata a piedi al monastero. È venuto a prendermi lì più tardi.»

«Che impressione ti ha fatto Rosie?»

«Era debole, ma sorprendentemente di buonumore» rispose la contessa Leonora von Bodenstein. «C’era bel tempo e l’ho portata fuori. Moriva dalla voglia di fumare una sigaretta.»

«Mmm. E poi?»

«Abbiamo solo chiacchierato un po’. Del passato. Lo sai come fanno i vecchi.»

«Puoi essere più precisa?»

«Cosa vuoi sapere esattamente?»

«Purtroppo non lo so nemmeno io» ammise Bodenstein. «Sto cercando di scoprire perché qualcuno ha ritenuto necessario uccidere Rosie nonostante non le restasse molto da vivere.»

«Comunque sia, non mi ha dato l’impressione di essere preoccupata per qualcosa. Al contrario, era allegra e rilassata, diceva che si sentiva bene per essersi finalmente liberata di un peso e che sarebbe morta in pace.»

«Liberata di un peso?» Ricordando ciò che Sonja gli aveva raccontato prima, Bodenstein interruppe la madre e si annotò la frase. «Ha detto così?»

«Sì, credo di sì.»

«Sapevi che era depressa?» chiese.

«Sì, lo sapevo. Credo che lo sapessero tutti. Ma non se ne parlava. Era in cura da anni.»

«Strano. L’ho sempre trovata una persona molto equilibrata.» Bodenstein esitò a chiedere alla madre se sapesse anche di una certa maledizione di cui Rosie aveva parlato con Sonja.

«Ha parlato di Edgar, Clemens e Sonja?» domandò invece.

«No. Ha accennato solo al fatto che Clemens si sarebbe preso cura di lei. Perché è importante?»

Bodenstein decise di dirle la verità.

«Anche Clemens è morto» rivelò. «È stato ucciso due notti fa nell’incendio della roulotte di Rosie alla Casa degli amici del bosco.»

«Ma è orribile!» esclamò sua madre. «Pensi che ci sia un legame?»

«Ho smesso di credere alle coincidenze» replicò lui.

«Dev’esserci Edgar dietro a tutto questo. Mi ha sempre dato l’idea di essere un tipo misterioso e violento» disse sua madre. «Proprio come il padre.»

Bodenstein fu sorpreso da quel sospetto spontaneo.

«Cosa te lo fa pensare?» domandò.

«Oh, è successo alla festa della parrocchia, qualche anno fa. A quel tempo girava voce che Rosie avesse avuto una storia con un uomo sposato.» La contessa abbassò la voce. «Rosie mi ha chiesto se ne avessi sentito parlare e le ho risposto che non davo ascolto ai pettegolezzi. Poi mi ha detto che Edgar era fuori dalla grazia di Dio; le ha urlato addosso che le vecchie streghe come lei avrebbero dovuto essere lapidate o messe al rogo.»

Bodenstein non riusciva a credere alle sue orecchie.

«Quel pettegolezzo aveva un fondamento?»

«È possibile» replicò la madre, soppesando le parole. «Rosie è sempre stata... ehm... piena di vita. Le piaceva essere corteggiata e ammirata.»

Un eufemismo molto garbato che lasciava intendere che Rosie tradiva il marito.

«Può essere che Sonja non sia la figlia biologica del marito di Rosie?» chiese Bodenstein, seguendo un’intuizione improvvisa.

In fin dei conti, sua madre era una specie di testimone della vita di quella donna.

«In effetti giravano delle voci quando Rosie rimase di nuovo incinta» disse dopo un istante di esitazione. «I figli maschi erano già grandi e si diceva che Karl-Heinz non fosse più in grado... be’... chiacchiere di paese. Non gli ho mai dato credito.»

Fu una conferma sufficiente, per Bodenstein. Quarant’anni prima c’erano già state delle voci, e poco prima di morire Rosie l’aveva confessato alla figlia. Peccato che non avesse rivelato l’identità del padre di Sonja.

Dopo aver finito di parlare con la madre, Bodenstein esaminò attentamente gli appunti e considerò quale di quelle informazioni rientrasse nella categoria dei pettegolezzi, quale nelle opinioni soggettive e quale nei dati reali.

***

La situazione era grottesca. Il giovane seduto davanti a lei con gli occhi sgranati, e che le puntava contro una pistola, tremava in tutto il corpo. Chi aveva più paura? Anche lei non era da meno e aveva le gambe molli come gelatina. Malgrado ciò, sarebbe stato facile strappargli la pistola e scappare via, ma non lo fece. Tanto dove sarebbe potuta andare? Alla polizia? Probabilmente l’avrebbero derisa, non le avrebbero creduto e l’avrebbero presa per una piantagrane isterica. Oppure, peggio ancora, la sua faccia sarebbe finita sui giornali e gli scagnozzi dello strozzino le sarebbero stati alle calcagna nel giro di poche ore. Così rimase seduta lì, frastornata dal sollievo, a girare una bottiglia d’acqua vuota tra le mani, fissando il ragazzo a cui doveva le ore peggiori della sua vita. La Felicitas di un tempo lo avrebbe attaccato e insultato, ma la rabbia e il viscerale odio latente nei confronti di tutto e tutti erano svaniti. Le ventiquattro ore in cui era stata certa di morire l’avevano purificata.

«Mi dispiace, davvero» ripeté il ragazzo. «Non volevo farlo. Ma mi sono fatto prendere dal panico perché si è svegliata e ha iniziato a parlare di sbirri.»

Felicitas si toccò il bernoccolo sotto i capelli e sospirò. Per quel ragazzo provava pietà, roba da non credere.

«Non volevo legarla o roba simile, allora l’ho messa nella cassa nel garage. A dire il vero, non avevo intenzione di lasciarla lì dentro per così tanto tempo. Mi sono seduto sul divano solo un momento, a pensare, ma poi... mi sono addormentato.»

Il ragazzo fece una smorfia. Sebbene in cucina non facesse molto caldo, stava sudando copiosamente. Aveva gli occhi rossi e infossati. Il viso, dai tratti marcati, era da un lato gonfio e bluastro; dall’altro, invece, era pallido. I capelli, unti e di color biondo scuro, gli cadevano sulle spalle e, quando se li spinse via con un gesto fiacco, lei notò una ferita incrostata sulla tempia sinistra.

«Che problemi hai con la polizia?» chiese Felicitas.

«Oh, è una lunga storia» replicò in tono evasivo. «Adesso come adesso, è meglio se non sanno dove sono.»

Giocherellò con la pistola.

«Potresti mettere via quella cosa, per favore? Non aver paura, non correrò al telefono a chiamare la polizia.»

A quanto pareva, Felicitas gli ispirava fiducia, perché il ragazzo mise la pistola sul tavolo di fronte a sé, poi le raccontò cos’era successo. Lei lo aveva quasi investito nel bosco. Solo all’ultimo momento aveva sterzato per evitarlo e si era schiantata contro un mucchio di tronchi. Aveva sbattuto la testa contro il finestrino laterale e aveva perso conoscenza.

«Sapevo da dove veniva perché ho riconosciuto la macchina.»

«Ah sì? E come mai?»

«Una volta ho aiutato al ristorante. Ecco come ho avuto l’idea delle roulotte.»

«Le roulotte?» Era difficile per Felicitas immaginare quel ragazzino sporco come cameriere, ma la clientela del ristorante del bosco non era particolarmente raffinata.

«Mi sono disintossicato» rispose con franchezza, e un guizzo di vivacità gli illuminò gli occhi spenti. «La mia ragazza aspetta un bambino.»

«Ah!»

«Ecco perché voglio essere pulito. E ho pensato che lì non c’è mai nessuno, allora sono entrato in una delle roulotte. Ogni tanto uscivo a prendere un po’ d’aria fresca, ma solo la sera o la notte, perché in un’altra roulotte c’era qualcun altro. Tra l’altro, ho visto anche lei un paio di volte. Da lontano, con i cani.»

Dio santo, i cani di Manu! Felicitas non ci aveva più pensato! Dove potevano essere?

«Nel cuore della notte, c’è stata un’esplosione. Mi sono detto: “Merda, che succede” e sono uscito. E all’improvviso mi ritrovo davanti questo tizio che mi fissa, e io fisso lui, poi se l’è data a gambe e la roulotte è esplosa.» Il ragazzo si interruppe e si premette il palmo della mano sulla tempia.

«Sei ferito» constatò Felicitas e, in quell’istante, ebbe un’epifania. La sagoma di un uomo davanti al bagliore del fuoco! Era lui?

«Qualcosa mi ha colpito alla testa. Sanguinavo come un pollo sgozzato. Ma avevo una fifa blu di quel tizio e me la sono svignata nel bosco. Lo conosco abbastanza bene.»

Adrenalina. Sul momento non si era accorto di essere ferito e aveva perso un po’ di sangue. Il che, oltre all’astinenza, spiegava il suo aspetto malsano.

«Ho violato la libertà condizionale lasciando Francoforte, anche se non avrei dovuto farlo» continuò dopo un po’. «Gli sbirri mi cercano, ci scommetto. E forse anche questo tizio. Mi sono detto che qui sarei stato al sicuro, almeno finché le cose non fossero migliorate.»

«Sei davvero un bel teppistello» commentò Felicitas. «E adesso?»

«Non ne ho idea.» Il ragazzo scrollò le spalle. «Se chiama gli sbirri accuseranno me.»

Felicitas credeva alla sua storia. Avrebbe potuto derubarla, lasciarla incosciente nel bosco e sparire con la macchina.

«Se ti nascondo potrebbero accusare me» ribatté.

«Sì, forse.» Annuì rassegnato.

Ma cosa ci avrebbe guadagnato a informare la polizia? Non era meglio avere compagnia mentre Manu e Jens erano ancora in giro per il mondo? Felicitas si alzò dalla sedia e arricciò il naso. Puzzava parecchio e aveva i pantaloni rigidi sull’inguine a causa dell’urina asciutta.

«Lo sai che c’è?» propose. «Adesso vado a farmi una doccia e a mettere qualcosa di pulito. Poi vado a prendere qualcosa da mangiare e rifletteremo su cosa fare, okay?»

«Okay.» Il barlume di un sorriso gli attraversò il viso. «Grazie per aver deciso di non denunciarmi agli sbirri.»

Aveva degli occhi meravigliosi, scuri e pieni di sentimento. Anche se usava il vocabolario tipico dei giovani, ogni tanto si insinuavano espressioni che suggerivano che proveniva da una buona famiglia. Un reietto che non sapeva dove andare. Proprio come lei.

«Tranquillo» replicò Felicitas. «Neanche a me piace molto la polizia. A proposito, come ti chiami?»

«Elias» rispose. «E lei?»

«Felicitas» disse sorridendo. «E puoi darmi del tu.»

***

«È probabile che Clemens Herold fosse ancora vivo quando la roulotte ha preso fuoco.» Alla riunione pomeridiana, Pia espose i risultati delle due autopsie prima di entrare nel dettaglio. «Sua madre, Rosemarie Herold, è stata soffocata o strangolata.»

Due casi di omicidio nel giro di ventiquattr’ore avevano indotto la direttrice Nicola Engel a radunare tutti gli agenti disponibili, così c’erano quattordici persone accalcate nella sala riunioni del primo piano ad ascoltare la relazione di Pia. Nicola Engel aveva preso quella decisione senza aver prima consultato Bodenstein, e fu allora che il commissario si rese conto che la sua superiore aveva già messo una croce su di lui. Se non fosse stato il suo ultimo caso come capo dell’ufficio 11, le avrebbe chiesto spiegazioni, ma era stanco delle continue schermaglie che lei aveva scatenato più e più volte negli anni passati. Presto sarebbe stato il suo successore a dover affrontare le interferenze di Nicola.

«Il cranio di Clemens Herold è stato sfondato con un corpo contundente» stava dicendo Pia. «Il calore delle fiamme l’ha fatto scoppiare, ma la frattura della parte superiore della calotta cranica è chiaramente dovuta all’impatto con un oggetto, forse un martello. All’interno del cranio, è stato trovato un frammento di osso che corrisponde alle dimensioni del foro, e il tipo di frattura a ragnatela mostra che è stata causata da un attrezzo pesante.»

Le foto di entrambe le scene del crimine e delle vittime erano state appese sulla LIM e sulle bacheche di sughero, così come uno scatto di Elias Lessing, di cui ancora non c’era traccia nonostante l’intensa caccia all’uomo.

«Dopo un’esplosione così violenta, è impossibile dedurre qualcosa dalla posizione della vittima, ma la porta della roulotte era chiusa dall’esterno, e questo suggerisce che l’incendio potrebbe essere stato appiccato per coprire un crimine» riferì Pia con la sua solita concisione.

Aveva un buon controllo sull’ufficio 11. In realtà, Bodenstein non aveva mai dubitato che lei gli sarebbe succeduta, ma non c’era ancora stata una dichiarazione ufficiale. A meno che la direttrice non volesse sabotare la sua nomina semplicemente perché la proposta veniva da lui? Un’ultima dimostrazione di potere perché in fondo Nicola non accettava quel suo anno sabbatico?

«Clemens Herold era alto un metro e novantanove e pesava circa centoventi chili, quindi fisicamente era di certo capace di difendersi, cosa che invece non ha fatto. Quindi presumo che non si aspettasse di essere attaccato e che conoscesse il colpevole.»

«Come hanno fatto le fiamme ad arrivare a una temperatura così elevata?» chiese Nicola Engel, che fino ad allora aveva ascoltato in silenzio, appoggiata al davanzale all’altro capo della stanza, con le braccia incrociate.

«Abbiamo recuperato i resti delle bombole di gas propano» rispose Christian Kröger al posto di Pia, dirigendosi verso la LIM. Fece lo schizzo della roulotte con la veranda e segnò i punti in cui dovevano trovarsi le bombole del gas. «Il colpevole ha probabilmente lasciato fluire il gas nella veranda e nella roulotte prima di posare la miccia impregnata di benzina che ha acceso da una distanza di 48,7 metri.»

«Una veranda del genere non è a tenuta stagna al cento per cento» obiettò Kathrin Fachinger. «Come è stato possibile?»

«Ha agito in fretta e ha pianificato tutto» spiegò Kröger. «Immagino che, dopo aver ucciso la sua vittima, abbia aperto la bombola del gas all’interno della roulotte, poi ha fatto lo stesso con le bombole che aveva sistemato prima intorno alla veranda. I gas liquidi hanno una soglia di combustione molto bassa. Anche le più piccole quantità di gas che fuoriescono in forma liquida sono sufficienti a formare una miscela infiammabile in combinazione con l’aria. Un litro di propano liquido che evapora equivale a 260 litri di gas che, a contatto con l’aria, producono 12.400 litri di atmosfera esplosiva. Nel nostro caso, il colpevole ha usato sei bombole da undici chili ciascuna, che equivalgono a 6.050 litri di gas e, se moltiplicate per sei, abbiamo 36.300 litri.»

«Falla breve, Kröger» disse Nicola Engel, dando un’occhiata eloquente al suo orologio. «Non serve a nessuno la lezione di chimica.»

«Di fisica, casomai» rispose Kröger, piccato. «La temperatura di combustione del propano con l’aria è di circa 1.825 gradi Celsius, in combinazione con l’ossigeno puro arriva a circa 2.850 gradi Celsius. A titolo di confronto, i forni crematori funzionano con una temperatura che va dai 900 a un massimo di 1.200 gradi Celsius.»

«E l’assassino ha usato anche dosi massicce di accelerante» precisò Pia. «Voleva essere sicuro che tutto venisse completamente incenerito.»

«Un vero inferno» confermò Kröger. «Tranne varie parti di metallo fuso, non abbiamo trovato praticamente niente da...»

«Cosa sappiamo della seconda vittima?» Nicola Engel troncò di netto il responsabile della Scientifica, il quale le lanciò uno sguardo glaciale.

«Rosemarie Herold è stata strangolata e soffocata allo stesso tempo.» Pia spiegò il foglietto su cui aveva annotato alcune parole chiave. «Petecchie nelle congiuntive degli occhi, nella bocca, sulle gengive e sugli organi del torace, emorragia nel tessuto adiposo sottocutaneo e nei muscoli anteriori del collo e sulle articolazioni della laringe. Fratture dell’osso ioide e della cartilagine tiroidea, così come emorragie copiose nelle parti molli della laringe. Sono state trovate fibre di tessuto anche nel naso e nella cavità orale, il che suggerisce che la vittima non solo è stata strangolata, ma le è stato anche impedito di urlare, ostruendole la bocca e il naso. Non ci sono segni di strangolamento o impronte di unghie, né ferite da difesa sul corpo. Non dimentichiamoci che la donna era malata terminale.»

«Allora perché l’assassino si è preso la briga di ucciderla?» chiese qualcuno.

Pia lanciò un’occhiata a Bodenstein, che le fece cenno di continuare.

«È proprio questa la domanda su cui dobbiamo riflettere» disse allora. «Chi beneficia della morte di Rosemarie e Clemens Herold? Chi poteva avvicinarsi ai due senza destare sospetti? Chi aveva i mezzi e l’opportunità di ucciderli?» Andò alla LIM e colpì i nomi che Ostermann aveva scritto sulla lavagna. «Il nostro principale sospettato è Edgar Herold, 54 anni, fabbro, che vive a Kelkheim-Ruppertshain, figlio e fratello delle nostre vittime. Lui e la sorella dovrebbero ereditare dalla madre al suo decesso. I soldi sono sempre un forte movente. Inoltre, Edgar Herold lavora con il gas propano nella sua bottega di fabbro e possiede un veicolo con il quale può trasportare bombole del gas. Infine, non è un mistero la sua avversione per il fratello.»

Pia si interruppe di nuovo e guardò Bodenstein, ma lui rimase in silenzio.

«Anche se Herold è il nostro sospettato numero uno, non possiamo fossilizzarci su di lui» continuò dopo un istante di esitazione. «Controlleremo i suoi alibi per l’ora degli omicidi e la situazione finanziaria di Rosemarie, Clemens e Edgar Herold. Parleremo con vicini, conoscenti e parenti. E dobbiamo ripercorrere le ultime ore della vita di Clemens Herold, controllare i suoi spostamenti, le telefonate e le attività su internet. Dobbiamo anche esaminare la sua vita privata e l’ambiente professionale. Non aveva detto alla moglie di essere in ferie per due settimane e le aveva mentito su dove si trovava. Quindi dobbiamo considerare una relazione extraconiugale come possibile movente dell’omicidio.»

«Stiamo ancora cercando Elias Lessing?» domandò un collega del dipartimento Frode.

«Assolutamente.» Pia annuì. «È un testimone importante. Abbiamo parlato con l’assistente sociale. L’ultima volta che l’ha sentito è stata una settimana fa. Le ha detto che voleva disintossicarsi. In realtà, avrebbe dovuto ricontattarla molto tempo prima, fa parte delle condizioni per la libertà vigilata, ma lei non voleva metterlo nei guai. Nella sua opinione, Elias Lessing ha buone possibilità di reinserimento sociale, motivo per cui finora non ha denunciato la violazione.»

La direttrice scosse la testa. «Che mi tocca sentire! I buonisti manipolabili non dovrebbero fare certi lavori. Ma non sarebbe la prima volta che l’ingenuità favorisce un crimine. Lessing è un sospetto?»

«Non necessariamente, ma non possiamo escluderlo, a questo punto» replicò Pia. «Trasportare bombole di gas e acceleranti al campeggio, con un veicolo adeguato, richiede un minimo di organizzazione. Secondo noi, Elias Lessing non ne era capace. Non ha nemmeno la patente.»

«Questo non significa nulla» disse Nicola Engel con supponenza. «Voglio sperare che non la consideri come una prova della sua innocenza...»

«N... no.» Pia era destabilizzata. «Certo che no. Era solo una constatazione.»

Proprio in quel momento, Bodenstein notò lo sguardo che Nicola si stava scambiando con Cem Altunay. Non gli sfuggirono le sopracciglia inarcate in modo beffardo, né la complicità silenziosa che regnava tra i due. Che significava? Era in atto una specie di accordo sottobanco a svantaggio di Pia?

«Informeremo la stampa?» La domanda di Cem era rivolta a Bodenstein, ma lui non rispose subito, occupato ancora ad analizzare i suoi sospetti.

«Lei cosa ne pensa, signor von Bodenstein?» Nicola Engel si allontanò dal davanzale della finestra e lo guardò con aria di sfida.

Tutti drizzarono le orecchie. Ognuno di loro sapeva che lui e la direttrice si davano del tu.

Oliver emise solo un lieve brontolio con la fronte aggrottata.

Rendere il caso di dominio pubblico poteva rivelarsi un valido aiuto, ma rappresentava anche un grosso rischio. Il loro unico testimone oculare era introvabile, ma fintanto che la sua identità fosse rimasta sconosciuta, era relativamente al sicuro dall’assassino di Clemens Herold. D’altro canto, le possibilità di trovare Elias Lessing sarebbero aumentate notevolmente se i giornali avessero diffuso la sua foto e il suo nome.

«Ci degnerà di una risposta entro oggi?» Il tono di Nicola tradiva malumore. Non per forza Bodenstein ne era la causa, ma il fatto che se la stesse prendendo con lui lo infastidì.

«Ci sto pensando.» Ignorò il tentativo della direttrice di farsi beffe di lui davanti alla squadra riunita.

«Allora si sbrighi a comunicare al mio assistente i risultati del suo processo mentale» sbottò lei. «Ho degli appuntamenti e non ho tempo da perdere.»

Simili uscite a effetto dopo uno schiaffo verbale erano la sua specialità; in questo modo la direttrice aveva la certezza di avere sempre l’ultima parola. Quasi tutti i colleghi temevano di essere messi in ridicolo da Engel, e per questo davanti a lei erano in soggezione, il che ovviamente non aveva nulla di costruttivo.

Per Bodenstein non aveva più importanza se la direttrice fosse bendisposta verso di lui o meno, era stanco dei suoi giochetti. Fece un passo di lato e le bloccò l’accesso al corridoio.

«Che ti prende?»

Bodenstein sapeva quanto Nicola odiava dover alzare lo sguardo su qualcuno. Nei suoi occhi brillavano lampi di rabbia.

«Il tuo ufficio o il mio?» chiese, conciso.

I presenti trattennero il respiro.

«Il mio!» sibilò la direttrice, e lui si fece da parte.

Nicola Engel se ne andò in tutta fretta, lasciando aperta la porta in segno di protesta.

«Come procediamo adesso?» Cem ruppe il silenzio teso mentre il rumore dei passi di Nicola Engel si perdeva nel corridoio.

«Sarò qui tra dieci minuti» replicò Bodenstein. «Potete tornare alle vostre postazioni fino a nuovo ordine. Per il momento, mi serve solo la mia squadra.»

***

«Come ti permetti di immischiarti nel mio caso?» Bodenstein era passato senza farsi problemi davanti all’assistente di Nicola e aveva marciato dritto nell’ufficio della direttrice, che si era già barricata dietro la scrivania.

«Non so di che parli» ribatté lei, glaciale. «So solo che non tollererò una simile... insubordinazione da parte tua. Azioni del genere hanno delle conseguenze.»

Bodenstein ignorò la minaccia.

«Convochi una commissione speciale senza consultarmi. Tratti i miei collaboratori a pesci in faccia come se fossero degli stagisti. Posso sapere che ti passa per la testa?»

«Siediti.» Nicola lo fulminò con lo sguardo.

«Preferisco stare in piedi.»

«Molto bene.»

Si fissarono come due pitbull, in attesa di una mossa sbagliata dell’avversario per saltargli alla gola.

«Comunque, è evidente che ti senti già in congedo» affermò Nicola. «Non hai detto una parola per tutta la riunione.»

«Ma non siamo ridicoli!» Bodenstein scosse la testa davanti a quell’accusa ingiusta. «Non si tratta di questo. È che ti dà fastidio che sia Pia ad aver gestito la ricostruzione del caso. Sei arrabbiata e non la vuoi come mio successore solo perché sono stato io ad averla proposta, ammettilo: vuoi mettermi i bastoni tra le ruote.»

«Cosa te lo fa credere?»

«Non sono mica cieco.» Scrollò le spalle. «Preferisci qualcun altro della mia squadra, Cem Altunay.»

“Perché pensi di poterlo controllare meglio di Pia” aggiunse tra sé.

«La posizione sarà occupata da un agente interno. Il signor Altunay è nella lista dei candidati» ammise Nicola.

Cem era un buon detective, posato, perspicace, sapeva lavorare in squadra, possedeva molto buonsenso e non aveva paura di prendere decisioni. Bodenstein non metteva in dubbio le sue capacità. Ma come avrebbe reagito Pia, che dalla sua aveva una maggiore anzianità di servizio?

«Quando lo annuncerai?»

«Appena sarà deciso ufficialmente, e non è ancora successo.» Nicola si mise gli occhiali da lettura e infilò alcuni fogli in una pila di cartellette, allineandola poi perpendicolarmente a un’altra. «C’è altro?»

«No, è tutto.» Bodenstein si voltò per andarsene, ma sapeva che lei avrebbe aggiunto qualcosa.

«Ehi, Oliver.»

Doveva sempre avere l’ultima parola.

«Sì?» Si fermò e si girò.

«Sono rimasta molto sorpresa quando il questore mi ha chiamata per dirmi che ti sei lamentato con lui.»

«Come, scusa? Non mi sono lamentato con lui» ribatté Bodenstein, infastidito da quella formulazione offensiva.

«E come vorresti definire quello che è successo?» Nicola sollevò le sopracciglia accuratamente depilate. «A me sembra che tu non sia più in grado di fare il tuo lavoro. O soffri della malattia che oggi va tanto di moda, il burnout

Detto da lei, quel termine suonava sarcastico e assolutamente ridicolo.

«Gli ho spiegato perché volevo prendermi un anno sabbatico» disse Bodenstein. «Proprio come l’ho spiegato a te.»

«Raccontalo pure agli altri che ti serve una pausa, ma non a me!» Nicola sbuffò. «Perché non dici la verità? Non hai più bisogno del tuo stipendio da dipendente pubblico perché ti becchi l’eredità della tua ricca suocera. Invece di ammetterlo, mi rifili certe sciocchezze. Come si rifletterà sul mio ufficio? Su di me?»

Invidia e lesa maestà: finalmente la verità veniva a galla.

«Non so da dove ti sia fatta questa strana idea che erediterò dalla mia ex suocera» ribatté Bodenstein, gelido. «Mia suocera è in gran forma, e speriamo che lo sia ancora per molto. Ho cinquantaquattro anni e faccio il poliziotto da trenta. Voglio solo avere un po’ più di tempo per mia figlia e ho bisogno di staccarmi un po’ da questo lavoro. Ma che ti prende, di colpo? Avevi già accettato la mia richiesta di congedo!»

«Non avevo scelta.» Nicola aggrottò la fronte e serrò le labbra così forte che formarono una linea netta sul suo viso. «Oh, porca miseria, Oliver.» All’improvviso, la presa di ferro che di solito esercitava sulle sue emozioni si sciolse. «Perché sei così poco ambizioso? Sono anni che il tuo nome circola per dei ruoli importanti, e ora rovini ogni possibilità di successo raccontando in giro queste cavolate smielate! La tua decisione finirà nel tuo dossier personale!»

Bodenstein comprese finalmente la vera ragione di quella sua rabbia. Nicola era una donna di potere e non aveva mai sopportato di non avere tutto sotto controllo. Con molta probabilità, aveva architettato per lui qualche piano che le avrebbe fatto comodo da un punto di vista strategico. E ora lui stava vanificando i suoi progetti. Peggio per lei; ecco cosa succedeva a non giocare a carte scoperte.

«Lo sai benissimo che non sono interessato a una posizione come la tua» disse. «Mi è sempre piaciuto essere un investigatore, e non escludo la possibilità di esserlo di nuovo, un giorno. Non sono tagliato per la politica o per gli intrighi che tu ami tanto.»

Nicola lo scrutava a occhi stretti.

«Be’... non mi resta che accettarlo.» Sospirò. «Lo sai che ti stimo, ma mi hai deluso molto, Oliver. Risolvi i due casi. Prenditi un anno di pausa. E poi torna.» Con grande sorpresa di Bodenstein, di punto in bianco Nicola Engel sorrise. «A Wiesbaden sanno che chi prenderà il comando dell’ufficio 11 lo farà solo in via temporanea.»

***

Quando Bodenstein tornò nella sala riunioni, il numero di persone presenti si era ridotto. Oltre a Pia, Cem, Kathrin e Kai, erano rimasti solo Tariq Omari e Christian Kröger. Al suo arrivo, le conversazioni si interruppero come i suoni di un’orchestra quando il direttore sale sul podio. Qualcuno aveva aperto due finestre; la fresca aria autunnale si riversava dentro e dissipava il cattivo odore prodotto da quindici persone confinate in uno spazio ristretto.

«Allora» esordì. «Cem e io andremo dalla moglie di Clemens Herold. Pia, tu e Tariq interrogherete Edgar Herold riguardo ai suoi alibi e li controllerete. Christian, accompagnali con i tuoi uomini. Perquisirete la casa, la bottega, tutta la proprietà, compreso l’appartamento di Rosie Herold.»

«Senza un mandato?»

«Ne otterremo uno» assicurò Bodenstein.

«Me ne occupo subito io» disse Kai.

«Non interroghiamo i vicini di Herold?» domandò Cem.

«Ovvio!» Il commissario annuì. «Prendi gli uomini che ti servono. Interroga tutti quelli che vivono nella via. Forse mercoledì notte qualcuno ha visto qualcosa. E parla anche con Sonja, la sorella di Clemens e Edgar. Non sa ancora che il fratello è morto.»

«Okay.» Pia annuì.

«Come siamo messi con i tabulati del cellulare di Elias Lessing?»

«Dovrebbero arrivare da un momento all’altro» rispose Kai. «Insieme a quelli dei cellulari dei fratelli Herold. Kathrin si occupa dei movimenti bancari.»

«Bene. L’assistente sociale di Elias sapeva dell’esistenza di questa ragazza?»

«Ha sentito parlare di una ragazza di nome Nike, ma non sa nient’altro» replicò Pia. «Si informerà e ci contatterà, nel caso dovesse scoprire qualcosa. Tra l’altro, è molto preoccupata perché Elias tornerà in prigione se salterà fuori che ha violato la libertà vigilata. Vuole evitarlo e quindi ci ha chiesto, per il momento, di non lanciare un avviso di ricerca pubblico. Vuole dargli un’ultima possibilità di contattarla.»

«È encomiabile, ma assolutamente inaccettabile» disse Bodenstein, ripensando a come Peter Lessing aveva descritto l’assistente sociale del figlio. «Informeremo la stampa. Emettete un avviso di ricerca per Elias Lessing da divulgare sui media. Mantenete il testo il più vago possibile. È tutto?»

«No, ho qualcos’altro.» Kröger si alzò. «Abbiamo raccolto tutti i rifiuti, ogni pezzettino di carta e mozzicone di sigaretta nel raggio di un chilometro dalla casa di cura. Tra le varie cose, abbiamo trovato una sciarpa di lana grigio scuro, che non è stata buttata molto tempo fa.» Si avvicinò a una fotografia aerea della zona intorno all’hospice sulla LIM e indicò un punto. «Era più o meno... qui. Questo sentiero porta dal monastero direttamente alla rotonda, nonché al parcheggio del cimitero. La sciarpa potrebbe anche essere l’arma del delitto. Il colpevole potrebbe aver posteggiato l’auto laggiù e aver attraversato i prati fino alla casa di cura.»

«Il che significa che conosceva bene il posto e sapeva che la signora Herold aveva una stanza al piano terra» dedusse Cem.

«Esatto.» Kröger annuì. «La sciarpa è in laboratorio. Entro domani dovremmo avere un risultato.»

«Quante persone sapevano che Rosemarie Herold era ricoverata in quell’hospice?» chiese Cem.

«Abbastanza, temo. Era conosciutissima a Ruppertshain» replicò Bodenstein, ricordandosi della conversazione con la madre. «Ritornando da Niederrod, passeremo di nuovo da Felicitas Molin e alla casa di cura per interrogare il personale. E adesso, al lavoro. Ci ritroviamo qui alle cinque.»

***

Sulla strada per Ruppertshain, Pia si chiese perché Bodenstein avesse chiesto a Cem e non a lei di accompagnarlo a casa della signora Herold. Ce l’aveva ancora con lei per come si era comportata a casa Lessing? O voleva che si abituasse a cavarsela senza di lui? Ne sarebbe stata più che capace, avrebbe mostrato la stessa sensibilità e altruismo che contraddistinguevano il capo. Negli ultimi dieci anni Bodenstein era diventato una parte importante della sua vita e Pia non riusciva a immaginare come sarebbe stato lavorare senza di lui. Con chi avrebbe discusso, chi avrebbe potuto sostituirlo? Per lei era molto più di un semplice capo con cui si intendeva bene. Insieme avevano vissuto alti e bassi, avevano risolto casi complicati e superato situazioni pericolose, avevano potuto fare affidamento l’uno sull’altra in tempi difficili. Erano diventati amici che parlavano anche di questioni private e, negli anni, Bodenstein era diventato il suo confidente più intimo.

Nella bottega di Herold si lavorava come se non fosse successo nulla. O Edgar Herold compensava con il lavoro il dolore per la morte violenta della madre, oppure la cosa non lo scalfiva. Non sembrò molto sorpreso quando Pia e Tariq entrarono nell’officina.

«Immaginavo che sareste riapparsi» borbottò senza nemmeno alzare gli occhi dal suo lavoro. «Qual è il problema?»

«Dobbiamo parlare con lei.» Nella sua carriera, Pia aveva assistito alle reazioni più disparate da parte dei parenti delle vittime. «Possiamo discutere da un’altra parte?»

Herold si strinse nelle spalle e mise via il pezzo di metallo su cui stava lavorando. Dopo aver dato ai collaboratori alcune brevi istruzioni, seguì Pia e Tariq in cortile. Il suo volto si oscurò alla vista di Kröger e della sua squadra che stavano indossando la tuta bianca.

«Che diavolo succede?» Aggrottò la fronte tanto che le sue folte sopracciglia formarono un’unica linea. Senz’altro aveva notato le due anziane sul lato opposto della strada, che fissavano con sfacciataggine il cortile. In un paese come quello, nessun evento passava inosservato per molto tempo.

«Abbiamo un mandato di perquisizione per la sua proprietà» disse Pia, seguendo la solita procedura.

«A cosa devo l’onore, se posso chiedere?»

«L’altro ieri suo fratello Clemens è stato ucciso nell’incendio della roulotte» rispose Pia. «Si è trattato chiaramente di incendio doloso.»

«E che volete da me?» La sua diffidenza si trasformò in ostilità.

«Possiamo risolvere la questione altrove?» chiese Pia. Le vecchiette dall’altra parte della strada erano state affiancate da un uomo dai capelli bianchi e da una donna grassa in grembiule.

«Ehi, Edgar!» gridò la donna grassa. «Che hai combinato, eh?»

Herold serrò le labbra e fece un gesto osceno.

«Venite con me» ringhiò.

Pia e Tariq lo seguirono su per una stretta scala che girava intorno alla casa. La porta d’ingresso era aperta.

«Di notte chiude la porta d’ingresso e il cancello?» domandò Tariq.

«La porta d’ingresso sì, ovviamente.» Herold si diresse verso quella dell’appartamento, che si trovava sul pianerottolo. «Ma non il cancello del cortile.»

«E la bottega? Ci sono macchinari e attrezzi di valore, no?»

«Sono stati tutti ammortizzati da tempo» disse Herold senza voltarsi, e li condusse in quello che sembrava un ufficio. Una scrivania terribilmente sovraccarica, dove troneggiava un vecchio computer cubico, una stampante laser sul pavimento, mucchi di raccoglitori. Cassette portadocumenti traboccanti stavano su una credenza, cataloghi e campionari accatastati su ogni superficie e pavimento. «Allora, che c’è?» domandò posizionandosi con le spalle alla finestra che si affacciava sul cortile. «Non ho tempo da perdere.»

Lo stridore del seghetto si era interrotto, i tre dipendenti di Herold approfittavano dell’assenza del capo per prendersi una pausa in sigaretta in cortile.

«Dove si trovava la notte tra l’8 e il 9 ottobre?» Pia aveva deciso di andare subito al punto e di non trattare Edgar Herold con i guanti. A mali estremi, estremi rimedi. «E dov’era verso le cinque di ieri pomeriggio?»

L’uomo capì subito dove voleva arrivare e arrossì.

«Non ci credo!» strepitò indignato. «Mia madre e mio fratello sono morti e voi ve ne saltate fuori con certe insinuazioni! Dov’è Bodenstein? Non parlo con lei e con quell’abbronzato là.»

«Temo che dovrà accontentarsi di noi. Il signor von Bodenstein è da sua cognata» replicò Pia con freddezza. «Allora, dov’era alle ore in questione?»

«La notte dormo, di solito» sbottò il fabbro, furioso.

«E la notte prima?»

«Pure! Mia moglie può confermarlo.»

«Qualcun altro oltre a sua moglie?»

«Purtroppo a mia moglie non piace quando faccio dormire da noi la mia amichetta.»

«Oh, ha un’amichetta?» Pia, che dal fabbro non si era aspettata una tale arguzia, gli diede corda. «Molto interessante. Come si chiama e dove vive?»

«Era una battuta!» sbuffò Herold con rabbia.

«Non ci piace scherzare quando si tratta di omicidi» rispose lei, glaciale. «Le consiglierei di prendere la situazione sul serio. Dov’era ieri verso le cinque?»

«Da un cliente. Avevo una consegna con montaggio. Può chiedere ai miei collaboratori.»

«Lo faremo» lo rassicurò Pia. «Quale degli uomini laggiù era con lei?»

«Nessuno di loro» affermò Herold, scontroso. «Leo lavora in città e ogni tanto mi dà una mano nei suoi giorni di riposo.»

«Leo?» chiese Tariq. «Leo chi? Può darci nome, indirizzo e numero di cellulare?»

«Keller, Leonard» ammise Herold con riluttanza. «Abita qui a Ruppertshain. Da sua madre, anche lui in Wiesenstraße.»

«A che indirizzo era la consegna di ieri pomeriggio?» chiese Pia.

«Giù a Kelkheim» borbottò il fabbro. «Beethovenstraße 102. Dovevo montare una ringhiera da balcone.»

Tariq si annotò quelle informazioni sullo smartphone.

«Grazie.» Pia fece un sorriso di cortesia. «È tutto, per il momento. E ora vorremmo vedere l’appartamento di sua madre.»

«Se pensate che possa servire a qualcosa...» Herold si strinse nelle spalle. Li oltrepassò nella tromba delle scale, salì lentamente due rampe e aprì una porta.

In quel luogo il tempo si era fermato agli anni Cinquanta del secolo scorso: mattoni in vetrocemento, la ringhiera delle scale con corrimano in plastica color oliva e gradini usurati in pietra color ruggine. Quadretti di animali ricamati a punto croce e una fotografia aerea incorniciata della proprietà degli Herold, risalente almeno a sessant’anni prima, erano appesi alla carta da parati sbiadita.

Herold aprì la porta a sinistra. «Ma prego.» Fece un ampio movimento del braccio e sorrise con sarcasmo. «Date pure uno sguardo in giro. Prendetevi tutto il tempo che volete.»

Pia rimase impassibile ed entrò nel vecchio appartamento di Rosie Herold, già in fase di ristrutturazione. Sulle pareti c’erano ancora resti di carta da parati, e qua e là si vedevano residui di colla per moquette sul massetto spoglio.

«Aveva proprio fretta di fare pulizia.» Andò a una delle finestre. La vista si estendeva fino allo Zauberberg e al bosco. Sotto c’erano tre contenitori pieni di calcinacci, legno e rifiuti misti. «Dove sono gli effetti personali di sua madre?»

«Ci siamo liberati di quello che non ha voluto portare con sé» rispose Herold dal corridoio, con profonda soddisfazione.

Pia lo squadrò. Rosie Herold si trovava all’hospice da qualche settimana appena e la sua famiglia non aveva niente di meglio da fare che cancellare ogni traccia della sua vita ancor prima che morisse. Aveva già incontrato persone odiose, ma Edgar Herold rientrava nella top ten dei bastardi assoluti.

Il suo cellulare squillò. Kröger. Andò in una delle altre stanze.

«Mancano sei bombole di propano» disse Christian senza tanti preamboli. «I dipendenti non sanno dove si trovino. A volte Herold consegna bombole di gas alle associazioni. C’è una bolla di consegna e le persone devono lasciare un deposito di cinquanta euro. In ufficio hanno un quaderno in cui registrano queste operazioni. Ma non ci sono aggiunte recenti.»

«Grazie, Christian» replicò Pia a bassa voce. «Siamo di sopra, nell’appartamento di Rosie Herold. Purtroppo hanno svuotato tutto. Ci sono tre contenitori dietro la casa. Puoi vedere se trovi gli effetti personali della signora Herold? Ah, e manda i colleghi della pattuglia quassù. Portiamo via Herold.»

«Ricevuto.»

Pia mise via il cellulare e tornò nell’atrio.

«Penso che sarebbe meglio che il nostro capo le parlasse di persona» disse sorridendo.

«E solo adesso ci pensate?» Herold manteneva intatta la sua arroganza. «Sarò giù in officina. Sa dove trovarmi.»

«Mi ha frainteso, signor Herold. Lei ci accompagnerà a Hofheim, all’RKI.» Pia guardò svanire il sorriso compiaciuto sul volto di Herold mentre i due colleghi in divisa entravano nell’appartamento vuoto. «E tanto per non lasciare i suoi compaesani senza un argomento di conversazione, le offriamo addirittura un giro sull’auto di pattuglia. Sul sedile posteriore.»

***

Bodenstein aveva assistito a ogni possibile reazione quando ai parenti di una vittima dava la notizia che avrebbe messo sottosopra la loro vita. Alcuni scoppiavano in lacrime, altri diventavano catatonici o si facevano prendere da un bisogno insensato di agire, altri ancora si rifiutavano semplicemente di credere e di capire ciò che avevano sentito. L’avevano accusato di mentire, avevano pianto singhiozzanti tra le sue braccia, e una volta una donna gli aveva anche chiesto in tutta serietà se si trattasse di una “candid camera”, dopo che lui le aveva detto che suo marito era morto in un incidente d’auto.

Mechthild Herold e suo figlio avevano reagito con molta calma quando lui e Cem li avevano informati dell’esito dell’autopsia, sorvolando saggiamente sui dettagli raccapriccianti. La rabbia si era poi mescolata al lutto e alla sofferenza quando si erano resi conto che Clemens Herold aveva condotto una doppia vita, e probabilmente lo faceva da tempo. Per il resto dei suoi giorni, una domanda avrebbe torturato Mechthild Herold: cosa faceva in realtà suo marito quando diceva di essere via per lavoro? Le aveva mai detto la verità? I suoi colleghi e i suoi amici ne erano al corrente?

Non si era opposta al fatto che prendessero il computer e l’agenda del marito, e aveva permesso loro di dare un’occhiata al suo piccolo ufficio nel seminterrato.

Bodenstein e Cem erano ora in viaggio di ritorno a Hofheim, dove Edgar Herold aspettava di essere interrogato, ma prima, all’altezza della Billtalhöhe, lasciarono la B8 in direzione della Casa degli amici del bosco. Per tutto il tragitto, Bodenstein si era aspettato che Cem sollevasse la questione della successione all’ufficio 11, ma al riguardo il collega non aveva detto una parola. Forse non c’era nulla di cui parlare, perché la decisione era già stata presa molto tempo prima...

Quando arrivarono al parcheggio della sede della Casa degli amici del bosco, Felicitas Molin stava estraendo due borse della spesa strapiene dal bagagliaio di una Land Rover malconcia. Aveva un’aria più fresca rispetto alla mattina precedente, e anche l’odore era di gran lunga migliore.

«Mi dispiace di essere stata così maleducata.» Sorrise contrita e fece guizzare lo sguardo da Bodenstein a Cem. «Ero un po’ nel pallone.»

«Lo capisco.» Bodenstein annuì, pieno di comprensione. «Non è certo bello essere svegliati da un’esplosione nel cuore della notte.»

«Di solito non bevo così tanto da pensare che le zucche siano persone» ammise, ridendo in maniera impacciata.

«Non si deve scusare.» Bodenstein rimase piacevolmente sorpreso dalla trasformazione avvenuta in Felicitas Molin. La donna indossava jeans stretti e stivali a tacco alto, più un corto piumino beige con un collo di pelliccia sintetica, e si era anche leggermente truccata. Forse la prima impressione era la più importante, ma a volte una persona meritava una seconda possibilità.

«Nell’incendio è morto qualcuno, vero?» Indicò il giornale che spuntava da una delle borse della spesa. «Oggi ne parlano tutte le pagine di cronaca locale.»

«Sì, purtroppo» confermò Bodenstein. «È stato un incendio doloso, e forse c’era un testimone, perché in una delle altre roulotte alloggiava un giovane che stiamo cercando.»

«Così ho sentito dire.» La signora Molin annuì. «Cos’altro posso fare per lei?»

«Ci ha raccontato che ci sono state due esplosioni. Poi ha sentito un’auto partire, e dopo ha visto una persona vicino al fuoco.»

«Proprio così.»

«L’ordine cronologico è molto importante per la nostra indagine» disse Cem. «Ricorda se ha sentito il rumore del motore prima o dopo la seconda esplosione?»

«Prima» rispose la Molin senza esitazione. «Mi sono svegliata alla prima esplosione e sono andata alla finestra. Purtroppo sono cieca come una talpa, così ho preso il binocolo di mio cognato. Ed è stato allora che ho sentito la macchina.»

«Quando ha visto la persona?»

«Dopo. In realtà, non ho visto niente, solo una sagoma davanti alle fiamme.»

«È riuscita a distinguere cosa indossasse o che aspetto avesse?»

«No, mi dispiace.» Felicitas Molin scosse la testa con rammarico. «All’inizio pensavo di essermi sbagliata, ma poi, attraverso il binocolo, ho visto il profilo di una persona. Stava scappando verso il bosco.»

«Okay, grazie.» Cem annuì e sorrise. «Ci è stata molto utile.»

«Cos’è successo alla sua auto?» volle sapere Bodenstein. La Land Rover era vecchia e non molto ben tenuta, ma le ammaccature sul parafango sinistro sembravano piuttosto recenti.

«È di mia sorella» rispose la signora Molin. «La mia è in officina, al momento, quindi uso la sua mentre lei è via.»

Bodenstein guardò dentro la Land Rover e notò delle macchie scure sul sedile del conducente. Era sangue?

«Ha notato qualcosa di sospetto nei giorni precedenti all’incendio?»

«Non mi sembra.» La signora Molin tirò fuori una cassa di Coca-Cola dal bagagliaio e chiuse il portellone con un tonfo. «Non c’è molta attività quassù, in questo periodo. Ogni tanto passa un runner, o qualcuno in mountain bike o a cavallo.»

«Posso aiutarla con le buste?» si offrì Cem con un sorriso affascinante. «Ha fatto una grossa spesa.»

«Quando si vive in mezzo al nulla non si ha altra scelta.» La signora Molin ricambiò il sorriso. «Il supermercato non è proprio dietro l’angolo. Grazie, ma me la caverò.»

Chiuse a chiave l’auto, afferrò le due buste e si allontanò barcollando verso il ristorante.

«Andiamo?» suggerì Cem.

«Un attimo.» Bodenstein aspettò che la donna sparisse dietro l’angolo della casa, poi accese la funzione di fotocamera del cellulare e scattò in fretta alcune foto all’interno della Land Rover e al parafango danneggiato. C’era del sangue sulla maniglia della portiera del conducente. Era già secco e a prima vista sarebbe sembrato solo sporco.

«Attento, sta tornando» lo avvertì Cem, e lui fece scivolare il telefono nella tasca della giacca.

«Serve altro?» chiese la donna.

«No, no. Adesso ce ne andiamo» replicò Bodenstein. «Sicura che non vuole che il mio collega l’aiuti?»

Felicitas Molin inclinò la testa e squadrò Cem divertita.

«Be’, non sarò io a impedirle di fare la sua buona azione quotidiana... prego.» E fece un cenno in direzione delle casse di bevande. «Se potesse lasciarle davanti al ristorante, gliene sarei grata.»

Cem prese le casse di Coca-Cola e d’acqua e la seguì. Bodenstein colse l’occasione per svitare uno dei kit per il prelievo della saliva – li portava con sé per abitudine – e passare un tampone di cotone sulle macchie di sangue sulla maniglia della portiera. Qualcosa nel comportamento di Felicitas Molin lo insospettiva. Il sorriso amichevole, la disponibilità a collaborare, l’allegria forzata... era come se avesse qualcosa da nascondere. L’aveva giudicata male o era la solita diffidenza indotta dalla sua professione? Doveva chiedere a Kai di raccogliere informazioni sulla donna? No, non era necessario. Era solo una testimone e aveva risposto alle loro domande senza esitazione, quindi non c’era alcun motivo di diffidare di lei. Se non fosse stato per quella strana sensazione...

***

Erano le otto e mezza quando Pia imboccò il sentiero di campagna parallelo all’autostrada, in direzione Birkenhof. Per fortuna, giorni come quello erano l’eccezione piuttosto che la regola, e forse avrebbero risolto i due omicidi a tempo di record. Edgar Herold era ben lungi dal confessare, ma gli indizi della sua colpevolezza si stavano accumulando. La sciarpa che la squadra di Kröger aveva recuperato sul sentiero tra i prati sotto il monastero di Kelkheim apparteneva a Herold, come lui stesso aveva confermato. In laboratorio erano state rilevate tracce di saliva e particelle cutanee, che sarebbero state confrontate con il dna di Rosemarie Herold. Il fabbro non aveva una spiegazione plausibile per l’assenza delle sei bombole di gas propano né per come la sua sciarpa, che non usava da anni, fosse finita su un viottolo vicino a una scena del crimine a Kelkheim. L’alibi per giovedì pomeriggio era piuttosto traballante. Leonard Keller, l’impiegato comunale che arrotondava lo stipendio facendo di tanto in tanto dei lavoretti per Herold, era un sempliciotto e non abbastanza scaltro da mentire. L’interrogatorio era durato quasi un’ora, perché Keller riusciva a esprimersi a fatica e gli serviva sempre un po’ di tempo per capire una domanda. Alla fine era venuto fuori che Herold lo aveva lasciato dal cliente in Beethovenstraße verso le 15.30 del giorno prima e poi se n’era andato. “Eddy” era riapparso ben un’ora e mezza dopo, con i materiali che aveva comprato al centro bricolage. Nonostante la ricevuta del negozio, dovevano comunque fare un controllo: in fondo, chiunque avrebbe potuto fare acquisti lì al posto suo. Anche l’alibi di Herold per la notte tra mercoledì e giovedì non reggeva molto, perché i coniugi spesso non erano testimoni attendibili.

Nel bidone dell’indifferenziata, i colleghi della Scientifica avevano trovato tutti gli oggetti appartenuti a Rosie Herold, tra cui una gran quantità di farmaci, alcuni dei quali scaduti da tempo. Ma ciò che mancava erano cose personali come album fotografici, quadri e le tipiche cianfrusaglie che si accumulano in una vita e che non hanno alcuna importanza se non per chi le ha possedute. L’insensibilità, ma soprattutto la velocità con cui Herold aveva gettato nella spazzatura tutti i ricordi della madre, era la cosa che più infastidiva Pia. Edgar disprezzava la madre, si vergognava della sua presunta vita dissoluta e sì, forse addirittura la odiava. Che volesse radere al suolo la roulotte, una vecchia spina nel fianco, e, allo stesso tempo, liberarsi dell’odiato fratello aveva una certa logica.

Ma a quel punto Pia fu assalita dai dubbi. L’uomo non era certo un mostro d’intelligenza, però doveva immaginare che sarebbe stato sospettato, perché non aveva mai nascosto la sua avversione per la madre e il fratello. Era verosimile che avesse lasciato delle tracce così evidenti da condurre direttamente a lui, una specie di percorso illuminato? L’omicidio di Clemens Herold era stato preparato con meticolosità, il piano eseguito con una notevole energia criminale e una volontà assoluta di distruzione. Pia non pensava che Edgar Herold fosse in grado di mettere in atto un simile disegno.

Mentre arrivava al cancello della casa a Birkenhof, azionò il telecomando e il battente sinistro ruotò di lato. Fu solo quando si immise nel vialetto di ghiaia e vide una strana macchina accanto al pick-up di Christoph che si ricordò di aver invitato Kim a cena quella sera. A causa del ritmo frenetico della giornata, si era completamente dimenticata di chiamare la sorella e disdire l’appuntamento. Kim era stata a lungo vicedirettrice di una clinica psichiatrica forense nel carcere vicino ad Amburgo, e le due sorelle si erano allontanate per molto tempo. Due anni prima, Kim aveva deciso di passare di nuovo il Natale dai loro genitori a Wiesbaden. L’intima festa familiare era stata un fiasco, ma da allora Kim e Pia avevano ripreso i contatti, facilitate dal fatto che Kim, che aveva accettato una cattedra di psichiatria forense a Monaco di Baviera, fosse la compagna della direttrice Nicola Engel e ormai facesse la spola tra Monaco e Francoforte.

A dire il vero, non era così male avere lì quella sera Kim, pensò tra sé e sé mentre parcheggiava l’auto accanto a quella della sorella e scendeva. Dopotutto, Kim lavorava come esperta per i tribunali e la procura e forniva consulenza agli specialisti dell’analisi operativa dei casi presso la polizia federale. Aveva lavorato per diversi anni nell’unità di analisi comportamentale dell’FBI a Quantico ed era una psichiatra forense di grande esperienza, il profiling di crimini e criminali era la sua specialità. Forse poteva parlarle dei due casi e chiedere un suo parere.

Il profumo appetitoso di aglio e salvia penetrò nel naso di Pia e le fece venire l’acquolina in bocca quando aprì la porta d’ingresso. Nel vestibolo si sfilò le scarpe e si mise le Crocs verde rana. In passato, i cani saltavano fuori dalle loro cucce e le facevano la festa abbaiando come pazzi davanti alla porta quando il cancello in fondo al vialetto si apriva, ma ormai erano avanti con l’età ed erano diventati un po’ sordi. Arrivarono scodinzolando e l’accolsero con un’allegria discreta. Pia li accarezzò, poi andò in cucina. Christoph e Kim erano seduti al tavolo e si alzarono quando lei entrò.

«Mi dispiace essere arrivata così tardi» si scusò. Baciò Christoph e abbracciò la sorella. «Che profumino celestiale! Oggi ho mangiato solo un panino e sto morendo di fame.»

«Proprio come pensavo.» Christoph mise un piatto nel microonde e lo accese.

«Tuo marito ha difeso la tua cena come un lupo» annunciò Kim sorridendo prima di sedersi di nuovo. «Altrimenti avrei spazzolato tutto, tanto era buono. È davvero un cuoco eccezionale!»

Pia si lavò le mani e sorrise tra sé quando vide delle rivelatrici vaschette d’alluminio nella spazzatura.

«Tortelloni ripieni di ricotta e spinaci in salsa di burro e salvia con tanto aglio, proprio come piace alla mia amata.» Christoph rise a fior di labbra, tirò fuori il piatto dal microonde e lo mise davanti a Pia, facendole l’occhiolino. «Con un bel bicchiere di Sancerre.»

«Grazie, tesoro mio.» Pia spiegò il tovagliolo, cosparse un po’ di parmigiano grattugiato sui ravioli e mandò un bacio con la mano a Christoph. «Sei un grande!»

«Giuseppe ti manda i suoi saluti. Vuole sapere quando ti rivedrà.»

«Giuseppe?» Kim fece vagare lo sguardo dalla sorella al cognato, fece due più due e sgranò gli occhi fintamente indignata. «Come? Cosa? Non sei stato tu a cucinare? Che vile impostore!»

«Almeno ho comprato dal nostro italiano preferito.» Christoph ridacchiò e fece per versarle del vino, ma Kim mise la mano sul bicchiere.

«Grazie, uno mi basta» rifiutò. «Devo guidare.»

«Allora lascerò voi ragazze alla vostre chiacchiere» disse Christoph afferrando il proprio bicchiere. «Ho una relazione da terminare.»

«Senti, posso chiederti una cosa professionale?» domandò Pia alla sorella. «Da ieri abbiamo un nuovo caso, o meglio due.»

«Certo.» Kim si incuriosì subito. «Spara.»

Pia le riassunse i due omicidi e tutti gli elementi che avevano raccolto fino ad allora.

«Potrebbe essere lo stesso colpevole» concluse, masticando e godendo dell’aroma paradisiaco della salvia e dell’aglio che faceva gioire le sue papille gustative. «Tuttavia, il modus operandi è completamente diverso.»

«Mmm.» Kim sembrava perplessa. «Cosa ti fa pensare che il fabbro non sia l’assassino?»

Pia descrisse Edgar Herold e spiegò i suoi dubbi sull’incendio doloso della roulotte.

«Ora come ora, tutte le prove sono contro di lui e non ha alibi molto solidi. Tuttavia gli credo, almeno in parte. Potrebbe aver avuto un complice.»

«Hai idea di quali potrebbero essere i moventi?»

«No. Non può essere stata una questione di soldi, perché Rosemarie Herold aveva poco meno di cinquemila euro in banca e nessuna assicurazione sulla vita. Aveva già trasferito la sua quota della casa e della bottega ai tre figli, anni fa. Tutto quello che possedeva era quella vecchia roulotte.»

«Hai detto che la donna era malata terminale?»

«Sì. Cancro all’ultimo stadio. Era stata trasferita in un hospice. E quindi ci chiediamo perché qualcuno avrebbe dovuto strangolare una persona che aveva i giorni contati» rispose Pia, ripulendo il piatto con un pezzo di pane.

«La differenza più evidente è che in un caso la vittima ha avuto un contatto fisico con l’aggressore, ma l’altro omicidio è avvenuto a distanza» disse Kim. «Lo strangolamento, in particolare, suggerisce che l’assassino era in qualche modo collegato alla vittima. Stringere il collo di qualcuno con le proprie mani e guardarlo negli occhi richiede non solo forza, ma anche una rabbia che difficilmente si prova nei confronti di un completo estraneo.»

«Questo giocherebbe in favore della colpevolezza di Edgar Herold?»

«Non esclusivamente» precisò Kim. «Potrebbe anche essere stato un conoscente, un vecchio amico, un ex socio in affari...»

«Anche una donna?»

«Una donna forte, senz’altro. La vittima era indebolita, quindi non poteva opporsi più di tanto. Nel novanta per cento dei casi di omicidio, la vittima e l’assassino si conoscono.»

«Lo so.» Pia era al corrente delle statistiche. «Ma la faccenda dell’incendio è molto diversa. Le bombole del gas, la miccia, tutto è stato pianificato meticolosamente.»

«E il cranio della vittima è stato sfondato, vero?»

«Sì, giusto.»

«Anche per quello c’è bisogno di forza.»

«Ma non è stato uno scatto d’ira.»

«L’incendio ben preparato implica il contrario, sì» confermò Kim. «Quest’azione è un misto di azione emotiva e razionale da parte dell’assassino. Probabilmente voleva solo dare fuoco alla roulotte, poi c’è stata una complicazione. Per esempio, il fatto che nella roulotte ci fosse qualcuno che non si aspettava di trovare. Potrebbe aver temuto di essere scoperto o di veder naufragare il suo piano. Tuttavia, è anche possibile che fosse preparato a ogni eventualità e avesse con sé un’arma, per precauzione. Comunque sia, era pronto e disposto a modificare il piano iniziale.»

«Vuoi dire che forse Clemens Herold non era l’obiettivo?»

«Secondo me il colpevole voleva soprattutto distruggere la roulotte.»

«Allora le grandi quantità di accelerante e le sei bombole di propano che ha usato non devono essere interpretate come una sorta di accanimento?»

«No. L’intensità del fuoco non era per forza diretta alla vittima. Forse il morto è stato solo un danno collaterale che il colpevole aveva, però, messo in conto. Credo che volesse solo assicurarsi che non rimanesse assolutamente nulla della roulotte e del suo contenuto.»

«E questo ci riporta a Edgar Herold.» Pia sospirò. «Ci ha detto che tutti a Ruppertshain sapevano cosa “combinava” la madre nella roulotte. Presumo che stesse parlando di relazioni amorose o sessuali. Disapprovava totalmente quello che faceva la madre lì dentro.»

«È comprensibile che volesse distruggere la roulotte in quanto simbolo odiato dello stile di vita di sua madre. Ma non che abbia ucciso il fratello, lasciandolo bruciare all’interno. Non quadra.» Kim scosse la testa e controllò l’orologio. «Se fossi in te, cercherei un colpevole vicino alle vittime. Qualcuno che conosce bene la famiglia Herold e che potrebbe accedere alle loro proprietà senza attirare particolare attenzione.»

«Fantastico. Praticamente metà della popolazione maschile di Ruppertshain.» Il viso di Pia si incupì. «Herold è un fabbro e membro di una caterva di associazioni. Sua madre era amata e conosciuta ovunque.»

«Entrambi gli omicidi non si basano su nessuno dei soliti moventi, come l’invidia, la vendetta o la gelosia. Anche l’avidità è da escludere. Be’, sorellina, non vorrei dovertelo dire, ma secondo me stai cercando un uomo che vuole regolare dei conti o che uccide i conniventi. E sarei sorpresa se si fermasse a due omicidi.»

«Un serial killer?» Il malessere latente che aveva afflitto Pia per tutto il giorno si accentuò.

«No» replicò Kim con fermezza. «I serial killer uccidono per trasformare le loro fantasie patologiche in realtà. Le loro azioni hanno una componente sadica, che qui manca.»

«Mmm.» Pia girò il bicchiere di vino tra le dita. «Cosa intendevi quando parlavi di conniventi? Cosa c’è sotto?»

«Quando lo scoprirai,» rispose Kim «sarai molto vicina al tuo colpevole.»