MICRODEMONE A

 

 

Ho pubblicato finora due sole storie di "microdémoni", ma mi piacerebbe scriverne un'intera serie - diciamo una ventina - da raccogliere in un volume a sé. Questa è la prima, ed è uscita nel 1982 sul Magazine of Fantasy and Science Fiction.

 

Ho un amico che sostiene, a volte, di poter evocare gli spiriti dell'abisso…

… O meglioi uno spirito: uno piccino, dai poteri molto limitati. Qualche volta me ne parla, ma solo dopo aver bevuto il quarto scotch e soda.

È una questione di equilibrio, ed è molto delicata: dopo tre bicchierini il mio amico non sa niente degli spiriti (almeno della specie sovrannaturale); dopo cinque, cade addormentato.

Quella sera pensavo che avesse raggiunto il livello ottimale, perché gli dissi: — Ti ricordi di quel tuo spirito, George?

— Eh? — fece George, guardando il bicchiere e domandandosi perché mai se ne dovesse ricordare.

— No, non lo spirito che bevi — precisai. — Quello alto circa due centimetri, che una volta mi hai detto di aver chiamato da un altro piano d'esistenza. Quello con poteri sovrannaturali.

— Ah — disse George — Azazel! Non è il suo vero nome, tu mi capisci, quello è impronunciabile. Io però lo chiamo così. Sì, me ne ricordo.

— Te ne servi spesso?

— No, è pericoloso. Troppo pericoloso. C'è sempre la tentazione di abusare dei poteri, e io sono un tipo prudente, e poi ho la mia etica. Per questo, una volta, lo evocai per aiutare un amico. I danni che potè combinare! Pauroso. Meglio non pensarci.

— Che successe?

— Mah, forse mi farà bene vuotare il sacco — disse George, pensieroso. — Altrimenti finirò col beccarmi un'ulcera.

A quell'epoca ero molto più giovane (cominciò George) e le donne avevano una parte importante nella mia vita come in quelle dei miei amici. A pensarci adesso sembra stupido, ma ricordo che a quei tempi c'erano donne più importanti e altre meno: insomma, fra l'una e l'altra correva una bella differenza!

Oggi tuffi una mano nel mucchio e quella che viene viene, ma allora…

Be', io avevo un amico che si chiamava Mortenson, Andrew Mortenson. Non credo che tu lo conosca, e anch'io negli ultimi anni l'ho visto molto poco.

Ora, questo Mortenson era pazzo di una donna: sosteneva che era un angelo, che non poteva vivere senza di lei, che era l'unica dell'universo e che in sua assenza il mondo si riduceva a un avanzo di prosciutto bruciacchiato e unto di grasso. Sai anche tu come parlano gl'innamorati.

Il guaio è che la ragazza lo piantò definitivamente e in modo, pare, abbastanza crudele, senza troppi riguardi per l'amor proprio di Mortenson. Si trattò di un'umiliazione cocente, perché se ne andò con un altro proprio sotto i suoi occhi e in più rise delle sue lacrime.

Non prendermi alla lettera: forse non fece proprio così, ma io voglio renderti il quadretto come me lo dipinse il mio amico. Eravamo insieme a bere, qui, in questa stessa stanza. Il mio cuore sanguinava per lui e gli dissi: — Mi dispiace, Mortenson, ma non dovresti prendertela così. Se ci rifletti un momento vedrai che, dopotutto, è solo una donna! E in strada ne passano a migliaia!

Mi rispose, amaro: — D'ora in poi non ne avrò più nessuna, vecchio mio… tranne mia moglie, si capisce, che di quando in quando sarò costretto a vedere. Ma mi piacerebbe contraccambiare quella signora.

— Tua moglie?

— No, no, perché dovrei fare qualcosa a mia moglie? Sto pensando al modo di fare qualcosa per la donna che mi ha buttato a mare così spietatamente.

— Per esempio?

— Che sia dannato se lo so — disse lui.

— Forse ti posso aiutare — dissi io, perché avevo il cuore che ancora sanguinava. — Posso ricorrere a uno spirito dai poteri straordinari. Uno spiritello, a dir la verità… — E tenni il pollice e l'indice alla distanza di circa due centimetri, in modo che potesse farsi un'idea delle dimensioni. — Lui potrà venirti incontro.

Gli raccontai la storia di Azazel e naturalmente lui mi credette. Ho notato che so essere convincente, quando racconto una storia. Lo so che quando le racconti tu, vecchio mio, si crea un'aria di incredulità che si può tagliare con una sega, ma con me le cose vanno diversamente. Non c'è niente di meglio che una reputazione di onestà e un'espressione franca e sincera.

Mentre gli parlavo di Azazel gli occhi di Mortenson luccicarono. Mi chiese se fosse in grado di fare veramente qualcosa.

— Sì, a patto che sia una richiesta ragionevole — risposi. — Spero che tu non stia pensando a farle uscire i rospi di bocca o a darle un cattivo odore.

— Certo che no — disse lui, disgustato. — Per chi mi prendi? Abbiamo passato due anni felici, tutto sommato, e voglio tenerne il debito conto. Dici che il tuo spirito ha poteri limitati?

— E un cosino — dissi, accennando di nuovo alle proporzioni con le dita.

— Pensi che potrebbe darle una voce perfetta? Per una volta, magari, per una sola esibizione.

— Glielo chiederò. — L'idea di Mortenson mi sembrava degna d'un gentiluomo: la sua ex-amante cantava gli inni nella chiesa locale, posto che questo sia il termine adatto. A quei tempi avevo un discreto orecchio per la musica e andavo spesso a manifestazioni del genere (badando a scansare la borsa delle offerte, va da sé). Mi piaceva sentir cantare la signora in questione e il pubblico faceva mostra di uguale attenzione. In un primo tempo pensai che la sua condotta morale non fosse trapelata nel vicinato, ma Mortenson mi disilluse dicendo che sulle soprano la gente è disposta a chiudere un occhio.

Così consultai Azazel. Era abbastanza felice di cooperare, e non in cambio dell'anima: sai, sono tutte calunnie. Ricordo che una volta chiesi ad Azazel se volesse la mia anima e lui rispose che non sapeva nemmeno che cos'era.

La verità è che nel suo universo è un esserino così privo d'importanza che gli dà un senso di maestà farsi valere nel nostro. Lui è contento di fare i prodigi.

Mi informò che poteva dare tre ore di voce insuperabile alla ragazza di Mortenson, e questi, sapute le notizie, trovò che era una soluzione perfetta. Scegliemmo una sera in cui la signora doveva cantare Bach o Handel o uno di quei vecchi strimpellatoli di pianoforte, e in cui era previsto un lungo assolo.

Mortenson andò in chiesa e naturalmente io andai con lui. Mi sentivo responsabile per quello che sarebbe accaduto e pensavo che avrei fatto meglio a tenere sotto controllo la situazione.

Mortenson disse, cupo: — Sono venuto anche alle prove. Cantava al solito modo, come se dietro avesse la coda e qualcuno ci fosse saltato sopra.

Non era il modo in cui descriveva di solito la sua voce: la musica delle sfere celesti, aveva detto in altre occasioni, e questo era solo l'inizio.

Ma stavolta era stato respinto, e certe cose alterano il giudizio di un uomo.

Lo scrutai con occhio accusatore: — Non è questo il modo di parlare della donna alla quale stai per fare un grande dono.

— Già, hai ragione. Voglio che la sua voce sia perfetta, assolutamente perfetta. Ora che i veli dell'amore si sono levati dai miei occhi capisco che ha ancora molta strada da fare. Credi che il tuo spirito sarà all'altezza della situazione?

— Il cambiamento comincerà alle otto e un quarto — gli comunicai, e intanto un terribile sospetto s'insinuava in me. — Non speravi, per caso, che cantasse divinamente alle prove per poi deludere l'uditorio in chiesa?

— No, lungi da me — rispose Mortenson.

La funzione cominciò un po' prima, e quando lei, vestita di bianco, salì sul podio, erano le otto e quattordici: il mio vecchio orologio da taschino non sbaglia mai più di due secondi. Non era una di quelle soprano improvvisate e rachitiche che si vedono oggi: era costruita con abbondanza di mezzi, sì, e aveva spazio sufficiente per intonare con impeto anche le note più alte, quelle che sommergono letteralmente l'orchestra.

Quando inspirava per mettere in funzione i suoi mantici, si potevano apprezzare, nonostante i vari strati di vestiario, quelle qualità prorompenti a cui Mortenson era così affezionato.

Cominciò nel suo solito stile, e poi, alle otto e un quarto precise, sembrò che un'altra voce si fosse aggiunta alla sua. La vidi trasalire, come se non credesse a quello che udiva, e la mano che teneva sul diaframma cominciò a vibrare.

La voce crebbe: pareva diventata un organo dalla potenza inaudita, e ogni nota era perfetta e brillante; al confronto, le stesse note emesse dalla gola degli altri sembravano copie imperfette e incolori.

Ogni nota aveva la propria tonalità perfetta, se questo è il modo giusto di esprimersi, e saliva o scendeva con un totale potere di controllo.

La voce migliorava di secondo in secondo. L'organista non seguiva più la musica, seguiva lei, e giuro che a un certo punto smise di suonare. Del resto, anche se avesse continuato nessuno l'avrebbe sentito. Mentre quella donna cantava non c'era nient'altro che si potesse sentire. Niente, a parte lei.

Lo sguardo di sorpresa era sparito dalla sua faccia, e ne aveva preso il posto uno di esaltazione. Anche lei aveva posato lo spartito e cantava liberamente: la voce andava da sola, senza bisogno di controllo o direttive. Il direttore era annichilito, mentre i componenti del coro parevano impietriti.

L'assolo terminò e il coro riprese a cantare: ma in un sussurro, come se tutti temessero di misurare la propria voce con quella meraviglia, di alzare il proprio canto in quella stessa chiesa e quella stessa sera.

Per il resto del programma la signora dominò completamente la scena. Quando cantava non si sentiva che lei, anche se il coro cercava di tenerle dietro. Quando non cantava era come sé fossimo tutti seduti nel buio e non potessimo sopportare l'assenza della luce.

E quando tutto finì… in chiesa non si applaude, almeno non di solito, ma quella volta fu proprio così.

Tutti si alzarono in piedi, come tirati dallo stesso filo, e applaudirono e applaudirono, e avrebbero continuato tutta la notte se lei non si fosse messa a cantare di nuovo.

Li accontentò: solo la sua voce, mentre l'organo sussurrava nello sfondo. Tutte le luci erano puntate su di lei, il coro era scomparso.

Ed era facile. Non puoi avere idea di quanto fosse facile. Cercai di distrarmi dal canto per vederla prender fiato, o respirare, e mi domandai per quanto tempo una nota possa reggere a pieno volume con un solo paio di polmoni per sostenerla.

Ma doveva pur finire, e finì. Anche l'applauso finì, e solo allora mi resi conto che Mortenson fissava la ragazza con gli occhi luccicanti, completamente perduto nel suo canto.

Solo allora capii che cosa era successo.

Tutto sommato sono un tipo abbastanza retto, proprio come la famosa linea di Euclide; voglio dire che non ho deviazioni. Non potevo immaginare, dunque, quale fosse lo scopo ultimo del mio amico. Tu invece, che sei così contorto da poter salire su una scala a chiocciola senza fare una sola giravolta, avrai capito immediatamente il suo piano.

La ragazza aveva cantato a meraviglia, ma non avrebbe cantato così mai più.

È come dare tre ore di vista a qualcuno che sia cieco dalla nascita: permettergli di vedere i colori, le forme e le meraviglie che ci circondano e alle quali noi non facciamo nemmeno caso, tanto ci siamo abituati. Immagina di essere al posto di quel cieco… e di perdere tutto dopo tre ore!

La cecità si sopporta molto meglio se non si è mai veduto. Ma fare il paragone con il mondo della luce e poi essere ricacciati nel buio è atroce.

La ragazza in questione non ha più cantato, naturalmente. Ma la vera tragedia è stata quella di noi ascoltatori.

Per tre ore avevamo sentito la musica perfetta, capisci? Perfetta. Impossibile pensare di ascoltare qualcosa di meno divino.

E infatti da allora ho perso del tutto l'orecchio musicale. Ultimamente sono andato a uno di quei concerti rock che fanno tanto scalpore, così, giusto per fare un esperimento. Non mi crederai, ma non riuscivo a distinguere nessun motivo. Sentivo solamente il rumore.

La mia unica consolazione è che Mortenson, che aveva ascoltato più attentamente di chiunque altro, sta peggio di tutti. È costretto a portare i tappi nelle orecchie dalla mattina alla sera: non sopporta nessun rumore al di sopra di un sussurro.

Gli sta bene!

 

Titolo originale: One Night of Song (1982)