Giovedì, 9 ottobre 2014

La detonazione fece tremare il vecchio fabbricato di legno. Le finestre sbatacchiarono e, nello stesso istante, i cani iniziarono ad abbaiare davanti all’entrata. Felicitas Molin, che dormiva profondamente, si svegliò di soprassalto, il cuore martellante, e in un primo momento non seppe dove si trovava. Una luce rossastra brillava attraverso le tende gonfiate dalla corrente d’aria. Distinse vagamente i numeri sul display del lettore DVD sotto il televisore: le 2.24. Solo allora si ricordò che non si trovava nel proprio appartamento accogliente e sicuro a Friedrichsdorf, ma a casa della sorella. Nel bel mezzo dei boschi e tutta sola, a chilometri di distanza dall’abitazione più vicina. Tese la mano. Invece di un corpo familiare, le sue dita toccarono la spalliera del divano. Ormai erano passati nove mesi, due settimane e tre giorni, ma ogni volta che si svegliava veniva colta dalla brutale consapevolezza che il marito numero due era scomparso dalla sua vita... e in una maniera estremamente spregevole. A rigor di termini, non era proprio scomparso, bensì l’aveva tradita, umiliata e abbandonata, dopo aver speso i suoi soldi e accumulato un’enorme montagna di debiti, di cui ora doveva rispondere lei. Felicitas pensava sempre di più al primo marito, con il quale era stata sposata per venticinque anni, prima di lasciarlo per quel pupattolo con lo sguardo da cagnolino fedele, dotato, ammettiamolo pure, di un corpo estremamente appetitoso. Ancora oggi, aveva difficoltà a capire cosa fosse successo. La sua vita era finita in brandelli. Non sapendo più dove stare, si era alla fine rifugiata da Manu e Jens, nell’orrida vecchia baracca di legno che sembrava possedere vita propria. Le travi scricchiolavano e cigolavano, il vento infuriava con ululati raggelanti nei camini e lei aveva la costante impressione di sentire delle zampette camminare veloci dentro le pareti. Le notti erano un supplizio.

Felicitas avrebbe preferito tirarsi la coperta sulla testa, ignorare l’esplosione e quella strana luce e tornare a dormire. I cani però abbaiavano scatenati.

«Ma che palle!» Si alzò a fatica, ma crollò subito dopo. Si era di nuovo addormentata sul divano. La testa le rimbombava, la stanza girava davanti ai suoi occhi e si sentiva la lingua impastata. Una bottiglia intera di vino rosso e cinque whisky & cola forse erano stati un po’ troppo, ma senza gli effetti nebbiosi dell’alcol quella notte sarebbe morta di paura.

Con difficoltà si alzò e si trascinò alla finestra. Spinse la tenda di lato; tutto ciò che distingueva era una luce diffusa, laggiù, sul campeggio. Senza lenti a contatto, era cieca come una talpa. Il binocolo, con il quale d’estate il cognato Jens amava spiare le ragazze in bikini, si trovava sullo scaffale in corridoio. Felicitas si fece strada a tentoni. I cani avevano smesso di abbaiare, ma erano tutti e due accovacciati fuori dalla porta a ringhiare. All’improvviso una luce intensa guizzò sulle pareti. Un rombo di motore! Per un secondo, Felicitas rimase impietrita dalla paura. Ma poi l’auto passò e lei si rilassò. Non era un ladro che attentava alla sua vita, solo un tizio in giro per il bosco a quell’ora della notte. Forse una coppia di amanti che aveva cercato e trovato un posto appartato.

Tornata in soggiorno, riuscì a malapena a regolare il binocolo, per quanto le tremavano le mani. Poi lo vide. Là in fondo, nella grande radura dove stavano le roulotte, ardeva un fuoco infernale. Doveva assolutamente chiamare i pompieri! Ma, ahimè, là il suo cellulare non prendeva e il telefono fisso era nell’ufficio di Manu. Proprio mentre stava per voltarsi, nel campeggio ci fu una seconda, e più violenta, esplosione. Una fiammata luminosa si alzò nel cielo notturno, tutte le finestre della casa sbatacchiarono e i cani ricominciarono ad abbaiare. Per alcuni secondi, Felicitas riuscì a distinguere chiaramente il profilo di una persona di fronte alla palla di fuoco arancione chiaro. La paura le serrò la gola e tremava come una foglia quando si precipitò in corridoio. Oddio! Qualcuno là fuori stava dando fuoco alle roulotte! Non osò accendere la luce. Solo qualche giorno prima aveva letto sul giornale del piromane che da mesi si aggirava nella zona e aveva già appiccato almeno cinquanta incendi.

Bear e Rocky abbaiavano e ululavano come pazzi. Erano due australian cattle dog, con un pelo grigio rossastro, occhi luminosi e vigili e denti bianchi come la neve. Cosa avrebbe fatto Manu al suo posto? Sua sorella era sempre stata più pragmatica e coraggiosa di lei, probabilmente si sarebbe fiondata nella radura e avrebbe preteso spiegazioni da quel tipo. Oh, porca miseria, perché una cosa del genere doveva succedere proprio ora, quando sua sorella era partita per l’Australia per sei settimane e lei si ritrovava lì tutta sola?

Felicitas aprì la porta del piccolo ufficio, si avvicinò alla scrivania e prese il telefono dalla base. Con dita tremanti, compose il numero delle emergenze e chiuse la porta dietro di sé; i cani facevano un tale baccano che, se non l’avesse fatto, non avrebbe capito una parola. Il suo sguardo si posò sulla finestra e, per il terrore, il cuore le si fermò per qualche secondo. Là fuori si stagliava la figura di un uomo, proprio dietro i vetri, e la fissava con un ghigno.

***

«Papà! Papààà! Svegliati!»

Una vocina limpida e una manina energica che gli scuoteva la spalla con insistenza strapparono il commissario Oliver von Bodenstein dai sogni e lo catapultarono nella realtà del mattino. Troppo presto, però.

«Che ore sono?» mormorò, battendo le palpebre alla luce accecante del lampadario.

«Le 2-5-1» rispose Sophia, che aveva ancora problemi a leggere l’ora. «Il tuo cellulare suona dalle 2-3-7. Qualcuno ti chiama con un numero anonimo.»

La voce era carica di rimprovero. Bodenstein sussultò quando una sequenza di toni dissonanti gli assalì le orecchie.

«Te l’ho portato, quindi non c’è bisogno che ti alzi.» Sua figlia, sette anni e sveglissima, gli tese lo smartphone. A quell’ora, le chiamate con un numero anonimo potevano provenire dalla madre di Sophia, che si trovava in un paese esotico a diversi fusi orari di distanza, oppure dall’agente in servizio dell’RKI, il comando regionale di polizia giudiziaria di Hofheim. Bodenstein sospettava quest’ultima possibilità e aveva ragione.

In un campeggio in mezzo ai boschi tra Königstein e Glashütten, una roulotte era andata in fiamme e c’era stata una violenta esplosione, che si era sentita fino a Königstein. Dato che da mesi un piromane teneva sulle spine l’intera regione, all’ufficio 11 era stata affidata la responsabilità – in aggiunta alla gestione dei casi di omicidio – delle indagini sugli incendi nell’area tra il Meno e il Taunus.

«Arrivo subito» disse prima di riattaccare. Fece un profondo sospiro e chiuse gli occhi. Sarebbe bastato che quel campeggio fosse situato a soli duecentocinquanta metri più a ovest e avrebbero chiamato il suo collega del distretto dell’Alto Taunus. Che iella. Quella sera era di turno, anche se con lui c’era Sophia. La lista dei turni di servizio non poteva sempre tenere conto della sua situazione personale, soprattutto perché la piccola stava quasi sempre con lui. L’eccezione era diventata più o meno la regola.

«Devi andare?» gli chiese sua figlia.

«Mmm, sì.»

«Posso venire con te?»

Bella domanda. Non poteva mica lasciare una bambina di sette anni da sola in casa. Era notte fonda, troppo presto per svegliare i genitori dei compagni di scuola e scaricarla da loro. Andare dai suoi lo avrebbe invece costretto a fare una bella deviazione, e non era certo che lo avrebbero sentito bussare alla porta. Nella casa padronale il campanello non era ancora stato installato.

«Ci sono dei morti?»

Sophia aveva lo stesso modo di parlare della madre, l’ex moglie di Bodenstein, conosciuta quasi trent’anni prima sulla scena di un suicidio.

«Non lo so» rispose sbadigliando. «Probabilmente è solo un incendio.»

«Peccato.» Sophia saltò sul letto. «Mi piacerebbe proprio vedere un morto.»

«Come, scusa?» Bodenstein aprì gli occhi, si raddrizzò e guardò la figlia, seduta a gambe incrociate mentre si passava con fare pensoso una ciocca di capelli scuri tra le dita.

«Be’, sì. Greta ha visto la nonna morta. Con sangue, cervello e tutto il resto» replicò. «E io, invece, ho visto solo qualche animale morto. Non è giusto!»

«Sei ancora un po’ piccola per vedere un cadavere» controbatté Bodenstein in tono secco.

La figlia di Karoline, Greta, era rimasta profondamente traumatizzata dall’esperienza vissuta nel dicembre di due anni prima, ma a quanto pareva ne aveva parlato con Sophia, e ciò poteva essere un buon segno, perché normalmente non diceva neanche una parola sulla morte della nonna. Karoline aveva subito tolto la figlia dal collegio e l’aveva fatta seguire da psicologi dell’infanzia; lei e il suo ex marito avevano cercato di trascorrere più tempo possibile con Greta. Karoline stessa aveva subito un grave trauma e da allora si allontanava per viaggi o trasferte solo quando la figlia era con il padre. Per il resto lavorava quasi sempre da casa per poter essere presente in qualsiasi momento per la ragazzina.

Bodenstein buttò le gambe oltre il bordo del letto. «E adesso cosa faccio con te?»

«Voglio venire!» Sophia saltò giù dal letto, con gli occhi che le brillavano. «Per favore, papà! Per favore, per favore, per favore!»

«Sono le tre del mattino» le ricordò. «Domani devi andare a scuola e dovresti dormire ancora un po’.»

«Ho dormito abbastanza» affermò Sophia. «E posso fare un pisolino domani quando torno da scuola. Per favore, papà!»

Ormai non aveva altra scelta che portarla con sé. Cosima ogni tanto lasciava la piccola da sola nel suo appartamento per qualche ora quando aveva da fare, ma non di notte.

«Allora vestiti. E prendi la cartella.»

«Evviva!» Saltellando di gioia Sophia si precipitò fuori dalla camera da letto.

Bodenstein la guardò scuotendo la testa, poi aprì l’armadio e tirò fuori un pullover caldo. Conosceva il campeggio presso la sede della Casa degli amici del bosco, sulla Billtalhöhe. Nei boschi la temperatura di solito scendeva di qualche grado rispetto a quella in paese, e a metà ottobre, nel Taunus, di notte, poteva fare molto freddo.

***

Le strade erano deserte, tutte le case immerse nell’oscurità. Solo i lampioni proiettavano una luce arancione opaca sulle facciate delle abitazioni e sull’asfalto, che era ancora completamente asciutto.

Allo spuntar dell’aurora. Quelle parole passarono per la testa di Bodenstein quando svoltò in Robert-Koch-Straße, che divideva a metà il paesino di Ruppertshain. Al di sotto della strada c’era la parte vecchia con i suoi vicoli tortuosi, al di sopra le nuove aree di sviluppo urbano sorte sul ripido pendio negli ultimi quarant’anni. All’altezza dello Zauberberg, la “Montagna incantata”, l’ex sanatorio per i malati polmonari, Bodenstein mise la freccia e girò a destra verso Königstein. Era troppo presto persino per la consegna dei giornali. Chiunque fosse in giro a quell’ora era di per sé sospetto. Il settanta per cento dei crimini veniva commesso di notte. Non senza ragione l’uomo teme il buio.

Sophia parlava a macchinetta, Bodenstein la ascoltava solo con un orecchio, mormorando versi di assenso di tanto in tanto. La bambina aveva un gran bisogno di comunicare e aveva la peculiarità di dare sfogo a tutto ciò che le passava per la testa senza filtri. I fari illuminarono un cartellone.

«Sessantacinque animali invessiti dal 2007» lesse Sophia. «Erano sessantatré solo due settimane fa. Quel cartello cambia in automatico, papà? Come quelli dal benzinaio?»

«No» rispose Bodenstein. «Penso che sia la guardia forestale ad aggiornare i numeri.»

Per un momento regnò il silenzio.

«Ma, papà, che vuol dire invessiti

Bodenstein non riuscì a trattenere un risolino. «C’è scritto investiti. È quando un’auto si scontra con un cervo o un cinghiale.»

«Ah, ho capito.»

Dopo qualche chilometro, sulla destra il bosco si aprì per fare spazio all’alto muro del centro di formazione di una grossa banca. Alle sue spalle le luci si estendevano da Königstein fino alla valle, sulla quale troneggiava maestoso un castello diroccato.

«Papà? Sapevi che qualcuno si è sparato lì?»

«Dove?»

«Nel capanno del giardino del KTC Hotel» rispose Sophia. «Me l’ha raccontato il nonno. Ma è stato tanto tempo fa.»

«Mmm» mormorò Bodenstein, ripromettendosi di rimproverare il padre alla prima occasione. Sophia, con i suoi modi da saputella, dava l’impressione di essere più grande della sua età, ma le storie di suicidi erano comunque inadatte per una bambina di sette anni con un’immaginazione tanto morbosa.

La strada a sinistra conduceva al parcheggio del bosco, dove, anni prima, un altro caso l’aveva portato a un cadavere in una Ferrari. Dopo dieci anni a capo dell’ufficio 11 della polizia giudiziaria di Hofheim, per Bodenstein era quasi impossibile guidare con serenità in quella zona. Il ricordo delle scene degli omicidi aveva creato nuovi punti di riferimento nella sua mente. Era inevitabile, nel suo lavoro, ma una bambina dell’età di Sophia non doveva percepire la propria regione come una mappa costellata di cadaveri.

All’altezza della curva Nepomuk, imboccò Ölmühlweg e si domandò cosa lo aspettasse, mentre la solita sensazione sgradevole si insinuava dentro di lui come ogni volta che si avvicinava alla scena di un crimine. I vigili del fuoco temevano che nella roulotte che aveva preso fuoco potesse trovarsi qualcuno, ma ovviamente non ne aveva parlato con Sophia. I corpi carbonizzati erano uno spettacolo atroce. Nella classifica personale di Bodenstein dei cadaveri più agghiaccianti si contendevano il primo posto con quelli rimasti a lungo in acqua o esposti a temperature elevate per qualche giorno: in tutti e tre i casi non avevano quasi più nulla di umano.

Fino a quel momento, la misteriosa serie di incendi dolosi si era limitata a interessare gabbiotti da giardino disabitati, fienili, cassonetti della carta e depositi di balle di fieno. Nessuno era mai stato ferito. Quella notte sarebbe stato diverso?

Il semaforo all’incrocio della B8 lampeggiava in modalità notturna. La gente avrebbe cominciato ad andare al lavoro nel giro di un paio d’ore. Poi una valanga di lamiere quasi infinita sarebbe rotolata attraverso la strettoia alla rotonda di Königstein in direzione di Francoforte.

Bodenstein svoltò a sinistra, verso Limburg. Sperava proprio che l’incendio avesse colpito solo la roulotte, così avrebbe potuto affidare le indagini agli specialisti. La strada statale fece un’ampia svolta a sinistra, poi a destra. Già da lontano vedeva la sirena blu lampeggiante di un’auto di pattuglia. Era ferma sul sentiero boschivo che conduceva al ristorante sulla Billtalhöhe. L’agente in uniforme, uno dei colleghi di Königstein, lo riconobbe e lo fece passare con un cenno del capo.

Bodenstein seguì il sentiero di ghiaia attraverso il bosco. Sentì l’odore del fuoco ancor prima di raggiungere la radura. Il fumo aleggiava tra gli alberi e si insinuava nell’auto attraverso le prese d’aria. Poi vide il chiarore tra i tronchi dei pecci. Nel parcheggio c’erano diversi veicoli, inclusa un’ambulanza con le porte aperte. Parcheggiò tra un’auto di pattuglia e una jeep verde scuro, poi si rivolse a Sophia, che si era già slacciata la cintura.

«Adesso devo lavorare. Voglio che tu mi aspetti in macchina, d’accordo?»

«E no! Ma perché?» Sua figlia mise il broncio.

«Perché lo dico io. Lascio il riscaldamento acceso e chiedo a un collega di tenerti d’occhio.»

«Ma voglio vedere il fuoco! Per favore, papà!»

«No.»

«E allora che sono venuta a fare?» La bambina alzò gli occhi al cielo. «Mi annoierò da morire!»

«Il patto era questo. Hai il tuo iPod. Mi prometti che resterai qui buona e non farai niente di stupido?»

«E se avessi sete? E se mi scappasse la pipì?»

La pazienza di Bodenstein stava per esaurirsi. «In quel caso lo dici a uno degli agenti. Rimarranno qui nei paraggi e ti controlleranno. Ma non si scende dall’auto e non si va in giro da soli. Posso contare su di te?»

Sophia dovette notare la severità nella sua voce.

«Va bene» rispose, evitando però il suo sguardo.

Bodenstein aveva un brutto presentimento. Le probabilità che sua figlia rimanesse in auto erano poco meno del cinque per cento. La bambina non seguiva nessuna regola, perché Cosima le permetteva di fare quasi tutto, bastava che la lasciasse tranquilla. Per questo Bodenstein era in conflitto costante con Sophia quando stava con lui. Che si trattasse di buone maniere a tavola, dell’ora di andare a letto, dell’uso dell’iPod o della tv, ogni volta era una discussione che spesso si concludeva con lacrime e capricci.

***

Il ristorante e la casa adiacente erano immersi nell’oscurità e avevano un’aria poco accogliente; tavoli e sedie del Biergarten erano già stati messi via. In ottobre, sulle alture del Taunus, neanche i più ottimisti si aspettavano di bere birra all’aperto. Bodenstein aprì il bagagliaio e tirò fuori un paio di stivali di gomma: non voleva inzaccherare le scarpe con la fanghiglia. Si sollevò il colletto della giacca e si guardò intorno. Nella jeep verde, dietro il cui parabrezza penzolava, attaccato a una ventosa, un cartello con la scritta GUARDIA FORESTALE DEI BOSCHI ASSIANI, c’era un cane che appannava i finestrini con il respiro.

In fondo alla grande radura, dove si trovavano una trentina di roulotte, si era scatenato l’inferno. Diverse autopompe erano parcheggiate ovunque. Il fumo denso aveva invaso il prato; i riflettori luminosi, davanti ai quali si agitavano le silhouette nere dei pompieri, si mescolavano ai colori del fuoco fino a diventare rosa salmone. Bodenstein osservò la frenetica attività con crescente preoccupazione. L’incendio non era ancora sotto controllo, le fiamme si erano propagate verso alcuni pecci, che bruciavano come fiaccole. Nelle ultime settimane non aveva piovuto quasi per niente, i boschi erano molto secchi e il rischio che il fuoco si propagasse verso la vegetazione era elevato. Con uno scoppio, che coprì il ronzio dei macchinari, il tronco di un peccio si spaccò, spruzzando una pioggia di scintille. Tutta la scena aveva un che di demoniaco, come in un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio. L’odore acre irritò i suoi occhi fino alle lacrime. Plastica bruciata e benzina. Lo stesso tanfo delle stazioni di servizio quando prendono fuoco.

All’entrata del campeggio, un gruppo di persone guardava le fiamme. Un pompiere stava parlando con un uomo in un loden verde. Wieland Kapteina era una guardia forestale, un vecchio amico d’infanzia di Bodenstein.

Il vigile del fuoco lo notò e si avvicinò. Conosceva bene anche lui. Si erano incrociati più e più volte in occasione di eventi spiacevoli come quello.

«Buongiorno» lo salutò.

«’Giorno, commissario» rispose Jan Kwasniok, il comandante dei vigili del fuoco di Königstein.

«Che è successo?»

«Una delle roulotte e un’auto parcheggiata nelle vicinanze sono in fiamme» spiegò Kwasniok. «Per di più, il fuoco si è propagato ad alcuni alberi.»

«Di nuovo il piromane?»

«Finora aveva agito solo a Kelkheim e Liederbach.» Kwasniok arricciò pensieroso le labbra. «Non posso ancora dirle molto, ma siamo quasi certi che sia stato usato un accelerante. E nell’incendio potrebbero essere esplose diverse bombole di gas da campeggio, il che spiegherebbe la violenza e il calore estremo.»

«Vittime?»

«Lo temiamo, a causa della presenza dell’auto. Ma non possiamo ancora arrivare alla roulotte.»

«Chi ha segnalato l’incendio?»

«La sorella della gerente del ristorante.» Il comandante fece un cenno verso una donna che stava parlando con due poliziotti. «Lo scoppio dell’esplosione l’ha svegliata. Poi ha visto il fuoco e ha chiamato subito.»

La radiotrasmittente del pompiere ronzò.

«Devo andare» si scusò indossando il casco. «A dopo.»

Altre due autopompe arrivarono dal bosco. Con le sirene lampeggianti, attraversarono il parcheggio e si diressero verso il prato. Bodenstein chiese agli agenti di polizia di tenere d’occhio Sophia, poi andò dalla donna che aveva denunciato l’incendio. In base al suo aspetto, doveva avere una cinquantina d’anni, ed era così magra da sembrare quasi anoressica. Un viso sciupato, labbra sottili, una permanente arruffata. La ricrescita bionda era più che evidente. Le lenti spesse degli occhiali le ingrandivano in modo innaturale gli occhi cerchiati di rosso. Quando aprì la bocca e si presentò come Felicitas Molin, Bodenstein trattenne il fiato per un momento. La donna puzzava così tanto di alcol che appestava l’aria.

«Ha bevuto?» le chiese.

«Oddio, sì» ammise lei, tenendosi la mano sulla bocca e ridacchiando con fare isterico. «Mi sono spaventata a morte. Almeno, dopo una bottiglia di vino, riuscirò a addormentarmi.»

«Lei abita qui?»

«Solo temporaneamente. Ma di solito non me ne sto in questo posto tutta sola. Mia sorella e suo marito hanno preso in gestione il ristorante.» Con un vago movimento della mano, Felicitas Molin indicò le strutture adiacenti alla birreria vuota. «Sono andati in vacanza per la prima volta dopo cinque anni e nel frattempo mi occupo io di tutto. Lavoro come libera professionista, quindi non è un problema.»

«Al campeggio c’è qualcun altro oltre a lei?»

«No, non credo. La stagione è finita e quindi dovrebbe essere praticamente vuoto.»

«Che cosa ha visto?» Bodenstein aveva poche speranze che Felicitas Molin fosse riuscita a notare qualcosa di utile, nelle sue condizioni, ma mai dire mai.

«Ho sentito un’auto» fu la risposta esitante. «E penso di aver visto qualcuno accanto al fuoco. Ma non ne sono sicura.»

I suoi occhi guizzarono verso i due poliziotti.

«Laggiù... c’era un uomo che guardava dalla finestra» sussurrò poi, spalancando gli occhi.

«Oh, bene. Dove?»

«Alla finestra dell’ufficio. È dall’altra parte della casa, dà sulla strada. Ho preso il telefono per chiamare i vigili del fuoco e poi... e poi ho visto qualcuno fissarmi dalla finestra. Sono quasi morta dalla paura!» La signora Molin allungò una mano. «Guardi come sto ancora tremando!»

«Ha visto dov’è andato l’uomo?» chiese Bodenstein.

«No» sussurrò la donna. «E questo mi spaventa.»

«I miei colleghi hanno già esaminato il luogo?»

«Non credo... a loro non avevo ancora parlato dell’uomo.»

Bodenstein pregò uno degli agenti di cercare impronte sul retro della casa.

«A chi appartiene tutto il terreno?» domandò alla signora Molin quando il collega se ne andò.

«All’associazione Casa degli amici del bosco. Le roulotte appartengono ai membri e nella baracca di legno ci sono stanze che di tanto in tanto vengono affittate agli escursionisti. La stagione del campeggio è terminata a fine settembre e anche la foresteria è chiusa.»

«Sa chi è il proprietario della roulotte che è andata in fiamme?»

«No. Mi dispiace.» La donna scrollò le spalle. «Ma ho il numero di telefono dei responsabili dell’associazione, da qualche parte. Glielo posso cercare.»

«Ci sarebbe utile.»

Il più giovane dei due poliziotti si avvicinò.

«Commissario, sua figlia mi ha chiesto di dirle che deve andare in bagno e che sta morendo di sete» annunciò con un sorriso.

«Grazie. Me ne occuperò io.» Bodenstein annuì rassegnato, si voltò e fece un cenno a Sophia, che aprì subito lo sportello e scese dall’auto.

«Porta sua figlia con sé al lavoro?» La signora Molin arricciò le labbra in segno di disapprovazione. «E a quest’ora?»

«Mi creda, lo eviterei volentieri» ribatté Bodenstein con freddezza. «D’altro canto, non posso mica lasciare una bambina di sette anni a casa da sola.»

«Tra sessantasei giorni compio otto anni» proclamò Sophia con vigore. «Di solito non posso andare al lavoro con papà. Per colpa dei cadaveri e cose così. Ma la mamma è in Russia con il suo nuovo...»

«C’è un bagno da queste parti?» Bodenstein interruppe la figlia in tutta fretta, prima che potesse spiattellare a quell’estranea la loro vita familiare.

«Sì, certo. Laggiù, al ristorante.»

Felicitas Molin lo fissò con occhi lucidi. Era uno sguardo di rimprovero o di pietà? O forse... di curiosità morbosa? Commissario capo trascina la figlia di sette anni su una scena del crimine nel cuore della notte. Bodenstein poteva già vedere il titolone da prima pagina e sentì le guance arrossarsi.

«Vieni, Sophia» disse in tono conciso.

«Posso portarla io in bagno» propose in fretta la signora Molin. «E la piccola può stare con me in casa finché non avrà finito. Almeno è più caldo.»

A Bodenstein non piaceva per niente l’idea di lasciare la figlia alle cure di un’estranea alcolizzata. Preferiva chiedere a Wieland di tenerla d’occhio. Tanto doveva parlare con lui.

«Grazie mille, ma non è necessario» disse educato.

«Come vuole» rispose la donna. «Se crede che sia meglio lasciar scorrazzare qui una bambina piccola da sola...»

«Non sono piccola!» protestò Sophia.

«Non scorrazzerà da sola» si accodò Bodenstein con un tono più aspro di quanto avrebbe voluto.

«Certo.» La signora Molin sbuffò sprezzante, poi tirò fuori un portachiavi dalla tasca del piumino e si girò.

Tenendo Sophia per mano, Bodenstein la seguì e insieme attraversarono il Biergarten fino ai bagni. Mentre passavano, sul comignolo del ristorante si attivò un faretto. Bodenstein accese la luce del bagno e aspettò fuori. Era giunto il momento di parlare con Cosima, anche se non ne aveva alcuna voglia. Non poteva scaricargli Sophia ogni volta che le girava. Per un po’, la custodia congiunta aveva funzionato abbastanza bene, ma da quando Cosima aveva saputo che sua madre aveva cambiato il testamento e aveva lasciato la villa di Bad Homburg in eredità a Bodenstein, aveva deciso di infischiarsene degli accordi.

«Commissario?» L’agente, che lui aveva mandato in cerca di tracce, comparve da dietro l’angolo della casa. «Ho beccato il guardone.» Sforzandosi di rimanere serio, esibì una lanterna a vento a forma di zucca di Halloween. «Potrebbe essere lui il tipo che la fissava, gentile signora?»

Bodenstein sorrise, divertito.

«Si prende gioco di me!» sibilò Felicitas Molin, offesa. «Ha una bella faccia tosta!»

Si voltò e barcollò verso la casa.

«Grazie per il suo aiuto!» le gridò Bodenstein. «Più tardi le farò qualche altra domanda. Ho bisogno di una ricostruzione precisa degli eventi.»

«Sa dove trovarmi» sbottò quella, scomparendo nel buio.

«Una zucca!» ridacchiò il poliziotto posizionando la lanterna a vento sulle lastre di cemento bianco. «Be’, considerato quanto la signora puzza d’alcol, potrebbe anche aver visto in giro degli elefanti rosa.»

***

Alle prime luci dell’alba, l’incendio fu finalmente domato. Sulla radura il fumo persisteva come nebbia mattutina che si alzava lentamente verso il cielo striato di viola. I pompieri arrotolarono le manichette, i primi veicoli lasciarono il prato. Tutto ciò che restava della roulotte e della sua veranda era un’intelaiatura annerita; il rivestimento esterno in alluminio, il polistirolo isolante e le finiture interne in legno erano completamente bruciati. L’acqua degli idranti e il calore del fuoco avevano trasformato l’area in un cerchio di fango e cenere. Accanto, fumava ancora il relitto di un’auto. La marca e il tipo non erano più riconoscibili, persino le targhe si erano fuse in quell’inferno. Con sollievo della guardia forestale, però, i vigili del fuoco erano riusciti a impedire che le fiamme si propagassero nel bosco; solo cinque pecci, disposti a semicerchio intorno alla roulotte, erano caduti vittime del fuoco. Poco prima delle sei del mattino, due pompieri iniziarono a ispezionare i resti della roulotte e le ultime braci rimaste.

Con le mani infilate nelle tasche della giacca, Bodenstein li guardava in silenzio a qualche metro di distanza. Cucine, soggiorni, garage e anche roulotte andavano sempre più spesso in fiamme perché la gente maneggiava con noncuranza la benzina e le bombole del gas. In genere però non c’erano vittime. Negli ultimi due mesi e mezzo come capo dell’ufficio 11 aveva ardentemente sperato di potersi risparmiare un’indagine per incendio doloso con danni a persone, ma il suo istinto gli diceva che, se gli era andata bene fino ad allora, quella volta non avrebbe avuto la stessa fortuna.

A fine anno si sarebbe preso un anno di congedo dal lavoro. Aveva riflettuto a lungo e a fondo prima di informare Nicola Engel, il suo capo, della propria decisione. Per lui la sua professione andava ben oltre il semplice guadagnarsi il pane. Si dedicava anima e corpo al suo lavoro di poliziotto e detective, non aveva mai desiderato una carriera all’ufficio federale anticrimine o alla questura. Ma qualcosa negli ultimi anni era cambiato. Eventi che prima teneva a distanza senza alcun problema, all’improvviso lo colpivano nell’intimo con sempre maggior forza, e non riusciva a scuoterseli di dosso. Spesso, una volta tornato a casa dal lavoro, non ce la faceva a staccare. I casi lo perseguitavano. Era entrato in polizia perché credeva nella giustizia, nelle regole e nei valori. Nel bene e nel male. Ma aveva smarrito quella fede, così come aveva smarrito la brama della caccia che prima lo soddisfaceva e lo spronava. Era stanco della gente che gli mentiva e lo raggirava. Le ore interminabili e faticose, seduto di fronte a qualcuno sapendo che gli nascondeva qualcosa, erano uno spreco di tempo. E infine, quando avevano recuperato tutti gli indizi e le prove necessarie per effettuare un arresto, compariva un avvocato scaltro, e un ergastolo con detenzione preventiva si trasformava in una condanna a quindici anni di carcere o in un ricovero psichiatrico. E poi, un bel giorno, il colpevole tornava a piede libero, ma la sua vittima non resuscitava, e i danni collaterali, i parenti traumatizzati, sembravano interessare sempre meno ai tribunali, ai periti e ai procuratori. Non esisteva più la giustizia come la intendeva Bodenstein.

Il caso di due anni prima, grazie al quale aveva incontrato Karoline Albrecht, gli aveva dato il colpo di grazia. Non erano riusciti a fermare in tempo quello psicopatico. Quando finalmente l’avevano smascherato, era stata una vittoria amara, perché a quel punto erano morti in troppi. La sensazione opprimente di impotenza e la fine insoddisfacente del caso avevano trasformato il vago disagio nella consapevolezza di dover cambiare qualcosa di fondamentale nella propria vita.

Un altro motivo per cui voleva prendersi un anno sabbatico era Karoline. Voleva dedicarle del tempo. Il loro rapporto, che si stava sviluppando con calma, non faceva progressi da mesi, e ora doveva scoprirne la ragione.

Ovviamente, la reazione del suo capo era stata tutt’altro che entusiasta, ma aveva delegato la decisione finale alla centrale di Wiesbaden e, qualche settimana prima, Bodenstein aveva avuto una conversazione a quattr’occhi con il nuovo questore, che aveva conosciuto a suo tempo alla sede della polizia giudiziaria di Francoforte. Contrariamente a quasi tutti i suoi predecessori, non sembrava un carrierista. Per molti anni aveva anzi prestato servizio in prima linea: nella squadra d’intervento speciale, nell’ufficio 11 di Francoforte, dove, tra l’altro, aveva condotto le indagini su alcuni dei casi di omicidio e rapimento più scottanti degli ultimi anni. Il questore aveva compreso e accettato il desiderio di Bodenstein di una pausa. Nicola Engel aveva accolto la notizia con una scrollata di spalle e gli aveva riferito di non aspettarsi di riprendere in automatico la direzione dell’ufficio 11 al ritorno dalla sua “vacanza”, ma la cosa non gli faceva né caldo né freddo. I piani alti non avevano ancora preso una decisione definitiva sul suo successore, ma era fiducioso che la collega Pia Sander sarebbe stata in grado di tenere le redini del dipartimento. In passato, Pia aveva dimostrato tante volte di essere assolutamente in grado di fare il suo lavoro.

«Commissario?» La voce del comandante dei pompieri distolse di colpo Bodenstein dai suoi pensieri. «Abbiamo trovato un corpo. Forse è meglio che dia un’occhiata lei stesso.»

Quel flebile barlume di speranza si dissipò. Era ciò che aveva temuto: l’auto parcheggiata accanto alla roulotte doveva pur appartenere a qualcuno. Mentre seguiva Kwasniok tra le ceneri vischiose, avvertì il calore sotto la suola degli stivali di gomma. Nel corso degli anni aveva visto molti cadaveri – faceva parte del suo lavoro – ma non si era mai abituato alla loro vista. E anche stavolta gli vennero i brividi. Qualche ora prima quella cosa carbonizzata era stata una persona viva, che respirava e aveva dei sentimenti. Per i vigili del fuoco era ormai certo che l’incendio fosse stato doloso. Ciò che restava da chiarire era se la vittima fosse morta prima che le fiamme divampassero o durante l’incendio.

Bodenstein estrasse il cellulare per descrivere la situazione prima all’agente di guardia e poi a Pia.

«Meglio che chiami Henning» rispose all’istante la collega. «Per evitare che poi si lamenti. Chi si occupa della Scientifica?»

«L’agente di guardia è stato informato.»

«Bene, parto subito.»

Pia riattaccò e Bodenstein mise via il cellulare.

«Voglio mostrarle una cosa.» Il capo dei pompieri aveva aspettato che lui finisse la chiamata per guidarlo tra i resti della roulotte.

Gli indicò diversi pezzi di metallo semicircolari nel mezzo della montagna di cenere, anneriti e carbonizzati.

«Questi sono i resti delle bombole di propano» disse Kwasniok.

«Ah.» Bodenstein non sapeva bene a cosa stesse alludendo il comandante. Non era mai andato in campeggio, ma era risaputo che le roulotte erano riscaldate con stufe a gas.

«In linea di principio, una bombola di propano non può esplodere» continuò Kwasniok. «Il propano non brucia senza ossigeno. E queste bombole sono progettate in modo che la valvola di limitazione della pressione si apra quando la pressione interna della bombola aumenta a causa della produzione di calore.»

«E poi esplode.»

«No. Il gas brucia e basta. Come una specie di lanciafiamme. Diventa pericoloso solo quando fuoriesce e non brucia subito, cioè quando una stanza si riempie di una miscela di aria e gas. In quel caso, basta una scintilla e tutto esplode.»

Bodenstein annuì.

«Le bombole erano ovviamente posizionate nella veranda esterna» disse il comandante. «È solo un’ipotesi, ma immagino che qualcuno abbia aperto le valvole a pressione delle bombole e si sia assicurato che il contenuto fluisse nella tenda verandata.»

L’uomo tornò a grandi passi verso la parte anteriore della roulotte distrutta e indicò una pista carbonizzata nell’erba, chiaramente visibile alla luce incerta dell’alba.

«Poi ha usato una specie di miccia di benzina.» Kwasniok percorse la traccia e Bodenstein lo seguì con gli stivali di gomma che emettevano uno strano rumore sul terreno ammorbidito. «È lunga una trentina di metri. Dopodiché, non gli è restato altro che accendere un fiammifero sulla scia di benzina e – boom! – è esploso tutto.»

«Sembra plausibile.» Pensieroso, Bodenstein si passò una mano sul mento non rasato.

«Abbiamo a che fare con un incendiario che ha elaborato in anticipo un piano ben preciso» affermò Kwasniok. «E non penso sia stato il piromane di Kelkheim.»

«Grazie, comandante. I miei colleghi dell’unità incendi dolosi torneranno da lei.»

«Perfetto. Un paio dei miei uomini rimarranno qui a sorvegliare il luogo dell’incendio. Dopo potranno dare una mano a recuperare il corpo.» Kwasniok si sfiorò la tempia con l’indice in segno di saluto e si diresse verso la sua squadra.

Bodenstein si guardò attorno. Il manto erboso della radura era stato smosso dalle gomme delle autopompe. L’acqua degli idranti e le fiamme avevano trasformato il luogo del rogo, diventato ora una scena del crimine, in un incubo per la Scientifica. I colleghi Kröger e Becht, l’esperto incendi dell’ufficio 10, ne sarebbero stati estremamente scocciati, ma non poteva farci niente. Mentre raggiungeva l’auto, riepilogò tutte le informazioni in suo possesso. Qualcosa non quadrava nell’ordine cronologico di ciò che la signora Molin gli aveva riferito quando era tornato a farle qualche domanda, riuscendo a cavarle fuori delle indicazioni un po’ più precise rispetto alla loro prima conversazione. Aveva dichiarato di essersi svegliata per colpa di un’esplosione. Poi aveva affermato di aver sentito il rumore del motore di un’auto che si allontanava e solo dopo, in una seconda esplosione, aveva notato la figura di un uomo davanti alle fiamme. Non aveva senso. A meno che non ci fosse stato qualcun altro lì, quella notte, oltre all’incendiario.

***

Dopo un’aurora spettacolare intorno alle sei, nel giro di un’ora il sole era scomparso dietro uno spesso strato di nuvole grigie e sembrava voler rimanere lì per il resto della giornata. Stava piovigginando quando la commissaria Pia Sander scese dall’auto nel parcheggio della sede della Casa degli amici del bosco. A quella quota, sul Taunus non c’erano più rade foreste di latifoglie, ma solo conifere. Nel grigiore dell’alba, gli alti pecci, gli abeti e i pini si accalcavano, innalzando un’impenetrabile muraglia tenebrosa attorno alla radura. Neanche il ristorante e le strutture adiacenti in legno malconcio davano l’impressione di essere particolarmente accoglienti.

Pia si guardò attorno. L’auto privata di Bodenstein era parcheggiata tra una di pattuglia e una jeep verde del corpo forestale, ma in giro non c’era anima viva. Anche se l’incendio era stato estinto da un po’ di tempo, nell’aria permaneva un forte odore di fumo. Più in là, sulla radura, il cui perimetro era delimitato dal nastro segnaletico rosso e bianco, un’autopompa dei vigili del fuoco si trovava vicino alla roulotte bruciata.

«Strano. Ma dove sono tutti?» Pia agguantò il giubbotto dal sedile posteriore e se lo infilò. Poi prese il cellulare e scorse l’elenco delle chiamate. Selezionò il numero di Bodenstein, ma invano. Non c’era segnale. Gettò uno sguardo nell’auto del suo capo, poi in quella di pattuglia.

«Salve? Che cosa fa lì?» chiese qualcuno alle sue spalle, e Pia si girò di scatto, sorpresa. Di fronte a lei c’era una donna magra con un volto segnato e con una permanente sfatta, che la fissava con sospetto. Le lenti spesse degli occhiali le conferivano l’aspetto di un gufo spennato.

«Sono la commissaria Sander.» Pia tirò fuori il distintivo. «Lei chi è? Che ci fa qui?»

«Ci vivo, qui, se non le dispiace» rispose la donna con una punta di veleno. Prese il distintivo di Pia e lo controllò con la minuzia di un’agente della dogana in un aeroporto americano. «Mia sorella gestisce il ristorante dell’associazione Casa degli amici del bosco. Ho chiamato io i vigili del fuoco stanotte.»

Poi tirò fuori un foglietto dalla giacca di jeans logora con un colletto in pelliccia che una volta era stato bianco.

«Quel commissario voleva che gli dessi un numero di telefono.» Porse il pezzetto di carta a Pia. «Gliel’ho ricopiato.»

«Grazie.»

L’odore di alcol, aglio e polvere tarmicida che la donna emanava era travolgente, ma il volto di Pia rimase impassibile.

«Per caso ha visto il mio capo da qualche parte? Purtroppo qui il cellulare non mi prende.»

«Ah, è il suo capo, quindi. Be’, condoglianze.» La donna-gufo contorse le labbra in un sorriso sprezzante. «Quello lì si è perso la figlia, a quanto pare. È stata un’idea proprio stupida portare qui una bambina di notte e lasciarla vagare incustodita.»

L’amabilità che Pia di solito cercava di mostrare a ogni estraneo si trasformò di colpo in avversione.

«Mi sono offerta di prendermi cura della piccolina, ma non ha voluto» continuò la donna-gufo, scrollando le spalle. «Ha preferito lasciare la figlia da sola in macchina, al freddo. Ma se lo immagina?»

La supponenza con cui quella tizia parlava del suo capo le fece decisamente saltare i nervi.

«No, proprio non me lo immagino» ribatté Pia, gelida.

«Comprensibile.» Il tono era tracotante. «Del resto, cane non mangia cane.»

Pia sentì il sangue ribollire.

«Neanch’io lascerei mia figlia con una sconosciuta che sembra aver fatto il bagno in un negozio di liquori» rispose con sarcasmo.

«Ma chi si crede di essere?» La donna la fissò con rabbia, assottigliando gli occhi. «Che ne sa di me?»

«Probabilmente quanto ne sa lei del mio capo» replicò Pia con freddezza. «Non dovrebbe dare giudizi avventati su persone che nemmeno conosce, signora...?»

«Molin. Felicitas Molin. Scrivo per vari giornali, tra parentesi.» Gli occhi della donna scintillavano di pura malignità. «Un commissario che porta con sé la figlia sul luogo di un’indagine, di notte, merita sicuramente un articolo.»

«Be’, si diverta a scrivere.» Pia scosse la testa. «Tuttavia le consiglio di stare attenta a non beccarsi una denuncia per diffamazione.»

La donna-gufo farfugliò qualcosa sulla “libertà di stampa” e il “dovere di informare”, ma Pia la lasciò lì e si diresse verso il luogo dell’incendio. Era passato qualche anno da quando aveva cenato con Christoph in quel ristorante. All’epoca non aveva notato il campeggio. Nella radura c’erano una quarantina di roulotte disposte a cerchio; il grigiore dell’alba dava alla maggior parte di queste un’aria di squallore e trascuratezza. Alcune erano protette dalle intemperie da teloni scoloriti, altre erano nascoste dietro palizzate in legno coperte di muschio e licheni. Non sembrava che qualcuno se ne occupasse.

Proprio quando Pia aveva raggiunto i resti della roulotte incendiata, dietro la quale i tronchi anneriti di cinque pecci spuntavano dalle ceneri come le dita di una mano, ai margini del bosco rimbombarono delle voci. Tre vigili del fuoco e due poliziotti emersero dalla vegetazione, seguiti da un uomo vestito di verde e Bodenstein che si trascinava dietro la figlia, fingendo, con espressione stoica, di non sentire le sue furiose grida di protesta. Non per la prima volta, da quando aveva conosciuto la figlia minore del capo, Pia provò sincera compassione per lui. La bambina era diventata una vera e propria rompiscatole.

«Perché non mi hai chiamata?» chiese dopo un breve saluto. «Me ne sarei occupata io.»

«Ultimamente mi hai sostituito anche troppo spesso» disse Bodenstein, e poi si rivolse a Sophia. «E tu rimani nei paraggi, ci siamo capiti? Ti porto subito a scuola.»

«Ma io...» esordì Sophia con voce stridula.

«Finiscila» la interruppe Bodenstein bruscamente. «Non ti voglio sentire nemmeno fiatare.»

Sophia pestò il piede con rabbia e poi scoppiò in un piagnucolio acuto.

«Che ti ho appena detto?» Bodenstein parlava a voce bassa e con tono minaccioso. «Questa è l’ultima volta che ti porto da qualche parte.»

«Ma mi sono fatta ma-ale! Ahi!» mugolò la bambina, mettendosi a piangere sull’erba bagnata. «Forse mi sono rotta il piede!»

Bodenstein ignorò il teatrino della figlia e presentò Pia a Wieland Kapteina, la guardia forestale responsabile di quel settore dei boschi del Taunus. Era un uomo alto e magro, aveva un volto spigoloso, occhi scuri malinconici e una chierica grigia.

«La sorella della gerente del ristorante, una certa signora Molin, afferma di aver visto qualcuno quando l’incendio già divampava, e dopo ha sentito un’auto allontanarsi» concluse il commissario capo, riassumendo brevemente gli eventi. «Abbiamo trovato tracce di sangue che portano nel bosco. Potrebbero essere del colpevole o di una terza persona.»

«Allora dovremmo richiedere l’unità cinofila.» Pia non accennò al diverbio con la donna-gufo. «Forse si trovano ancora nelle vicinanze, o hanno lasciato delle tracce che ci torneranno utili.»

Due veicoli stavano procedendo a scossoni sulla radura: il furgone blu della Scientifica, seguito da quello dell’unità incendi dolosi. Si fermarono a una cinquantina di metri da loro. Bodenstein controllò l’ora.

«Devo portare Sophia a scuola» disse aggrottando la fronte. Non si sentiva a suo agio ad andarsene nel pieno dell’indagine, si vedeva chiaramente.

«Vai e basta» replicò Pia. «Mi occuperò io di tutto.»

«Grazie.» Lui emise un sospiro. «Troverò una soluzione per i prossimi giorni. Purtroppo non è così facile sistemare Sophia.»

«Fa’ pure con calma. Ci penso io qui.» Pia sapeva della situazione familiare del capo e anche che la sua ex moglie trovava sempre più scuse per non doversi occupare della figlia minore. Bodenstein aveva cresciuto i figli maggiori più o meno da solo, perché Cosima von Bodenstein viaggiava spesso in paesi lontani per girare i suoi documentari. Secondo Pia, la relazione del capo con il suo amore di gioventù, la veterinaria Inka Hansen, era fallita anche a causa di Sophia. E restava da vedere se Karoline Albrecht, la nuova compagna di Bodenstein, avrebbe avuto l’equilibrio necessario per sopportare quella figlia estenuante e la madre inaffidabile.

«C’è qualcosa che posso fare?» chiese la guardia forestale quando Bodenstein si allontanò con la bambina verso il parcheggio.

«Conosce i proprietari delle roulotte?»

«Purtroppo no, né i nomi né gli indirizzi» rispose Wieland Kapteina, rammaricato. «A parte la gerente e il marito, conosco solo i soprannomi di alcuni.»

«Mmm.» Pia mise le mani nelle tasche del giubbotto e sfiorò il foglietto che la donna-gufo le aveva rifilato.

«Mi scusi. Torno subito» disse alla guardia forestale, poi corse dietro al capo, che era stato fermato da Kröger. Salutò il responsabile della Scientifica e gli altri colleghi impegnati a scaricare l’attrezzatura necessaria per il lavoro sulla scena del crimine.

«Sembra di stare nella rievocazione della battaglia di Waterloo! È davvero uno schifo!» si lamentò Christian Kröger, indispettito. «Ma ai pompieri non è passato neanche di striscio per la testa il pensiero del rilevamento di tracce e indizi?»

Bodenstein e Pia erano abituati a invettive di quel tipo. Kröger era un perfezionista e avrebbe preferito avere ogni scena del crimine tutta per sé e la sua squadra, prima che qualcuno potesse distruggere o modificare le prove.

«Il peggio deve ancora venire» disse il commissario in tono secco. «A causa delle condizioni del corpo, ho richiesto Kirchhoff.»

«La giornata inizia proprio bene» brontolò Kröger. «Almeno stavolta sono arrivato prima di lui.»

«Vi comportate come dei bambini, tu ed Henning!» Pia scosse la testa pensando alla competizione stramba tra il suo ex e il capo della Scientifica.

«Al momento vinco io undici a tre.» Kröger sorrise con un pizzico di trionfo. «Non ce la farà a superarmi. Al Doc rode il fegato.»

Lui e l’ex marito di Pia, Henning Kirchhoff, coltivavano da molti anni un’inimicizia viscerale, che a volte assumeva fattezze grottesche quando si accapigliavano per qualche sciocchezza sul luogo del ritrovamento di un cadavere. Le liti a cui davano vita erano leggendarie, ma dato che quell’animosità non intaccava per niente la qualità del loro lavoro, tutti i colleghi sopportavano imperturbabili i continui battibecchi tra i due.

«Ah, Oliver, quella specie di gufo mi ha detto di darti questo.» Pia tese il foglietto a Bodenstein. «Un numero di telefono che volevi.»

«Grazie.» Il capo lanciò un’occhiata al pezzo di carta. «Sarà il numero dell’associazione del campeggio. Chiamerò dall’auto e spero di scoprire chi era il proprietario della roulotte.»

Si allontanò tenendo per mano Sophia, che zoppicava platealmente. Pia rimase con Kröger perché in quel punto il cellulare aveva di nuovo segnale. Chiamò l’agente di guardia, richiese l’unità cinofila e i rinforzi per cercare l’individuo che poteva essere il piromane o un possibile testimone oculare. Dopodiché, informò il procuratore responsabile.

Nel frattempo erano arrivati altri veicoli. Due auto di pattuglia, la Mercedes station wagon argento del dottor Henning Kirchhoff e una Opel della polizia giudiziaria, sulla quale sedevano tre uomini di Kröger e il nuovo arrivato dell’ufficio 11. E infine una Smart bianca con il logo dai colori sgargianti di un’emittente televisiva privata.

«Ecco il Doc» constatò Kröger irritato, e si infilò il cappuccio della tuta sopra la testa mentre Henning Kirchhoff, con la valigetta di metallo in mano, si dirigeva verso di loro attraverso il prato.

«E anche la stampa» aggiunse Pia. «Mi assicurerò che sia tutto isolato.»

***

Singhiozzando di vergogna e rabbia, Felicitas aprì i cassetti della cucina, uno dopo l’altro. Erano solo le otto del mattino, ma aveva un gran bisogno di un bicchiere di vino rosso. E la colpa era solo di quella poliziotta bionda con quella sua aria di sufficienza! E degli altri sbirri che si erano presi gioco di lei. Si era accorta dei loro sorrisetti beffardi! Una lanterna a forma di zucca, sant’Iddio! Che imbarazzo essersi comportata in modo tanto isterico! Cosa doveva aver pensato il commissario di lei? In realtà, quel tizio sembrava molto simpatico. Un tipo alla Liam Neeson con una barba di tre giorni e le tempie brizzolate. Felicitas si immobilizzò e premette la fronte contro il vetro freddo della finestra. Un uomo attraente: alto, magro, con le spalle larghe, avvolto da un’aura suggestiva e colma di mistero. Aveva una bella voce, un baritono piacevole e sonoro e una pronuncia pulita senza alcun accento tipico dell’Assia. Purtroppo portava il fardello di una bambina petulante. Il suo matrimonio era fallito perché dava la caccia a troppi delinquenti? O aveva avuto una scappatella, aveva tradito la sua noiosa moglie con qualcun’altra? Ma anche se fosse... probabilmente ormai pensava che lei fosse una povera ubriacona bisbetica.

Allontanandosi dal davanzale della finestra, entrò risoluta nell’ufficio di Manu e si sedette alla scrivania. Con metodo, si mise a frugare in un cassetto dopo l’altro. Doveva pur essere da qualche parte! Alla fine, nell’angolo più remoto dell’armadio a muro, trovò quello che cercava. Con cautela, tirò fuori la scatola di legno, la mise sulla scrivania graffiata e aprì il coperchio. Manuela le aveva parlato per caso della pistola che Jens possedeva da quando avevano iniziato a vivere in mezzo al bosco. Chissà se il cognato aveva il porto d’armi. Non aveva importanza. Felicitas estrasse con cura la pistola dalla custodia. Acciaio nero opaco.

Erano passati anni da quando aveva tenuto un’arma in mano, al poligono di tiro, a scopo di ricerca per un articolo. Pensierosa, soppesò la pistola. Era carica. Che incosciente! Tipico di Jens. In ogni caso, si sentiva già molto più al sicuro. I suoi occhi caddero sui cani che si erano intrufolati dietro di lei e seguivano ogni sua mossa.

«Voialtri non siete una vera protezione» bofonchiò, e si infilò la pistola dietro la schiena, nella cintura dei jeans. «Non sapete fare altro che abbaiare.»

Dalla finestra, Felicitas poteva vedere una parte della radura. Nastro segnaletico bianco e rosso e un mucchio di gente. A quanto pareva, era successo qualcosa di ben più grave di una roulotte incendiata. Si sistemò alla scrivania di Manu, aprì il computer e controllò le e-mail. Aveva scritto quattro articoli e li aveva inviati a diverse redazioni; prima o poi avrebbe ottenuto una risposta!

Nulla. Solo dello spam. Niente inviti a far parte di una giuria, a un qualche gala, alla presentazione di un libro o a una lettura pubblica, come quelli che riceveva una volta ogni giorno e che cancellava en passant. Le e-mail si facevano sempre più rare di settimana in settimana e ormai non ne arrivava neanche una. Niente di niente. Si erano dimenticati di lei. Che era successo alla sua vita? Perché non la cercava più nessuno?

Chiuse con violenza il portatile. Che diavolo ci faceva lì in quel tugurio infestato dai topi in mezzo al bosco? Non le piacevano gli animali. Odiava gli alberi. Era disgustata da quella casa sporca e malridotta. Che umiliazione non aver avuto altra scelta che strisciare a casa della sorella minore.

***

«Lo sapevi che nel XIX secolo quassù c’erano pochissimi alberi?» L’ispettore Tariq Omari attraversò a fatica la radura, si fermò davanti a Pia e si tirò su il bavero del giaccone verde oliva. «Sembra che all’epoca, quando la visibilità era buona, si potesse vedere il bastione circolare celtico sul monte Altkönig sin da Francoforte. Oggi è tutto coperto dai boschi.»

«Come cavolo fai a sapere certe cose?» Non era la prima volta che Pia si interrogava sul nuovo collega entrato nell’ufficio 11 quasi due mesi prima. Dopo che all’inizio di agosto Kathrin Fachinger aveva annunciato di punto in bianco di essere incinta e che sarebbe andata in maternità a novembre, la direttrice Engel aveva tirato fuori dal cilindro il nuovo arrivato, praticamente da un giorno all’altro.

«L’ho letto da qualche parte» replicò Tariq con un’alzata di spalle. «Ho una memoria eidetica e non mi dimentico mai nulla di quello che ho sentito o letto.»

Pia gli lanciò un’occhiata rapida per stabilire se la stesse prendendo per i fondelli o se semplicemente cercasse di mettersi in mostra, ma lui lo aveva detto con enorme serietà e modestia.

Tariq Omari aveva ventotto anni e veniva direttamente dalla scuola di polizia di Wiesbaden, dove aveva terminato gli studi con il massimo dei voti. In materia di computer, riusciva a stare al passo di Kai Ostermann, inoltre aveva una cultura vasta e invidiabile che di rado gli faceva tenere la bocca chiusa; ciò gli aveva già valso il soprannome di “Einstein” presso la polizia giudiziaria di Hofheim.

Raggiunsero il luogo dell’incendio. L’acqua degli idranti e la pioviggine avevano trasformato le ceneri in una poltiglia nero-grigiastra da cui sporgevano puntelli d’acciaio anneriti e piegati. Sottili volute di fumo si innalzavano qua e là. Due uomini di Kröger montarono una tenda per proteggersi dalla pioggia e sistemarono delle assi di metallo attorno ai resti della roulotte. Gli altri colleghi della Scientifica iniziarono il loro lavoro: tesero una rete sopra il cadavere e cominciarono ad attribuire dei segnali numerati ai punti dove rilevavano potenziali prove. Uno di loro stava fotografando ogni dettaglio del luogo dell’incendio, dell’auto bruciata e della vittima, da ogni prospettiva immaginabile. Qualsiasi oggetto, anche minuscolo e in apparenza insignificante, veniva raccolto, le montagne di cenere dovevano essere crivellate con meticolosità, in modo da non perdere frammenti ossei e denti. Quasi tutto si sarebbe poi dimostrato inutile, ma in quella prima fase dell’indagine non era ancora possibile distinguere ciò che era importante da ciò che non lo era, quindi ogni minima cosa veniva imbustata e inviata al laboratorio. Il lavoro sarebbe stato tanto più arduo perché le ceneri erano appiccicose e dure a causa dei residui di plastica e gomma. Henning e Christian erano accovacciati accanto ai resti umani carbonizzati e stavano discutendo il loro approccio in modo sorprendentemente oggettivo.

«A proposito, ci sono tracce di sangue ai margini del bosco» commentò Pia. «E un testimone oculare ha notato qualcuno. Quindi dobbiamo passare al setaccio anche la radura, in cerca di impronte.»

Kröger si voltò verso di lei e scosse la testa.

«Siamo solo in sei» rispose burbero. «Ho bisogno di tutti gli uomini qui.»

«Allora isolerò la zona finché non arriveranno i rinforzi.» Pia tirò fuori il cellulare. «A quanto pare, non abbiamo a che fare con qualcuno che si è addormentato con la sigaretta in mano.»

«Le temperature devono essere state estreme» affermò Tariq, annusando l’aria. «Odore di benzina, è inconfondibile.»

«E un vago sentore di arrosto.»

«Cosa?»

«Carne bruciata. Un po’ come un’anatra natalizia che è rimasta troppo a lungo in forno.»

«Vero.» Tariq annuì. «Ho solo una conoscenza teorica dei cadaveri, perché non ne ho mai visto uno di persona, ma questo conferma ciò che ho letto.»

«E sarebbe?» chiese Pia, un po’ divertita.

«Il corpo umano è composto al settanta per cento di acqua» replicò il collega. «Ad alte temperature, i fluidi corporei iniziano a bollire. Dicono che un cadavere rinvenuto nel luogo di un incendio puzzi di carbonizzato e fuoco, ma anche di muscoli bruciati e grasso.»

Pia era colpita. Henning Kirchhoff aveva seguito il dialogo con un sorriso indulgente.

«Lei è il nuovo arrivato, vero?» chiese.

«Sì, esatto. Ispettore Tariq Omari.» Il giovane annuì. «E lei è il professor Kirchhoff, direttore dell’istituto di medicina legale e antropologo forense.»

«Corretto.» Henning Kirchhoff aprì la valigetta contenente l’equipaggiamento di base per il suo lavoro. «È il suo primo cadavere?»

«Sì.»

«È fortunato. Potrà imparare molto dalla signora Sander. Lei stessa ha avuto un insegnante formidabile.»

«Puah! Chi si loda s’imbroda, Henning» replicò Pia con tono canzonatorio.

«Non mi sono imbrodato. Non mangio brodo da giorni» ribatté l’uomo con insolita allegria. Poi si raddrizzò e scrutò Pia.

«Che c’è?» chiese lei con sospetto.

«Mangi sempre un po’ di Nutella a colazione?»

«Perché?» Pia si sentì arrossire. Non era mai stata magrissima e negli ultimi mesi aveva preso qualche chilo, perché non riusciva proprio a imporsi delle privazioni e a evitare carboidrati e dolci. Era tipico del suo ex punzecchiarla davanti a tutti.

«Perché hai una macchia di Nutella qui» disse Henning, toccandosi con un sorriso sardonico l’angolo della bocca.

Tariq Omari aveva seguito la schermaglia, perplesso.

«È il mio ex marito» si affrettò a spiegargli Pia, passandosi furtiva il pollice e l’indice sull’angolo della bocca. «E dal momento che era più sposato con il suo lavoro che con me, se volevo vederlo dovevo andare nelle aule dell’istituto di medicina legale.»

«La macchia non c’è più.» Henning le fece l’occhiolino. «E, per inciso, stai esagerando. Non era poi così male.»

«Ah, no? Ci hai messo due settimane ad accorgerti che me n’ero andata di casa» gli ricordò lei.

Erano passati dieci anni da quando aveva lasciato Henning. Le ferite erano ormai guarite da parecchio. Rimaneva però la sensazione di aver trascorso, durante il suo matrimonio, più tempo all’istituto che nel loro appartamento a Sachsenhausen. Ma anche se all’epoca si era prefigurata qualcosa di più piacevole di innumerevoli weekend e serate in compagnia di cadaveri decomposti, carbonizzati, mummificati e ridotti a scheletri, non poteva negare di aver acquisito un’utile competenza aggiuntiva. Dopotutto, Henning era uno dei pochi antropologi forensi in Germania, un luminare riconosciuto nel suo campo a livello internazionale, e Pia lo aveva assistito, volente o nolente, per sedici lunghi anni. Senza contare le trascrizioni dei caotici appunti di Henning per gli innumerevoli articoli scientifici e i diversi libri specialistici, oltre alla sua tesi di dottorato. La terminologia medico-legale non aveva quindi alcun segreto per lei, e nell’esame dei cadaveri non c’era nulla che Pia non avesse visto o annusato.

«Hai mai assistito a un’autopsia di un cadavere carbonizzato?» La voce di Tariq la strappò dai suoi pensieri.

«Sì, un paio di volte» rispose Pia. Erano in equilibrio sulle assi di metallo a osservare in silenzio ciò che il fuoco aveva lasciato della vittima. Il cadavere era a pancia in giù. Completamente carbonizzato, le estremità erano quasi del tutto bruciate. Con il calore i tendini si erano contratti, quindi le braccia e le gambe si erano flesse e la bocca era spalancata come in un urlo disperato.

«Mmm, è proprio orribile come me lo immaginavo.» Tariq si accovacciò.

«Allora?» chiese Pia. «Cosa vedi?»

«C’è un foro nel cranio» rispose. «Ma dal momento che ad alte temperature anche il cervello inizia a bollire, si può confondere una frattura da calore con una frattura da impatto. Solo l’autopsia potrà determinare con esattezza se è stata utilizzata una forza esterna o se questo foro è stato causato da un’esplosione dall’interno.»

«Un bel dieci e lode per l’esposizione» commentò Henning, poi agitò la mano con impazienza. «E adesso vorrei lavorare in santa pace.»

«Riesci già a capire se è uomo o donna?» chiese Pia.

«Secondo lei?» Henning si rivolse a Tariq e prese qualche attrezzo dalla sua valigetta.

L’ispettore esaminò con più attenzione i resti.

«Direi un uomo» rispose senza voltarsi. «Il femore sembra troppo lungo e troppo massiccio per una donna.»

«Molto bene.» Henning si raddrizzò e fissò il nuovo collega di Pia con un misto di curiosità e scetticismo.

«Se le caratteristiche sessuali di un cadavere non sono più chiaramente riconoscibili a causa di influenze esterne, si può effettuare un rilevamento ottico a fluorescenza del cromosoma Y» continuò Tariq.

«Usando quale metodo?»

«Il bandeggio cromosomico con quinacrina.» Tariq si rimise in equilibrio sull’asse di metallo. «Capelli e cartilagine hanno dimostrato di essere il materiale d’esame ideale. L’ho letto su internet in un articolo del 1979 di Tröger, Spann e Tutsch-Bauer. Ma nel suo libro Pratica della medicina legale per giuristi e agenti di polizia, a pagina 241, capitolo quattordici, secondo paragrafo, descrive anche le caratteristiche tipiche dei corpi carbonizzati che non possono essere identificati con certezza.»

A Pia venne da sorridere quando, per una frazione di secondo, vide Henning con gli occhi fuori dalle orbite.

«A quanto pare ha letto il mio libro con molta attenzione» affermò il suo ex. «A volte vorrei che lo facessero anche i miei studenti. Non male.»

«Ha una memoria eidetica» aggiunse Pia.

«Grazie.» L’elogio di Henning fece arrossire Tariq Omari. «I suoi libri sono scritti in maniera comprensibile, a differenza di molti altri testi di riferimento.»

«Vuole accattivarsi le mie simpatie?» chiese Henning con diffidenza.

«No!» Indignato per quell’insinuazione, Tariq scosse la testa.

Henning lo fissò con un’espressione imperscrutabile.

«Ogni teoria è grigiaa» borbottò, tirandosi il cappuccio sopra la testa e voltandosi.

I colleghi della Scientifica, che avevano seguito la conversazione, sghignazzarono.

«È arrabbiato con me?» chiese Tariq a Pia, turbato.

«E perché mai?» Le venne da sorridere. Molto di rado aveva visto il suo ex marito colpito da qualcuno. «Al contrario, credo che sia lusingato. Ma preferirebbe staccarsi la lingua a morsi piuttosto che ammetterlo.»

Le squillò il cellulare. Si allontanò di qualche passo e rispose alla chiamata. L’unità cinofila della regione del Reno-Meno sarebbe arrivata a breve, così come il procuratore di Francoforte. E a Mainz-Kastel, un centinaio di membri della polizia di pronto intervento si stavano dirigendo verso le montagne del Taunus. Pian piano le acque si stavano smuovendo.

***

«Sì, certo, posso pensarci io.» La voce di Karoline proveniva dalle casse dell’auto di Bodenstein. «Vado a prendere Sophia a scuola alle tre, poi rimango a casa tua finché non arrivi.»

«Grazie. Sei un angelo.» Bodenstein, che aveva appena lasciato la figlia alla scuola elementare di Eppenhain, si sentì sollevato per aver trovato una soluzione così rapida al suo problema. Ma poi gli venne in mente qualcos’altro. «Ma oggi non dovevi far vedere la casa?»

Karoline aveva deciso di vendere la casa dei suoi genitori a Oberursel, ma la questione si era rivelata molto più difficile del previsto. Diversi potenziali acquirenti se n’erano andati dopo aver sentito cos’era successo in quel luogo. Altri, invece, avevano preso un appuntamento come scusa per vedere da vicino la scena di un omicidio. Alla fine Karoline aveva tolto l’annuncio da tutti i portali online. Le persone che sarebbero venute quel giorno non erano interessate alla casa in sé per sé, ma solo al terreno su cui sorgeva.

«Era ieri» rispose Karoline leggermente divertita.

«Oh, giusto.» Bodenstein si mise a sudare. Il giorno prima in ufficio c’era stato il pandemonio, poi era dovuto andare a prendere Sophia a una festa di compleanno e a fare la spesa. Si era semplicemente dimenticato di quell’importante appuntamento per lei. Sperava solo che Karoline non lo considerasse come un segno di indifferenza. «E allora com’è andata?»

«Te lo racconterò stasera, okay?»

«Sì, certo. E grazie ancora per il tuo aiuto.»

«Non c’è di che. A dopo.»

Bodenstein terminò la chiamata e si dannò per la propria pessima memoria.

Aveva incontrato Karoline nel dicembre di due anni prima nelle peggiori circostanze possibili, e le condizioni per una relazione erano state tutt’altro che ideali. Ciononostante, passo dopo passo, ogni cosa si era sviluppata nella giusta direzione. Tra i due c’era un’intesa meravigliosa e l’attrazione fisica e il desiderio a volte li trasformava in adolescenti ridacchianti. Tra loro però c’erano anche fiducia, rispetto e una fondamentale concordanza di valori e opinioni: una buona base per un rapporto sentimentale. Il problema era Greta, che sin dal primo momento era stata estremamente gelosa di lui, l’uomo nuovo nella vita della madre. Per Karoline, la figlia veniva sempre per prima; aveva la coscienza sporca per averla trascurata a lungo a causa del lavoro, e ora cercava di recuperare il tempo perduto. Bodenstein osservava la crescita di Greta con preoccupazione, ma Karoline era fin troppo sensibile alla minima critica da parte sua, quindi lui si tratteneva ed evitava la ragazza il più possibile. Dato che anche lui doveva organizzare la propria vita in base ai bisogni di Sophia, i due avevano poco tempo per stare insieme.

Karoline pensava che la sua ex moglie lo stesse sfruttando come babysitter e lui, a sua volta, pensava che l’iperprotettività della nuova compagna nei confronti di Greta fosse esagerata. Non erano problemi da sottovalutare ma, nonostante tutte le avversità, Bodenstein non voleva rinunciare alla speranza di un futuro insieme.

Quando il suo cellulare squillò, lui rispose presentandosi.

«E chi sarebbe?» chiese una voce rauca di donna che sembrava aver fumato migliaia di sigarette.

Bodenstein ripeté il proprio nome.

«Io sono Hildegard Indenhock. Mi ha lasciato un messaggio in segreteria.»

Lui si rese conto che era la presidentessa dell’associazione Casa degli amici del bosco, di cui la signora Molin gli aveva dato il numero.

In breve spiegò cos’era successo alla radura e descrisse la posizione della roulotte che era stata data alle fiamme.

«Dio santo, è terribile!» esclamò la signora Indenhock, tossendo. «Purtroppo non posso venire. Sto aspettando l’idraulico, che in realtà doveva essere qui alle otto.»

«Non importa» rispose Bodenstein. «Dobbiamo solo sapere chi è il proprietario della roulotte.»

«L’ultima a destra, ha detto? Quella con la veranda verde e la recinzione intorno?»

«Purtroppo non è rimasto nulla né della veranda né della recinzione. Dietro il veicolo c’erano alcuni pecci, ma purtroppo anche quelli sono andati a fuoco.»

Sentì il clic di un accendino e un respiro profondo.

«Allora è quella di Rosie» disse la signora Indenhock dopo un momento di riflessione. «Rosemarie Herold.»

Bodenstein sussultò nel sentire il nome.

«Rosemarie Herold di Ruppertshain?» domandò con una sensazione di nausea allo stomaco.

«Sì, esatto» rispose la donna con un nuovo attacco di tosse. «Posso darle il suo indirizzo e numero di telefono.»

«Non è necessario» replicò lui. «Conosco la signora Herold.»

La signora Indenhock disse qualcos’altro, ma Bodenstein non la ascoltava più. Per fortuna, in tutti gli anni in cui era stato alla polizia giudiziaria, non aveva mai dovuto indagare sull’omicidio di un conoscente. Che adesso stesse per arrivare la triste eccezione alla regola? Rosemarie Herold era la madre di Edgar, un suo compagno di classe alle elementari, e da giovane aveva lavorato come collaboratrice domestica nella casa dei suoi genitori. Per intere generazioni, gli uomini e le donne di Ruppertshain avevano trovato lavoro nel vicino podere, nelle terre e nei boschi della famiglia von Bodenstein. In passato non c’erano infatti molte alternative. Ruppertshain era stato un povero paesino fino alla fine del XIX secolo, quando era stato costruito il sanatorio e lo stabilimento era diventato il principale datore di lavoro.

Dopo l’istruzione primaria, Bodenstein e i suoi fratelli avevano frequentato il liceo di Königstein, anziché la scuola secondaria unificata di Fischbach, come quasi tutti gli altri ragazzi di Ruppertshain. Tuttavia erano rimasti legati al piccolo paese: il padre di Oliver aveva gestito per decenni il club di caccia e la madre si teneva occupata con la chiesa e l’asilo. Per questo Bodenstein aveva percepito il suo trasferimento a Ruppertshain, ben tre anni prima, come una sorta di ritorno all’ovile.

Allo Zauberberg svoltò a destra e prese la curva pronunciata che conduceva a Ruppertshain. Prima di tornare sul luogo dell’incendio, voleva andare al forno e prendere la colazione per la sua squadra; tra l’altro lui stesso aveva un estremo bisogno di una dose di caffeina.

Cinquecento metri dopo, mise la freccia per girare nel piccolo parcheggio della birreria Grünen Wald, ma per poco non andò a finire addosso a un fuoristrada che stava svoltando nello stesso istante. Spaventato, schiacciò il pedale del freno. Solo allora riconobbe la donna al volante.

***

Sul sentiero nel bosco dietro la recinzione metallica arrugginita che circondava la radura si era accampata una troupe televisiva. L’operatrice cercava di catturare le immagini più spettacolari della tragedia. Altri rappresentanti dei media erano già in arrivo. Ronzavano sempre sulle scene del crimine come nugoli di mosche.

«Come cavolo hanno fatto a sapere che qui c’era qualcosa da vedere?» si domandò Tariq.

«La radio della polizia» rispose Pia laconica. Aveva inviato due agenti dalla stampa per avvisare di non scavalcare la recinzione, poi si era diretta dalla guardia forestale.

Wieland Kapteina stava ascoltando con aria impassibile una giovane donna paffuta che sembrava furiosa.

«...non ci posso credere!» la sentì dire Pia mentre si avvicinava. «Qualcuno ha praticamente staccato l’esca olfattiva e se l’è persino presa! È un sabotaggio bello e buono!»

«Cosa è un sabotaggio?»

La giovane donna si voltò di colpo e lanciò un’occhiataccia a Pia. Era bassa e tarchiata, aveva al massimo una ventina d’anni. Sebbene facesse tutt’altro che caldo, indossava solo una maglietta bianca aderente con scollo a V. I pantaloni mimetici, arrotolati fino alle ginocchia, mostravano polpacci muscolosi, i piedi erano incastrati in scarponcini da trekking robusti.

«Quello che quei bastardi fanno con le nostre esche olfattive!» esclamò, tremando di rabbia. Fece scorrere il pollice sotto il bordo della maglietta per sistemarsi alla svelta il reggiseno. Fu un movimento inconscio e privo di civetteria che, però, fece arrossire Tariq.

«Chi fa cosa con cosa?» chiese Pia.

«Con le esche olfattive» ripeté la giovane alzando gli occhi al cielo come se avesse a che fare con una poppante. Aveva occhi verdi di una luminosità magnetica, incorniciati da ciglia folte, un bel viso con un naso all’insù e una pelle pallida e perfetta, tipica di chi è rosso naturale. Tutto in lei sembrava rotondo e morbido come una pesca matura: le guance piene, un accenno di doppio mento e le spalle arrotondate. Aveva i capelli rosso rame legati in uno chignon stretto sulla testa e la bocca dalle labbra piene era distorta da una smorfia.

Tariq si sforzava di non fissarle il seno, ma era semplicemente impossibile che passasse inosservato.

«Vi presento Pauline Reichenbach» si intromise Wieland Kapteina. «Lavora come volontaria per l’associazione per la tutela della natura e supervisiona un progetto di monitoraggio dei gatti selvatici nel Taunus. È una collaborazione tra diverse associazioni per la salvaguardia della natura, l’ente regionale per la tutela e il dipartimento di genetica degli animali selvatici dell’istituto di Senckenberg.»

Pauline riprese a parlare di getto. «Abbiamo installato diverse telecamere, per il monitoraggio. Certo, i gatti non si mettono mica in posa – cucù, eccomi qua! – davanti alle telecamere, ecco perché abbiamo preparato delle cosiddette trappole olfattive che emanano un odore che attrae i gatti selvatici. Mi seguite?»

«Sì. Credo di sì.» Pia annuì. Un pensiero le si affacciò alla mente.

«È così tragico se una delle esche scompare?» domandò Tariq.

«Be’, direi! Lo sa quanto costano quelle esche di merda?» esplose Pauline, le mani sui fianchi. «E sa che faticaccia è fissarle nel terreno? È tutto lavoro volontario, lo facciamo nel nostro tempo libero! Per non parlare del fatto che la scorsa notte potrebbe essere passato un gatto, e ce lo siamo perso!»

«Oh, prima o poi ritornerà.» Il tono condiscendente di Tariq fece uscire la giovane dai gangheri. In quel momento, Pia riuscì a catturare il pensiero che le frullava in testa.

«Si calmi» disse a Pauline nel tentativo di placarla. «Dove si trovano queste telecamere? E quante ce ne sono?»

«Tre. Una si trova a circa centocinquanta metri ai piedi della radura, la seconda al monte Eichkopf e la terza vicino al Landsgrabenb.» L’espressione di Pauline Reichenbach divenne sospettosa. «Perché vuole saperlo? E comunque, lei chi è?»

«Pia Sander, polizia giudiziaria di Hofheim. Questo è il mio collega Tariq Omari. Stanotte c’è stato un incendio che ha causato un morto.»

Solo allora la giovane donna sembrò comprendere il motivo della presenza degli agenti di polizia, dei tecnici in tuta bianca, dell’autopompa e dei nastri segnaletici bianchi e rossi che circondavano la radura.

«Oh, non lo sapevo... pensavo che fosse semplicemente andata a fuoco una roulotte.» Fece una faccia imbarazzata. «È... ehm... è davvero orrendo.»

«Sarebbe interessante vedere se stanotte le telecamere hanno registrato qualcosa che potrebbe aiutarci» le disse Pia. «Potrebbe controllare?»

«Sì. Ehm... certo. Ovvio.»

Pauline ora sembrava vergognarsi per aver messo su un simile teatrino. Andò a prendere un tablet dal sedile del passeggero della sua auto, una vecchia Toyota coperta di ruggine, e lo posò sul cofano. Con espressione concentrata, la punta della lingua tra i denti, scorse avanti e indietro sul touch screen.

«La telecamera quattordici ha in effetti registrato qualcosa alle 3.07 di stanotte! E non era un animale!» annunciò con entusiasmo. I suoi occhi si spalancarono. Si portò alla bocca la mano pallida. «Oh, merda!»

«Che c’è? Posso vedere?» Pia le si avvicinò e si chinò sul tablet. La telecamera era a infrarossi, quindi l’immagine era granulosa e leggermente sfocata, ma quella che mostrava era senza alcun dubbio una prima traccia.

***

«Ciao, Inka» disse Bodenstein alla sua vecchia compagna, che si trovava nel parcheggio della birreria Grünen Wald di fronte al forno. Anche se Inka era la suocera di suo figlio Lorenz e possedeva una clinica per cavalli nella valle, era passato un po’ dall’ultima volta che le aveva parlato. Per di più, Inka non apprezzava gli incontri con lui e si teneva lontana dalle feste di famiglia, a meno che non fosse chiaro che Oliver non sarebbe venuto.

«Ciao» rispose con freddezza. «Come va?»

Era solo una domanda di circostanza. Dubitava che le interessasse sapere della sua salute.

«Bene» replicò. «E a te?»

«Benissimo.» Tra i suoi capelli biondi naturali, lunghi fino al mento, si intravedevano i primi fili grigi. Era sempre stata molto snella, ma ora quell’eccessiva magrezza non le donava affatto. Bodenstein notò con sorpresa le rughe sul collo.

“Sta invecchiando” ragionò. Ma subito dopo si corresse: “No, stiamo invecchiando”. Inka era più giovane di lui di soli tre mesi, in fin dei conti. Si fissarono per un momento, senza sapere cosa dire. Il suono del cellulare di lei la liberò da quella situazione scomoda.

«Devo andare» disse dopo una rapida occhiata al display.

«Anch’io» replicò lui. Si salutarono con un cenno del capo, Oliver attraversò la strada e Inka tornò in macchina.

Ecco cosa restava della loro lunga amicizia dopo più di quarant’anni: silenzio colmo di imbarazzo, stupide frasi di circostanza e un vago astio. Bodenstein sospirò, salì i due gradini ed entrò nel forno. Suonò una campanellina vecchio stile, il profumo appetitoso del pane caldo lo travolse. Anche se Inka aveva programmato di andare al forno, ormai doveva aver cambiato idea. In quel momento stava uscendo dal parcheggio e superò il negozio senza neanche degnarlo di uno sguardo.

«Ehi, buondì!» fu il saluto caloroso di Sylvia Pokorny, la moglie del fornaio. «Non ti vedo da un bel po’. Che ti faccio?»

«Un caffè, grazie. Nero» rispose Bodenstein. «E dieci panini e dieci caffè da portare via.»

«Oh, be’, l’uomo propone e la fornaia dispone.» Gli fece l’occhiolino e si voltò verso la lucente macchinetta del caffè cromata. «Hai sentito che la città sta progettando di costruire una nuova strada? Da qui fino agli Ontani. A causa dello sviluppo dell’area edilizia. Finalmente hanno iniziato i lavori.»

«Ah, sì?» si limitò a dire Bodenstein. Al momento non aveva voglia di prestare ascolto alle speculazioni urbanistiche della moglie del fornaio. L’informazione che aveva appena ricevuto dalla presidentessa degli Amici del bosco l’aveva reso inquieto. E se il corpo carbonizzato nella roulotte fosse stato di Rosie Herold? Col passare degli anni, fin troppo spesso aveva dovuto annunciare la morte di un parente alla famiglia e detestava l’idea di doverlo fare con un conoscente.

Sylvia aveva continuato a parlare per tutto il tempo, e lui riaccese il cervello solo quando la fornaia posò il suo caffè sul bancone.

«Dimmi un po’, è vero quello che si dice in giro?» La domanda sembrava essere fatta en passant, ma lo scintillio di curiosità nei suoi occhi leggermente sporgenti era palese. «Su alla Casa degli amici del bosco... qualcosa ha preso fuoco stanotte? Il figlio di Michel Kuhne, hai presente? Guarda caso fa il vigile del fuoco. L’ha sentito dire da un collega di Königstein.»

Bodenstein sapeva che era inutile negare, tanto l’indomani sarebbe stato su tutti i giornali e su internet.

«Sì, è vero» replicò. «Vengo da lì.»

«Gesù, Giuseppe e Maria!» Sylvia Pokorny sgranò gli occhi. «Ho anche sentito che c’è un morto.»

Bodenstein si strinse nelle spalle e desiderò che Sylvia si sbrigasse. Ma in quel momento era l’unico cliente nel negozio e la donna sembrava determinata a saperne di più sulla faccenda.

«Suvvia! Con me ti puoi confidare, sono muta come un pesce.»

Gli venne da sorridere. Se c’era una persona al mondo incapace di tenere a freno la lingua, quella era Sylvia Pokorny. Non per niente il forno era considerato il centro nevralgico di ogni notizia. Se volevi conoscere pettegolezzi, scandali e fatti sensazionalistici, quello era il posto giusto dove scovarli. Anche se era tornato a vivere a Ruppertshain, Bodenstein aveva poco a che fare con la gente del luogo. Non era il tipo che la sera si sedeva in un bar ad ascoltare le ultime voci di paese bevendosi qualche birra.

Quando Sylvia si accorse che da lui non avrebbe carpito nulla, iniziò a versare il caffè nelle tazze di carta. Per fortuna, il rumore metallico del macinino rendeva impossibile la conversazione. Il marito di Sylvia uscì dal laboratorio ed entrò in negozio con una teglia da forno in mano.

«Ehi, Oliver» bofonchiò.

«Buongiorno, Konni» replicò Bodenstein.

Da giovane, Konstantin Pokorny era tarchiato e taciturno, adesso era talmente ingrassato che non riusciva a passare dalla porta che portava dal laboratorio al negozio.

«Allora, stai raccontando una delle tue panzane?» disse alla moglie, mentre versava i panini fumanti in uno dei cestini della vetrina. Il vetro del bancone si appannò dall’interno e al profumo lo stomaco vuoto di Bodenstein brontolò.

«Pff, mi interesso solo a quello che succede qui» replicò Sylvia, stizzita. «A differenza di te.»

«Ti interessi abbastanza per tutti e due» bisbigliò Pokorny, asciugandosi la fronte con il braccio carnoso. I pantaloni a quadri gli pendevano da sotto il pancione, la maglietta macchiata di sudore si era alzata un po’, mettendo in mostra qualche centimetro di pelle pelosa.

«Ma non potresti metterti il grembiule quando sei in negozio?» Sylvia Pokorny lanciò al maritino uno sguardo di disapprovazione.

«Tanto Oli mi ha visto anche in mutande» ribatté lui, impassibile. «Dico bene?» E scoppiò a ridere di gusto.

«A quei tempi, però, eri anche appetibile!» Sylvia aveva finito di preparare i caffè, sistemò le tazze su un vassoio di cartone, poi posò il tutto sul bancone insieme ai sacchetti di carta con i panini.

«Un bell’uomo non imbruttisce mai.» Pokorny sfoderò un sorriso bonario, fece l’occhiolino a Bodenstein e scomparve nel laboratorio dalla porta a vento.

«Quanto ti devo?» chiese Oliver tirando fuori il portafoglio.

In quel momento la campanella della porta tintinnò. Due donne e un uomo dai capelli grigi entrarono in negozio: Annemarie Keller, ottant’anni suonati, con una vista da falco che nemmeno la vecchiaia aveva intaccato, suo figlio Leo e la vicina Elfriede Roos, corpulenta, con la faccia rossa e il fiato corto. Bodenstein li salutò con educazione. Le due donne lo squadrarono incuriosite dalla testa ai piedi, Leo si fermò vicino alla porta a fissare il pavimento. Molti anni prima, Leo era stato un giovane sportivo, ma un grave incidente lo aveva reso un invalido che, a sessant’anni, viveva ancora con la madre e lavorava come impiegato comunale.

«Ciao, Leo» gli disse Bodenstein.

«Ci... ciao» balbettò quello, senza staccare lo sguardo dal pavimento. La bocca gli si contraeva in modo incontrollabile, la saliva gli colava da un angolo. Una scena che suscitava un’enorme compassione.

Sylvia attese con impazienza che Bodenstein si dileguasse, in modo da poter spiattellare le ultime novità sull’incendio alla sede della Casa degli amici del bosco, magari ricamandoci un po’ sopra. In men che non si dica, la storia avrebbe fatto il giro del paese, causando una marea di speculazioni. Quanto a Bodenstein, doveva tornare sul luogo dell’incendio per scoprire cosa Kirchhoff aveva scoperto sul sesso e l’età della vittima. Se il cadavere non era quello di Rosie Herold, allora aveva urgente bisogno di parlarle prima che le chiacchiere di paese arrivassero a lei.

«Quindici e settanta.»

«Non ho spiccioli.» Posò una banconota da venti euro sul bancone, prese il resto e afferrò sacchetti e vassoio.

«Allora, come sta tua madre?» chiese Annemarie Keller, come faceva sempre ogni volta che si incontravano. Gli stava tenendo la porta aperta. In passato, lei e suo marito si erano occupati di gestire un negozio di alimentari nella Wiesenstraße, che il commissario ancora ricordava. Gli scaffali strapieni, che raggiungevano addirittura il soffitto, e la frutta fresca erano stati per lui la quintessenza del lusso puro. Gli piacevano soprattutto i dolci alla cassa e Annemarie Keller aveva l’abitudine di dare un un lecca-lecca a tutti i bambini quando andavano al negozio dopo la scuola.

«Sta bene, grazie» fu la solita risposta meccanica di Bodenstein. «E anche mio padre.»

Vent’anni prima, il paesello aveva tutta una serie di negozi: due macellerie, due panetterie, una filiale della banca, un distributore di benzina con un’officina di riparazioni, una merceria e un negozio di alimentari, quattro ristoranti, una caffetteria e molto altro ancora. Ma poiché quasi tutti si spostavano in auto e potevano comodamente fare acquisti nei supermercati dei paesi vicini, il commercio al dettaglio a Ruppertshain era via via sparito. Tutto ciò che restava era il forno Pokorny e la macelleria Hartmann.

Bodenstein uscì sullo stretto marciapiede bloccato dal deambulatore della signora Keller e attese che la strada, che a quel punto curvava a gomito, fosse libera. Due volte al giorno a Ruppertshain il traffico diventava relativamente intenso, cioè tra le sette e mezza e le nove e mezza del mattino, quando i genitori accompagnavano i figli a scuola a Eppenhain e la gente andava al lavoro, e tra le cinque e le sette della sera quando tornavano tutti a casa.

Un anziano dai capelli bianchi stava camminando sul marciapiede dall’altra parte.

«Buongiorno, padre!» gridò Bodenstein.

L’uomo alzò la testa, lo fissò e rimase immobile.

«Oliver» esclamò.

All’improvviso, senza guardare a destra o a sinistra, attraversò la strada. Non sembrava aver notato il bus che stava girando l’angolo. Bodenstein impallidì per la paura.

«Attento!» urlò spaventato. «Fermo!»

L’autista del bus schiacciò i freni con violenza, ma era troppo tardi. Il rumore sordo fece gelare il sangue a Oliver e, per la seconda volta quel giorno, il cuore prese a battergli a mille per la paura. Con occhi annebbiati vide le facce spaventate dietro i finestrini dell’autobus, sentì le gomme stridere e le urla. La porta a vetri del forno si aprì dietro di lui, la campanella gli tintinnò nelle orecchie. In fretta mise il vassoio col caffè e i sacchetti sul deambulatore e si fece largo tra le macchine e l’autobus che si erano fermati alla rinfusa.

«Non ti muovere» disse bruscamente, e fermò la moglie del panettiere che voleva correre dall’altra parte della strada. «Rimani dove sei!»

Il suo cervello era passato alla modalità poliziotto e per il momento aveva bloccato la paura di ritrovarsi davanti la scena terrificante di un corpo maciullato sull’asfalto. L’orrore lo avrebbe perseguitato solo in seguito. Di notte, nei suoi sogni.

***

Dietro il nastro rosso e bianco, gli agenti dell’unità di pronto intervento sciamavano in una lunga fila attraverso la radura, gli occhi concentrati a terra. Altri erano impegnati a tenere alla larga la stampa e persino alcuni curiosi che erano finiti fin lì vagando per il bosco. Henning Kirchhoff e la squadra di Kröger lavoravano sotto forte pressione sulla carcassa dell’auto, sul cadavere e sui resti della roulotte. Il cane da soccorso dell’unità del Reno-Meno, un pastore belga di nome Leila, aspettava con impazienza sul retro di un’auto.

Bodenstein non era ancora tornato, così Pia si assunse la responsabilità di aggiornare il procuratore. Jörg Heidenfeld era una vecchia conoscenza con cui aveva lavorato in molte occasioni. Ricordava ancora la sua primissima autopsia. All’uomo era venuto da vomitare quando il professor Kronlage aveva rimosso cuore e polmoni dal cadavere di Isabel Kerstner. Ma erano passati nove anni da allora, e ormai Heidenfeld non si faceva più impressionare così facilmente. Tutta la foga giovanile era scomparsa da tempo dai suoi lineamenti, così come la curiosità dai suoi occhi. Ecco quali erano i risultati del confronto quotidiano con il baratro umano. Ognuna delle tante vittime, ogni incontro con i colpevoli, ogni sconfitta in tribunale demoliva a poco a poco l’illusione con cui tutti loro avevano iniziato la carriera, che fossero poliziotti o procuratori.

«Omicidio doloso o colposo?» chiese.

«Potremo dirlo solo dopo l’autopsia» rispose Pia.

«Il colpevole si è ferito nell’incendio ed è fuggito nel bosco?» Il procuratore corrugò la fronte.

«Non necessariamente.» Pia scosse la testa. «La testimone ha sentito prima un’auto allontanarsi e solo dopo ha dichiarato di aver visto il profilo di una persona di fronte al fuoco. Una telecamera a infrarossi per la fauna selvatica ha registrato una figura ai piedi della radura alle 3.07: si tratta chiaramente di un uomo. Abbiamo trovato tracce di sangue, quindi probabilmente è ferito. Ha estratto dal terreno un paletto di circa un metro e trenta di lunghezza, preparato con una sostanza destinata ad attirare i gatti selvatici, e lo ha portato via con sé.»

«Per quale motivo?»

«Forse per sorreggersi» ipotizzò Pia. «Oppure come arma. Non ne ho idea.»

Più in fondo alla radura, gli agenti dell’unità di pronto intervento sembravano aver trovato qualcosa di interessante. Una poliziotta arrivò di corsa per riferire, un po’ senza fiato, che c’erano tracce di furto con scasso e sangue su una delle altre roulotte. Pia, Tariq Omari e il procuratore Heidenfeld seguirono la giovane oltre le roulotte fino all’ultima della fila, che si trovava sotto i rami possenti di diversi abeti. Molto tempo prima, qualcuno si era dato parecchio da fare: la roulotte era circondata da una staccionata ormai sgangherata ed era stata costruita una specie di veranda in stile pseudo-bavarese. Ma ormai sembrava tutto in stato d’abbandono, c’era spazzatura ovunque. Vasi di fiori vuoti, una griglia arrugginita, una casetta per uccelli rotta, gnomi da giardino danneggiati e ogni genere di vecchie cianfrusaglie accatastate una sopra l’altra accanto alla veranda fatiscente, coperta da uno spesso strato di aghi di abete. Il capo dell’unità di pronto intervento, il commissario Ewald Fritsche, e due dei suoi capisquadra stavano aspettando davanti alle scale. Fritsche fece un cenno col capo a Pia e al procuratore. L’uomo era sui cinquantacinque anni, un poliziotto esperto, dal viso spigoloso e arrossato e con un taglio di capelli militare. La sua reputazione di istruttore e tiratore scelto era leggendaria.

«Le impronte sui gradini non sono vecchie» spiegò. «Ci sono mozziconi di sigarette dappertutto. E la porta della roulotte è stata forzata.»

Pia estrasse un paio di guanti in lattice dalla tasca del giubbotto. Con attenzione, salì le scale fatiscenti e si avvicinò lentamente alla porta, guardando a terra per evitare di distruggere per sbaglio delle tracce.

La porta della roulotte era stata forzata in modo poco accorto: lo scassinatore aveva apparentemente usato un pezzo di metallo arrugginito come scalpello, che aveva trovato lì accanto. La roulotte era spaziosa e, com’era prevedibile, vuota. Puzzava di sudore e muffa. Pia si guardò attorno. Il pavimento in pvc usurato era coperto di sangue. Il letto sembrava usato: coperte stropicciate, un cuscino in cui era ancora possibile vedere l’impronta lasciata da una testa. Bottiglie di plastica vuote, lattine di birra e scatolette di conserve disseminate in giro, una tazza di caffè con motivo floreale era stata utilizzata come posacenere. Pia esultò. Lo scassinatore aveva lasciato molte tracce genetiche e biometriche e non aveva dubbi sul fatto che gli uomini di Kröger avrebbero scovato delle impronte digitali sfruttabili. Con un po’ di fortuna, avrebbero trovato un riscontro nel database dell’AFISc della polizia federale, in cui sono memorizzate le impronte digitali, e gli avrebbero attribuito un nome e un volto che potevano confrontare con l’immagine della telecamera.

Pia lasciò la roulotte con un sorriso soddisfatto. Erano passate da poco le dieci e avevano fatto progressi considerevoli.

***

Dalla finestra, Felicitas osservava il trambusto sulla radura altrimenti tranquilla. Ma che era successo? Una vecchia roulotte bruciata non poteva causare un tale dispiegamento di forze! Avevano fatto persino ricorso a un’unità cinofila! Forse doveva chiedere a qualcuno. Ma dopo l’umiliazione di quella mattina, non aveva alcuna voglia di parlare con uno degli sbirri. Avrebbero di nuovo riso di lei.

Il campanello suonò e i cani cominciarono ad abbaiare. Per la paura sobbalzò e sbatté forte il ginocchio sul vecchio termosifone. Imprecando, zoppicò fino alla porta. Il campanello suonò di nuovo. Felicitas mise a tacere i cani e gettò uno sguardo prudente dallo spioncino. Due uomini. Dall’aspetto, non erano dei poliziotti. Tolse il chiavistello e aprì la porta.

«Salve» disse il più giovane dei due con un sorriso affabile. «Siamo di HitRadio FFH e volevamo chiederle se ha sentito cos’è successo qui ieri sera durante l’incendio. A quanto pare, hanno trovato un morto. Lei vive qui, forse lo conosceva.»

Un morto? Felicitas sentì le mani diventare umide. Le venne la pelle d’oca sulla schiena. Ciò naturalmente spiegava tutta l’agitazione là fuori. Ma perché la polizia gliel’aveva nascosto? A meno di cinquecento metri da lei, una persona era morta carbonizzata nella roulotte, ma a nessuno era venuto in mente che fosse necessario informarla. Tremava. La vittima poteva essere solo l’uomo con l’Audi grigia, che di solito arrivava la sera e se ne andava la mattina. Non si era mai presentato, le faceva solo un cenno con la testa se la incrociava fuori con i cani. Felicitas si domandò se Manuela avesse mai fatto il suo nome. Senz’altro, sua sorella lo conosceva bene; conosceva tutti al campeggio.

«Non ne so niente. Fuori di qui!» sbraitò ai due giornalisti e sbatté la porta.

Il telefono fisso squillò. Probabilmente qualcuno della stampa o la tizia della Casa degli amici del bosco. Partì la vecchia segreteria telefonica. Felicitas non aspettò di ascoltare il messaggio. Si precipitò su per le scale che conducevano alla stanza degli ospiti nella mansarda.

«Non ne posso più!» disse ad alta voce tra sé e sé, aprendo l’armadio che puzzava di naftalina. «Non rimarrò qui un minuto in più!»

Con veemenza, tirò fuori la borsa da viaggio da sotto il letto e vi infilò dentro i vestiti. Meglio spendere i suoi ultimi risparmi in una stanza d’albergo piuttosto che passare un’altra notte in quella casa dell’orrore! Più tardi avrebbe scritto un’e-mail alla sorella per avvertirla di cercare qualcuno che si prendesse cura dei cani.

Cinque minuti dopo trascinò giù il pesante bagaglio, infilò la pistola nella borsetta e scese a tentoni le scale strette e anguste fino alla cantina. L’altezza dei gradini era irregolare, la lampadina rotta, quindi doveva stare attenta a non cadere, ma nella lavanderia c’era un’uscita posteriore dalla quale poteva raggiungere il garage senza essere vista e sparire.

***

«È morto? Oddio, oddio! Non l’ho proprio visto arrivare!» farfugliò l’autista del bus con concitazione, un uomo grasso e calvo con il viso imperlato di sudore. «Non è stata colpa mia! No, non è stata colpa mia, col cavolo!»

«Padre!» Bodenstein toccò con attenzione la spalla dell’uomo che giaceva immobile sull’asfalto. «Mi sente?»

Provò un senso di sollievo quasi vertiginoso quando il vecchio aprì prima un occhio e poi l’altro.

«Oliver! Che... che è successo?» gracchiò Adalbert Maurer, mettendosi una mano sulla nuca.

«È stato investito da un autobus» replicò Bodenstein. «È ferito?»

«Si è gettato davanti al bus!» esclamò l’autista. «Non l’ho investito!»

«Nessuno l’ha accusata di nulla» disse qualcuno tra la folla di curiosi riunitisi sulla strada.

«Invece sì! L’ha detto quello lì! Ma non ingoierò il rospo! Non ho mai investito nessuno in tutta la mia vita! E guido l’autobus da quarant’anni! Chiamo la polizia!»

Il bus bloccava tutta la strada. La fila di auto si allungava sempre di più. I passanti si fermavano a guardare. Le portiere venivano chiuse con forza. Dei passi si avvicinarono. In un batter d’occhio, si formò un piccolo assembramento.

«Possiamo aiutare?»

«Ma che è successo?»

«Il bus ha messo sotto il parroco!»

«Oh, no, il parroco!»

«Non l’ho messo sotto, Dio santo! Ha attraversato di punto in bianco!» protestò l’autista.

«Non mi è successo niente» disse il parroco, ancora stordito. «Ho solo sbattuto un po’ forte la testa sull’asfalto.»

«Meglio chiamare l’ambulanza.» Bodenstein era preoccupato. Adalbert Maurer aveva più o meno ottantacinque anni, ancora bello arzillo, sì, ma una simile caduta avrebbe potuto avere conseguenze fatali, soprattutto a quell’età.

«No, no, sto bene. Probabilmente mi verrà solo un grosso bernoccolo. Sii gentile, aiutami ad alzarmi.»

Si aprì una finestra al piano superiore della birreria e Anita Kern, la proprietaria, si sporse per vedere cosa stava succedendo per strada davanti al suo parcheggio. Ovviamente anche dal forno avevano visto l’incidente. Sylvia Pokorny e la bolsa Elfriede Roos erano accanto ai ficcanaso. Bodenstein si gettò uno sguardo alle spalle e trovò volti preoccupati e curiosi.

«Non è stata una furbata inciampare davanti a un autobus proprio di fronte al forno» scherzò il parroco con voce tremula, mentre si alzava in piedi e si spazzava la sporcizia dai pantaloni.

«Ecco qua! L’ha detto lui stesso di essersi messo davanti al mio bus!» esclamò l’autista trionfante, rivolgendosi alla folla curiosa. «Avete sentito?»

Nessuno gli prestava attenzione. Le auto cercavano di svoltare nella strada stretta. Qualcuno suonava il clacson con impazienza.

«Mi ha spaventato a morte.» Bodenstein scrutò con attenzione il vecchio. C’era qualcosa che non andava in lui. Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che aveva visto il prete, e da allora era cambiato. Quel suo fascino da vecchio signore vispo era scomparso, sembrava teso. Il suo viso era smagrito, aveva le occhiaie e il suo solito sorriso cordiale e contagioso sembrava essersi spento. Era stato lo spavento o forse era malato?

Qualche donna apprensiva si accalcò intorno al prete, visibilmente a disagio.

«Adesso basta» protestò. «Non è successo nulla.»

«La accompagno a casa» suggerì Bodenstein. «O meglio, dal dottore. Forse ha una commozione cerebrale.»

«No, no, non ce n’è bi...» Il prete si interruppe nel bel mezzo della frase, un’espressione bizzarra gli attraversò il volto, ma svanì rapida come l’ombra di un rapace su una radura.

All’improvviso aveva l’aria sgomenta. Ma perché? Bodenstein si voltò, ma vide solo qualche persona che discuteva animatamente della dinamica dell’incidente.

L’autista fece risalire i passeggeri sul bus e se ne andò dopo che Bodenstein si fu identificato come poliziotto ed ebbe registrato i suoi dati. La gente ritornò alle proprie auto. Lo spettacolo era finito e la folla si disperse. Non scorreva sangue, non era morto nessuno. Nuovi clienti erano arrivati nel forno e Sylvia, con riluttanza, dovette tornare al lavoro. Appoggiata al deambulatore, l’anziana Keller stava aspettando dall’altra parte della strada che Bodenstein le portasse la spesa.

«Mica vorrà morire prima di me, padre!» gridò con la sua voce vacillante. «Mi ha fatto una promessa, non se lo scordi!»

«Farò tutto il possibile, Annemarie» rispose il parroco, ma il suo sorriso era teso. Nel frattempo era apparso Klaus Kroll, l’agente di polizia di Ruppertshain, che aveva cercato di convincere il prete a farsi vedere da un medico. A quanto pareva, con ancor meno successo di Bodenstein.

«Non vuole, quello zuccone» disse Kroll, stringendosi nelle spalle.

«Chi la dura la vince» commentò qualcuno.

Bodenstein si voltò e riconobbe Jakob Ehlers, il fratello maggiore del suo ex compagno di scuola Ralf, che viveva a poche case di distanza. Era in giacca e cravatta. Il commissario guardò il vecchio prete con una sensazione di disagio.

«E comunque, che è successo?» chiese Kroll.

«È corso in strada senza guardare né a destra né a sinistra» rispose Bodenstein. «L’autista del bus è riuscito a malapena a frenare e probabilmente l’ha solo preso sulla spalla.»

Consegnò a Kroll il foglio su cui aveva scritto il nome e il numero di telefono del conducente.

«Me ne occuperò io e dopo andrò a vedere come sta il prete» promise il poliziotto. Il resto dei curiosi era scomparso; anche le due vecchiette della casa accanto al forno, il cui passatempo preferito era quello di trascorrere tutta la giornata a guardare la strada dalle finestre, avevano abbandonato il loro punto di osservazione.

«Tutto è bene quel che finisce bene.» Jakob Ehlers diede un’occhiata all’orologio. «Devo andare. Ci vediamo.»

Bodenstein si limitò ad annuire. Jakob era stato per anni a capo dell’anagrafe della città di Kelkheim, probabilmente una coppietta felice lo aspettava nel giorno più felice della loro vita. Lui, d’altro canto, aveva un cadavere carbonizzato e molte domande senza risposta ad attenderlo.

***

Cinque minuti dopo, Felicitas procedeva a scossoni sul sentiero boschivo nella sgangherata Land Rover della sorella, verso la B8. Dallo specchietto retrovisore vide diverse auto e persone; poco prima dei vivai incontrò persino una stazione mobile di un’emittente televisiva che arrivava dal senso opposto, seguita da qualche altro veicolo. Non vedeva l’utilità di spostarsi di lato sul sentiero stretto del sottobosco o addirittura di fare retromarcia per lasciarli passare. Invece, fece lampeggiare i fari un paio di volte con impazienza e alla fine costrinse il conducente a tornare un po’ indietro. Una ventina di metri più avanti, di fronte alla sede del club di pesca, la strada si biforcava e lì poteva svoltare a destra. Non sapeva esattamente dove portasse quel tragitto, ma in realtà doveva scendere un po’ più in basso sulla B8. Con soddisfazione notò la contrarietà dell’uomo al volante della stazione mobile, lo vide agitare le mani con rabbia. Sorridendo, aspettò mentre tutta la colonna di veicoli strisciava all’indietro di venti metri, poi mise la freccia e premette sull’acceleratore. Il motore rombò in agonia, la sottoscocca venne schizzata dalla ghiaia, e Felicitas faticò a girare il volante per condurre il pesante veicolo su quella strada stretta. Non ci riuscì del tutto: la Land Rover atterrò nel fosso e lei sbatté forte la tempia contro il vetro. Con il parafango sinistro, l’auto sfiorò la rete metallica arrugginita che circondava i vivai. Avrebbe fatto meglio a fermarsi e a indietreggiare un po’, ma non voleva perdere la faccia davanti ai giornalisti, così continuò a premere il pedale dell’acceleratore.

«Dai, muoviti!» Felicitas grondava di sudore. «Andiamo, stupido ammasso di rottami!»

La Land Rover si impennò come un cavallo e solo la cintura la salvò dall’essere catapultata dal sedile. Grazie alla trazione integrale, l’auto si tirò fuori dal fosso con il motore gorgogliante e ricoperta di fango, lanciandosi di nuovo sulla strada. Con rabbia, Felicitas accelerò, il fuoristrada scattò in avanti e sfrecciò lungo la curva. Era furiosa per la propria stupidità. Perché per una volta non poteva lasciar perdere e restare calma? Perché doveva sempre attaccar briga con tutti e arrabbiarsi per ogni minima stronzata? Che diavolo c’era di sbagliato in lei? E, soprattutto, che ci faceva in mezzo al bosco in quel lurido trabiccolo, invece di cercare un parcheggio nella sua Porsche Boxster nella via dello shopping di Francoforte? Gli occhi le si riempirono di lacrime e il sentiero si offuscò di fronte a lei.

Solo all’ultimo momento notò la figura in mezzo alla strada. Schiacciò il pedale del freno con tutte le sue forze, ma le ruote si bloccarono e l’auto continuò a scivolare sulla strada sterrata coperta di foglie umide.

***

Mentre andava alla Casa degli amici del bosco, Bodenstein pensò al vecchio prete. Perché Adalbert Maurer sembrava così nel pallone, così stravolto, addirittura? Sebbene fosse in pensione da almeno quindici anni, era ancora molto attivo a Ruppertshain, si occupava dell’asilo e delle famiglie di rifugiati, visitava i parrocchiani e di tanto in tanto sostituiva il prete in carica nelle funzioni religiose e nelle confessioni. Bodenstein si ripromise di fare una breve visita a Maurer quella stessa sera e di domandargli perché avesse attraversato la strada di corsa per parlare con lui. La canonica era a pochi minuti da casa sua.

Allo sbocco tra la strada sterrata e la B8, l’autopompa dei vigili del fuoco di Königstein gli si avvicinò, seguita dalla BMW del procuratore Heidenfeld, che gli comunicò con un gesto che dopo gli avrebbe telefonato. Anche la stampa stava battendo in ritirata.

Bodenstein posteggiò l’auto e prese i sacchetti dei panini e il vassoio dei caffè. Gli agenti dell’unità di pronto intervento si erano raccolti sul crocevia della strada di fronte al parcheggio dove si trovavano i furgoni con cui erano arrivati.

Trovò Pia e Kröger accanto al veicolo della Scientifica. Stavano parlando con Ewald Fritsche.

«Qualcuno vuole la colazione?» chiese, tendendo il vassoio di cartone e i sacchetti ai suoi colleghi.

Gli uomini presero i panini, Pia si accontentò del caffè.

«Hai contattato la donna di quest’associazione degli Amici del bosco?» chiese lei.

«Sì, mi ha ritelefonato.» Bodenstein annuì. «La roulotte apparteneva a Rosemarie Herold di Ruppertshain.»

L’incidente del prete aveva fatto svanire per un po’ la sua preoccupazione per Rosie Herold, ma in quel momento riemerse.

«Be’, comunque la vittima non è lei» ribatté Christian Kröger masticando. «Il Doc è sicuro che il nostro corpo carbonizzato sia di sesso maschile.»

«Oh?» Per una frazione di secondo, Bodenstein si sentì sollevato dal non dover informare un vecchio compagno di scuola della morte della madre. Poi però gli balenò in testa un’altra idea spaventosa. E se il corpo fosse stato proprio di Edgar?

«Conosci questa donna?» Pia gli rivolse uno sguardo interrogativo.

«Sì. O meglio la conoscevo. In passato.»

Visto che non sembrava intenzionato a dire di più del suo legame con Rosemarie Herold, Pia lo informò sulla scoperta della roulotte scassinata.

«Chiunque sia entrato, c’è rimasto per molto tempo» disse. «Il che rende plausibile la dichiarazione del gufo.»

«Abbiamo ottenuto l’impronta di un palmo e quelle digitali» intervenne Kröger. «C’è abbastanza materiale per l’analisi del dna: capelli, squame di pelle, saliva.»

«Con ogni probabilità si tratta di un uomo tra i diciotto e i trent’anni» continuò Pia.

«Cosa te lo fa pensare?» Bodenstein era sorpreso.

«Una ragazza che si occupa di un progetto di monitoraggio dei gatti selvatici ci ha fatto vedere un filmato da una telecamera installata sotto la radura» spiegò Pia. «La qualità delle riprese non è esaltante, ma si distingue chiaramente un uomo.»

«Molto bene.» Bodenstein annuì in segno di approvazione. «Avete già perlustrato il bosco?»

«No. Non volevamo disorientare il cane.»

«C’è già l’unità cinofila? E dov’è Omari?»

«Sta facendo un’esercitazione sul campo» rispose Pia, sorridendo. «Lui e tre uomini di Ewald stanno ispezionando la flora e la fauna dell’Alto Taunus con il cane Leila e la ragazza del progetto sui gatti selvatici.»

«Ma che succede qui?» La voce indispettita di Henning Kirchhoff li fece girare di scatto. «Il comando di polizia si organizza una bella colazioncina e noialtri lavoriamo come schiavi!»

«Ti lamenti sempre quando non puoi avere il cadavere tutto per te...» replicò Kröger, seduto sullo scalino del furgone aperto, con aria di sufficienza.

«Non mi lamento» ribatté Henning con garbo. «Al massimo protesto.»

«Comunque, c’è ancora caffè» disse Kröger. «Ma ormai è quasi freddo e ha un sapore orribile.»

«Non fa niente.» Henning si tolse i guanti, li buttò nel sacco dell’immondizia appeso alla porta scorrevole del furgone e prese una tazza dal vassoio di cartone. «L’importante è la caffeina. Fai spazio, segugio di impronte.»

«Con piacere, scuoiatore di cadaveri» lo rimbeccò Kröger, spostandosi leggermente di lato.

Henning svuotò la tazza in pochi sorsi, fece una smorfia di disgusto e ne prese una seconda. Pia osservava l’ex marito affascinata, come se fosse un insetto raro.

«Dov’è finito l’indiano?» Henning impilò le tazze vuote di caffè.

«Quale indiano?» chiese Pia, stupita.

«Hai capito, il tuo nuovo collega.»

«Tariq è siriano» lo corresse lei, anche se sapeva che era inutile. Una volta che Henning registrava un’informazione nel suo cervello, era definitiva e non si poteva cambiare per nulla al mondo. «Per essere più precisi, è tedesco di origini siriane. Ti ha impressionato, vero?»

«Mah! Un topo di biblioteca!» Henning fece un gesto sprezzante. «Ci vuole altro per impressionarmi.»

«Hai già scoperto qualcosa sul corpo?» chiese Bodenstein prima che Pia e Kirchhoff iniziassero a battibeccare.

«Il vostro corpo aveva senz’altro un cromosoma Y.» Henning Kirchhoff si tolse gli occhiali e li pulì con un panno che aveva preso dalla tasca. «In base alla lunghezza del femore, doveva essere abbastanza alto, minimo un metro e ottantacinque, forse anche di più. È rimasto un panino?»

Senza dire una parola Kröger tese il secondo sacchetto al medico legale e Kirchhoff prese un panino farcito di carne macinata.

Bodenstein cercò di ricordare quando aveva visto per l’ultima volta il suo ex compagno di scuola. Aveva rilevato la bottega di fabbro dopo la morte del padre. Edgar Herold era così alto?

Quel presentimento funesto si fece più forte.

«Inoltre, in vita la nostra vittima doveva essere abbastanza robusta» continuò Henning Kirchhoff, dando un morso al panino. «Le ceneri attorno al cadavere sono vischiose, segno che è stato bruciato molto grasso sottocutaneo. L’uomo stava a pancia in giù, quindi il viso era protetto dalle fiamme. Indumenti, pelle, tessuto adiposo, muscoli, tendini e quasi tutti gli organi sono carbonizzati, ma sono rimaste un po’ di gengive e tutti i denti.»

«Era ancora vivo quando è scoppiato l’incendio?» chiese Pia.

«È una possibilità concreta. Finora non ho trovato nulla che indichi una pugnalata mortale o una ferita d’arma da fuoco.» Henning si strinse nelle spalle, masticando. «Se il cranio sia esploso a causa del calore o sia stato precedentemente danneggiato da un colpo, posso solo determinarlo con un esame più attento.» Diede una gomitata a Kröger. «Lascio a te il finale a sorpresa, per una volta.»

«Quale finale a sorpresa?» Perplesso, Bodenstein fece guizzare lo sguardo tra il medico legale e il capo della Scientifica.

«Non è rimasto molto della porta della roulotte» subentrò Christian Kröger. «Ma abbiamo trovato la serratura e il telaio. C’è una chiave nella serratura. Il calore ha deformato il metallo, ma dalla posizione del chiavistello si capisce chiaramente che la porta era chiusa a chiave.»

«Se di notte mi trovassi in un campeggio sperduto in mezzo al bosco, chiuderei anch’io la porta a chiave» disse Pia.

«Il problema è che la porta non era chiusa dall’interno, ma dall’esterno» replicò Kröger, con una punta di trionfo nella voce. «L’uomo è stato rinchiuso nella roulotte e poi qualcuno ha appiccato l’incendio.»

***

Leila, il pastore belga addestrato a trovare persone, svuotò un’intera ciotola d’acqua, poi saltò nella sua cassetta da trasporto. Ansimava e scodinzolava, soddisfatta del lavoro, che era un gioco emozionante e si concludeva sempre con un senso di gratificazione, cioè una deliziosa ricompensa.

Mentre Bodenstein e Pia si facevano mostrare dalla conduttrice la pista che Leila aveva seguito, Tariq parlava con Pauline Reichenbach sul lato opposto del parcheggio. La ragazza era appoggiata al parafango della sua vecchia carretta arrugginita ad ascoltarlo con la testa inclinata. Aveva sciolto lo chignon e la sua chioma riccioluta rosso rame le cadeva sulle spalle. Tariq sorrideva e chiacchierava, gesticolando con entrambe le mani, Pauline annuiva e ridacchiava di tanto in tanto. A Pia non era chiaro chi fosse più affascinato da chi, ma il linguaggio del corpo dei due giovani suggeriva che stavano parlando di qualcosa di diverso dal cadavere carbonizzato nella roulotte.

«Siamo passati per di qua.» La conduttrice del cane era andata a prendere un atlante della regione Reno-Meno nella sua auto, l’aveva aperto alla relativa doppia pagina e con le sue unghie dallo smalto verde fluorescente aveva indicato il percorso sulla mappa. Il ferito aveva vagato per tutto il bosco tra la B8 da Königstein a Glashütten e la L3369, che portava da Königstein a Ruppertshain. Aveva corso lungo la cosiddetta “pista per slittini”, passando per lo Stoltze-Plätzli, la lapide commemorativa del poeta Friedrich Stoltze, e il vecchio serbatoio d’acqua, per poi scendere verso valle fino a Königstein, dove si trovavano i vivai della piscicoltura Reinhardt nella parte superiore di Ölmühlweg. Poi aveva camminato un po’ sul ciglio della strada, superato la curva Nepomuk e aveva fatto qualche metro nel parcheggio del bosco, per poi ripercorrere tutto il tragitto in senso inverso. Sulla via del ritorno si era tenuto a nord-ovest – di proposito o meno – e aveva raggiunto Victoriaweg, ai piedi del campeggio, l’aveva percorsa ed era arrivato poi un po’ più in alto, a livello dei bacini del club di pesca, sul sentiero sterrato tra la B8 e la Casa degli amici del bosco. «Ed è lì che Leila ha perso la pista.» La conduttrice toccò un punto specifico sulla mappa. Era delusa. «L’ho riportata un po’ indietro e le ho fatto perlustrare l’area, ma non c’era più nulla da fiutare da quel punto in poi.»

«È una distanza enorme per qualcuno che ha perso così tanto sangue.» Bodenstein si accigliò.

«La distanza è enorme anche se non hai perso sangue» commentò Tariq, che aveva finito di flirtare con Pauline Reichenbach. La ragazza salì sulla sua Toyota, accese il motore e partì, non senza rivolgergli un ultimo sguardo ardente.

«Dato che una persona non può sparire nel nulla, probabilmente è montato su un’auto» disse Pia, osservando il collega che aveva la testa altrove. «Rimane da chiedersi se l’ha fatto di sua spontanea volontà oppure no. Tu che ne pensi, Tariq?»

«Ehm... cosa? Non stavo ascoltando» balbettò lui, imbarazzato.

«Ha fermato un’auto di passaggio o l’hanno costretto a salire?» ripeté Pia.

Tariq si sforzò di concentrarsi e aggrottò la fronte.

«Vuoi dire che la persona che ha appiccato l’incendio potrebbe averlo seguito?»

«Penso che sia piuttosto improbabile. Sto pensando a una terza persona.» Pia chiuse l’atlante e lo ridiede alla conduttrice. «Grazie per il suo aiuto.»

«Mi dispiace che non abbiamo potuto fare di più.» La donna si strinse nelle spalle con rammarico. «A volte non è destino.»

Bodenstein, Pia e Tariq Omari la guardarono chiudere il bagagliaio, salire in macchina e allontanarsi.

«Dove sarà finito quell’uomo?» pensò la commissaria ad alta voce, mordicchiandosi il labbro inferiore.

«E soprattutto che ci faceva lì e perché è entrato nella roulotte?» aggiunse Bodenstein.

«Che facciamo adesso?» si chiese Omari.

«Andiamo da Rosie Herold e le domandiamo chi poteva avere una chiave della roulotte» disse Bodenstein. «Forse ci porterà più vicini all’identità della vittima.»

Il suo sguardo si posò sulle scarpe incrostate di argilla di Omari.

«Tariq, va’ a parlare di nuovo con la signora Molin e metti a verbale ciò che la testimone ha visto ieri sera.» Ignorò la delusione sul volto di Omari. «Poi torna a Hofheim. Sarà Ostermann a occuparsi del fascicolo del caso e delle prove. Dagli una mano.»

«Ricevuto.» Tariq annuì.

«E soprattutto non lasciarti sfuggire nulla con la stampa, sono stato chiaro?»

«Cristallino, capo.»

Pia prese lo zaino dall’auto di servizio con cui era arrivata quel mattino e diede a Tariq le chiavi.

«A proposito, che ti ha detto Pauline Reichenbach?» chiese disinvolta, osservando con interesse le guance del collega arrossire.

«Oh, niente, in realtà. Ma mi ha dato il suo numero e io le ho dato il mio. Non si sa mai.» Si strinse nelle spalle. «Conosce tutti in paese. Forse potrebbe tornarci utile.»

«Certo.» Pia sorrise, poi salì in auto con il capo.

***

«Com’è che conosci Rosemarie Herold?»

Bodenstein spiegò a Pia che una volta la donna lavorava nella tenuta Bodenstein e che il figlio Edgar era stato suo compagno di scuola alle elementari. Lei comprese subito la sua inquietudine.

«È possibile che la nostra vittima sia il figlio?»

Oltrepassarono il cartello con il numero di animali investiti, poi alla loro sinistra spuntò il Zauberberg.

«Spero di no» rispose lui. «Ma ovviamente non possiamo escluderlo.»

La bottega Herold era situata davanti alla macelleria Hartmann, sul lato sinistro della Wiesenstraße. Il bisnonno dell’attuale proprietario era il fabbro del paese e aveva costruito la casa verso la fine del XIX secolo. Com’era consuetudine, appena c’era disponibilità di denaro le generazioni successive l’avevano ingrandita, estesa e ampliata, tanto che nel corso di un secolo sul piccolo appezzamento di terreno in pendenza si era sviluppata una serie di fabbricati, probabilmente in barba a tutte le norme di sicurezza antincendio. Bodenstein parcheggiò in strada, perché il cortile era ingombro di ogni genere di roba: parti di scale, inferriate e recinzioni, una saracinesca ammaccata e arrugginita, pallet con porte e finestre nel loro imballaggio originale, gabbie piene di rottami metallici e bombole del gas. Un gatto maculato bianco e nero era accovacciato su una catasta di bancali e osservava con occhi assottigliati Bodenstein e Pia intrufolarsi con una precisione millimetrica lungo il pick-up posteggiato in mezzo a quell’ammasso di cianfrusaglie. L’officina si trovava in un’area pianeggiante, le vecchie scuderie erano state trasformate in garage e probabilmente servivano come deposito di materiale, perché era impossibile attraversare il cortile con un’auto.

Dall’officina proveniva lo stridio di una smerigliatrice, dalle finestre appannate si intravedeva una pioggia di scintille. Bodenstein bussò alla porta socchiusa.

«È aperto!» gridò la voce di un uomo dall’interno, ed entrando nel laboratorio il commissario si sentì subito trasportato nel passato, a quarant’anni prima. Non era cambiato nulla, solo l’uomo al banco da lavoro, che ora aveva sollevato lo sguardo, era diverso. Da bambino, la stanza gli era sembrata tetra e gigantesca, le macchine e le attrezzature minacciose. Adesso doveva correggere le dimensioni del suo ricordo. Una semplice bottega da fabbro, un po’ vecchio stile e piena zeppa di oggetti, ma pulita.

«Ciao, Edgar.» Bodenstein fu sollevato nel vederlo vivo e vegeto.

«Oliver!» Sorpreso, il fabbro posò la smerigliatrice angolare. «Che diavolo ci fai qua? Sei venuto per le tue inferriate?»

Edgar Herold era di media statura e tarchiato, con sopracciglia cespugliose inarcate su palpebre pesanti e baffi spessi che gli coprivano il labbro superiore. Il suo sguardo sembrava nascondere una coscienza sporca.

«No, siamo qui per lavoro.» Tutti a Ruppertshain sapevano che a volte Edgar ci metteva anni a completare gli ordini, per cui i clienti non gli facevano pressione. Bodenstein aveva dimenticato che poco dopo essersi trasferito nella sua nuova casa, circa due anni e mezzo prima, aveva ordinato delle inferriate per le finestre del seminterrato. «Questa è la mia collega, la commissaria Sander. Siamo...»

Lo stridio della smerigliatrice riprese: era assordante, da vicino. Herold fece una smorfia e si rivolse a un giovane con cuffie e occhiali di protezione che stava lavorando, concentrato sulla parte di una ringhiera.

«Ehi!» strillò. Nessuna reazione. Edgar afferrò un pezzetto di metallo e lo lanciò attraverso il laboratorio. Colpì il giovane alla spalla. Il ragazzo alzò la testa, indispettito, e si tolse le cuffie di protezione.

«Che c’è?» sbraitò. «Credevo di doverla finire!»

«Sì che devi, ma adesso fai una pausa» tuonò il fabbro. «Va’ fuori a caricare la roba per la zincatura.»

Brontolando, il giovane sbatté gli occhiali sul banco da lavoro e se ne andò, visibilmente infastidito.

«Oggi finisco puntuale» annunciò.

«Puoi anche piantare baracca e burattini e andartene, se qui non ti sta bene!» gli urlò dietro il suo capo.

Pia non lasciò trasparire quello che pensava di quella conversazione, e neanche Bodenstein batté ciglio.

«La notte scorsa ha preso fuoco una roulotte al campeggio della Casa degli amici del bosco» disse lui. «Abbiamo scoperto che era di tua madre.»

La notizia non sembrò turbare molto il fabbro.

«Ah sì? Oh, be’. Era una vecchia bagnarola.» Guardò Bodenstein con un misto di sospetto e aggressività. «Che c’entro io?»

«Spero niente.»

Silenzio.

Lo sguardo di Edgar schizzò su Pia, poi tornò a Bodenstein.

«Allora, che volete da me?»

«In realtà, vogliamo parlare con Rosie. C’è?»

«No» rispose Herold. «È all’ospizio da un paio di settimane. Cancro. A quanto pare, è arrivata alla fine.»

«Cosa? Non lo sapevo.» Quella rivelazione colpì Bodenstein in modo del tutto inaspettato. Non sapeva cosa lo avesse sconvolto di più: il fatto che Rosie stesse morendo oppure l’indifferenza con cui Edgar gliel’aveva detto. «Sai se aveva prestato la roulotte a qualcuno?» chiese, dopo essersi ripreso dalla brutta notizia.

«Naa, non ne ho idea.»

«Che mi dici di Clemens e Sonja?»

«Che ti devo dire di loro?» Il volto di Herold si oscurò, prese un trapano a cricco e lo strinse tra le dita.

«Forse uno dei due ha le chiavi della roulotte?»

«E io che ne so?» sbottò Edgar. «Sonja si fa viva solo quando vuole qualcosa da me. E l’ultima volta che ho visto Clemens è stato quindici anni fa, al funerale del vecchio. È venuto solo perché voleva la sua eredità. Ho dovuto chiedere un prestito per pagarlo, quello scansafatiche. Fa la bella vita a mie spese. Non lo sento più da allora. Non mi manca per niente.»

Non fu difficile per Bodenstein collegare quel misantropo amareggiato al ragazzo di un tempo. Herold si era sempre sentito penalizzato dalla vita. L’ironia della sorte aveva voluto che diventasse così simile al padre che odiava.

Fuori, nel cortile, si sentiva un fracasso di metallo e colpi, ma Edgar non se ne preoccupava.

«Signor Herold» intervenne Pia. «Un uomo è morto nell’incendio della roulotte. Quindi dobbiamo sapere chi aveva accesso al veicolo. La prego, ci pensi.»

Edgar la fissò impassibile, un sorriso amareggiato gli contrasse gli angoli della bocca, ma svanì subito.

«Non. Ne. So. Nulla!» Divenne paonazzo, fece girare il trapano nella mano. «Non me ne frega niente della roulotte. Mia madre preferiva vivere in quel catorcio piuttosto che qui con noi, nel suo appartamento. Voleva essere libera, stare da sola, per leggere o riflettere in pace, ah! Ma tutti sapevano cosa combinava lì dentro... in quella cazzo di roulotte! Se mio padre lo sapesse, si rivolterebbe nella tomba!»

Karl-Heinz Herold aveva gestito per molti anni la fucina della tenuta Bodenstein, Oliver si ricordava di quell’uomo alto e robusto. Era irascibile e prepotente, soprattutto quando beveva, e capitava spesso. D’altro canto, era un bravo fabbro e maniscalco, puntuale e affidabile, oltre che un uomo che si dedicava anima e corpo ai club di cui era membro. La gente lo rispettava e lo temeva in egual misura. Al suo fianco Rosie non aveva di certo avuto una vita particolarmente piacevole, e Bodenstein non poteva biasimarla se alla morte del marito si era rifugiata nei boschi, per sfuggire a Edgar e a Conny, la sua litigiosa moglie.

«In quale casa di cura vive sua madre?» chiese Pia.

«Si chiama Abendrot. A Hornau» rispose Herold e scoppiò a ridere sguaiatamente. «Se volete parlare con lei, è meglio che vi sbrighiate. Ha già un piede nella fossa. Se verso il paradiso o l’inferno, solo Dio lo sa.»

***

«Che tipo disgustoso» commentò Pia mentre uscivano da Ruppertshain in direzione Königstein. «Come si fa a parlare in quel modo della morte di tua madre?»

Erano andati all’indirizzo di Sonja Schreck, che il fratello aveva dato loro, ma nessuno aveva risposto al campanello, così Bodenstein si era limitato a infilare il suo biglietto da visita nella cassetta della posta.

«Quell’uomo è impossibile.» Pia scosse la testa. «E il modo in cui ha trattato il suo dipendente davanti a noi!»

«I vecchi di “Ruppsch”, come si dice in dialetto, fanno razza a sé» ammise Bodenstein.

«E questo Edgar era davvero un tuo amico?» Pia quasi non riusciva a immaginare che il suo capo, così ben educato e gentile, da giovane avesse frequentato una persona tanto rozza.

«Definirlo amico è un’esagerazione. Abbiamo fatto le elementari insieme, avevamo una specie di banda con altri ragazzi» ricordò Bodenstein. «L’unico con cui ero davvero amico era Wieland Kapteina.»

«La guardia forestale?»

«Sì, esatto. I suoi genitori sono fuggiti dalla Prussia orientale dopo la guerra: suo padre si occupava dei cavalli alla tenuta e sua moglie era governante.»

Anche se Pia lavorava con lui da quasi dieci anni e conosceva i genitori di Oliver e la grande tenuta tra Schneidhain e Ruppertshain, il mondo dell’aristocrazia, con i suoi usi, valori e doveri antiquati, le era sempre sembrato uno strambo anacronismo. I genitori di Bodenstein e il fratello minore Quentin, al quale il padre aveva ceduto la gestione della tenuta anni prima, erano persone umili, laboriose e tutt’altro che benestanti. La scuderia e l’azienda agricola fruttavano quel tanto che bastava per tenersi a galla, e se il ristorante del castello, che l’intraprendente cognata di Bodenstein gestiva, non avesse avuto così tanti clienti, la famiglia del suo capo avrebbe avuto seri problemi finanziari.

«Chi può essere il morto della roulotte?» pensò Pia ad alta voce.

«Spero di scoprirlo da Rosie.» Come al solito, Bodenstein riusciva a seguire con facilità i voli pindarici della collega.

«E l’altro figlio? Conosci anche lui?»

«Clemens. Sì, certo. Anche se l’ultima volta che l’ho visto sarà stato trent’anni fa.» Bodenstein si fermò al semaforo rosso delle terme di Königstein. «A quanto ho capito ha tagliato i ponti con la famiglia. Aveva qualche anno più di noi. Sonja, invece, è molto più giovane di Edgar.»

A causa del traffico avanzavano verso la rotatoria a passo di lumaca.

«La vittima o il colpevole devono aver avuto una chiave, quindi almeno uno dei due aveva contatti con Rosemarie Herold» concluse Pia. «A meno che non tenesse la chiave sotto lo zerbino o sotto un vaso di fiori, come un’incosciente. Allora chiunque lo sapesse avrebbe avuto accesso.»

Per un po’ rimuginarono in silenzio.

«Al momento, la vedo così» continuò lei. «Chiunque abbia fatto irruzione nell’altra roulotte potrebbe aver dato fuoco a quella di Rosemarie Herold ed essersi ferito nel frattempo. Forse avevano litigato. Magari per una questione di soldi.»

«E chi è andato via con la macchina che la signora Molin afferma di aver sentito?» chiese Bodenstein.

«C’era davvero o è solo frutto della sua immaginazione?» ribatté Pia. «La signora Molin non mi ha dato l’impressione di essere una testimone particolarmente affidabile.»

«Neanche a me» concordò il commissario. «Inoltre, la macchina può non avere a che fare con l’incendio. Per il bosco passa sempre qualcuno. Forse era addirittura uno di quei tizi dei gatti selvatici.»

«Possibile.» Pia annuì. «Lo farò verificare a Tariq. Sembra aver stretto amicizia con la signorina gatto selvatico.»

Dopo aver superato l’autovelox installato dietro la rotonda di Königstein, Bodenstein accelerò. Secondo Google, la casa di cura Abendrot si trovava a Mainblick, di fronte al monastero di Kelkheim. Guidarono sulla B519 in direzione Kelkheim, passarono le uscite per Johanniswald e Altenhain e lasciarono la statale qualche chilometro dopo il cimitero di Kelkheim.

«Di là!» Pia indicò un segnale poco visibile. A cinquecento metri di distanza c’era un altro cartello che puntava a sinistra. Seguirono la strada oltre il centro sportivo. La casa di cura era nascosta dietro una fila di alberi.

Bodenstein si fermò davanti alla sbarra del parcheggio, prese lo scontrino e glielo consegnò.

«Ecco, meglio che lo tenga tu, altrimenti me lo perdo» disse accelerando quando la sbarra si alzò.

Fu quell’osservazione di per sé insignificante, ma allo stesso tempo così familiare, a scatenare all’improvviso in Pia una forte e dolorosa sensazione di perdita. Quante volte, negli ultimi dieci anni, loro due si erano trovati in auto insieme? Quante volte lui le aveva dato uno scontrino del parcheggio, una ricevuta o un elemento di prova rivolgendole quelle esatte parole? Anche se le diceva di volersi solo prendere una pausa, lei aveva il presentimento che non sarebbe tornato in servizio. Forse quello sarebbe stato il loro ultimo caso, la loro ultima collaborazione, la fine del loro rapporto lavorativo, che per lei era molto più importante della prospettiva di diventare a sua volta la responsabile dell’ufficio 11. Forse era un sentimento sciocco e infantile, ma si sentiva abbandonata.

«Tutto bene?» chiese Bodenstein

«Sì, certo.» Non poteva lasciar trasparire quello che provava, e si sforzò di sorridere, anche se in quel momento aveva più voglia di piangere.

***

La casa di cura Abendrot si trovava in un accogliente edificio a un piano, circondato da prati, aiuole con fiori freschi e alberelli ancora attaccati a corde di canapa e pali di sostegno. Tra qualche anno, quando le piante sarebbero cresciute rigogliose, il tutto avrebbe avuto un aspetto idilliaco.

Bodenstein e Pia entrarono nell’ingresso. L’interno della struttura era luminoso e dai forti colori mediterranei. Il parquet e le portefinestre che si affacciavano su un grande patio con fontana, i fiori freschi ovunque e la musica soffusa proveniente da altoparlanti invisibili davano l’impressione di un grazioso albergo di campagna.

“Ci sono posti ben più tristi dove morire” pensò Pia, e ricordò con orrore la deprimente casa di riposo dove la sua amata nonna aveva vegetato fino alla morte... affetta da demenza, sola e senza nessuno con cui parlare.

Si avvicinarono alla reception e chiesero di Rosemarie Herold.

«Controllo subito se può ricevere visite» disse la receptionist, una bruna allegra sulla cinquantina, con le lentiggini e una fossetta sul mento. Una targhetta sul camice giallo sole la identificava come Luzia Landenberger. «Dorme molto. Datemi un secondo.»

«Aspetti.» Bodenstein tirò fuori il portafoglio e prese un biglietto da visita. Afferrò una penna a sfera che si trovava sul bancone e scrisse il suo numero di cellulare sul retro. «Può darglielo, per favore?»

«Ma certo.» La signora Landenberger sorrise mostrandodei denti perfetti. Lesse la scritta sul biglietto con disinvoltura. «Oh, siete della polizia?»

«Conosco Rosie da tutta la vita» si affrettò a dire Bodenstein. «Siamo amici di vecchia data.»

«Da alcuni giorni la signora Herold si sente un po’ meglio.» La receptionist appariva scettica. «È essenziale non farla agitare.»

«Ci serve solo un’informazione.» Bodenstein le rivolse quel suo sguardo innocente che raramente non otteneva l’effetto desiderato.

Luzia Landenberger sospirò.

«Va bene.». Infilò il biglietto nella tasca del camice. «Vedo se è sveglia.»

«Grazie, è molto gentile da parte sua.»

La donna scomparve su silenziose suole di gomma in uno dei corridoi.

«Non sembra che sia sul punto di morire» osservò Pia. «Forse il caro Edgar ha scambiato il suo desiderio per la realtà.»

«Gli hospice accettano solo pazienti che hanno abbandonato la terapia e per i quali non c’è speranza di guarigione» la contraddisse Bodenstein. «Ma può essere che Rosie abbia ancora qualche buona settimana davanti a sé. Glielo auguro con tutto il cuore.»

Dopo qualche minuto, Luzia Landenberger tornò. «La signora Herold dorme profondamente» annunciò. «Forse potete ripassare più tardi? Le visite le fanno piacere.»

«Qualcuno della famiglia si prende cura di lei?» chiese Bodenstein.

«Oh, sì! Il figlio viene quasi ogni giorno» rispose l’infermiera. «E la vengono a trovare vicini e vecchi amici. Sta bene con noi.»

«Non ne dubitavo.» Bodenstein sorrise. «È davvero bello qui.»

«Grazie.» La signora Landenberger era visibilmente soddisfatta del complimento. «Facciamo ogni sforzo per far sì che i nostri ospiti si sentano il più possibile a loro agio per tutta la durata del loro soggiorno.»

Bodenstein stava per andarsene, ma Pia aveva un’altra domanda.

«Quale figlio si prende cura della signora Herold?» chiese.

«Il maggiore, Clemens» rispose la receptionist, sorridendo con sincero affetto. «Tutti vorrebbero avere un figlio così quando si è vecchi e malati.»

Pia ringraziò per l’informazione. Lasciarono la casa di cura, attraversarono il parcheggio e salirono in macchina. Bodenstein aveva appena avviato il motore quando gli squillò il cellulare. La voce di Kai Ostermann risuonò dalle casse.

«Abbiamo un riscontro nel database dell’AFIS» annunciò. «Le impronte digitali combaciano con quelle di Elias Lessing, diciannove anni, attualmente senza fissa dimora. Diversi reati minori a suo carico: possesso di sostanze stupefacenti, violazione di domicilio, taccheggio, furto con scasso e così via. Tre mesi al carcere minorile per rapina, attualmente in libertà vigilata. Esiste anche un dossier del riformatorio, ma non posso accedervi senza autorizzazione.»

«Sembrano i classici reati per procurarsi la droga» commentò Pia. «Un tossicodipendente, quindi. Forse voleva ripulire le roulotte e ci ha trovato dentro qualcuno che ha opposto resistenza. Potrebbe essere il nostro uomo.»

«Scommetto che non possiamo risalire ad alcun indirizzo, vero?» chiese Bodenstein.

«Suvvia, capo, ormai mi conosci!» Ostermann sembrava ferito. «A Elias Lessing è stata assegnata un’assistente sociale. Vive a Francoforte, nella Bockenheimer Landstraße. Lui stesso, dopo il suo ultimo arresto a marzo, ha dato un indirizzo nel quartiere Bockenheim, ma quella era una casa in demolizione dove i drogati vivevano illegalmente e...»

«Allora sembra che dobbiamo parlare con l’assistente sociale.»

«Se mi lasci finire, potrei darti maggiori informazioni; non me ne sono stato con le mani in mano» replicò Ostermann, piccato, e a Pia sfuggì un sorriso beffardo.

«Certo. Chiedo venia, Kai.»

«Elias Lessing» continuò Ostermann «è originario di Kelkheim, più precisamente di Ruppertshain. Ed è lì che ha ancora la residenza ufficiale, cioè con i suoi genitori: Peter ed Henriette Lessing, Herlenstückshaag 48.»

Bodenstein non rispose, ma Pia notò il cambiamento nella sua postura.

«Grazie, Kai» si limitò a dire il capo. «Pia e io siamo appena stati alla casa di cura di Kelkheim per parlare con la proprietaria della roulotte. Potresti fare una richiesta all’anagrafe per un certo Clemens Herold?»

«Certo, capo. A dopo.»

«Conosci la famiglia Lessing, vero?» chiese Pia.

«Sì.»

«Come?»

«Anche Peter Lessing era un mio compagno di scuola.»

«Mmm. Se preferisci, possiamo parlare io e Tariq con i genitori di Elias» gli suggerì.

«No, ci pensiamo noi due. E subito» rispose Bodenstein, girando a destra verso il centro. «Non sapevo che Peter avesse un altro figlio. Sua figlia è appena un po’ più giovane di Rosalie.»

Pia conosceva il suo capo abbastanza bene da notarne il disagio.

«Che tipo è questo Peter Lessing?»

«Non ci parlo da anni» rispose lui in maniera evasiva. «Ha fatto una bella carriera. È, o era, un consulente finanziario, ha vissuto all’estero per un po’. A Londra, credo.»

«E com’era prima?»

«Era il capo della nostra banda» disse Bodenstein dopo un istante di esitazione.

«Ti piaceva?»

«Bella domanda.» Bodenstein arricciò le labbra. «Chiaramente era meglio essere suo amico che suo nemico. Per qualche motivo per lui ero importante, e questo mi ha facilitato le cose.»

Pia si meravigliò di quella strana risposta.

«Avevo paura di lui. Tutti ne avevano. Soprattutto quelli che non facevano parte della banda. Peter era... come dire? Ci intimidiva. E per di più...»

«Per di più?»

«Oh, niente.»

«Dai, dimmelo! È successo quarant’anni fa!»

Bodenstein sospirò. «A lui, Edgar e Ralf piaceva staccare le zampe ai ragni. Soffiavano nelle rane con una cerbottana fino a farle scoppiare. Colpivano i piccioni con la fionda. Quel genere di cose. Un giorno Peter ha ucciso il gatto di una vecchietta del paese. La cosa ha fatto grande scalpore, ma Peter ha sempre negato con ostinazione di essere stato lui. Hanno sospettato di Ralf, poi di Edgar e Konstantin, ma alla fine non si è trovata alcuna prova.»

«Chi sapeva che aveva ucciso il gatto?»

«Tutti noi.»

«E nessuno ha detto niente?» chiese Pia, stupita.

«No. Chiunque avesse osato aprire bocca sarebbe stato etichettato come traditore. E poi avevo troppa paura che Peter mettesse in atto la sua minaccia.»

«Quale minaccia?»

«Allora avevo una volpe addomesticata» disse Bodenstein dopo una breve pausa. «Mio padre l’aveva trovata da piccola nel bosco e io l’avevo cresciuta, nutrendola con il biberon. Mi seguiva ovunque, come un cane. Peter aveva minacciato di tagliare la gola a Maxi se non fossi stato zitto.»

«Caspita» disse Pia. «Proprio una piccola mafia!»

«In linea di principio, le bande di bambini funzionano proprio così» rispose Bodenstein, fissando la strada. «Il più forte è al comando, tutti gli altri obbediscono e rimangono in silenzio. E, come per la mafia, non puoi lasciare una banda come se fosse un club.»

«Quanti anni avevi quando è successa quella faccenda col gatto?»

«Nove o dieci.»

Pia non rispose. La crudeltà verso gli animali era un indicatore nello sviluppo del crimine violento, e non era raro che le persone che infliggevano sofferenze agli animali diventassero esse stesse vittime di violenza.

Il resto del tragitto attraverso Kelkheim e Fischbach fino a Ruppertshain si svolse in silenzio. Bodenstein era immerso nei suoi pensieri. E Pia si domandava quale impatto avrebbe avuto sulle indagini l’intima conoscenza di Oliver con eventuali sospetti. Non dubitava della sua professionalità, ma Oliver von Bodenstein sarebbe stato in grado di giudicare in modo imparziale le persone che un tempo aveva conosciuto e alle quali magari aveva anche voluto bene?

***

La casa dei Lessing, un blocco di cemento grigio con finestre strette come feritoie, si trovava alla fine di una strada senza uscita. Le telecamere di sorveglianza e i rilevatori di movimento agli angoli dell’edificio rafforzavano il suo aspetto da bunker. Sul lato opposto della via, con stupore di Pia, era parcheggiata una Toyota ricoperta di macchie di ruggine e adesivi: l’auto di Pauline Reichenbach. Che ci faceva lì?

Solo pochi secondi dopo che Bodenstein aveva suonato il campanello, un uomo spalancò la porta d’ingresso. In effetti, quasi la scardinò. Sembrava sbalordito, come se si aspettasse qualcun altro. Il suo viso, solcato dai segni dell’acne, era rosso di rabbia o di un’altra ondata di emozioni altrettanto violente.

«Oliver! Ciao!» Peter Lessing abbozzò un sorriso forzato. Nessuno era contento quando la polizia giudiziaria spuntava di punto in bianco alla porta di casa, ma Lessing mantenne il sangue freddo. «Cosa ti porta da queste parti?»

«Ciao, Peter» replicò Bodenstein. «Questa è la mia collega, Pia Sander. Vorremmo parlare con te e tua moglie.»

A Pia venne la pelle d’oca quando Lessing la guardò. L’assassino di gatti di un tempo dominava su di lei di almeno una spanna, era snello ma muscoloso, con la fronte alta, il naso aquilino sporgente e il mento pronunciato. I capelli, più grigi che biondi, erano corti e sistemati con il gel, probabilmente per nascondere le zone dove si intravedeva il cuoio capelluto.

«Ha ospiti?» chiese lei, ricordandosi all’improvviso della reazione di Pauline Reichenbach quando aveva visto la persona nel filmato. Non poteva essere una coincidenza che la sua auto fosse parcheggiata proprio davanti alla casa dei Lessing. Di sicuro aveva riconosciuto Elias. Per quale ragione gliel’aveva tenuto nascosto?

«Da cosa l’ha capito?» La diffidenza si insinuò negli occhi dell’uomo, di un insolito grigio chiaro.

Pia indicò la vecchia Toyota dall’altra parte della strada.

«Ah!» Rise e scosse la testa. «Pauline lascia sempre lì quella vecchia carretta arrugginita. I Reichenbach sono i nostri vicini. Ti ricordi ancora di Simone e Roman, vero?»

La domanda era rivolta a Bodenstein, che annuì.

«Prego.» Lessing si fece da parte e i due entrarono nella casa che era molto più grande di quanto sembrasse dall’esterno.

«Che fine ha fatto la casa dei tuoi genitori?» chiese Bodenstein. «Era proprio qui, no?»

«Esatto.» Peter annuì. «All’inizio volevo ricostruirla, ma aveva muffa nelle pareti e altri problemi. Quando è morta mia madre, l’abbiamo demolita e ricostruita sul vecchio seminterrato.»

Mentre gli uomini parlavano, Pia si guardò attorno con curiosità. Vetro, acciaio e cemento dominavano l’interno, alle pareti erano appesi grandi quadri dai colori crudi illuminati da una luce soffusa. Un’ampia scala in legno conduceva dall’atrio in uno spazio con una portafinestra. La vista su Ruppertshain e sull’area del Reno-Meno era spettacolare. Cercò invano oggetti che le consentissero di trarre conclusioni sulle persone che abitavano in quella casa: non c’erano credenze con foto di famiglia, né accessori personali. Pia aveva l’impressione di essere in uno showroom: tutto aveva un aspetto elegante, costoso e senz’anima.

«Di cosa si tratta?» domandò Lessing. Indossava jeans, un maglione di cachemire grigio con scollo a V ed era scalzo. La sua postura irradiava la sicurezza di un uomo abituato a comandare. Era rimasto un capobanda.

«La scorsa notte una roulotte ha preso fuoco al campeggio della Casa degli amici del bosco sulla Billtalhöhe» replicò Bodenstein. «Una persona è morta nell’incendio.»

«Ah.» Lessing inarcò le sopracciglia.

«Inoltre, qualcuno ha fatto irruzione in un’altra roulotte. Abbiamo trovato impronte digitali appartenenti a un giovane di nome Elias Lessing. L’anagrafe ci ha riferito che ha la residenza a questo indirizzo.»

«Sì, è vero.» Lessing aggrottò la fronte. «Nostro figlio. Purtroppo non ha altro che grilli per la testa.»

«“Grilli per la testa” è dir poco» intervenne Pia. «Ha già commesso diversi reati ed è stato condannato a una pena detentiva con sospensione condizionale. Le è chiaro quello che significa, vero?»

Lessing contorse il viso butterato in un sorriso che voleva essere accattivante, ma non centrò il bersaglio.

«Ma guarda un po’! La tua collega è una tosta.» Lanciò a Bodenstein uno sguardo da “mi dispiace per te, amico mio” che infastidì Pia. «Certo che mi è chiaro quello che significa, commissaria. Tuttavia, secondo la legge, nostro figlio è maggiorenne, non abbiamo alcuna influenza sulle sue azioni.»

«Quando è stata l’ultima volta che hai visto Elias o hai avuto contatti con lui?» intervenne Bodenstein.

«Ho proibito a mio figlio di entrare in questa casa» rispose Lessing. «A meno che mia moglie non mi abbia mentito, finora si è attenuto ai miei ordini. Non lo vedo dal 17 settembre del 2013.»

«Come fa a saperlo con una tale precisione?» volle sapere Pia.

«Perché è stato il giorno in cui l’ho sbattuto fuori. Ne avevo abbastanza di lui. Non ha mai seguito nessuna delle nostre regole.» Lessing si esprimeva in maniera concisa, categorica e priva di emozioni. A quanto pareva, quello che capitava al figlio non lo tangeva.

«Stiamo cercando Elias perché potrebbe essere coinvolto in un crimine violento o essere un testimone importante.» Pia sostenne il suo sguardo inflessibile da rettile senza battere ciglio. «Per caso Pauline Reichenbach le ha detto qualcosa su di lui? È per questo che era così furioso?»

«No» ribatté Lessing in modo brusco, avvicinandosi al parapetto. «Henriette! Vieni, per favore! Abbiamo visite.»

Ai piedi delle scale apparve una donna alta e snella. Qualche ciocca d’argento si mescolava ai suoi capelli lisci e scuri raccolti in una semplice coda di cavallo, ma neanche le rughe intorno agli occhi e alla bocca potevano scalfire la simmetria del viso. Henriette Lessing era bellissima.

«C’è la squadra omicidi» disse Lessing. «Cercano nostro figlio.»

«La squadra omicidi?» ripeté la moglie, colma d’angoscia, gli occhi sgranati come un cervo abbagliato dai fari.

«Salve, signora Lessing.» Bodenstein presentò Pia e se stesso. «Abbiamo trovato le impronte digitali di Elias sulla scena di un crimine. Dobbiamo parlargli con urgenza.»

«Non... non so dove sia.» Henriette Lessing prese la piccola croce d’argento che portava al collo attaccata a una catena sottile. I suoi occhi cercarono quelli del marito.

«Forse potrebbe rispondere ad alcune domande, signora» disse Bodenstein in tono rassicurante. «Non è obbligata, dato che l’investigazione coinvolge un membro della famiglia, ma ci sarebbe utile.»

«Sì, certo. Posso offrirvi qualcosa? Caffè o tè?» Pur visibilmente scossa, Henriette Lessing cercava di controllarsi. Un segno di forza o voleva guadagnare tempo per pensare?

«Prendo un caffè.» Bodenstein sfoderò un sorriso affabile. «Nero.»

Pia declinò educatamente. Seguirono la donna giù per le scale in un unico grande spazio composto da una cucina a vista ipermoderna e da una sala da pranzo. Davanti alla vetrata c’era un gatto che si arrampicava su un albero, e Pia non poté evitare di pensare a ciò che il capo le aveva raccontato di Peter Lessing.

Si sedettero a un tavolo da pranzo in vetro, la signora Lessing servì il caffè e poi si accomodò anche lei. Il marito si fermò dietro la sedia di fronte, le braccia conserte. Bodenstein ripeté ciò che aveva appena detto.

«Ed Elias ha qualcosa a che fare con questa faccenda?» Le dita di Henriette Lessing, che giocavano con la croce, tradivano il suo nervosismo.

«Non necessariamente. Ma forse ha visto qualcosa.»

«Gli hai parlato di recente?» Lessing si rivolse alla moglie. Chissà com’era da giovane, prima che l’acne gli divorasse il viso e lo sfigurasse per sempre. Un bel ragazzo che durante la pubertà aveva sofferto per essere diventato all’improvviso brutto? Ma a quel punto aveva già ucciso il gatto, quindi aveva sempre avuto una buona dose di aggressività.

«No» rispose la moglie, guardando Bodenstein. «Elias... ha dei problemi. Con la droga. Abbiamo cercato di stargli vicino, ma non voleva il nostro aiuto. Mi è insopportabile sapere che vive da qualche parte per strada e non ha un tetto sopra la testa. Andavo spesso in giro a cercarlo. Almeno sapevo dov’era.»

«È un fallito. Instabile, con un carattere debole» disse Peter Lessing pieno d’astio. «Già da bambino era fin troppo tenero e sceglieva sempre la via più facile. È stato espulso da tre scuole perché marinava e derubava i suoi compagni di classe. A volte non tornava a casa per giorni senza dirci dove fosse. Ha derubato la sorella, la madre, e alla fine ha ripulito tutta la casa mentre eravamo via per il fine settimana. E lì ho messo la parola fine. Non me ne frega niente di lui.»

“Ha osato disobbedirmi” tradusse Pia.

La reazione di Henriette Lessing suggeriva che non era la prima volta che sentiva quelle accuse. Sedeva sul bordo della sedia, la schiena ben dritta. A ogni parola crudele del marito, sussultava come colpita da una frusta. Il dolore e la paura infuriavano dietro quella sua facciata controllata. Pia aveva ben chiaro cosa fosse successo in quella casa negli ultimi anni. Elias era il figlio problematico di una famiglia in cui le imperfezioni e le debolezze non erano tollerate.

«Signora Lessing, dove potrebbe essere Elias adesso?» chiese Bodenstein. «Di chi si fida? Può darci i nomi dei suoi amici?»

«E Pauline Reichenbach?» intervenne Pia. «Elias la conosce?»

Notò il rapido scambio di sguardi tra la coppia.

«Certo che la conosce» rispose alla svelta Peter Lessing anticipando la moglie. «I Reichenbach sono i nostri vicini.»

Oliver fece un nuovo tentativo con la signora Lessing. «Ha il numero di cellulare di Elias?»

«Non ha più il cellulare.» Di nuovo fu il marito a rispondere. «L’ha venduto tempo fa.»

Bodenstein non si lasciò perdere d’animo.

«Ha contatti con l’assistente sociale di Elias?» chiese con pazienza.

«Di tanto in tanto mi...» esordì la signora Lessing, ma il marito non la lasciò finire.

«Mollala, quella» disse con disprezzo. «È un’oca idealista che crede a tutte le sue bugie. Si lascia prendere per il naso.»

«Quando è stata l’ultima volta che ha parlato con suo figlio, signora Lessing?» continuò Bodenstein imperterrito, mantenendo però il suo tono perfettamente educato.

«Mi... mi ha scritto un’e-mail qualche giorno fa; voleva disintossicarsi» rispose Henriette Lessing dopo un istante di esitazione. Guardò incerta il marito, temendo la sua reazione come un cane che si acquatta per paura di una pedata. Il barlume di un sorriso colmo di speranza le attraversò il viso, ma si spense subito. Serrò le labbra, le lacrime le brillavano negli occhi.

Peter Lessing non fece trasparire se la notizia lo avesse sorpreso o meno.

«Elias non è cattivo.» Il tono di Henriette Lessing implorava comprensione. «Non riusciva a sopportare la pressione che gli abbiamo messo addosso.»

«Per quanto tempo hai intenzione di continuare a illudere te stessa?» chiese Lessing alla moglie, controllandosi a fatica. «Potrebbe aver dato fuoco a una roulotte provocando la morte di una persona.»

Il fallimento del figlio lo tormentava. Lo offendeva.

«No! Non ci credo» sussurrò la moglie, scuotendo con forza la testa. «Elias non farebbe del male a una mosca. Non ne sarebbe capace! Da piccolo salvava addirittura ragni e coleotteri...»

Si zittì. Una lacrima le scese lungo la guancia e le gocciolò dal mento, poi un’altra. Non era la prima volta che Pia si domandava se sarebbe stata più comprensiva con una donna come Henriette Lessing, se lei stessa avesse avuto dei figli. Tutti i genitori del mondo trovavano giustificazioni e scuse per le azioni dei propri figli, soprattutto le madri. Pia aveva visto molte madri di noti criminali, piromani, stupratori e assassini rifiutarsi di credere a ciò che il loro stesso sangue era capace di fare.

«Posso vedere l’e-mail che le ha scritto Elias?» chiese Bodenstein dolcemente.

«L’ha cancellata» disse Lessing. «Vero?»

La moglie si asciugò le lacrime con il dorso della mano e annuì.

Pia a quel punto perse le staffe.

«Come mai non lascia che sia sua moglie a rispondere?» inveì contro Lessing. «Ha paura che possa raccontarci qualcosa non di suo gusto?»

Peter Lessing la fissò.

«Niente affatto» replicò con tono gelido. «Chiacchieri pure con lei. È stato un piacere fare la sua conoscenza, signora...?»

«Sander.»

«Oh. Come il direttore dell’Opel Zoo?» Lessing finse sorpresa, ma Pia poteva scommettere che avesse già registrato il suo nome.

«Sì. È mio marito.»

«Che bello! Lo saluti da parte mia. Ci conosciamo bene. La mia società è sempre stata una generosa sostenitrice dei grandi progetti dello zoo.» Inarcò un sopracciglio. «Be’... finora.»

All’inizio Pia pensò di aver sentito male. Quell’aggiunta era una vera e propria minaccia o perlomeno un evidente tentativo di intimidazione. Inclinò la testa e sfoderò un sorriso innocente.

«Oh, davvero? Lo fa per puro altruismo o per espiare la crudeltà che ha inflitto agli animali quando era giovane? A proposito, dov’è il suo gatto? Ne ha ancora uno, vero?»

Il volto di Lessing si trasformò in pietra, il collo gli si arrossò. Qualcosa di brutale e spietato gli si accese negli occhi. Peter Lessing odiava non essere in grado di controllare del tutto una situazione. Forse era quella la ragione per cui detestava quel figlio che si era sottratto al suo dominio.

***

La Toyota arrugginita di Pauline era scomparsa quando uscirono dalla casa dei Lessing. Pia attraversò la strada e suonò comunque dai Reichenbach, ma nessuno aprì.

«Non avresti dovuto dirlo» dichiarò Bodenstein contrariato, mentre tornavano in macchina. «Lo hai provocato inutilmente e mi hai messo in imbarazzo. Avrà capito come facevi a saperlo.»

«Ehi! Mi ha minacciata!» ribatté lei furibonda. «Quel tizio è uno psicopatico da manuale. Non c’è da stupirsi che il figlio cerchi di scappare da un padre simile!»

«Non è stato comunque corretto.» Bodenstein premette la chiave e l’auto si aprì lampeggiando. «È stato un errore parlartene. Sapere quelle cose ti ha reso poco obiettiva.»

«Forse è vero» ammise Pia. Si accasciò sul sedile del passeggero e cercò la cintura di sicurezza. «Ma conosco i tipi come lui. A quell’uomo non frega niente di ciò che capita a suo figlio né del fatto che possa aver ucciso un uomo! La sua unica preoccupazione è mantenere le apparenze. Ci hanno mentito, tutti e due! Sono certa che Pauline era con loro poco prima del nostro arrivo. Ha riconosciuto Elias nel filmato. E scommetto che la mammina sa esattamente dove si trova il figlioletto! Probabilmente si è messo in contatto con lei. È ferito, sta male e non ha un altro posto dove andare. Questo spiegherebbe anche il motivo per cui le sue tracce si fermano in mezzo al bosco: è andata a prenderlo e l’ha nascosto da qualche parte.»

«Sono solo speculazioni!» Bodenstein scosse la testa. «Datti una calmata.»

Pia stessa non sapeva perché si fosse arrabbiata a tal punto con Peter Lessing. Negli ultimi anni aveva incontrato più volte persone dispotiche ed egocentriche come lui, sociopatici e narcisisti fermamente convinti di essere i migliori del mondo. Aveva imparato che le persone con una personalità psicopatica a prima vista erano di una sobrietà assoluta e avevano talvolta ruoli importanti nella società. Erano spesso affascinanti, eloquenti, con una carriera brillante, ma allo stesso tempo erano dei bugiardi cronici, maestri della manipolazione e avevano aspettative esagerate. Lei stessa era stata vittima di un uomo simile, molti anni prima, e da allora stava in allerta quando notava determinati comportamenti.

Durante il viaggio verso Hofheim, Pia cercò su Google Peter Lessing. Non rimase sorpresa dal suo curriculum: aveva studiato economia aziendale in università d’élite inglesi e americane, aveva conseguito un dottorato, poi aveva fatto una carriera folgorante nelle banche d’investimento internazionali di New York e Londra. Erano nomi che anche lei conosceva: Goldman Sachs, Lehman Brothers, J.P. Morgan Chase.

Sullo schermo apparve un sms. Pia non conosceva il numero, ma aprì comunque il messaggio.

«Ma guarda un po’» mormorò. Non aveva lasciato invano il suo biglietto da visita a Henriette Lessing. «Alla fine Elias ha un cellulare» riferì a Oliver. «La signora Lessing mi ha appena mandato il numero. Inoltre, si scusa per il comportamento del marito. E... ma bene! Elias ha una ragazza di nome Nike, incinta. È a causa sua e del bambino che si vuole disintossicare e ricominciare da capo.»

Pia inviò l’informazione a Ostermann e lo pregò di localizzare il cellulare. Per il resto del tragitto, Bodenstein non disse una parola, ma nemmeno lei era in vena di conversazione. Pian piano si era resa conto che il suo comportamento impulsivo avrebbe potuto danneggiare Christoph. Il senso di colpa la rodeva. Lo zoo dipendeva dalle donazioni, soprattutto da quelle sostanziose e regolari. E se Lessing avesse ritirato sul serio il suo sostegno finanziario? Ma poteva concedersi di farsi influenzare da questi pensieri, nel suo lavoro? Non doveva piuttosto ignorare i propri sentimenti e le proprie preoccupazioni in modo che non influissero sul suo intuito e sul suo acume investigativo? Soffermarsi a prendere in considerazione certi elementi non era già il primo passo verso la corruzione?

Quando Bodenstein svoltò nel cortile dell’RKI, Pia decise di parlarne con Christoph la sera stessa.

Nella sala riunioni dell’ufficio 11, Ostermann e Omari erano impegnati nei preparativi dell’indagine sulla scoperta del nuovo cadavere. Le LIM, le lavagne interattive sulle pareti, erano ancora vuote, a eccezione di qualche foto del corpo carbonizzato che Kai aveva attaccato all’estrema sinistra, sotto la scritta Incendio C.A.B. Königstein. Il suo portatile era sul tavolo accanto a mucchi di fogli. Aleggiava un odore di aglio e olio per frittura e Pia, che non aveva mangiato nulla se non del pane tostato con la Nutella per colazione, sentì i morsi della fame.

«Ah, eccovi qui.» Ostermann parlava con la bocca piena, tenendo nella mano sinistra i resti di un kebab avvolto nella carta stagnola.

Cem arrivò con tutta la tranquillità del mondo, tenendo in mano una tazza di caffè. La squadra dell’ufficio 11 era al completo.

«Qui c’è puzza di kebab.» Pia gettò lo zaino su una sedia vuota, poi inclinò due finestre per far passare dell’aria fresca e si mise a sedere sul bordo del tavolo.

«La signora Sander è di cattivo umore?» chiese Cem.

«No, non lo è» sbottò Pia, alterata. «Dov’è Kathrin?»

«Dal dottore. Screening.» Cem si mise a sedere al tavolo, accavallò le gambe e si tirò su i polsini della camicia bianca come la neve. Con quei suoi lineamenti marcati, la barba incolta di tre giorni ma curata e i folti capelli neri, domati da un taglio corto e impeccabile, aveva più l’aspetto di un attore che di un agente della polizia giudiziaria. «A proposito, ora sono a completa disposizione. La caduta fatale dalla finestra della casa di riposo si è rivelata un suicidio.»

«Hai parlato con Felicitas Molin?» Pia si rivolse a Tariq, che si stava pulendo le dita unte su un foglio del rotolo di carta.

«Non mi ha aperto» rispose masticando. «Ma ho fatto scivolare sotto la porta un biglietto da visita.»

«Vorrei il numero di telefono di Pauline Reichenbach.»

«Perché?»

«Perché sì.» Pia fulminò con lo sguardo il giovane collega. «Ti serve una motivazione?»

«No, certo che no» rispose Tariq con la coda tra le gambe. «Te lo mando subito.»

«Ci sono novità sulla marca dell’auto bruciata» esordì Ostermann, dando un’occhiata in giro. «Gli esperti credono che sia un’Audi. Sono anche riuscito a trovare Clemens Herold e mi sono informato sulla sorella Sonja.»

«Sentiamo.» Bodenstein era rimasto sulla soglia, le mani nelle tasche della giacca, e non dava il minimo segno di volersi sedere.

«Clemens Herold, nato nel 1956, sposato, residente a Idstein-Niederrod. Viaggia molto come assistente tecnico per la manutenzione delle turbine eoliche. A volte addirittura per qualche settimana di fila, spesso in tutta Europa» riepilogò Ostermann a memoria. «Le ultime informazioni non erano ovviamente nel registro dell’anagrafe, ma le ho ottenute da una telefonata con la moglie Mechthild, che si è rivelata molto illuminante.»

«In che modo?»

«Herold è un elettricista esperto e ha lavorato in proprio con un socio finché non ha dovuto dichiarare fallimento. In seguito, si è formato come ingegnere meccatronico ed è diventato specialista di turbine eoliche. Con questo lavoro guadagna abbastanza bene, ma viaggia anche molto. Di recente si è occupato assiduamente della madre, a quanto pare malata. Non era raggiungibile al cellulare, ma la moglie ha detto che può capitare. Quando è su una turbina, spegne il telefono.»

«E Sonja?» chiese Bodenstein.

«Nata nel 1973, ex Ehlers, sposata...»

«Che?» Bodenstein si raddrizzò.

«In che senso “che”?» esclamò Ostermann, confuso.

«Sonja era sposata con un uomo di nome Ehlers?»

«Sì, a quanto pare.» L’interruzione fece perdere il filo a Ostermann. Dovette riguardare i suoi appunti per poter continuare. «Adesso di cognome fa... un secondo... Schreck. Vive a Kelkheim-Ruppertshain. Parrucchiera in proprio. Alle 15.17 non era raggiungibile al telefono, scattava solo la segreteria.»

«Ehlers» borbottò Bodenstein. «Questa poi.»

Lasciò la sala riunioni senza ulteriori commenti e Kai lanciò a Pia uno sguardo costernato. Anche Cem e Tariq fissarono Bodenstein con stupore.

«Cos’ha che non va il capo?» chiese Kai. «Non avevo ancora finito.»

«Conosce Rosemarie Herold e la sua famiglia» spiegò Pia, sorpresa anche lei dalla strana reazione di Bodenstein.

«Che storia è questa?» domandò Cem.

Pia gli riassunse gli eventi della notte precedente. Riferì dei colloqui con Edgar Herold e i Lessing e della loro visita infruttuosa alla casa di cura di Kelkheim.

Dopo che Jürgen Becht e Christian Kröger avevano confermato che si trattava chiaramente di un caso di incendio doloso e che la porta della roulotte era stata chiusa a chiave dall’esterno, la questione doveva essere trattata come omicidio. L’ufficio del procuratore aveva acconsentito alla ricerca di Elias Lessing, ma il giudice istruttore non poteva emettere un mandato d’arresto sulla base dei risultati ottenuti fino a quel momento.

«Il cellulare di Elias Lessing è spento e quindi non può essere localizzato» disse Kai. «Ho richiesto la tracciabilità al suo operatore, ma potrebbe volerci un po’ di tempo.»

«Dobbiamo parlare con la sua assistente sociale e trovare la sua ragazza» disse Pia. «E dobbiamo fare due chiacchiere con Clemens Herold. Forse sa chi aveva una chiave della roulotte, oltre alla madre.»

«Posso occuparmene io» si offrì Cem.

«Chiedi al capo di accompagnarti» suggerì Pia.

«Va bene.»

«E io che faccio?» chiese Omari.

«Fotocopie.» Ostermann indicò la risma di carta.

«Oh, no!» Tariq Omari sembrava offeso.

«Gli anni di apprendistato sono duri» sogghignò Ostermann.

«Sono un ispettore, non un apprendista» gli rammentò Omari con voce ferma, prendendo i documenti. «Mi sono laureato con il massimo dei voti.» Con scarso entusiasmo si diresse verso la fotocopiatrice.

«Tra parentesi, l’autopsia del corpo carbonizzato è prevista per domani mattina alle dieci» annunciò Ostermann al gruppo.

«Chi se ne occupa?»

«Io.» Pia fece l’occhiolino al suo giovane collega. «E Tariq.»

Aspettò che lui e Cem lasciassero la sala riunioni, poi si alzò e chiuse la porta.

«Prima ho fatto uno stupido errore» confessò Pia, e raccontò a Kai della conversazione con Lessing. «E adesso il capo è arrabbiato con me perché l’ho messo in ridicolo davanti a un suo vecchio amico.»

«Nei suoi panni, lo sarei anch’io» rispose Kai, non migliorando le cose per Pia.

«Lessing mi ha provocato di proposito» si giustificò lei. «Continuava a interrompere la moglie. E Bodenstein ha lasciato correre. In un certo senso, era così... così docile con quel tipo.»

«Docile? Il nostro capo?»

«Be’, forse non è il termine esatto.» Pia sospirò. «Servile?»

«Peggio ancora.» Kai scosse la testa con una smorfia.

«Oh, non lo so nemmeno io!» Saltò in piedi e andò alla finestra. Come faceva a spiegare a Kai, senza che lui la giudicasse sleale, il suo timore che la vecchia amicizia di Bodenstein potesse offuscare il suo acume investigativo? «Lasciamo perdere.»

«Sai già chi sarà il suo successore?» chiese Kai, cambiando argomento.

«No. Tu?» Nelle ultime ore, Pia aveva rimosso con successo il fatto che stavano lavorando al loro ultimo caso insieme. La sensazione di abbandono tornò a travolgerla e rafforzò il suo senso di colpa. Perché diavolo si era lasciata andare a quel commento avventato?

«Non ne ho idea.»

«Io penso che sarai tu.»

«Non ne sarei così sicura.» Pia prese una sedia e si accomodò di nuovo. «A dire il vero, non lo voglio, il lavoro. Preferirei che Bodenstein restasse.»

«Tornerà» disse Kai. «Ma è vero che è cambiato dopo la faccenda con il cecchino. L’ha molto provato.» Con fare pensieroso, si tolse gli occhiali per massaggiarsi il ponte del naso con il pollice e l’indice. «E poi ha anche un’alternativa allettante. Forse, se fossi in lui, farei lo stesso. A volte il nostro lavoro è piuttosto frustrante.»

«Lo capisco» ammise Pia. «È che mi dispiace. Non so perché, ma penso che tra un anno non tornerà. Cerca di non darlo a vedere, ma non ha più voglia.»

«Ed è proprio per questo che vuole staccare.» Kai si mise gli occhiali, che subito scivolarono nel profondo solco che la montatura aveva lasciato sul ponte del naso. «Non prendere la sua decisione sul personale, Pia.»

«Non è come pensi. Sono contenta per lui.» Pia posò i gomiti sul tavolo e mise il mento sui palmi delle mani. Non era del tutto vero, ma per quanto andasse d’accordo con Kai, non poteva dirgli cosa provava al pensiero di Bodenstein che si ritirava in una vita in cui per lei non ci sarebbe stato più posto. Avrebbe potuto fraintendere. «Ho solo paura di chi ci rifileranno come rimpiazzo.»

«Anche Cem potrebbe essere un candidato» commentò Ostermann.

«O tu. Sei qui da più tempo di tutti noi.»

«Oh, no, no, no!» ribatté Kai con fermezza, dandosi una pacca alla protesi della gamba. «Sono la quota disabile del presidio, sono escluso.»

Pia non riuscì a trattenere un sorrisino.

«Vado dall’assistente sociale con Tariq.» Si alzò dalla sedia e riprese lo zaino. «Puoi fare a meno di lui qui?»

«Certo.» Kai annuì e aprì il portatile. «Ah, Pia?»

«Sì?» Si fermò, con la mano sulla maniglia della porta.

«Tempora mutantur, nos et mutamur in illis.»

«La tua saggezza è sprecata con me, secchione» disse in tono secco. «Non so il latino.»

«Scandalo!» I suoi occhi si spalancarono in un’espressione di finto orrore. «E proprio tu che sei andata in una scuola femminile cattolica!»

«Me la puoi tradurre o mi lasci nella mia ignoranza?» Pia ridacchiò.

«I tempi cambiano e noi cambiamo con loro» tradusse Kai, facendole l’occhiolino. «O, come dicono i francesi, c’est la vie!»

***

Niederrod era un paese costituito da un gruppo di case lungo una strada principale. Nel punto in cui la strada faceva una curva a gomito, bisognava girare a sinistra nella Steinchenstraße. Due case sul lato sinistro della via, tre case su quello destro, tutto lì. Un parco giochi per bambini e, dietro, un viottolo asfaltato che conduceva nei campi e nei prati. La casa di Clemens Herold era l’ultima a sinistra, un prefabbricato con posto auto coperto in legno chiaro sul davanti e pannelli solari sul tetto. C’era parcheggiata una Mini Cooper giallo canarino immatricolata a Rüdesheim. Niederrod faceva già parte del distretto di Rheingau-Taunus.

«Idilliaco qui» commentò Cem quando accostarono l’auto lungo il parco giochi e attraversarono la strada. «Niente rumore di aerei, quasi zero traffico e aria pulita.»

Alcuni cavalli pascolavano sui prati che si estendevano lungo il pendio. Da qualche parte nel paese un cane stava abbaiando, altri lo imitarono, poi tacquero. La cappa di nuvole si era squarciata, e nel cielo serale volteggiava una poiana, che di tanto in tanto emetteva un grido lamentoso.

La porta d’ingresso si aprì prima che Bodenstein potesse suonare il campanello. Una donna cicciottella sulla cinquantina, il cui volto era segnato da una grave rosacea, apparve sulla soglia. Aveva un borsellino in mano, una sporta infilata sotto il braccio.

«La signora Herold?» Bodenstein si chiese se conoscesse già la moglie di Clemens, ma il viso non gli diceva nulla.

«Sì. E lei è...?»

«Bodenstein, polizia giudiziaria di Hofheim.» Tirò fuori il distintivo. «Questo è il mio collega, Cem Altunay. Vorremmo parlare con suo marito.»

«Mio marito è fuori per lavoro» replicò Mechthild Herold. «L’ho già detto al suo collega per telefono, non valeva la pena venire fin qui.»

«Quando pensa che tornerà?» domandò Cem.

Al recinto del giardino accanto, tra i girasoli alti, quasi appassiti, e il rosso fuoco di un crespino, spuntò il volto curioso di una donna anziana.

«È meglio che entriate, prima che tutto il paese lo sappia» disse la signora Herold, che aveva visto la sua vicina.

Cem aprì il piccolo cancello e attraversò il giardino ben curato dove crescevano fiori autunnali.

«Un bellissimo giardino» commentò Bodenstein. «Fa tutto da sola?»

«Sì.» Mechthild Herold sorrise con orgoglio e modestia. «Ho quello che chiamano pollice verde.»

Entrarono in un corridoio buio. La casa era in ristrutturazione, odorava di vernice fresca.

«Sto ridipingendo la sala da pranzo» spiegò lei, mettendo la borsa della spesa su una credenza. «Mio marito voleva farlo da mesi, ma adesso non ha tempo, soprattutto perché sua madre è molto malata.»

«Ci hanno detto che si prende molta cura di lei» commentò Bodenstein.

«Sta con lei ogni minuto libero.» C’era un tono di rimprovero nella sua voce? Era gelosa di una donna morente?

«Quando dovrebbe tornare?»

«In realtà doveva tornare ieri sera» rispose la signora Herold. «Ma a volte riceve incarichi all’ultimo minuto e rientra il giorno dopo. Ci sono abituata.»

«E non accende il cellulare per tutto il giorno?»

«Capita, di tanto in tanto.» Annuì dopo un breve attimo di esitazione nervosa. «Quando lavora su una turbina eolica lo spegne.»

«Quando è stata l’ultima volta che gli ha parlato?» chiese Cem.

«Ieri sera, verso le dieci.» Nei suoi occhi si insinuò una traccia di preoccupazione. «Ha chiamato dopo essere arrivato nella sua camera d’albergo, dopo cena.»

«Dove si trova?»

«Nel Sauerland, vicino a Meschede. Perché mi fa queste domande? Gli è successo qualcosa?»

«Questo significa che oggi non ci ha parlato per niente?» Cem ignorò la sua domanda.

«Esatto. Non è così insolito quando si è sposati da quasi trent’anni.» La signora Herold fece una risata forzata, ma era evidente che era preoccupata.

«Signora» intervenne Bodenstein. «La scorsa notte la roulotte di sua suocera ha preso fuoco.»

«Sì, il suo collega me l’ha già spiegato.»

«C’era un uomo nella roulotte al momento dell’incendio. Accanto c’era un’auto parcheggiata, anch’essa bruciata. È molto importante per noi scoprire chi aveva la chiave della roulotte. Sua suocera l’aveva subaffittata a qualcuno?»

«Mi sembra impossibile. È molto attaccata a quella roulotte. Per quanto ne so, mio marito e sua sorella sono gli unici ad avere la chiave.» La signora Herold diventò pallida quando capì le implicazioni. «Mio marito va a controllarla ogni tanto, visto che Rosie è gravemente malata. Proverò di nuovo a contattarlo.»

Prese il cordless dalla sua base appoggiata sulla credenza in corridoio e spinse il tasto di ripetizione automatica. Gli occhi erano rimasti fissi su Bodenstein. Nel commissario si insinuò un brutto presentimento. Nessuno che era in viaggio per lavoro e doveva essere raggiungibile lasciava il cellulare spento per un giorno intero.

«Strano. Non capisco.» La signora Herold scosse la testa. Le tremava la mano quando posò il telefono.

«Che tipo di auto guida suo marito?»

«Un’Audi A4 grigio antracite. Targa HB-VK 391, un’auto aziendale.»

Clemens Herold era stato davvero nel Sauerland o aveva mentito alla moglie? Aveva forse un’amante segreta con la quale si incontrava al campeggio nel bosco? Purtroppo erano cose che capitavano, e non di rado, anche – o tanto più – nel caso di un matrimonio di lunga data, Bodenstein lo sapeva per esperienza personale.

«Come si chiamava l’albergo in cui suo marito ha soggiornato ieri?» chiese Cem in tono cortese. «Abbiamo anche bisogno del suo numero di cellulare, così come dei numeri aziendali e dei suoi colleghi di lavoro. Non lavorerà da solo alle turbine eoliche, giusto?»

«Il collega con cui lavora più spesso si chiama Thomas Polzin» sussurrò la signora Herold. «Perché non ci ho pensato prima? Lo chiamerò!»

«Sarebbe meglio che lasciasse fare a noi» replicò Bodenstein. Riteneva possibile che Clemens avesse dato istruzioni al suo collega di mentire per lui, se la moglie l’avesse chiamato.

«Crede che... che...?» Lo sguardo della signora Herold era pervaso da una paura cieca, ma esprimere a parole l’impensabile le era impossibile.

«Non possiamo escluderlo» disse Bodenstein in tono serio.

«Oh, mio Dio!» La donna si afferrò alla gola, barcollando, ma si aggrappò alla credenza prima che Oliver potesse intervenire in suo aiuto. «Sto bene, grazie.»

«C’è qualcuno che può farle compagnia?» chiese lui in tono comprensivo. «Non dovrebbe stare da sola.»

«Sì, io... chiamerò nostro figlio» rispose con voce apatica. «Vive con la moglie a Heftrich.»

Bodenstein aspettò con la signora Herold l’arrivo del figlio e della nuora, poi se ne andò. Fuori era calato il buio. Cem aveva fatto qualche telefonata dall’auto, il suo viso rivelava che aveva cattive notizie.

«Herold non era all’hotel ieri sera» annunciò. «Non ci va da più di un anno. Il suo collega lo ha visto per l’ultima volta venerdì scorso, dopodiché Herold si è preso due settimane di ferie, in teoria per occuparsi della madre malata. A me non sembra un matrimonio solido.»

Frustrato, Bodenstein scosse la testa. Il mondo intero era pieno di menzogne e falsità. Un tempo prendeva la cosa con filosofia, ma ora si sentiva estenuato. Guardando verso la casa, vide la sagoma della signora Herold dietro una delle finestre. Com’era sottile il confine che separava la vita quotidiana dalla tragedia. Già sarebbe stato orribile se la sua intuizione fosse stata confermata e il corpo carbonizzato fosse stato quello di Clemens. Ma in ogni caso, anche se il cadavere non fosse stato il suo e lo avessero trovato vivo, quell’uomo aveva mentito alla moglie; il loro rapporto ne sarebbe uscito scosso, la fiducia tra loro incrinata per sempre. Per il resto dei loro giorni, le bugie avrebbero gettato un’ombra su tutti i bei momenti della vita vissuta insieme.

***

Faceva freddo. Ed era buio. Buio pesto. Un dolore le martellava nel cranio, la bocca era secca. Felicitas si toccò la testa e sentì un grosso bernoccolo sulla fronte. Cos’era successo? Dov’era? A occhi spalancati, fissava l’oscurità. Intorno a lei regnava un silenzio di tomba. L’unica cosa che sentiva era il battito frenetico del suo cuore e il suono del suo respiro. Tentò di alzarsi, ma sbatté la testa contro qualcosa di duro.

«Oh, no» sussurrò e si lasciò ricadere sulla schiena. Con cautela allungò la mano e sussultò al contatto con una parete. «Oh, no, no! Ti prego, no.»

Non dovette nemmeno allungare le braccia per toccare il soffitto. Pareti solide e fredde a sinistra e a destra. Troppo lisce per essere di cemento o mattoni. Il battito cardiaco accelerò, il panico si insinuò dentro di lei, diffondendosi ovunque. I muscoli cominciarono a tremare, sudava. Niente giunte. Freddo. Liscio. Metallo! Felicitas fece scivolare la mano sotto il corpo. Una coperta di pile. Solo allora si accorse dell’odore di muffa. Dell’odore di cani. Tremava tutta, quando all’improvviso si rese conto di dove si trovava. La cassa di metallo stava nel garage quando suo cognato non la caricava nella Land Rover per trasportarci qualcosa. Com’era finita lì dentro? Chi ce l’aveva rinchiusa? E perché?

Il panico minacciava di sopraffarla, le toglieva il respiro e le faceva battere il cuore all’impazzata. Soffriva di claustrofobia acuta da quando sua sorella, da ragazzine, l’aveva chiusa a chiave nella sauna nel seminterrato della casa dei genitori e aveva acceso la stufa. Doveva essere uno scherzo, ma poi Manu l’aveva dimenticata lì, forse perché un’amica l’aveva chiamata. Da allora Felicitas non riusciva a sopportare di stare in spazi ristretti. Evitava gli ascensori, le auto piccole, gli spogliatoi, e una volta aveva dovuto persino interrompere una risonanza magnetica di routine perché aveva avuto un grave attacco di panico in quel tubo stretto.

Era un incubo da cui stava per svegliarsi?

«C’è nessuno?» disse ad alta voce, sforzandosi di fare un respiro profondo. «Ehi! Qualcuno mi sente?»

La sua voce sembrava ovattata. Rimase in ascolto nel silenzio. Niente. Neanche il benché minimo suono. Dagli occhi le scendevano lacrime colme di disperazione. Premette le ginocchia contro il coperchio della cassa nella speranza di far saltare il chiavistello. Vi si appoggiò con tutta la sua forza, senza successo. Il metallo solido non si mosse di un millimetro. La paura faticosamente repressa inondò ogni cellula del suo corpo. E se fosse capitato qualcosa a chi l’aveva rinchiusa? Una volta aveva letto un libro in cui era successo proprio una cosa del genere, e la persona rinchiusa era morta di fame e di sete. Grondava sudore freddo da tutti i pori. Nessuno sapeva dove fosse. Manu e Jens sarebbero tornati dall’Australia solo a metà novembre, e fino ad allora nessuno avrebbe sentito la sua mancanza.

***

Durante il viaggio di ritorno attraverso il Taunus, Bodenstein si sforzò di mettere ordine nel guazzabuglio di informazioni che gli erano state rovesciate addosso nel corso di quella giornata. Di solito, durante le indagini, ci si confrontava via via con le vittime, i parenti e i conoscenti, tra i quali venivano identificati i sospetti; si aveva il tempo di memorizzare nuovi nomi e volti e capire e classificare la rete di relazioni tra le persone coinvolte. Ma stavolta era totalmente diverso per lui. Conoscendo quelle persone da tutta la vita, così come le voci, i segreti e le chiacchiere di paese che le circondavano, per lui era più difficile avere una visione chiara dei fatti.

Avevano appena lasciato la rotonda di Königstein, quando il suo cellulare squillò. Numero sconosciuto. Forse era Rosie che lo contattava!

«Commissario, sono Luzia della casa di cura Abendrot. Oggi è venuto perché voleva parlare con la signora Herold.»

«Sì, proprio così. Può passarmela?»

«No, purtroppo no.» L’infermiera Luzia esitò. «Questo pomeriggio la signora Herold è inaspettatamente... morta.»

Bodenstein si raddrizzò.

«Come, scusi?» chiese sgomento. «Ma lei aveva detto che stava un po’ meglio!»

Notò lo sguardo indagatore di Cem e gli fece cenno di accostare.

«Non so se sia stato giusto chiamarla» replicò Luzia Landenberger con voce preoccupata. «Ma ho come la sensazione che ci sia qualcosa che non va. La signora Herold era molto contenta quando ha visto il suo biglietto da visita. Voleva chiamarla nel pomeriggio. Poi ha pranzato ed è andata a sedersi in terrazza. E quando la mia collega è passata per controllarla, l’ha trovata morta accanto alla poltrona.»

Cem mise la freccia e parcheggiò alla fermata dell’autobus all’altezza del centro di riabilitazione di Königstein.

«Ha già informato la famiglia?» domandò Bodenstein.

«No, ci pensa sempre il nostro superiore.» L’infermiera Luzia abbassò la voce a un sussurro colmo di tensione. «Sa, per noi non è insolito che i nostri ospiti muoiano. È per questo che sono qui. Ma la signora Herold non era ancora pronta.»

Sentendo quelle parole, Bodenstein fu percorso da un brivido. Era passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta in cui aveva visto Rosie, ma all’improvviso aveva l’impressione che fosse accaduto solo il giorno prima. La donna non aveva avuto una vita molto felice, eppure era sempre stata affettuosa, gentile e allegra.

«È ancora lì da voi?» chiese.

«Sì.»

«Il dottore è già venuto?»

«Il medico di famiglia della signora Herold sta arrivando.»

«La prego, si assicuri che nessuno tocchi o sposti il corpo, nemmeno il medico» disse Bodenstein con enfasi. «Saremo lì tra dieci minuti.»

***

Se l’avesse incontrata per caso, Bodenstein non avrebbe riconosciuto Rosemarie Herold. Si ricordava una donna in carne, ma la grave malattia l’aveva completamente prosciugata. La signora Landenberger era riuscita a impedire ai suoi colleghi di portare il corpo di Rosie Herold nella stanza e di metterlo sul letto, così, quando lui arrivò, la scena del ritrovamento era ancora intatta.

Rosie alloggiava in una delle stanze al piano terra, la piccola terrazza appena visibile dava sui campi, in lontananza si vedeva il profilo scintillante di Francoforte. Il corpo giaceva accanto alla poltrona su cui probabilmente si era seduta per fumare una sigaretta. In un posacenere di terracotta c’erano tre mozziconi della stessa marca del pacchetto posato sul tavolo.

«Permettiamo ai nostri ospiti di mantenere le loro abitudini» spiegò Luzia Landenberger quando notò lo sguardo stupito di Bodenstein. «Alla maggior parte rimane poco da vivere e vogliamo che si sentano il più possibile a loro agio durante questo periodo.»

La signora Landenberger e la collega che aveva trovato la donna morta erano sulla porta aperta della terrazza. Bodenstein si infilò i guanti in lattice e si accucciò accanto al cadavere. La pelle era già fredda. Girò il corpo smunto di Rosie leggermente di lato, facendo così scivolare la parrucca che indossava. Notò delle macchie scure sulla nuca e sul collo.

«Le vedi?» chiese a Cem. Le prime macchie ipostatiche si formavano venti, trenta minuti dopo la morte.

«Sì. Piuttosto marcate.»

«Il rigor mortis sta già prendendo piede.» Bodenstein tentò invano di aprire la mandibola del cadavere per guardare la lingua. «Quindi è morta da due a quattro ore fa. Hai una torcia con te?»

«Sì, ce l’ho.» Cem gli consegnò una minitorcia led.

Oliver piegò una delle palpebre della defunta verso l’esterno e ciò che vide confermò i suoi timori: un’emorragia circoscritta puntiforme, le cosiddette petecchie, chiaro segno di strangolamento.

«Ma che succede?» La voce di una donna risuonò dalla porta della terrazza. «Chi sono questi uomini?»

Bodenstein aveva visto abbastanza. Si raddrizzò e si voltò. Una donna snella di circa sessant’anni, con capelli corti e bianchi come la neve, si fece largo tra Luzia Landenberger e la sua collega.

«Potete spiegarci che ci fate qui?» chiese brusca.

Bodenstein e Altunay presentarono i loro distintivi.

«Polizia giudiziaria? Come mai?»

«C’è il sospetto che la signora Herold non sia morta per cause naturali» replicò il commissario. «Lei è il medico di Rosie?»

«Sì, sono la dottoressa Renate Basedow.» La donna dai capelli bianchi era costernata. «Non è morta per cause naturali? Che vuol dire?»

«Sembra che sia stata strangolata o soffocata.»

«Dio mio.» La dottoressa Basedow scosse la testa, sotto shock. «Quando la signora Landenberger mi ha chiamata, non mi ha riferito nulla di tutto ciò, e ho pensato che Rosie fosse morta per gli effetti della sua malattia.»

«Temo di no.»

«Dovrei... Vuole che faccia l’autopsia?»

«Non è necessario» rispose Bodenstein in tono amichevole. «Il medico legale sta già arrivando. Ma forse può darmi il suo numero di telefono, nel caso più tardi avessimo altre domande da farle.»

«Ma certo.» La dottoressa Basedow aprì la borsa e tirò fuori un biglietto da visita. «Il mio studio è allo Zauberberg a Ruppertshain, ma potete raggiungermi al cellulare in qualsiasi momento.»

Una bionda sovrappeso, con occhiali neri a montatura rettangolare e un pratico taglio corto, si introdusse nella stanza. Indossava pantaloni neri, una camicetta nera e sopra un lungo blazer di un rosa acceso.

«Questa è la signora Reichenbach, la direttrice.» Luzia Landenberger presentò la donna, che non fece mistero di quanto poco gradisse la presenza della polizia giudiziaria.

«Non mi riconosci più, vero?» domandò lei, offesa e divertita allo stesso tempo. «Be’, è vero che sono raddoppiata dall’ultima volta che ci siamo visti.»

Bodenstein si sforzò di dare un nome al viso, ma non ci riuscì.

«Simone» gli venne in aiuto. «Adesso sono Reichenbach, ma prima ero Ohlenschläger. Ti dice qualcosa?»

Quasi gli sfuggì un “Oh, mio Dio!”. Bodenstein si morse la lingua all’ultimo momento. Gli diceva qualcosa, in effetti, e la differenza tra la Simone dei suoi ricordi e il colosso davanti a lui era talmente enorme da far paura. Una volta era la migliore amica di Inka Hansen e, come suo marito, anche lei era stata sua compagna di scuola alle elementari.

«Oh, questa sì che è una sorpresa» disse, paralizzato. «Credo che l’ultima volta che ti ho vista sia stato al tuo matrimonio. Quand’è che è stato?»

«Luglio 1983.» Gli scrutò il viso con occhio critico. «Non sei cambiato molto.»

«Neanche tu» replicò lui, al che la direttrice scosse la testa.

«Affascinante come sempre, signor von Bodenstein.» Poi rifletté sul motivo della sua presenza. «Perché sei qui? È una coincidenza? Luzia mi ha detto che hai cercato di vedere Rosie questo pomeriggio.»

«La sua roulotte ha preso fuoco stanotte e abbiamo trovato un corpo tra i resti» disse.

«Oh, sì, l’incendio alla Casa degli amici del bosco. Mia figlia me ne ha parlato.» Simone corrugò la fronte. «Quindi quella era la roulotte di Rosie.»

«Tua figlia?»

«Sì, Pauline, la più giovane. Studia biologia e lavora a un progetto sui gatti selvatici. L’aveva chiamata Wieland.»

Bodenstein ricordava la ragazza cicciottella in pantaloni mimetici e l’auto coperta di ruggine che in seguito avevano trovato parcheggiata davanti alla casa dei Lessing.

«La Scientifica e il medico legale stanno arrivando» lo informò Cem.

«Pensi davvero che Rosie sia stata uccisa?» chiese Simone Reichenbach a voce bassa. «Voglio dire... era molto malata e non le restava molto da vivere.»

«Temo che qualcuno l’abbia aiutata» rispose Bodenstein. «Hai avvisato i parenti?»

«Non sono riuscita a contattare Clemens, solo la moglie, ma non può venire. Sonja e Edgar dovrebbero essere qui a momenti.»

Simone Reichenbach era abituata a veder morire i suoi ospiti, prima o poi, ma Bodenstein rimase comunque stupito di quanto l’omicidio di una donna che conosceva da tutta una vita non la toccasse minimamente. La sua unica preoccupazione era la reputazione dell’hospice. La notizia della presenza della polizia giudiziaria aveva già fatto il giro dell’istituto, e poiché a quell’ora molti residenti ricevevano visite da parte di parenti e amici, non ci sarebbe voluto molto prima che la notizia di un omicidio nella casa di cura Abendrot trapelasse all’esterno. Non era una bella pubblicità per quella struttura.

Bodenstein si guardò intorno sulla piccola terrazza. Non era troppo difficile introdursi nella proprietà senza essere visti. Il terreno era sì circondato da una recinzione, ma era più ornamentale che protettiva; per scavalcarla non era necessario essere particolarmente atletici. I cespugli e gli alberi erano più che sufficienti per nascondersi, e le terrazze delle stanze al piano terra erano delimitate su entrambi i lati da massicce palizzate in legno per proteggere la privacy dei pazienti.

«Vorremmo dare un’occhiata ai filmati delle telecamere di sorveglianza» disse. «Ne ho viste alcune all’esterno dell’edificio e anche alla reception.»

«Purtroppo sono solo di facciata, non sono vere telecamere» ammise Simone Reichenbach ma, per mascherare la propria coscienza sporca, passò subito all’offensiva. «Spero che non me lo rinfaccerai. Le telecamere e il relativo software non erano una priorità. Cioè, chi poteva prevedere una cosa del genere?»

Non era la prima volta che Bodenstein si rendeva conto del fatto che molti trascurassero la sicurezza preferendo utilizzare in altro modo il denaro a disposizione. Si domandò se il colpevole conoscesse le condizioni della struttura. L’assassino sapeva che le telecamere non funzionavano e che sarebbe potuto entrare nel terreno della casa di cura senza rischi?

«Potete recuperare i nomi di chi ha fatto visita a Rosie negli ultimi giorni e nelle ultime settimane?»

«Ne dubito. Da noi non c’è bisogno di registrarsi.» Simone Reichenbach scosse la testa. Non faceva nemmeno finta di essere rammaricata. «Rosie ha avuto un bel po’ di visitatori. Metà Ruppertshain è venuta nelle ultime settimane. Le ha fatto bene.»

Cem coprì il corpo con un lenzuolo sottile, perché i primi curiosi si stavano già avvicinando sul prato con il collo teso e gli smartphone sguainati.

«Da quando Rosie era qui?» chiese Bodenstein.

«È arrivata a metà settembre» rispose Simone Reichenbach. «Era molto malata, la sua ultima chemio non aveva funzionato. Avrebbe preferito rimanere nella roulotte, ma nelle sue condizioni non sarebbe stata una scelta responsabile. Qui si è ripresa abbastanza bene, il che è tipico per il cancro. Di solito la fine arriva molto rapidamente dopo un periodo di recupero ingannevole.»

«Chi pagava il suo ricovero?»

«La mutua. Perché me lo chiedi?»

«Sono solo domande di routine» la rassicurò Bodenstein. «Conosci il medico di famiglia?»

«Sì, da molto tempo. La dottoressa Basedow ha uno studio a Ruppertshain e si prende cura di molti dei nostri ospiti.»

Chi poteva avere interesse nella morte di Rosie? Era una malata terminale, non le era rimasto molto tempo da vivere. Ma per qualcuno non passava abbastanza velocemente. Se Rosie fosse stata davvero uccisa e l’indomani avessero scoperto che la vittima nella roulotte era Clemens Herold, allora la questione sarebbe stata: chi mai poteva trarre profitto dalla loro morte? La risposta più ovvia era fin troppo semplice, e Bodenstein faceva il poliziotto da troppo tempo per credere alle coincidenze.

***

Nonostante la situazione precaria, si era addormentata e, in un primo momento, dopo il risveglio, il suo cervello le aveva giocato un brutto scherzo, perché per qualche secondo aveva creduto che fosse tutto normale. Per la prima volta dopo mesi si era addormentata senza l’aiuto dell’alcol, aveva pensato con un velo di umorismo nero. Ma la rabbia per la sua impotenza aveva presto ceduto il passo alla paura. Aveva la bocca secchissima. Aveva fame e doveva fare pipì. Aveva perso il senso del tempo da un bel pezzo. Almeno la cassa aveva dei fori per l’aria, così non sarebbe soffocata. Quanto tempo aveva dormito? Fuori era giorno o notte? Chi l’aveva rinchiusa lì dentro? Perché? Cosa voleva farne di lei? L’avrebbe lasciata semplicemente a morire, o prima o poi l’avrebbe fatta uscire dalla cassa per violentarla, torturarla e poi ucciderla? L’immaginazione di Felicitas ideava veri e propri scenari dell’orrore, uno più atroce dell’altro. Se solo non avesse letto così tanti thriller, non avrebbe saputo di cosa erano capaci gli psicopatici!

L’incertezza non era meno grave della consapevolezza che nessuno sentiva la sua mancanza. Tranne Bear e Rocky che, a un certo punto, non avrebbero avuto più nulla da mangiare o da bere se avesse continuato a rimanere lì dentro fino all’inevitabile. Al ritorno di Manu e Jens dall’Australia, quei cagnacci sarebbero già morti di fame. Senza dubbio, pensò Felicitas con amarezza, sua sorella avrebbe pianto più i suoi cani che lei. Se un giorno avessero trovato il suo corpo decomposto, quasi nessuno sarebbe andato al funerale, al massimo coloro a cui aveva distrutto o addirittura ostacolato la carriera con la sua penna affilata e il suo perverso risentimento. Perché sei così maligna, amareggiata e invidiosa? Ma che cosa ti ha fatto diventare così? Le parole della sorella le risuonavano nelle orecchie e lei si fece piccola piccola. Era stata lei stessa a distruggere tutto quanto. Aveva un brav’uomo, uno che aveva sopportato con pazienza i suoi sbalzi d’umore e non l’aveva mai subissata di recriminazioni. Le faceva male pensare alla delusione nei suoi occhi quando aveva annunciato che se ne sarebbe andata. «Stai facendo un errore» aveva detto Stefan. «Quel tipo è un farfallone. Ha vent’anni meno di te. Tutto ciò che vuole sono i tuoi soldi e le tue conoscenze.»

Non gli aveva dato retta, tanto era ossessionata da quel Sasha! Il giorno in cui le banche avevano smesso di farle credito, perché il suo appartamento apparteneva praticamente a loro, aveva segnato la fine della tenerezza e delle paroline dolci. Manu e Jens non avevano idea di quanto fosse drammatica la sua situazione e che si stava nascondendo da creditori davvero spiacevoli. Nella sua disperazione aveva preso in prestito del denaro da uno strozzino vero e proprio, e avrebbe passato un brutto quarto d’ora se lui fosse riuscito a metterle le mani addosso.

Felicitas detestava rimuginare sul proprio fallimento, ma nella sua prigione non c’era nulla che la distraesse da quei pensieri.

«Voglio uscire di qui!» urlò in preda alla rabbia, prendendo a calci le pareti della casa di metallo. «Aiuto! Non mi sente nessuno? Qualcuno mi aiuti!»

Urlava e gridava, scalciava e si pisciava addosso. Le lacrime le scendevano sul viso. Poi rimase lì, inerte, in attesa che arrivasse qualcuno, ma nulla. Gli unici suoni che sentiva erano il suo stesso battito cardiaco martellante e il brontolio dello stomaco.

a. «Caro amico, ogni teoria è grigia e verde è l’aureo albero della vita.» Faust e Urfaust. Testo tedesco a fronte, Volume 1 di Johann Wolfgang Goethe, ed. Feltrinelli, 2006, traduzione di Giovanni Vittorio Amoretti (N.d.T.).

b. Di importanza archeologica, il Landsgraben era un fossato medievale che fungeva da confine (N.d.T.).

c. AFIS: Sistema Automatizzato di Identificazione delle impronte. (N.d.R.)