Capitolo 25

La mattina dopo, sentendo ancora il calore del tocco magnetico di Lauro sulla pelle, Celina fece il bagno e si vestì. Dopo aver accompagnato Marco a scuola, indossò un maglione leggero color avorio, senza maniche, e una gonna blu scuro svasata con delle scarpe basse. Attorcigliò una sciarpa di twill e se la avvolse attorno al collo, legando il tessuto dai colori vivaci in un nodo laterale.

Sara le aveva chiesto di unirsi a lei sulla terrazza quella mattina, per latte e brioche. Anche se i giorni e le serate stavano diventando più freddi, il sole era ancora caldo sulle spalle di Celina mentre passeggiava all’esterno. Per fortuna Carmine era partito, lasciandole sole.

«Buongiorno. Sono così felice che tu abbia avuto del tempo per me oggi». Sara l’aveva accolta con un disinvolto sguardo studiato, e Celina si chiese cosa avesse in mente sua suocera.

Possibile che Sara percepisse la gioia nel suo cuore o l’apprensione nei suoi pensieri? Anche se il giorno prima, con Lauro, in quell’insenatura nascosta, era stato il giorno più bello che riuscisse a ricordare dopo tanto tempo, il suo cuore batteva in segno di avvertimento.

Sua suocera indossava un leggero abito color talpa con un’ampia cintura nera. Un foulard di seta paisley legato dietro la nuca le raccoglieva i capelli lucenti. Orecchini d’oro le pendevano dalle orecchie, e al collo indossava una colorata collana di perle e vetro di Murano. Anche nella scelta degli abiti da tutti i giorni, gli alti standard di Sara Savoia erano sempre evidenti.

«Dato che sei qui, ho pensato che potresti aiutarmi a sistemare alcune delle vecchie cose di Nino», disse in modo amichevole. «Magari vuoi conservare dei ricordi per Marco».

«Grazie, volentieri».

Era un sollievo essere tornata nelle grazie di Sara. Mentre la seguiva per le stanze della villa, pensò a tutto ciò per cui era grata. Dopo la morte di Tony, quando la sua esistenza era più buia che mai, raggiungere la sua famiglia le aveva cambiato la vita. Ciò che era iniziato con una telefonata intercontinentale l’aveva portata in una nuova famiglia, riaccendendole il cuore.

Sua madre se n’era andata e Celina aveva accolto favorevolmente il rapporto con sua suocera. Come in ogni relazione, poteva capitare qualche occasionale disaccordo, ma si sentiva vicina a Sara. Le avrebbe parlato della situazione con Lauro e Carmine.

Con suo suocero era diverso. Carmine era il patriarca, il figlio maggiore di suo padre, che era stato a sua volta il primogenito della sua famiglia. Il capofamiglia, che impiegava figlio e nipoti nelle attività fondate dal suo bisnonno. Un uomo a cui gli altri si rivolgevano per consigli e assistenza. Un uomo che non era abituato a mettere in discussione le sue decisioni.

Sara avrebbe potuto aiutarli o il prezzo da pagare sarebbe stato troppo alto?

La condusse in una camera in cui Celina non era mai stata prima e aprì un armadio.

«Quando Nino è partito, ho lasciato la sua stanza com’era nella speranza che tornasse presto». Sfiorò una vecchia giacca con un sorriso malinconico. «Di recente, Matilde e io abbiamo trovato alcuni oggetti che aveva messo via».

«Come il set di trenini di legno». Celina sorrise, sentendo la tensione dissolversi.

«Uno dei giocattoli preferiti di Nino quando era piccolo. Mio padre l’ha intagliato per lui. Siamo così felici di vedere Marco giocarci».

Sara tirò fuori una scatola di costruzioni di legno dipinte a mano. «Probabilmente gli piacerebbero anche questi».

Celina raccolse un blocchetto blu consumato e se lo rigirò tra le dita. Le iniziali, ACS, erano grossolanamente scolpite su un lato. «Sarà così entusiasta di vederli. Ama tutto ciò che è appartenuto a suo padre».

Per settimane, dopo la morte di Tony, Marco aveva dormito con una camicia di flanella morbida e consumata che era stata una delle preferite di suo padre. Il profumo di Tony era rimasto impregnato nel tessuto per mesi.

Tracciando il profilo dei bordi smussati del blocco, disse: «Solo sapere che suo padre ha giocato con questi blocchi lo farà sentire più vicino a lui».

Sara aggrottò la fronte e le sorrise tristemente. «Posso immaginare come si sente. Questi giocattoli sono un sostituto di una relazione che non c’è più. Mia nonna una volta si è lamentata del fatto che se viviamo a lungo, perdiamo la maggior parte dei nostri cari. La chiamava la maledizione della vecchiaia. Ho imparato che se non si vuole rimanere da soli, bisogna costruire nuovi legami nella vita».

Celina intuì un significato più profondo nelle parole di Sara. «Ho costruito un ponte per l’Italia».

«E io ti aiuterò a finirlo. In ogni modo possibile». Premette la guancia contro quella di Celina. «Siamo così fortunati ad avere te e Marco. Non hai idea di cosa significhi per noi».

Celina sprofondò su una sedia di broccato. Carmine adorava Marco, ma forse non accettava altrettanto di buongrado la sua presenza. «Sara, pensi che tuo marito cambierà idea su Lauro e me?»

«Le circostanze potrebbero presto cambiare», disse la suocera, respingendo in modo criptico la domanda con un cenno della mano.

Prima che Celina potesse chiedersi cosa intendesse, Sara tirò fuori una scatola di legno a grana fine, la posò sulla scrivania e sollevò il coperchio. Il profumo vagamente dolciastro del legno d’ulivo era ancora percepibile. «Questi sono alcuni dei vecchi compiti di Nino della scuola elementare. Ci sono anche disegni e acquerelli».

«Deve essere il motivo per cui a Marco piace disegnare».

Sara le rivolse un sorriso triste.

Celina prese un foglio ingiallito dalla scatola. «La sua calligrafia era…». Si fermò. Stava per dire diversa. Ma certo che lo era. Allora era un bambino.

Le lettere erano diritte, su e giù, prive dell’esagerata inclinazione della sua scrittura da adulto. Alcune lettere pendevano leggermente verso sinistra. Il foglio era macchiato. Mentre lo studiava, la testa iniziò a pulsarle debolmente.

Sfogliando le pagine, le cadde l’occhio su un altro pezzo di carta con delle strane scritte che non riusciva a decifrare. «Che cos’è questo? Sembra scritto alla rovescia».

Sara prese il foglio e sorrise. «È una scrittura speculare. A volte lo faceva, da ragazzo».

«Perché?». Celina sollevò un sopracciglio con aria interrogativa.

«Alcuni mancini ci riescono». Sara ridacchiò al ricordo. «Abbiamo sempre dovuto fare attenzione a dove lo mettevamo a tavola. Quando Nino e Lauro erano giovani, spesso litigavano per i gomiti che si urtavano».

Mentre Celina studiava la pagina, si sentì addosso gli occhi della suocera, quasi come se si aspettasse un commento. Provò uno strano senso di vuoto nel petto. Tony si vantava spesso di essere ambidestro, per quanto poi scrivesse solo con la destra. Forse a causa di un infortunio? Era sicuramente così.

Passò a una pagina dattiloscritta. «E questo?»

«Un saggio di un corso estivo a cui aveva partecipato a Londra. Nino eccelleva in molte cose». Mentre Celina lo fissava, un senso di inquietudine si insinuò in lei. Il testo era così... eloquente. Non era una parola che avrebbe mai usato per descrivere Tony, sebbene fosse intelligente. Conosceva molti nomi latini di medicinali di cui lei non aveva mai sentito parlare. «Gli piaceva la scienza», disse. «E la medicina».

Sara la guardò con un’espressione strana. «Sì, è vero. Ha studiato biologia a Roma, preparandosi per la scuola di medicina».

Tutto quadra”. Celina riprese a respirare più facilmente.

Tuttavia, sentirsi sollevata la rendeva ancora più ansiosa. Non era forse sicura di chi fosse stato suo marito? All’improvviso, premette le dita contro la tempia per nascondere una vena pulsante.

Sara spostò la sua attenzione verso il guardaroba. «Vuoi uno dei vestiti di Tony?». Tirò fuori un paio di pantaloni di lana leggera dal taglio raffinato e con un vago odore di muffa.

Ammirando il bel tessuto, Celina allungò una mano per farla scorrere lungo la lunghezza delle gambe. «Non deve mai aver avuto la possibilità di indossarli».

«Perché dici così?».

Celina rise. «Perché ho passato ore e ore a orlare i suoi pantaloni. Era lungo di busto, ma si lamentava sempre delle gambe relativamente corte. Spero che Marco erediti le gambe più lunghe della mia famiglia».

«Questi gli calzavano alla perfezione», disse dolcemente Sara.

Celina li prese. Allungò una gamba dei pantaloni sul braccio, dalla punta delle dita al mento, misurandola. «No, è impossibile. Devono essere stati di Lauro. Sembrano della lunghezza giusta per lui».

«Questo perché portavano la stessa taglia».

«Forse le sue ferite…». Sara continuò a fissarla, come se stesse aspettando.

Aspettando cosa?

Il mal di testa di Celina si intensificò.

Sentendosi d’un tratto stordita, si abbandonò sulla sedia accanto alla scrivania. Fissò i pantaloni spiegazzati sul suo grembo, quindi le pagine scritte nella scatola. Passandosi le mani sul viso, ebbe la sensazione che il suo mondo attentamente costruito si stesse sgretolando.

Sara le posò una mano sulla spalla, poi andò in corridoio a chiamare Matilde.

Celina non riusciva a sentirle parlare nel corridoio. Sbattendo le palpebre, sentì il potente e irrefrenabile bisogno di trovare qualcosa che fosse appartenuto a Tony e che le fosse familiare.

Lì, sotto le carte che aveva esaminato, c’era un diario in pelle rilegata, tutto logoro, con il nome di suo marito. Antonino Cesarò Savoia. Con trepidazione, lo prese e lo aprì.

La calligrafia era la stessa ed era scritto in italiano. Concentrandosi, cominciò a tradurre la prima frase. Negli ultimi mesi, da quando si era impegnata a trascorrere un anno lì, aveva studiato l’italiano. La sua comprensione dei testi scritti era di gran lunga superiore alla capacità di fare conversazione. Esaminando le pagine leggermente macchiate, iniziò a leggere.

20 aprile 1937, Venezuela - Papà mi ha chiesto di accompagnarlo nel suo tour in Sud America quest’anno. Sa quanto voglio viaggiare e vedere mondi diversi dai nostri. Qui, gli agricoltori producono le varietà di cacao più squisite, Criollo e Porcelana. Un giorno, armato di un machete, ho aiutato a raccogliere i baccelli. È incredibile, ma alcuni alberi hanno più di cento anni. Le fave fermentano in cassette di legno solo per pochi giorni, per proteggerne il sapore delicato. Dopo che si sono asciugate al sole, vengono ispezionate per la qualità e quindi spedite al nostro stabilimento di Napoli. Domani ci imbarcheremo per l’Ecuador.

Affascinata dalla storia, Celina sfogliò le pagine e fece scorrere il dito su altre voci scritte a mano. Non aveva mai visto degli alberi di cacao dal vivo, e poteva solo immaginare che viaggio avvincente dovesse essere stato.

12 maggio 1937, Ecuador - Finora è stato affascinante conoscere i vari tipi di coltivazione e lavorazione impiegati, incontrare gli agricoltori che producono le nostre fave e imparare qualcosa di più sul Theobroma Cacao, l’albero che produce ciò che gli indigeni qui chiamano “cibo degli dèi”. Abbiamo incontrato un brav’uomo venuto dalla Germania che facilita questo processo, stipulando contratti con agricoltori e cooperative locali per garantire i prezzi delle loro colture. Nella giungla selvaggia, mi sono sentito stranamente più a casa che in Italia. Dopo aver esaminato gli alberi di cacao, ho parlato con gli agricoltori per capire come riescono a prevenire e curare le malattie delle piante. Usano anche molte piante curative che ci sono sconosciute.

Celina iniziò a immaginare il viaggio di suo marito, ma perché non gliene aveva mai parlato? Soprattutto sapendo quanto avrebbe significato per lei. Sollevò il diario per continuare a leggere.

30 maggio 1938, Perù - Dopo un viaggio lungo e difficile, papà mi ha portato in una comunità di coltivatori di cacao sugli altopiani andini del Perù, dove abbiamo trovato eccellenti e robusti alberi Trinitario che crescevano sulla montagna. Che parte del mondo magica e mercuriale, con un fiume impetuoso e montagne maestose che rivaleggiano con le Alpi. Nel Cañón Marañón, un uomo potrebbe allontanarsi dal mondo e non essere trovato mai più.

Papà mi ha raccontato la storia di un raro albero di cacao che teme si sia estinto. Circa venti anni fa, dei funghi emibiotrofici aggressivi hanno colonizzato quest’area, attaccando gli alberi di cacao più delicati e saporiti che producevano le rare fave bianche e quasi distruggendo la produzione di cacao. Chiamata la Escoba de Bruja, la malattia ha devastato le fave che davano quel cioccolato dai delicati e complessi aromi floreali e dai sapori morbidi. Purtroppo, non abbiamo trovato segni della loro sopravvivenza.

Come in Ecuador, ho trascorso più tempo con gli indigeni per conoscere i loro metodi di guarigione di quanto papà avrebbe voluto. Ho anche condiviso con loro alcune idee della nostra cultura e ho trovato le persone abbastanza ricettive. Per me, la medicina è più appassionante delle fave di cacao e del cioccolato, ma essendo il figlio maggiore, papà si aspetta che gestisca gli affari di famiglia. Mi ha permesso di studiare biologia a causa dei nostri interessi commerciali, ma il mio cuore desidera ardentemente praticare la medicina ed esplorare il mondo, non essere legato a una vita faticosa nel commercio. Lauro è molto più adatto all’azienda di famiglia. Se solo papà lo capisse.

Celina si premette la mano sulla bocca. Le parole vacillavano e danzavano davanti ai suoi occhi, provocandola con la loro veridicità. Passò in rassegna le pagine del diario, che includevano osservazioni e disegni di piante locali e usi medicinali. Ma, esaminando le voci, un aspetto della scrittura sconvolgeva tutto ciò in cui aveva sempre creduto e che adesso non poteva più ignorare.

I passi di Sara risuonarono ovattati anche sul pavimento di pietra, persino prima che raggiungesse il raffinato tappeto. Si accomodò su un’altra sedia di broccato accanto a Celina.

«Vedo che stai leggendo il diario di Nino», disse. «Immagino che l’avrai trovato interessante».

Celina si morse il labbro e scosse la testa. «La calligrafia…». Persino la sua capacità di parlare stava venendo meno. La scrittura era una versione più matura del suo stile da scolaretto, con una leggera inclinazione verso sinistra.

Non somigliava affatto alla calligrafia di suo marito.

Sara annuì e attese.

«Questa calligrafia… i pantaloni…». Celina scosse la testa, mettendo insieme gli indizi che aveva cercato di evitare per così tanto tempo. «Hai detto che Tony parlava spagnolo».

«Perfettamente».

Ricacciando indietro le lacrime calde, Celina continuò: «Mio marito parlava italiano misto a un po’ di spagnolo approssimativo con i messicani di Santa Monica e San Francisco, dicendo che le due lingue erano abbastanza simili da permettergli di capirlo».

Essendo cresciuta in California, lei parlava bene lo spagnolo, quindi era solita intervenire, e poi ne avevano riso insieme.

«Forse ha subìto dei lievi danni al cervello in guerra», disse, cercando una scusa, sebbene la sua conoscenza tecnica dei termini farmaceutici non ne avesse risentito.

Sara non rispose.

«Il suo comportamento era così diverso da come l’hai descritto». Trattenendo il respiro, Celina si coprì la bocca e chiuse gli occhi.

Non poteva essere.

Eppure, i fatti parlavano chiaro. Ed erano lì da sempre.