Capitolo primo
5 agosto 2005, isola di Kauai, arcipelago delle Hawaii
Chi può permettersi di ridere di Mick Jagger?
Oggi è il 5 agosto 2005, un venerdì. Isola di Kauai nell'arcipelago delle Hawaii, costa nord. Il tempo è sempre così bello che viene quasi a noia. Al momento non c'è una nuvola in cielo, non c'è nemmeno un'allusione all'idea di nuvola.
Sono arrivato qui alla fine di luglio e come al solito ho preso in affitto un appartamento. Ogni mattino, quando fa ancora fresco, mi metto alla scrivania a lavorare.
Adesso infatti sto scrivendo queste righe riguardo all'atto di correre. Così, come mi vengono. Siamo in estate e quindi fa caldo. E opinione diffusa che alle Hawaii sia sempre estate, ma poiché queste isole si trovano nell'emisfero settentrionale, in realtà ci sono quattro stagioni. Nei mesi estivi fa relativamente più caldo che in quelli invernali, è vero, ma in confronto all'afa di Cambridge nel Massachusetts - una vera tortura, sempre circondati da mattoni e cemento - il clima qui è piacevole. Non c'è nemmeno bisogno di accendere il condizionatore, basta aprire la finestra per far entrare una piacevole brezza. A Cambridge, quando dicevo che avrei passato il mese di agosto alle Hawaii, tutti mi chiedevano sorpresi perché scegliessi proprio l'estate per andare in un posto così caldo. E perché non sanno.
Non sanno quanto gli alisei che soffiano incontrastati da nordovest rendano fresche le estati alle Hawaii. Non sanno che felicità sia per un uomo vivere così, leggere tranquilli all'ombra fresca di una pianta di avocado e ogni tanto, quando se ne ha voglia, fare una nuotata in una baia del Pacifico meridionale.
Da quando sono arrivato alle Hawaii mi alleno quotidianamente.
Sono già due mesi e mezzo che ho ripreso questo stile di vita: correre senza saltare nemmeno un giorno, a meno di qualche impedimento eccezionale. Stamattina ho corso per un'ora e dieci minuti ascoltando sul mio walkman due album dei Lovin' Spoonful che ho registrato su md, Daydream e Hums of the Lovin' Spoonful.
Sono nella fase in cui devo lavorare sulla resistenza e aumentare la distanza che percorro, mentre il tempo che impiego per il momento è irrilevante. Basta che copra in silenzio il numero di chilometri che mi sono prefisso, mettendoci le ore necessarie. Se desidero arrivare più lontano aumento in proporzione la velocità, ma se accelero il ritmo, riduco la durata dell'allenamento, perché l'essenziale per me è ritrovare domani il piacere fisico che provo oggi. Quando scrivo un romanzo è fondamentalmente la stessa cosa. Anche se sento che potrei continuare, a un certo punto poso la penna. Così mi sarà più facile mettermi al lavoro il giorno seguente. Ernest Hemingway ha detto qualcosa di simile.
L'importante è la continuità - non spezzare il ritmo. Nel caso di un'opera molto lunga è fondamentale. Se si riesce a mantenere un ritmo costante, qualche risultato bene o male lo si ottiene. Ma bisogna insistere finché il volano non comincia a girare regolarmente a velocità fissa.
Mentre correvo è caduta un po' di pioggia, per fortuna troppo poca perché il mio corpo ne risentisse e si r affreddasse.
Spesse nuvole sono arrivate dal mare e mi sono passate sopra la testa, lasciando cadere una spruzzata leggera, come se volessero dirmi: «Abbiamo un impegno urgente...» Poi, senza nemmeno voltarsi, se ne sono andate via, verso altri lidi. Il consueto, implacabile sole ha gradualmente ripreso a illuminare la terra. E un clima facile da capire, questo. Nessuna possibilità di interpretazioni derivate, relative o simboliche. Per strada incontro diversi altri corridori. Sia donne che uomini, più o me no in numero uguale. Sono in ottima forma fisica e corrono fendendo l'aria, mentre i loro piedi colpiscono con forza il terreno... Visti da dietro sembrano gente inseguita da un manipolo di rapinatori. Alcuni di loro però sono sovrappeso e appaiono affaticati: tengono gli occhi socchiusi, le spalle basse e ansimano fortemente. Chissà, magari una settimana fa, in seguito a un controllo del livello di glicemia, sono stati severamente ammoniti dal loro medico: «Esercizio fisico, esercizio fisico quotidiano!» Io mi trovo più o meno in una condizione intermedia.
La musica dei Lovin' Spoonful è sempre fantastica, in qualunque momento la si ascolti. Perché non cerca di apparire più grandiosa di quanto sia necessario. Quando ho nelle orecchie questa musica rasserenante, a poco a poco riaffiora il ricordo di tante cose che mi sono capitate verso la metà degli anni Sessanta. Nessuna di questa è particolarmente importante. Se facessero mai un film sulla mia vita - solo a pensarci mi vengono i sudori freddi -, in fase di montaggio verrebbe tagliato quasi tutto. Il regista finirebbe col dire ogni momento: «Bè, questo episodio si può anche eliminare. Non è male, ma nulla di straordinario, no?» Proprio così, sono tutti piccoli eventi banali. Per me però ognuno ha un suo significato preciso e, ripensando all'uno o all'altro, può darsi che mi venga da sorridere, oppure che assuma un'espressione un po' contrariata. E in conclusione - alla fine di quella lunga serie di episodi banali - ora eccomi qui. Sulla costa nord dell'isola di Kauai.
Quando penso all'esistenza umana, a volte ho l'impressione di non essere altro che una zattera arenata sulla spiaggia.
L'aliseo che soffia dal faro fa ondeggiare dolcemente gli alberi di eucalipto sopra la mia testa.
Alla fine di maggio mi sono trasferito a Cambridge, nel Massachusetts, e da allora correre è tornato a essere uno dei momenti essenziali della mia giornata. Mi sono davvero messo d'impegno. Cosa intendo dire con queste parole? Che ogni settimana correvo una sessantina di chilometri, tanto per dare qualche cifra concreta. Cioè dieci chilometri al giorno per sei giorni. In realtà sarebbe stato preferibile allenarmi anche il settimo, ma c'erano le volte in cui pioveva, e quelle in cui non riuscivo a staccarmi dal lavoro.
E altre in cui mi sentivo troppo stanco. Insomma, diciamo che mi prendevo un giorno di riposo settimanale.
Comunque ho corso sessanta chilometri alla settimana, cioè più o meno duecentosessanta al mese, e questo per me significa impegnarsi.
Queste sono le cifre di giugno. In luglio ho migliorato leggermente il ritmo e aumentato un po' la distanza percorsa: sono arrivato a trecentodieci chilometri. Equivalenti a dieci chilometri al giorno, senza riposo settimanale. E ovvio che non sono stato così metodico, a volte erano quindici, altre soltanto cinque. Una media di dieci al giorno, appunto, quelli che si fanno normalmente in un'ora di jogging.
A questo livello si può già parlare di «correre sul serio».
Da quando sono arrivato alle Hawaii ho mantenuto questo stesso ritmo.
Era da molto tempo che non correvo tanto, e in maniera tanto costante e sistematica.
L'estate del New England è molto più opprimente di quanto possa immaginare chi non ne ha fatto l'esperienza.
E vero che ci sono anche giornate fresche e piacevoli, ma spesso l'afa è soffocante, insopportabile. E sei ancora fortunato se soffia un po' di vento.
Appena smette, l'umidità ti si incolla alla pelle come il vapore che sale dal mare, dandoti la sensazione di indossare un vestito bagnato.
Corri per un'ora lungo il fiume Charles, e ti ritrovi fradicio di sudore, quasi ti avessero tirato addosso una secchiata d'acqua. Sotto i raggi del sole senti irritarsi la pelle e intorpidirsi la mente. Non riesci a formulare un solo pensiero coerente. Se malgrado tutto tieni duro e continui a correre, finisci col provare una sorta di disperato sollievo, come se il tuo corpo venisse svuotato di ogni sostanza.
Venendo ai motivi per cui a un certo punto della mia vita ho smesso di «correre sul serio», ce ne sono diversi.
Tanto per cominciare, ero sempre più impegnato con il lavoro, e non riuscivo più a trovare qualche ora libera nel corso delle mie giornate. Non che quando ero giovane avessi a disposizione tutto il tempo che volevo, ma per lo meno non ero oberato da tante incombenze. Incombenze che col passare degli anni, non so perché, tendono a moltiplicarsi.
Altra ragione, dalla maratona il mio interesse si è spostato verso il triathlon. Come sapete, il triathlon si compone di tre prove: nuoto, ciclismo e corsa a piedi. Fondamentalmente io sono un maratoneta e quando si tratta di correre non ho problemi, ma nelle altre due attività, per riuscire a padroneggiarne la tecnica, ho dovuto allenarmi duramente. Acquisire lo stile giusto nel nuoto a partire dagli elementi di base, imparare a pedalare in modo efficace su una bici da corsa, farmi i muscoli necessari. Un processo che ha richiesto tempo e fatica. A questo scopo ho sottratto un certo numero di ore alla corsa. La ragione principale di questa parziale defezione, tuttavia, è da cercarsi nel fatto che a un certo punto della mia vita mi è venuta un po' a noia l'azione stessa di correre.
Sono quasi ventitré anni, da quando ho iniziato nell'autunno del 1982, che mi alleno con regolarità. Faccio jogging quasi ogni giorno, ogni anno partecipo almeno una volta a una maratona completa (finora ne ho contate ventitré) e a un gran numero di gare più brevi in ogni parte del mondo.
Coprire a passo di corsa lunghe distanze è semplicemente consono al mio carattere, mi fa sentire felice. Fra tutte le forme di esercizio fisico cui mi sono dedicato, correre è probabilmente la più piacevole, quella più ricca di significato per me. E tenermi in allenamento per più di vent'anni, senza mai smettere, penso che abbia contribuito a formare e irrobustire sia il mio corpo che il mio spirito.
Non sono una persona portata per le attività di gruppo.
Sono fatto così, che sia un bene o un male. Ogni volta che ho partecipato a una partita di calcio o di baseball (quasi mai, se non durante la mia infanzia), mi sono sempre sentito fuori posto. Può anche darsi che dipenda dal fatto di non avere fratelli, ma non riesco ad appassionarmi ai giochi collettivi. Anche negli sport come il tennis, in cui due avversari si fronteggiano, non si può dire che io mi distingua. Giocare a squash mi piace, ma appena si decide di fare partita, qualunque sia il punteggio che sto ottenendo, stranamente comincio a sentirmi a disagio. Quanto alle varie forme di lotta, le detesto tutte.
E ovvio che in alcune cose anch'io non sopporto la sconfitta, ma di perdere contro un rivale non mi è mai importato molto, fin da quando ero bambino. E diventando adulto ho conservato fondamentalmente lo stesso atteggiamento.
In qualsiasi circostanza, battere un avversario è l'ultima delle mie preoccupazioni. Ciò che piuttosto mi interessa è se riesco o meno a raggiungere gli obiettivi che io stesso mi sono prefisso. In questo senso, correre su lunga distanza è uno sport perfettamente consono alla mia mentalità.
Chi ha partecipato a una maratona lo sa, in gara vincere o perdere contro un concorrente determinato non importa a nessuno. Ovviamente per un campione professionista sarà uno shock vedersi superare da un rivale, ma chi corre per hobby non vi dà molto peso. Ci può essere qualcuno che persegue uno scopo preciso - «non voglio essere da meno di quello lì» -, motivazione che lo sprona ad allenarsi.
Tuttavia, se per qualche ragione quel rivale specifico non può partecipare alla corsa, l'incentivo a correre forse verrà meno, e la carriera del nostro maratoneta non durerà a lungo.
Il corridore non professionista si prefigge a ogni gara un suo obiettivo personale, arrivare al traguardo in tot ore.
Se riesce a realizzare questo tempo, lui - o lei - penserà di aver raggiunto un risultato, ma se fin dall'inizio rinuncia a partecipare, non avrà ottenuto un bel nulla e proverà un senso di frustrazione. E anche nel caso che non riesca a terminare la gara nel tempo che si è prefisso, sarà contento di avercela messa tutta, godrà comunque di un effetto positivo da cui trarrà beneficio la volta seguente, e nel frattempo avrà forse capito qualche profonda verità riguardo a se stesso: un risultato che è già una conquista. In altre parole, sentirsi o meno fieri di sé una volta arrivati al traguardo, per chi corre su lunga distanza, costituisce un criterio di valutazione.
La stessa cosa si può dire che accada nella professione di scrittore. In questo lavoro - per lo meno per quanto mi riguarda - non c'è vittoria o sconfitta. Può darsi che il numero di copie vendute, i premi letterari, le recensioni dei critici costituiscano dei criteri in base ai quali giudicare il risultato, ma non sono l'essenziale. Ciò che conta, più di ogni altra cosa, è che l'opera compiuta corrisponda ai criteri che lo scrittore stesso ha stabilito, e in questa valutazione non gli sarà facile barare. Davanti agli altri bene o male si possono trovare dei pretesti, ma ingannare se stessi è impresa ben più ardua. In questo senso scrivere un libro è un po' come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno.
Correre per me è un ottimo esercizio, e al tempo stesso costituisce una valida metafora. Allenandomi giorno dopo giorno, partecipando a una gara dopo l'altra, miglioro gradualmente i miei record, e in questo processo evolvo anch'io. O per lo meno cerco di evolvere, è a questo scopo che compio sforzi quotidiani. Come corridore non valgo granché, questo è certo.
Sono assolutamente nella media - o forse dovrei dire al di sotto. La mediocrità non costituisce però per me un vero problema. L'essenziale è superare anche di poco il livello raggiunto in precedenza. Se un corridore deve per forza individuare un avversario da battere, lo cerchi nel se stesso del giorno prima.
Peccato che dai quarantacinque anni in poi questo sistema basato sul superamento dei miei propri record a poco a poco abbia cominciato a dare segni di stanchezza. In altre parole, non sono più riuscito ad andare oltre un determinato limite. Considerata la mia età, mi dovevo rassegnare.
Chiunque a un certo punto oltrepassa il picco della propria energia fisica.
Pur tenendo conto delle differenze individuali, in genere si diventa campioni di nuoto prima dei venticinque anni, di boxe prima dei trenta, e a trentacinque un giocatore di baseball varca uno spartiacque invisibile.
E inevitabile. Una volta ho chiesto a un oculista se al mondo ci fossero persone che non diventano presbiti.
«Mah, io non ne ho ancora viste», mi ha risposto lui ridendo.
Per gli artisti è esattamente la stessa cosa (fortunatamente però il picco della creatività varia molto da individuo a individuo: Dostoevskij negli ultimi anni della sua vita, che ne durò sessanta, scrisse due lunghi romanzi densi di significati profondi, I demoni e I fratelli Karamazov, e Domenico Scarlatti nel corso della sua esistenza compose 555 sonate per pianoforte, la maggior parte delle quali fra i cinquantasette e i sessantadue anni).
Per quel che mi riguarda, ho raggiunto il mio picco in quanto corridore intorno ai quarantacinque anni. Fino ad allora riuscivo a correre una maratona completa in tre ore e mezza. Al ritmo di un chilometro ogni cinque minuti, vale a dire un miglio ogni otto. Non sempre ce la facevo entro quel tempo esatto, spesso sforavo, comunque più o meno in tre ore e mezza arrivavo al traguardo. Tre ore e quaranta quando proprio andava male. Superare le quattro ore non era pensabile, anche se ero fuori allenamento o non mi sentivo in forma. Per un lungo periodo i miei risultati si sono mantenuti stabili su queste cifre, poi gradualmente hanno cominciato a calare. Pur esercitandomi come prima, fare il percorso in tre ore e quaranta diventava sempre più difficile, il mio ritmo è sceso a un chilometro ogni cinque minuti e mezzo, la soglia delle quattro ore si avvicinava. Per me è stato uno shock. Cosa mi succedeva ? Non volevo ammettere che fosse a causa degli anni.
Perché era la prima volta che avvertivo, nella vita quotidiana, segnali di declino fisico. Ma per quanto lo negassi, o lo ignorassi, le cifre parlavano chiaro.
L'insoddisfazione mi ha indotto a considerare la possibilità di partecipare a gare meno lunghe della maratona.
Ho cominciato a interessarmi a sport come il triathlon o lo squash, dicendomi che, a forza di correre soltanto, il mio corpo avrebbe finito per deformarsi; che avrei dovuto cercare, piuttosto, di combinare diverse attività sportive, in modo da rendere più armonioso il mio fisico.
Con l'aiuto di un personal trainer ho corretto dalle fondamenta il mio stile nel nuoto, finché sono riuscito a coprire lunghe distanze con maggiore facilità. I miei muscoli si sono adattati con docilità all'ambiente nuovo, e il mio corpo ha cambiato forma in maniera palese. Nel frattempo il mio interesse per la maratona continuava a di minuire, come una marea che si ritiri con lentezza, ma regolarmente.
Correre non era più per me, come un tempo, un puro e semplice piacere, senza riserve. Tra me e la corsa si era instaurata una molle stanchezza. Una stanchezza che includeva un elemento di delusione per gli sforzi che avevo fatto e che non erano stati compensati, quasi un senso di ingiustizia davanti a una porta che avrebbe dovuto restare aperta, e invece, non sapevo quando, si era chiusa.
Ho dato un nome a questo sentimento: runner's blues, l'abbattimento del corridore. Di che genere di abbattimento si tratti ve lo spiegherò più tardi.
Quando sono tornato, dopo dieci anni di assenza, nella città di Cambridge (vi avevo abitato per due anni, dal 1993 al 1995, durante la presidenza di Bill Clinton), trovandomi di nuovo davanti al fiume Charles, ho sentito rinascere dentro di me, non so da quale fonte, il desiderio di correre. Un grande corso d'acqua, se non sono avvenuti mutamenti epocali, appare più o meno sempre uguale, e anche il fiume Charles era rimasto come lo ricordavo. Ormai gli studenti non erano più gli stessi, io ero più vecchio di dieci anni ed è il caso di dire che di acqua sotto i ponti ne era passata tanta.
Soltanto il fiume non era cambiato.
La sua corrente impetuosa avanzava verso la baia di Boston, bagnava le rocce sulle sponde e irrigava l'erba rendendola verde e rigogliosa, nutriva gli uccelli acquatici, scivolava sotto i vecchi ponti di pietra, d'estate rifletteva le nuvole in cielo e d'inverno trasportava masse di ghiaccio; come un'idea che non conosce esitazioni dopo aver superato tante verifiche, se ne andava in silenzio verso il mare, senza fretta, senza mai riposarsi.
Dopo aver sistemato il bagaglio che mi ero portato dal Giappone, sbrigato alcune pratiche burocratiche ed essermi installato in quel nuovo luogo di residenza, ho ripreso a dedicarmi con ardore alla corsa. Ho ritrovato il piacere di correre su un terreno conosciuto, inspirando a pieni polmoni l'aria frizzante del mattino, ascoltando il rumore dei miei passi, il mio respiro e il battito del mio cuore, che insieme creavano un ritmo plurimo e particolare.
Il fiume Charles è una specie di Terrasanta delle regate, e vi si trova sempre qualcuno che rema su una canoa. Facevo la gara con i rematori.
Nella maggior parte dei casi in poco tempo mi superavano.
Qualche volta però gareggiare con una barca che risaliva lentamente il corso del fiume era divertente.
Grazie al suo ruolo di vetrina dei partecipanti alla maratona di Boston, la città di Cambridge ha una popolazione numerosa. Lungo le sponde del fiume Charles ci sono piste ininterrotte, e chi lo desidera può correre fin dove vuole, per tutto il tempo che vuole. Ma trattandosi di piste sia ciclabili che pedonali, bisogna fare estremamente attenzione alle biciclette che sopraggiungono alle spalle a tutta velocità. E bisogna anche badare a non inciampare nelle buche che costellano il terreno. Quanto ai semafori, sono eterni e aspettare che passino al verde è una seccatura tremenda. Ma a parte questi inconvenienti, il percorso è molto piacevole.
Quando corro di solito ascolto musica rock. A volte anche jazz, ma preferisco il rock, è il ritmo che più si addice alla corsa. Il vecchio rock dei Red Hot Chili Peppers e dei Gorillaz, dei Beck, dei Creedence Clearwater Revival e dei Beach Boys. Più semplice è il ritmo, meglio è. Attualmente molte persone usano un iPod, ma io mi trovo bene con il mio md walkman cui sono abituato. L'apparecchio è un po' più grande dell'iPod, e la quantità di dati che contiene minore, ma per me è più che sufficiente. Per il momento non voglio mischiare la musica con la tecnologia informatica.
Così come non metto insieme amicizia, lavoro e sesso.
Come ho detto, in luglio ho corso trecentodieci chilometri.
Ci sono stati due giorni di pioggia, e altri due sono andati persi per il viaggio. E poi si sono susseguite diverse giornate di caldo afoso. In considerazione di questi fattori, correre trecentodieci chilometri per me non era un risultato disprezzabile.
No, niente affatto disprezzabile. Se già una media di duecentosessanta al mese significava «fare sul serio», trecentodieci rispondevano pienamente ai miei criteri.
Quando ho allungato la distanza, ho cominciato a dimagrire: in due mesi e mezzo ho perso sette libbre ed eliminato il grasso che aveva cominciato ad accumularsi intorno alla pancia. Sette libre sono più di tre chili. Immaginate di andare dal macellaio, comprare tre chili di carne e tornare a casa a piedi con il pacchetto in mano. Tanto per farvi un'idea concreta di che peso costituiscano. Al pensiero che me li ero portati addosso per tutti quegli anni, mi sentivo piuttosto confuso. Nella mia vita a Boston non mi sono privato né della birra della Samuel Adams (Sammer Ale) né di Dunkin' Donuts, eppure il moto quotidiano e la perseveranza hanno avuto ragione di entrambi.
Forse parrà un po' assurdo che una persona della mia età, non più nel fiore degli anni, si metta a questo punto della sua vita a fare certe dichiarazioni, ma vorrei dire una volta per tutte, per mettere le cose in chiaro, che io sono uno che ama stare da solo, è nella mia natura. Anzi, per maggior precisione, diciamo che stare solo non mi dispiace.
Correre ogni giorno per un'ora o due senza parlare con nessuno, trascorrere quattro o cinque ore seduto a scrivere in silenzio: non lo trovo né stancante né noioso. E un tratto del mio carattere che ho mantenuto con coerenza fin da quando ero giovane. Più che partecipare a un'attività con altre persone, ho sempre preferito leggere in silenzio un libro, o concentrarmi nell'ascolto di un disco.
Quando sto da solo, se necessario so inventarmi mille modi di passare il tempo.
Tuttavia, da quando mi sono sposato - mi sono sposato giovane, avevo ventidue anni -, poco alla volta mi sono abituato alla convivenza con un'altra persona. Dopo la laurea ho gestito un pub, e ho capito l'importanza delle relazioni con i miei simili. La consapevolezza che non si può vivere sempre in solitudine - cosa in realtà ovvia - l'ho acquisita sulla mia pelle. E con essa anche una certa socievolezza, seppur in forma vaga e distorta. A ripensarci ora, durante il decennio dai venti ai trent'anni la mia percezione del mondo ha compiuto una trasformazione non da poco, e penso di essere evoluto anche in quanto essere umano.
A forza di sbattere la testa da tutte le parti, ho appreso trucchi e tattiche per cavarmela nella vita. Se durante quel decennio non avessi avuto momenti relativamente duri, probabilmente non mi sarei messo a scrivere e, anche se avessi voluto farlo, non ci sarei riuscito. Comunque sia, il carattere di base delle persone non può cambiare in maniera drastica. Il desiderio di solitudine è sempre esistito dentro di me. Quindi correre un'ora al giorno, e garantirmi così un intervallo di silenzio tutto mio, è indispensabile alla mia salute mentale. Per lo meno durante quel lasso di tempo non ho bisogno di parlare con nessuno, di ascoltare nessuno. Basta che contempli il paesaggio, sia quello esterno che quello mio interiore. Questo momento di solitudine è per me più prezioso di qualsiasi altra cosa.
Ogni tanto qualcuno mi chiede a cosa penso mentre corro. Le persone che mi fanno questa domanda di solito non sanno cosa sia la corsa su lunga distanza. Comunque, ogni volta che me lo chiedono, vi rifletto profondamente.
Già, a cosa penso mentre corro? Se devo essere sincero, non me lo ricordo nemmeno io.
Nei giorni freddi, in una certa misura penso al freddo.
Nei giorni caldi, al caldo. Quando sono triste, alla mia tristezza, quando sono contento, alla mia allegria. In una certa misura. Come ho già scritto, mi succede anche di tornare con la mente ad avvenimenti passati, così, senza nesso logico. A volte, ma accade di rado, mi vengono delle idee per i libri che scrivo. Tuttavia posso affermare che non ho pensieri davvero coerenti.
Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto.
O viceversa, è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto. In quella sospensione spaziotemporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano naturalmente nel mio cervello. E naturale, perché nell'animo umano non può esistere il vuoto assoluto. Il nostro spirito non è abbastanza forte per concepire il nulla, e inoltre non è coerente. Insomma, i pensieri che si avvicendano nella mia mente mentre corro sono semplicemente dei derivati del nulla, tutto lì. Si formano ruotando intorno al nulla.
Somigliano alle nuvole che vagano nel cielo. Nuvole di grandezza e forma diverse che arrivano, e se ne vanno, semplici ospiti di passaggio. Ciò che resta è soltanto il cielo, che è sempre lo stesso. Che è qualcosa che esiste, e al tempo stesso non esiste. Che ha una sostanza e al tempo stesso non ne ha. Noi non possiamo fare altro che constatare la situazione -l'esistenza di quell'immenso contenitore - e accettarla.
Adesso sono nella seconda metà della cinquantina. Siamo entrati nel XXI secolo, e io ho superato i cinquant’anni, cosa che quando ero giovane, senza scherzi, non riuscivo nemmeno a concepire. E ovvio che razionalmente davo per scontato che il XXI secolo sarebbe giunto (a meno di qualche evento straordinario) e che a quell'epoca avrei avuto cinquanta e passa anni, ma per il giovane che ero a quel tempo immaginare l'aspetto che avrei avuto a cinquant'anni era impossibile, era come figurarmi concretamente il mondo dopo la morte. Mick Jagger, una volta che gli chiesero se a quarantacinque anni avrebbe ancora cantato Satisfaction, dichiarò che preferiva cento volte morire.
Ora ha superato i sessanta e continua imperterrito a cantare Satisfaction.
C'è gente che ne ride. Io no. Mick Jagger quando era giovane non poteva immaginare se stesso trent'anni dopo. Non ci riuscivo neanch'io, allora come potrei ridere di lui? Lungi da me quest'idea. Io da giovane non ero una rock star di successo. Qualunque sciocchezza abbia detto a quel tempo, nessuno se la ricorda, e quindi nessuno può rinfacciarmela adesso. Le cose non stanno semplicemente così?
Ed ecco che ora mi trovo a vivere in un mondo che non potevo neppure immaginare. Quando ci penso mi sembra davvero strano. Se sia felice o meno di essere in questa situazione non lo so, ma ho l'impressione che farmene un problema non sarebbe una buona cosa. Per me - e probabilmente non soltanto per me - invecchiare è un'esperienza nuova, e anche il sentimento che provo è una novità.
Se l'avessi già sperimentato, almeno una volta, adesso ci vedrei un po' più chiaro, ma poiché non è così, non è facile, credetemi. Di conseguenza non posso fare altro che rimandare a più tardi le analisi circostanziate, accettare così com'è la realtà e nel frattempo continuare a vivere.
Esattamente lo stesso atteggiamento che ho nei confronti del cielo, delle nuvole, dei fiumi. Inoltre ho l'impressione che esista in tutto ciò, senza possibilità di dubbio, una certa comicità, e che da un certo punto di vista questa comicità abbia il suo valore.
Come ho già detto, sia nella vita quotidiana sia in campo professionale, lanciarmi in una competizione con qualcun altro per stabilire chi vale di più e chi meno non è nel mio stile di vita. So di dire una banalità, ma il mondo è bello perché è vario. Ognuno ha il proprio sistema di valori, e in base a questo sistema si comporta nel corso dell'esistenza.
Io ho il mio, ed è quello a cui mi attengo. Questa disparità di opinioni ingenera nella vita di ogni giorno delle piccole sfasature, e può succedere che l'accumulo di tante piccole sfasature porti allo sviluppo di grandi incomprensioni.
Il risultato è che si ricevono critiche prive di fondamento. Di certo non ne nasce nulla di piacevole. Anzi, può accadere di sentirsi profondamente feriti. E questa è un'esperienza molto dolorosa.
Tuttavia, man mano che avanzo negli anni, a poco a poco sono arrivato ad ammettere che dolori e ferite di questo genere in una certa misura sono necessari. A pensarci bene, una persona riesce a costruire la propria personalità e a preservare la propria autonomia proprio perché è differente da tutte le altre. Nel mio caso, tanto per fare un esempio, se riesco a scrivere dei libri è perché in un paesaggio vedo cose diverse da quelle che ci vede un altro, sento cose diverse e scegliendo parole diverse riesco a costruire storie che hanno una loro originalità. Si creano così delle circostanze straordinarie per cui un numero non esiguo di persone si procura i libri in cui queste storie sono narrate e li legge. Il fatto che io sia io, e non un altro individuo, per me costituisce un patrimonio prezioso. Le ferite spirituali non rimarginate sono il prezzo che gli esseri umani devono pagare per la propria indipendenza.
Fondamentalmente è ciò che penso, e quest'idea ha sempre ispirato la mia vita. La solitudine è un risultato che in parte ho cercato di mia spontanea volontà. Soprattutto per chi fa il mio mestiere, è un percorso obbligato, anche se in gradi diversi. Tuttavia il senso di solitudine, come un acido fuoriuscito da una bottiglia, può corrodere e annientare lo spirito di un individuo senza che questi se ne accorga. E una micidiale arma a doppio taglio. Protegge lo spirito, e al tempo stesso dall'interno continua senza sosta a ferirlo. Questo rischio a mio modo credo di averlo accettato, probabilmente grazie all'esperienza. Al tempo stesso però ho cercato di lenire, di relativizzare quel senso di solitudine che mi tenevo dentro costringendomi a un costante esercizio fisico, in qualche caso spingendo il mio corpo fino al limite estremo delle sue possibilità. Più che per cognizione, per intuito.
Voglio fare un esempio concreto.
Quando ricevo una critica immotivata (a mio parere, s'intende), o quando vengo biasimato da qualcuno di cui davo per scontata l'approvazione, correndo copro sempre una distanza un po' più lunga del solito. Così faccio consumare al mio corpo la parte di delusione. E un modo per riconoscere, nel limite delle mie capacità, la mia debolezza di essere umano. Di riconoscerla al livello più basso, quello fisico. E a quel livello i chilometri percorsi in più mi rinforzano, seppure in minima misura. Se mi arrabbio, è bene che sfoghi la collera contro me stesso. Se ho dei pensieri tristi, è bene che me ne liberi da solo. E così, con questa convinzione, che ho sempre vissuto. Ho mandato giù così com'erano le cose che si possono ingoiare in silenzio, e mi sono sforzato di riversarle (esagerandole quanto più possibile) in quel contenitore che è la letteratura, in quanto parte di una storia.
Con un carattere del genere non penso di poter andare a genio a qualcuno.
Forse c'è uno sparuto numero di persone che provano qualche interesse per me. Ma è piuttosto raro che io piaccia. Chi mai può provare simpatia o qualcosa di simile per uno come me, uno che manca del tutto di spirito di collaborazione, che al minimo contrasto va subito a rifugiarsi da solo in un armadio? Mi domando però se uno scrittore di professione abbia davvero, fin dall'inizio, la possibilità di essere simpatico a qualcuno. Non lo so. O forse da qualche parte al mondo questo succede.
Non si può generalizzare. Tuttavia, per lo meno per quel che mi riguarda, non credo sia possibile dedicarmi per mesi e mesi alla scrittura, e al tempo stesso suscitare simpatia su un piano personale. Mi sembra invece più naturale che la gente mi detesti, mi odi o mi disprezzi. Anche se non ho intenzione di dire che quasi lo preferisco. Sarò quel che sarò, ma non c'è alcun motivo perché io sia contento di non piacere ai miei simili.
Comunque questo è un altro discorso. Parliamo invece della corsa.
In conclusione, la corsa è tornata a far parte della mia esistenza. Ho ricominciato a «correre sul serio», è quello che sto facendo adesso. Cosa rappresenti questo ritorno di fiamma per me a questo punto della mia vita, a cinquantasei anni, ancora non lo so. Probabilmente un qualche significato lo avrà. Magari nulla di importante, nulla di profondo, ma di sicuro qualcosa vorrà dire. In ogni caso adesso mi dedico con ardore alla corsa. Al significato posso pensare con calma più tardi (rimandare le riflessioni a dopo è un mio talento personale, che col passare degli anni è venuto affinandosi). Pulisco bene le scarpe da jogging, mi spalmo abbondantemente la faccia e il collo di crema solare, stabilisco il tempo che voglio fare, e via sulla strada!
Mi metto a correre con gli alisei in faccia. E intanto guardo un airone bianco che taglia in diagonale il cielo, le due zampette accostate, e ascolto la musica dei miei amati Lovin' Spoonful.
Pazienza se non riesco a migliorare il mio tempo in gara, non ci posso fare nulla. Mentre corro, all'improvviso formulo questo pensiero: anche io a modo mio sto invecchiando, e il tempo si prende la sua parte. Non è colpa di nessuno. Sono le regole del gioco. Posso soltanto accettarmi così come sono, come parte di un paesaggio naturale.
Come un fiume che scorre verso il mare aperto. Può darsi che non sia un processo piacevole. E il risultato, quando lo vedrò, probabilmente non mi piacerà. Pazienza. Comunque a modo mio sono contento della vita che ho condotto finora - anche se non posso dire di esserne del tutto soddisfatto.
Non che ne vada fiero (non ce n'è davvero motivo), ma non ho una grande intelligenza. Riesco a rendermi conto chiaramente delle cose soltanto quando le percepisco attraverso la mia carne viva, attraverso una materia che posso toccare con mano. Le trasformo in una forma visibile, e solo allora me ne convinco. Più che di intelligenza, sono una persona dotata di capacità costruttiva a livello fisico. Ovviamente ho anche una certa capacità intellettiva. Si, forse ce l'ho. Se ne fossi del tutto privo, non sarei in grado di scrivere opere di letteratura. Ma non sono il tipo di persona che procede ricorrendo a sistemi puramente logici e razionali.
E neppure uno che si alimenta col combustibile della speculazione. Invece mi carico addosso un fardello reale e, facendo gemere i miei muscoli, a volte facendoli addirittura gridare, innalzo concretamente il mio grado di conoscenza finché capisco. Sono fatto così. Non c'è bisogno di dirlo, scalando i gradini uno per volta, mi occorre molto tempo per giungere a cogliere il significato delle cose.
Molta attenzione. Succede anche che ci metta troppo tempo e, quando finalmente comprendo, ormai è troppo tardi.
Ma non ci posso fare nulla. Perché questa è la mia natura.
Voglio pensare ai fiumi. Voglio pensare alle nuvole. Ma in realtà non penso a niente. Semplicemente continuo a correre in un silenzio di cui avevo nostalgia, in un comodo spazio vuoto che mi sono creato da solo. E dicano quello che vogliono, ma è una cosa fantastica!