Capitolo ottavo
26 agosto 2006, in una città sulla costa della prefettura di Kanagawa
Avrò diciotto anni fino alla morte
Attualmente mi alleno per il triathlon. In quest'ultimo periodo mi sono concentrato sulla bicicletta. Ogni giorno per un'ora o due ho pedalato a tutta forza sulla cosiddetta «pista ciclabile costiera del Pacifico», un percorso lungo il mare molto disagevole, nonostante il nome altisonante, perché si interrompe tutti i momenti e vi soffia sempre un vento fortissimo. Grazie a questo esercizio quotidiano adesso ho sviluppato muscoli molto forti dalle reni alle cosce.
Su una bici da corsa, occorre spingere in giù un pedale mentre si solleva l'altro, simultaneamente, è così che si acquista velocità. E bisogna cercare di rendere questo movimento alternato delle gambe più armonioso possibile.
Soprattutto nelle lunghe salite, è indispensabile. Il problema è che i muscoli necessari a questo «spingi e alza» non vengono quasi mai utilizzati nella vita di tutti i giorni, di conseguenza in un allenamento serio si affaticano molto e si irrigidiscono.
Al mattino vado in bicicletta, e la sera corro.
E l'unico modo per prepararmi adeguatamente, pur con i muscoli delle gambe duri come pietre. Ho fatto allenamenti più piacevoli, ma è inutile che mi lamenti, perché durante la gara dovrò sia pedalare che correre.
Ho cominciato a dedicarmi al ciclismo soltanto alcuni mesi prima di partecipare a una gara di triathlon. La corsa e il nuoto mi sono sempre piaciuti, quindi li pratico spesso anche se non ci sono competizioni in vista.
Allenarmi in bicicletta invece mi costa molta fatica. Una delle ragioni per cui la bici mi deprime è che si tratta di un «veicolo», quindi richiede l'uso del casco, di scarpette speciali e di una serie di altri accessori. E indispensabile fornirsi di attrezzi e di pezzi di ricambio. Tra parentesi, «fornirmi di attrezzi» è qualcosa per cui non ho la minima attitudine. Inoltre bisogna trovare una strada dove poter andare veloci in relativa sicurezza, e recarsi fin lì. Cosa estremamente seccante.
Seccante e pericolosa. Per raggiungere un posto dove potermi allenare sul serio devo attraversare la città, passare fra le automobili su una nervosa bici da corsa dalle gomme sottili - una piccola differenza di grado può essere determinante -, con i piedi bloccati nei pedali. Chi non ci ha provato non può capire quanta paura faccia. Comunque a poco a poco, a forza di pedalare, bene o male mi ci sono abituato. Ho assimilato una certa tecnica.
Ma mi prendo ancora degli spaventi che mi fanno sudare freddo.
Anche durante gli allenamenti, quando affronto una curva stretta rallentando il meno possibile, mi viene il batticuore.
Perché bisogna prenderla inclinandosi su un fianco e disegnando una parabola ottimale, altrimenti si rischia di cadere o di andare a sbattere contro un muro. E soltanto con l'esperienza che si arriva a stabilire il limite estremo.
Quando piove e la strada è bagnata, lanciarsi a tutta velocità nelle discese è terrorizzante. In una competizione con tanti concorrenti, basta che sbagli uno perché cadano tutti.
Per natura non sono agile e detesto le gare di velocità, quindi le corse ciclistiche non mi piacciono. Infatti delle tre specialità del triathlon - nuoto, ciclismo e corsa - durante gli allenamenti lascio sempre il ciclismo per ultimo.
Naturalmente è la parte della gara in cui ottengo i risultati peggiori.
Quando poi cerco di recuperare nella fase finale, la corsa, in soli dieci chilometri non ce la faccio, anche mettendocela tutta. Per questa ragione adesso mi dedico esclusivamente alla bicicletta. Oggi è il i° agosto. La gara di triathlon sarà il i° ottobre, quindi mancano giusto due mesi. Il problema è: allenandomi fin da ora, riuscirò a farmi i muscoli necessari in tempo? In ogni caso occorre che il mio corpo si abitui alla bicicletta.
La mia è una Chitan della Panasonic. E leggera come una piuma. Ormai sono circa sette anni che la uso. Azionare il cambio è diventato parte delle mie funzioni fisiologiche.
E un attrezzo stupendo. Per lo meno il veicolo funziona bene, al contrario di chi lo monta. La tratto senza risparmiarla, questa bici, ma non mi ha mai dato problemi.
L'ho usata in quattro gare di triathlon. Ci ho fatto scrivere sopra «18 til I die», avrò diciotto anni fino alla morte. Ho preso in prestito il titolo di una famosa canzone di Brian Adams. Ovviamente è uno scherzo. L'unico modo per avere diciotto anni fino alla morte è morire diciottenni.
Quest'anno l'estate in Giappone è piuttosto strana. La stagione delle piogge, che sarebbe dovuta finire all'inizio di luglio, è durata quasi tutto il mese. Ha piovuto continuamente, non se ne poteva più. In molti posti ci sono state piogge torrenziali che hanno provocato la morte di diverse persone. Pare che sia tutta colpa del riscaldamento globale della terra. Può darsi che sia così, ma non è detto.
Ci sono esperti che lo affermano, ed esperti che sostengono il contrario.
In parte se ne possono fornire le prove, e in parte no. Ad ogni modo la maggior parte dei problemi che si manifestano oggi al mondo viene sempre attribuita al riscaldamento globale. Si verifica un calo delle vendite nel prêt-à-porter? Su una spiaggia approdano centinaia di tronchi alla deriva? C'è un'inondazione, un periodo di siccità? I prezzi dei beni di consumo aumentano? La responsabilità è sempre del riscaldamento globale. Ciò di cui il mondo ha bisogno è un colpevole designabile con tanto di nome, contro cui si possa puntare il dito gridando: «E tutta colpa tua!» Comunque sia, a causa di questo mascalzone che sfugge a ogni controllo, a luglio ha continuato a piovere ininterrottamente, e per tutto il mese non ho potuto allenarmi. Non è colpa mia. Il responsabile è il solito riscaldamento globale.
Ma in questi ultimi giorni finalmente il cielo si è rasserenato e ho potuto prendere la bici. Mi sono messo il casco aerodinamico, ho inforcato gli occhiali da sole speciali per lo sport, riempito d'acqua la borraccia, regolato il contatore di velocità e ho attaccato a pedalare con impegno.
Quando si va su una bici da corsa, la prima cosa che bisogna imparare è a piegare il più possibile il corpo in avanti per ridurre l'attrito del vento, però tenendo alta la testa.
E assolutamente necessario assumere questa posizione, a tutti i costi.
Tuttavia, come vi renderete conto se ci provate, stare per più di un'ora con il collo piegato come una mantide religiosa, per le persone che non vi sono abituate è una fatica improba. Immancabilmente viene un male tremendo alla schiena e alla nuca. A un certo punto uno non ne può più e finisce per abbassare la testa e guardare in basso. Ed ecco che il pericolo, che lo aspettava al varco, viene all'assalto.
Quando mi preparavo alla mia prima gara di triathlon, percorrendo quasi cento chilometri, sono andato a sbattere contro un palo di metallo. Un palo piantato li per impedire che automobili e motociclette imboccassero una strada lungo il fiume riservata ai pedoni e alle bici. Ero talmente stanco che mi ciondolava la testa, e per un attimo ho trascurato di guardare avanti. La ruota anteriore si è voltata bruscamente e io sono stato sbalzato sulla strada, la faccia per prima. Tutt'a un tratto mi sono reso conto che stavo letteralmente volando per aria. Me la sono cavata grazie al casco, se non l'avessi avuto me la sarei vista brutta. Mi sono scorticato un braccio contro l'asfalto e ho provato un forte dolore, ma tutto sommato mi è andata ancora bene (conosco diverse persone cui è andata molto peggio).
Basta passare una volta per un'esperienza del genere, che si impara la lezione e non la si dimentica più. Per assimilare veramente una cosa, nella maggior parte dei casi è necessario un dolore fisico. Da quel giorno, anche se sono stanco morto, sto attento a tenere la testa alta. Per non lasciarmi sfuggire nulla di quanto si trova sulla strada davanti a me. Questo sforzo però costituisce un abuso nei confronti dei miei poveri muscoli.
Non sudo. Anzi si, probabilmente sudo, ma a causa del vento il sudore mi si asciuga subito addosso. E mi si secca anche la gola. Se non bevo finisco col disidratarmi. E in quel caso la mente mi si offusca. Non si va in bicicletta senza la borraccia d'acqua. La prendo continuando a pedalare, bevo in fretta a grandi sorsi e la rimetto nel suo scomparto. E un gesto che mi sono abituato a fare automaticamente, senza sforzo, tenendo sempre lo sguardo fisso in avanti.
A dire tutta la verità, allenarsi da solo è molto duro.
All'inizio, non sapendo neanche da dove cominciare, mi sono rivolto a un esperto di corse ciclistiche e gli ho chiesto di farmi da personal trainer.
Insieme a lui la domenica infilavamo le biciclette in una grossa monovolume e andavamo al molo Oi. Poiché i camion da trasporto nei giorni festivi non circolano, la larga strada intorno ai depositi diventa una magnifica pista ciclabile, che usano in molti per allenarsi. Stabilivamo il numero di giri e il tempo che volevamo fare, e pedalavamo in accordo al programma. Il mio trainer mi ha anche accompagnato nel lungo giro in cui ho avuto il famoso incidente. Prepararsi alla maratona, correndo da soli per chilometri, non è allegro, ma stare curvi in silenzio sul manubrio, spingendo senza sosta sui pedali, è molto, molto più triste. Perché è un ripetersi all'infinito delle stesse cose. Salite, tratti in pianura, discese, vento favorevole, vento contrario. Per cui si cambia rapporto, si cambia posizione, si contano i giri, si appesantisce il fardello, si alleggerisce il fardello, si contano i giri, si beve, si cambia rapporto, si cambia posizione..
A volte tutto questo può sembrare una sottile tortura. È ciò che dice Dave Scott nel suo libro sul triathlon, quando racconta dei suoi primi allenamenti: «Di tutti gli sport che ha inventato l'uomo, credo che questo sia il meno divertente».
A essere sincero lo penso anch'io.
Tuttavia mancano pochi mesi alla gara di triathlon e devo pedalare, non c'è pretesto che tenga. Canticchiando disperatamente il ritornello di "18 til I die", a volte maledicendo il mondo intero, infilo i piedi nei pedali e inizio a spingere e alzare, spingere e alzare. Registro il ritmo nelle mie gambe. Il vento caldo che soffia incontrastato dal Pacifico mi brucia le guance.
Il mio incarico all'università di Harvard è terminato alla fine di giugno, così ho disdetto l'appartamento di Cambridge (addio birra alla spina Sam Adams, addio Dunkin' Donuts!), ho preparato i bagagli e all'inizio di luglio sono tornato in Giappone. Cosa ho fatto durante il mio soggiorno a Cambridge? Lo confesso, ho soprattutto acquistato una grande quantità di LP. Io colleziono vecchi dischi, per i quali nutro una discreta - anzi, direi una forte - passione.
Nelle vicinanze di Boston ci sono ancora degli ottimi negozi di dischi usati. La maggior parte di quelli che ho comprato è di musica jazz, ma anche classica e rock. Spedirli tutti in Giappone è stata un'impresa.
Quanti dischi ci siano a casa mia, sinceramente non lo so nemmeno io.
Non li ho mai contati, e non ho intenzione di fare una cosa tanto assurda. E da quando avevo quindici anni che compro vecchi dischi, e ne ho anche eliminati tanti. Il ricambio è molto veloce, e non riesco a calcolarne il ritmo.
Arrivano e se ne vanno. Comunque il numero globale va indubitabilmente aumentando. Ma non è importante sapere quanti dischi io possieda; tanto per cominciare non è un problema. Se mi chiedono quanti ne ho, posso solo rispondere: «Bè, tanti. Ma non abbastanza».
Uno dei personaggi di Il grande Gatsby, Tom Buchanan - un famoso, ricchissimo campione di polo -, dice queste parole: «Al mondo ci sono molte persone che trasformano una stalla in un garage, ma a trasformare un garage in una stalla sono stato solo io». Non è che ne vada fiero, ma io faccio la stessa cosa. Se trovo in un LP di buona qualità un brano che ho in CD, non esito a vendere il CD e comprare l'LP. E lo stesso LP, se ne trovo una copia in cui il suono sia migliore, molto vicino all'originale, lo cambio senza indugi. E una cosa che richiede una certa cura, e costa un bel po' di quattrini. E probabile che la maggior parte della gente consideri le persone come me dei fanatici.
L'anno scorso - il 2005 - com'era nei miei progetti ho partecipato alla maratona di New York City. Era una luminosa, splendida giornata autunnale. Una di quelle giornate in cui ci si aspetterebbe di veder comparire dal nulla il compianto Mei Torme per mettersi a cantare, appoggiato a un pianoforte a coda, Autumn in New York. Insieme a decine di migliaia di concorrenti arrivati da ogni parte del mondo, al mattino sono partito dal ponte Verrazano di Staten Island, ho attraversato Brooklyn -dove c'è sempre ad aspettarmi e a incoraggiarmi la scrittrice Mary Morris -, poi Queens, sono passato su altri ponti, ho percorso le strade di Harlem e alcune ore dopo sono arrivato al traguardo vicino a Tavern on the Green, in Central Park: quarantadue chilometri.
Com'è andata? A dire la verità, non molto bene. Per lo meno non bene quanto avevo sperato. Possibilmente, avrei voluto chiudere questo libro con le vibranti parole «dopo un serio allenamento, alla maratona di New York ho fatto un ottimo tempo. Tagliare il traguardo è stata un'emozione», poi, accompagnato dalle note trionfali del Theme from Rocky, andarmene via con noncuranza, senza fretta, nella luce del tramonto. In realtà, fino al momento della gara, nel mio cuore avevo cullato la speranza che questo sogno si avverasse. Era il mio piano A. Un piano magnifico.
Purtroppo però nella realtà le cose non sempre vanno come si vorrebbe. A un certo punto della nostra vita, quando abbiamo veramente bisogno di risposte chiare, chi viene a bussare alla nostra porta di solito è qualcuno che ci porta cattive notizie. Non si può dire che sia sempre così, ma per esperienza so che il più delle volte la notizia è deludente.
Il messaggero porta la mano al berretto con l'aria di scusarsi, ma questo non rende più lieto il contenuto della lettera che ci consegna. Non è colpa sua. Non possiamo prendercela con lui. Non possiamo afferrarlo per il bavero e scuoterlo avanti e indietro. Il poveraccio non fa che svolgere onestamente il compito che gli è stato affidato.
Da chi? Bè, dalla realtà.
E per questo che noi esseri umani abbiamo bisogno di un piano B.
Prima della gara mi sentivo in ottima forma. Mi ero nutrito a sufficienza.
Non provavo più quella strana sensazione nella parte interna del ginocchio.
Quanto alle caviglie, avvertivo ancora un certo dolore, ma nel mio ottimismo non lo ritenevo preoccupante. Ero riuscito a mantenermi in costante allenamento, forse non avevo mai affrontato una gara dopo aver accumulato una tale quantità di regolare esercizio. Quindi avevo la speranza - o piuttosto ero fiducioso - di fare il tempo migliore degli ultimi anni.
Dopodiché, mi dicevo, non mi restava che cambiare in moneta sonante la mia scorta di fiches.
Sulla linea di partenza mi sono messo dietro il battistrada che portava il cartello «3 ore e 45 minuti». Pensavo che non avrei avuto problemi a rispettare quel tempo.
Può darsi che sia stato questo lo sbaglio. Ripensandoci ora, fino al trentesimo chilometro avrei dovuto seguire il battistrada col cartello «3 ore e 55 minuti» e, se a quel punto avessi sentito di poter andare più veloce, accelerare in modo naturale. Forse avrei fatto bene a essere un po' più elastico. Ma in quel momento qualcosa di diverso mi pungolava la schiena, mi mormorava all'orecchio: «Dopo il mazzo che ti sei fatto per allenarti, con il caldo e tutto, se non riesci a tenere questa velocità tanto vale non partecipare.
Sei un uomo, no? Forza allora!» Come quando il gatto e la volpe avvicinano Pinocchio e lo inducono in tentazione.
Inoltre 3 ore e 45 minuti per me fino ad allora era un tempo del tutto normale.
Fino al 25° chilometro ho potuto star dietro al battistrada, poi non ce l'ho più fatta. Mi vergogno ad ammetterlo, ma a poco a poco non riuscivo più a muovere le gambe. Ho cominciato a ridurre gradualmente la velocità. Il battistrada delle 3 ore e 50 minuti mi ha lasciato indietro, quello delle 3 ore e 55 pure. Un disastro. Il battistrada delle 4 ore però non ho lasciato che mi superasse. Dopo aver attraversato il ponte di Madison Avenue e imboccato la larga via diritta che porta da Uptown a Central Park, ho ritrovato un po' di energia, e una piccola speranza di riuscire a riprendermi, ma anche quella in breve tempo è sfumata: quando sono entrato nel parco e ho affrontato la solita ingannevole salita, all'improvviso ho sentito un crampo alla caviglia destra. Il dolore non era tanto forte da obbligarmi a fermarmi, ma sufficiente a ridurre la mia velocità a quella di un podista. Gli spettatori intorno mi incoraggiavano - «go, go!» - e io morivo dalla voglia di correre con tutte le mie forze, ma le mie gambe non ne volevano sapere.
A un tale ritmo, neppure questa volta sono riuscito ad arrivare in meno di quattro ore, per un soffio. E vero che bene o male ho tagliato il traguardo e ho ricevuto, per la ventiquattresima volta, il mio bravo attestato di partecipazione a una maratona. Per farcela ce l'ho fatta, seppure a un livello infimo. Però mi è rimasto un insopprimibile rimpianto, come un brandello di nuvola scura impigliato dentro lo stomaco. Avevo fatto un piano preciso e mi ero allenato al limite delle mie capacità. Non riuscivo a rassegnarmi.
Ce l'avevo messa tutta, perché doveva venirmi quel maledetto crampo?
Non ho intenzione di affermare a questo punto che ogni sforzo deve venire ricompensato equamente, so che non è così, ma se in cielo c'è un Dio, non potrebbe darci ogni tanto un piccolo segno della sua esistenza? Non potrebbe mostrarci almeno questa minima benevolenza?
Dopo circa sei mesi, nell'aprile del 2006, ho partecipato alla maratona di Boston. Nonostante mi sia dato la regola di correrne solo una all'anno, ho voluto riprovare.
Perché il risultato di New York non mi andava giù. Però ho molto ridotto, intenzionalmente, la quantità di allenamento.
A New York, nonostante tutto l'esercizio accumulato, non avevo ottenuto il risultato in cui speravo. Forse perché avevo esagerato. Così questa volta ho deciso di non stabilire un programma speciale, ma semplicemente di correre un po' di più ogni giorno. Fare come mi veniva, insomma, senza prendermela troppo a cuore, senza arrovellarmi su questo e su quello.
Assumere un atteggiamento più distaccato, dirmi: «Tanto è solo una gara... otterrò il risultato che otterrò, si vedrà».
È in questo stato d'animo che ho partecipato alla maratona di Boston. Era la settima volta, quindi il percorso lo ricordavo. Avevo in mente tutto, il numero di salite, l'angolazione delle curve... Sapevo anche grosso modo come dovevo correre, ma questo ovviamente non mi garantiva che sarei andato bene.
Volete sapere che tempo ho ottenuto?
Più o meno lo stesso che a New York. Questa volta, memore della precedente esperienza, nella prima metà della gara ho frenato l'andatura e risparmiato le forze. Guardavo il paesaggio intorno a me, mi godevo la corsa...
Aspettavo il momento in cui mi sarebbe venuto spontaneo dire: «Ecco, ora posso accelerare». Però quel momento non arrivava. Dal 30° al 35° chilometro, cioè fino alla cosiddetta «collina dei cuori infranti», mi sentivo piuttosto in forma. Non si manifestavano problemi di alcun tipo.
Gli amici e i conoscenti che mi aspettavano lungo il percorso per incoraggiarmi, dopo la gara mi hanno detto: «Dalla faccia ci sembravi in ottima forma, Haruki». Anch'io li ho salutati con la mano, sorridendo, e ho attaccato la collina. «Continuando così, -pensavo, - alla fine probabilmente potrò accelerare e fare un buon tempo».
Peccato che dopo aver superato Cleveland Circle ed essere entrato nel centro della città, di colpo le gambe mi siano diventate di legno. Il dolore è arrivato all'improvviso. Crampi non ne ho avuti, ma negli ultimi chilometri, dopo aver attraversato il ponte della Boston University, sono riuscito a mala pena a tener dietro agli altri concorrenti. Altro che accelerare!
Certo ho finito la gara. Sotto un cielo leggermente coperto, ho corso per quarantadue chilometri e centonovantacinque metri senza mai fermarmi, e ho tagliato sano e salvo il traguardo davanti al Prudential Center. Mi sono avvolto in un telo termico color argento e lasciato mettere al collo una medaglia da una volontaria. E subito ho provato il solito senso di sollievo: «Ah, ora non ho più bisogno di correre!» Portare a termine una maratona è sempre un'esperienza fantastica, un risultato bellissimo. Però non ero soddisfatto del mio tempo. Dopo le gare di solito non vedo l'ora di bere tutta d'un fiato una bella birra Sam Adams, ma questa volta neanche la birra mi andava. Mi sentivo spossato fin dentro le viscere.
«Chissà come mai... - ha detto con aria perplessa mia moglie, che mi aspettava al traguardo. - Fisicamente la tua energia non sembra diminuita, e ti sei allenato tanto...» La ragione io non la conosco. Oppure è semplicemente da cercarsi nel fatto che sto invecchiando. O in qualche altro fattore, che ne so... Magari in qualcosa di grave che mi sfugge. Comunque sia, a questo punto il discorso si esaurisce negli «oppure». Come un magro corso d'acqua che venga assorbito silenziosamente dalla sabbia del deserto.
Tuttavia c'è una cosa che mi sento di affermare con una certa sicurezza: fino a quando, al termine di una gara, non sarò di nuovo soddisfatto, non potrò di nuovo dire: «Oh, questa volta ho corso proprio bene! », non mi arrenderò, continuerò a partecipare con impegno alla maratona. Finché le mie condizioni fisiche me lo permetteranno, anche quando sarò decrepito, quando le persone intorno a me mi esorteranno a smettere dicendomi che sono troppo vecchio per correre, me ne infischierò e persisterò. Anche se farò tempi sempre peggiori, continuerò ugualmente a sforzarmi - quanto e se necessario più di ora - per partecipare alla maratona e arrivare al traguardo. Sono fatto così, è nella mia natura, la gente può dirmi quello che vuole. Come lo scorpione punge, come la cicala sta attaccata all'albero, come il pesce ritorna al fiume dove è nato, come le anatre maschio e femmina si cercano l'uno con l'altra.
Per me, e per questo libro, questo proponimento funge da conclusione. Il Theme from Rocky non lo si sente suonare da nessuna parte. Né si vede il tramonto verso il quale dovrei incamminarmi. E una conclusione modesta, come delle scarpe da ginnastica in un giorno di pioggia. A qualcuno parrà forse poco incisiva. Un produttore di Hollywood che volesse trarre un film da questo libro, arrivato all'ultima pagina lascerebbe perdere. Ma tutto sommato sento che è proprio questa la conclusione più adatta a me.
D'altronde, non è che io mi sia messo a correre perché qualcuno mi abbia detto: «Ehi, perché non diventi un maratoneta?» Così come non mi sono messo a scrivere perché qualcuno mi abbia chiesto di diventare uno scrittore.
Un giorno, così, mi è preso il desiderio di scrivere un libro.
E un altro giorno, così, mi è preso il desiderio di correre.
Sono vissuto facendo sempre di testa mia e a modo mio. E non ho cambiato idea neppure quando hanno cercato di farmi desistere, o quando mi hanno aspramente criticato.
Una persona come me può chiedere qualcosa a qualcuno?
Chissà se volgendo gli occhi al cielo posso vedervi un barlume di benevolenza? No, non vedo niente. Soltanto le nuvole estive che si spostano lentamente, senza un pensiero al mondo, al di sopra del Pacifico. Non mi comunicano nulla. Sono sempre silenziose, le nuvole. Ma io non dovrei alzare lo sguardo verso il cielo. E verso di me, all'interno di me, che devo rivolgerlo. Provo a farlo. Mi sembra di guardare in un pozzo profondissimo.
Riuscirò a scorgervi della benevolenza? No, non mi pare. Quella che vedo è la mia natura di sempre. La mia solita natura individualista, cocciuta, poco cooperativa, a volte arbitraria e capricciosa, eppure capace di dubitare di sé, e sempre pronta a trovare un elemento comico - o qualcosa di simile - anche nella propria sofferenza. Con lei, come fosse una vecchia borsa tenuta a tracolla, ho percorso molta strada.
Non me la porto appresso perché mi piaccia. E troppo pesante per me, e nemmeno tanto bella. Qua e là è strappata.
Mi sono rassegnato a tenermela perché non ne ho un'altra di ricambio. E quella che è, ma le sono affezionato.
Ovviamente.
Ed è così che oggi, il 10 ottobre, mi sto allenando al triathlon in una città della provincia di Niigata. In altre parole, continuo a portarmi in spalla la mia vecchia borsa.
Probabilmente diretto verso qualcosa di poco incisivo. Diretto verso una maturità taciturna e barocca - o per esprimermi in maniera più umile, verso il vicolo cieco dove si arresterà la mia evoluzione.