Capitolo sesto

23 giugno 1996, lago Saroma, Hokkaido

 

Nessuno batteva più sui tavoli, nessuno lanciava più i bicchieri

 

Avete mai corso cento chilometri in un giorno? La schiacciante maggioranza delle persone al mondo - o forse sarebbe meglio dire tutti coloro che hanno un po' di sale in zucca - probabilmente non ha fatto questa esperienza. I normali cittadini sani di mente non fanno certe pazzie. Io si, una volta sola. Ho corso per cento chilometri, in una gara che è durata dal mattino alla sera. Naturalmente alla fine ero mezzo morto, al punto che mi sono detto che con la corsa, grazie tante, avevo chiuso. Quindi credo che non ritenterò mai più un'impresa simile, ma il futuro è imperscrutabile.

Può darsi che l'esperienza non mi abbia insegnato niente e che un giorno raccolga di nuovo la sfida dell'ultramaratona.

Chi può sapere cosa ci riserva il domani?

Detto ciò, se rivango ora i miei ricordi, mi rendo conto che quella gara ha avuto per me, in quanto corridore, un significato profondo. Che genere di significato generale possa esserci nel correre da soli per cento chilometri, non lo so. Però trattandosi di un atto che imprime una forte deviazione alla quotidianità di una persona, senza per questo alterarne il percorso di vita, porta alla coscienza una consapevolezza nuova, degli elementi freschi che aiutano l'introspezione. Il risultato è che la visione della vita forse cambierà, prenderà un altro colore e un'altra forma.

In maggiore o minor misura, in meglio o in peggio.

Nel mio caso questo mutamento è avvenuto.

Qui di seguito ho riportato, rimesse in ordine, le immagini mentali che ho buttato giù per iscritto, prima di dimenticarle, nei giorni successivi alla gara.

Rileggendo quelle pagine a distanza di anni, ho rivissuto le sensazioni provate e i pensieri formulati all'epoca, mentre correvo. Credo che grosso modo sarà chiaro a voi tutti che genere di sentimenti - sentimenti positivi, ma anche, a essere sincero, un po' sconfortanti - abbia lasciato dentro di me quella durissima competizione. Ma può anche darsi che qualcuno pensi: «Certe cose proprio non le capisco! » L'ultramaratona di cento chilometri ha luogo ogni anno in giugno al lago Saroma, nell'Hokkaido, dove non c'è stagione delle piogge. In questo periodo dell'anno il clima dell'Hokkaido è piacevolissimo, ma nella parte settentrionale, dove si trova il lago Saroma, l'estate arriva molto più tardi.

Al mattino, al momento del «via», faceva ancora piuttosto freddo, chi non era ben coperto batteva i denti.

Man mano che il sole si alzava nel cielo i corridori si scaldavano, si toglievano uno dopo l'altro gli indumenti che avevano addosso e li buttavano via, come insetti durante le diverse fasi di una metamorfosi. Io sono rimasto in canottiera e avevo un po' freddo, anche se ho tenuto i guanti.

Se per caso fosse piovuto, la temperatura sarebbe ulteriormente scesa. Ma per fortuna per tutta la giornata non è caduta nemmeno una goccia d'acqua, anche se il cielo è rimasto sempre coperto.

I concorrenti devono fare il giro del lago Saroma, che si trova di fronte al Mare di Okhotsk. Chi ci ha provato sa che si tratta di un lago assurdamente grande. La partenza avviene nella città di Yùbetsu, sulla sponda occidentale, e il traguardo è a Tokoro (attuale Kitami), sulla sponda orientale. Verso la fine del percorso (dall'85° al 98° chilometro) i corridori passano attraverso il Parco floreale di Wakka, una grande riserva naturale in riva al mare. Il paesaggio lungo il percorso - peccato che non si abbia né il tempo né l'energia per guardarlo - è bellissimo. Il traffico non è limitato in alcun modo, ma non è necessario perché sia le automobili sia i passanti sono pochissimi. Ai lati della strada le mucche pascolano tranquille, senza mostrare interesse per i corridori. Sono troppo occupate a brucare erba, non hanno certo il tempo di occuparsi dei movimenti senza senso di qualche scriteriato. D'altra parte nemmeno i corridori hanno il tempo di prestare attenzione alle mucche. Dopo il 42° chilometro, ogni dieci ci sono dei checkpoint che bisogna oltrepassare entro un tempo massimo, pena la squalifica. Sono molti i concorrenti che ogni anno vengono eliminati così. E una competizione sportiva severissima, ma per parteciparvi ero venuto fino all'estremo Nord del Giappone, e l'ultima cosa che desideravo era venire squalificato a metà gara. Dovevo superare in tempo i checkpoint, a qualunque costo.

Questa del lago S aroma è la prima ultramaratona istituita in Giappone, ed è gestita dalla gente del posto in maniera svelta ed efficace. La corsa si svolge in un'atmosfera piacevole.

Sui cinquantacinque chilometri che separano la partenza dal punto di ristoro, non ho quasi niente da dire. Ho semplicemente corso in silenzio, senza trovare molta differenza col mio solito allenamento lungo della domenica mattina. Mantenendo un ritmo di un chilometro ogni sei minuti -mi dicevo - cento li avrei percorsi in dieci ore.

Al massimo in undici, mettendo in conto piccoli imprevisti e anche il tempo per riposare e mangiare. Ho capito in seguito quanto fossero ottimisti i miei calcoli.

Al 42° chilometro un cartello avvisava che lì finiva una maratona regolare. Sull'asfalto era tracciata una linea bianca.

Quando l'ho superata, non esagero dicendo che ho provato un leggero tremito in tutto il corpo. Era la prima volta che correvo più di quarantadue chilometri. Insomma stavo attraversando il mio Stretto di Gibilterra. Da lì in poi mi avventuravo in acque aperte e sconosciute. Cosa mi attendeva al di là, quali strani animali avrei incontrato? Non riuscivo a immaginarlo. Nel mio piccolo, provavo le ansie che avranno agitato l'animo di marinai d'altri tempi.

Dopo aver superato quella linea, man mano che mi avvicinavo al 50° chilometro mi è sembrato di avvertire una sensazione diversa, i muscoli delle gambe si stavano indurendo.

Avevo fame, e sete. Se ci fosse stato un punto di distribuzione d'acqua avrei bevuto, sete o non sete lo avrei fatto comunque, perché la disidratazione mi inseguiva come un infausto destino, come una regina della notte dal cuore pieno di tenebra. Una leggera inquietudine ha attraversato la mia mente. Avevo percorso solo metà della strada, in quelle condizioni sarei veramente riuscito a correre cento chilometri?

Al punto di ristoro dei cinquantacinque chilometri mi sono cambiato, e ho mangiato il leggero spuntino che mi aveva preparato mia moglie. Man mano che il sole si alzava nel cielo la temperatura saliva, quindi mi sono tolto i fuseaux a mezza gamba e ho indossato degli short e una canottiera pulita.

Anche delle scarpe speciali per l'ultramaratona, diversamente equilibrate -credetemi, tali oggetti esistono a questo mondo - più grandi di mezza taglia (dall'8 sono passato all'8,5). Era ora, perché cominciavo a sentire i piedi gonfi e pesanti. Il cielo è rimasto per tutto il tempo coperto, ma non minacciava di piovere, quindi non ho messo il berretto che uso per proteggermi dall'acqua o dai raggi del sole. Non faceva troppo caldo, e neppure troppo freddo, erano le condizioni ideali per coprire a passo di corsa una lunga distanza. Ho inghiottito due dosi nutritive sotto forma di gelatine, ho bevuto per ripristinare la quantità di liquidi nel corpo, ho mangiato del pane al burro e dei biscotti.

Ho fatto un po' di stretching intensivo sull'erba e ho spruzzato dello spray antinfiammatorio sulle caviglie.

Mi sono bagnato la testa, asciugato il sudore e la polvere, poi sono andato alla toilette.

Al punto di ristoro sarò rimasto una decina di minuti, ma sono stato molto attento a non sedermi mai. Perché sentivo che, se l'avessi fatto, non sarei più riuscito a mettermi in piedi e ripartire.

«Tutto bene?» mi ha chiesto qualcuno.

«Bene, bene», ho soltanto risposto. Cos'altro potevo dire?

Dopo aver di nuovo bevuto e fatto altri esercizi di stretching per la metà inferiore del corpo, sono tornato sulla strada e ho ripreso a correre. Dovevo soltanto continuare per i quarantacinque chilometri che restavano fino al traguardo. Ma appena mi sono messo in moto mi sono reso conto che non ero in condizioni di farlo. I muscoli delle gambe erano bloccati, induriti come una vecchia gomma da masticare. Capacità di resistenza ne avevo ancora, e anche la mia respirazione era regolare, per nulla affannata.

Semplicemente le gambe non mi ubbidivano più.

Io volevo correre, ma loro non erano d'accordo.

Non mi restava che lasciare a se stesse quelle due ribelli e provare a cambiare stile, concentrarmi sulla parte superiore del corpo. Gonfiare bene il petto e dare al torso un movimento dondolante che si trasmettesse agli arti inferiori, spostarli in avanti sfruttando quella spinta (col risultato che mi si sono infiammati i polsi). E ovvio che correvo molto lentamente, alla velocità di una persona che cammina a passo spedito. Così facendo però, a poco a poco i muscoli delle gambe hanno ripreso a muoversi, quasi si fossero finalmente svegliati, o rassegnati, permettendomi di correre nuovamente in maniera quasi normale. Per fortuna.

Tuttavia i venti chilometri dal 55° al 75°, fino a quando le mie gambe non si sono risvegliate, sono stati un vero supplizio. La volontà di andare avanti c'era, ma tutto il mio corpo non rispondeva. Mi sentivo come una cotoletta di manzo passata attraverso un tritacarne. O un'automobile cui si voglia far fare una salita con il freno a mano tirato a fondo. Una carretta ormai a pezzi, sul punto di sfasciarsi da un momento all'altro. Senza più olio, le viti allentate, gli ingranaggi del cambio sballati. Avevo rallentato spaventosamente, i concorrenti che arrivavano alle mie spalle mi superavano uno dopo l'altro. Mi è passata davanti persino una signora minuta che avrà avuto una settantina d'anni, gridando per incoraggiarmi: «Si faccia forza!» Bella fregatura, e restavano altri quaranta chilometri!

Come sarebbe finita?

Mentre correvo, diverse parti del corpo hanno cominciato ad accusare dolore, una dopo l'altra. Si alzavano a turno - prima la coscia destra, poi il ginocchio sinistro, poi la coscia sinistra... - e si lamentavano ad alta voce.

Gridavano la propria sofferenza, l'angoscia, la paura, denunciavano la propria condizione di stress. Per loro correre cento chilometri era un'esperienza nuova, e ognuna voleva dire la sua. Come dar loro torto? Ad ogni modo a quel punto non mi restava altro che sopportare in silenzio e finire quella dannata corsa. Cercavo spasmodicamente di convincere le diverse parti del mio corpo, come fecero Danton e Robespierre, a forza di comizi, col comitato rivoluzionario insoddisfatto e pronto a rivoltarsi. Le incoraggiavo, le supplicavo, le sgridavo, le istigavo. Forza, ancora un piccolo sforzo! Dai, tenete duro, non mollatemi proprio adesso! E intanto mi dicevo che a pensarci bene, sia Danton sia Robespierre alla fine avevano lasciato la testa sul patibolo.

Comunque sia, bene o male sono riuscito a percorrere quei venti chilometri. Stringendo i denti, usando ogni mezzo a mia disposizione.

«Non sono una persona, sono una pura e semplice macchina.

E visto che sono una macchina, non ho bisogno di sentire proprio nulla.

Devo solo andare avanti».

Questo ripetevo a me stesso. Ho tenuto duro con quest'unico pensiero in testa. Se mi fossi ricordato di essere fatto di carne e di sangue, probabilmente a un certo punto avrei ceduto alla fatica. La mia persona fisica era li, presente, su questo non avevo dubbi. Ed era presente anche la coscienza di sé che l'accompagnava. Tuttavia per il momento mi sforzavo di credere fossero soltanto figure di comodo.

Era uno strano modo di pensare, e di sentire. Qualcosa provvisto di coscienza che cercava di negarla, questa coscienza. Eppure dovevo obbligarmi a raggiungere, almeno un poco, uno stato di inorganicità.

Istintivamente, mi rendevo conto che era l'unica via per sopravvivere.

«Non sono una persona. Sono una pura e semplice macchina.

E visto che sono una macchina, non ho bisogno di sentire proprio nulla.

Devo solo andare avanti». Mi giravo e rigiravo nella testa queste parole, quasi fossero un mantra. Le ripetevo alla lettera, macchinalmente. E cercavo di restringere il più possibile la parte di mondo che percepivo intorno a me.

Tenevo gli occhi fissi sui tre metri di strada che mi stavano davanti, al di là non vedevo nulla. Provvisoriamente, il mio mondo si limitava a quei tre metri. Il cielo, il vento, l'erba, le mucche che pascolavano, gli spettatori, le grida di incoraggiamento, il lago... e i libri, la verità, il passato, i ricordi... niente, non esisteva più niente. Portare i piedi avanti per i prossimi tre metri, ecco l'unica cosa che avesse un minimo significato per la persona che ero -anzi, per la macchina che ero.

Mi sono fermato a bere a uno dei punti di ristoro organizzati ogni cinque chilometri. A ogni sosta facevo un po' di stretching. I miei muscoli erano duri e tesi come pane avanzato da una settimana. Non li riconoscevo più.

Qualcuno distribuiva umeboshi, ne ho mangiato qualcuno. Mai degli umeboshi mi sono parsi così buoni, il sapore salato e aspro delle prugne in salamoia si spandeva all'interno della mia bocca e lentamente penetrava in ogni parte del mio corpo.

Piuttosto che correre al di là delle mie forze, forse sarebbe stato più saggio camminare. La maggior parte dei concorrenti ricorreva a questa scappatoia. Camminando faceva riposare le gambe. Io invece mi sono rifiutato di farlo. Approfittavo di ogni pausa per fare stretching, ma camminare no. Non era per camminare che mi ero iscritto a quella gara. Era per correre. A questo scopo - unicamente a questo scopo - avevo preso l'aereo ed ero venuto fin lì, nell'estremo Nord del Giappone. Anche se correvo lentissimamente, non dovevo camminare. Era la mia regola.

Se infrangevo una volta una delle regole che mi ero dato io, chissà quante altre ne avrei infrante, e in più non sarei riuscito a portare a termine quella gara.

Così, mentre continuavo a correre stringendo i denti, verso il 75° chilometro ho sentito che venivo fuori da qualcosa.

L'ho percepito chiaramente. «Venir fuori» è l'espressione più adatta, non me ne viene in mente un'altra. Come se il mio corpo fosse passato attraverso un muro di pietra e fosse uscito dall'altra parte. Non ricordo il momento esatto in cui questo è avvenuto. So solo che a un certo punto mi sono ritrovato al di là. E mi sono reso conto che ormai ero libero. Non mi interessava sapere il perché e il percome... semplicemente ero consapevole del fatto che «ne ero fuori».

Da quel momento in poi non avevo più bisogno di pensare a nulla in particolare. O, per essere più precisi, non avevo più bisogno di sforzarmi consciamente di fare il vuoto nella mia testa. Bastava che seguissi il flusso che si era generato. Se vi abbandonavo il mio corpo, qualche forza mi avrebbe spinto in avanti.

Era normale che fossi fisicamente spossato, dopo aver corso per tanto tempo. Ma ormai la stanchezza non era più un problema. Cioè la davo per scontata, forse si trattava soltanto di questo. Anche il comitato rivoluzionario dei muscoli, che prima era insorto, ora sembrava aver rinunciato alla protesta. Accettava senza fiatare la spossatezza come una necessità storica, uno sviluppo rivoluzionario.

Nessuno batteva più sui tavoli, nessuno lanciava più i bicchieri.

E io mi ero trasformato in una specie di robot che si limitava a dondolare a ritmo le braccia, spostare in avanti le gambe. Senza pensare a nulla. Senza porsi domande.

A un certo punto mi sono reso conto che anche la fatica fisica era scomparsa. O meglio, l'avevo spostata in un angolo recondito, come un brutto mobile di cui per qualche ragione non ci si può disfare.

Una volta «venuto fuori», sono riuscito a raggiungere e superare diversi concorrenti. Dopo la barriera del 75° chilometro (bisognava passarla entro otto ore e quarantacinque minuti) molti al contrario di me rallentavano, oppure rinunciavano a correre e si mettevano a camminare.

Prima di arrivare al traguardo penso di essermi lasciato alle spalle forse duecento persone. Almeno duecento le ho contate. Invece sono stato superato soltanto una o due volte.

Se ho tenuto il conto di tutti i concorrenti che ho superato è perché non avevo nient'altro cui pensare. Il fatto obiettivo che avevo attraversato una fase di profonda stanchezza, che l'avevo accettata e in più avevo continuato a correre, era innegabile, e per quel che mi riguardava non avevo nient'altro da chiedere al mondo.

Ormai ero in una condizione paragonabile al pilotaggio automatico: se mi avessero detto di continuare a correre anche dopo il centesimo chilometro, credo che sarei riuscito a farlo. Parrà impossibile, ma alla fine non solo non sentivo più la stanchezza, non potevo neanche formulare pensieri del tipo «chi sono?» o «cosa ci faccio qui?» Non mi rendevo conto, come invece avrei dovuto fare, che c'era in tutto ciò qualcosa di strano. L'azione di correre mi aveva portato in un territorio quasi metafisico. Prima di tutto esisteva la corsa, e in funzione della corsa esistevo io. Corro, dunque sono.

Quando partecipo a una maratona, alla fine ho soltanto un desiderio: arrivare al traguardo il più presto possibile e fermarmi, finire la gara. Non penso a nient'altro. Quella volta nell'Hokkaido, invece, quell'idea non mi ha nemmeno sfiorato. Arrivare al termine costituiva soltanto una spezzatura provvisoria, priva di vero significato. Come nella vita. Il fatto che a un certo punto finisca non basta a darle un senso. Stabilire un punto finale provvisorio è soltanto un espediente, oppure una metafora indiretta della sua natura limitata. Pensieri molto filosofici. In quel momento però non mi sembrava di filosofeggiare. Era qualcosa che comprendevo direttamente con il mio corpo, senza esprimerlo a parole.

Dopo essere entrato nella parte finale, nella lunga penisola del Parco floreale, quella sensazione si è accentuata.

Il mio modo di correre assomigliava a uno stato di meditazione.

Il paesaggio lungo la costa era bellissimo, si sentiva l'odore del Mare di Okhotsk. Ormai era pomeriggio - ero partito il mattino presto - e l'aria aveva una particolare purezza. Anche l'odore dell'erba appena spuntata era forte.

Vidi persino alcune volpi in un prato. Ci guardavano passare con aria stupita. Spesse nuvole minacciose che avrebbero potuto figurare in un quadro inglese del XIX secolo coprivano completamente il cielo. Non c'era un alito di vento. Molte persone intorno a me trascinavano i piedi in silenzio verso il traguardo. In mezzo a loro io provavo un senso di pacata felicità.

Inspiravo, espiravo. Non c'era affanno nel mio respiro. L'aria mi entrava molto dolcemente nel petto, poi ne usciva. Il mio cuore si espandeva e si contraeva silenziosamente a velocità regolare. I miei polmoni, come due mantici instancabili e onesti, portavano nel mio corpo nuovo ossigeno. Li vedevo, li udivo lavorare.

Tutto funzionava alla perfezione, senza problemi.

La gente lungo la strada mi gridava: «Forza, ormai manca poco!» Le loro voci attraversavano il mio corpo come un vento trasparente, riuscivo a sentirle mentre passavano e uscivano dall'altra parte.

Ero io, e non lo ero. Questa è la sensazione che provavo.

Una sensazione molto tranquilla, molto serena. Mi dicevo che la mia coscienza era un'entità irrilevante. In quanto scrittore, quando lavoro non posso prescindere dalla coscienza, è ovvio. Dove non c'è coscienza, non può nascere un racconto soggettivo. Eppure non potevo fare a meno di pensare che la coscienza non fosse qualcosa di importante.

Anche in quello stato d'animo, quando ho tagliato il traguardo a Tokoro mi sono sentito veramente felice. E naturale, si è sempre felici quando si taglia il traguardo di una corsa molto lunga. Questa volta ero anche leggermente esaltato. Ho alzato in aria la mano destra stretta a pugno.

Erano le 4.42 del pomeriggio, dalla partenza erano passate undici ore e quarantadue minuti.

Dopo mezza giornata, finalmente potevo sedermi per terra, asciugarmi il sudore, bere tutta l'acqua che volevo, allentare i lacci delle scarpe e, nella luce che lentamente volgeva al tramonto, far fare alle caviglie uno stretching scrupoloso.

Non avevo compiuto un'impresa di cui andare particolarmente fieri, ma a quel punto un senso di soddisfazione, un miscuglio di gioia e di sollievo mi ha gonfiato il petto, perché mi rendevo finalmente conto di qualcosa: avevo ancora la forza di affrontare di mia spontanea volontà un rischio e di riuscire bene o male a superarlo. Può darsi che il sollievo fosse più forte della gioia. Sentivo sciogliersi a poco a poco dentro di me una sorta di nodo duro e stretto, della cui presenza non ero mai stato consapevole.

Subito dopo la gara al lago Saroma, dovevo scendere la scale piano piano, tenendomi aggrappato al mancorrente.

Le mie gambe erano talmente fiacche che non mi sostenevano.

Ma il dolore in qualche giorno passò e ben presto fui di nuovo in grado di fare le scale normalmente. Avevo sostenuto uno sforzo estenuante, si, ma da molti anni le mie gambe erano abituate a coprire lunghe distanze a passo di corsa. Ciò che mi causava problemi, come ho già detto, erano piuttosto le braccia, che avevo dondolato esageratamente allo scopo di compensare la sofferenza ai muscoli di cosce, ginocchia, polpacci... Il giorno seguente il polso destro prese a farmi male, e divenne tutto rosso e gonfio. Era la prima volta in vita mia che, dopo aver corso a lungo, non erano gli arti inferiori a infiammarsi, ma quelli superiori.

Eppure, fra tutti gli effetti che l'ultramaratona ebbe su di me, quello più rilevante non fu di natura fisica, ma spirituale: un senso di prostrazione.

All'improvviso mi resi conto di essere avvolto come da una pellicola da quello che potevo soltanto chiamare runner's blues - l'abbattimento del corridore (che dal punto di vista sensoriale, più che blu, è di un colore vicino al bianco sporco). Dopo quella competizione, riguardo all'atto di correre in sé non provavo più lo stesso spontaneo entusiasmo di prima. E vero che stentavo a togliermi di dosso la stanchezza fisica e mentale, ma c'era dell'altro. Non riuscivo più a trovare dentro di me quello stimolo che mi faceva dire: «Voglio correre». La ragione non la conoscevo. Ma era una verità difficile da negare. Mi era successo qualcosa. Anche nel mio jogging giornaliero, il numero di chilometri diminuì.

Dopo di allora, ho comunque continuato a partecipare ogni anno a una maratona. Non c'è bisogno di dire che non si può correre una maratona fino alla fine se la si prende alla leggera. Quindi ogni volta mi sono allenato scrupolosamente, e ogni volta sono arrivato puntualmente al traguardo. Però la mia partecipazione emotiva si limitava solo a quell'occasione specifica.

Dentro di me, nel profondo, si era installato un elemento estraneo. Non soltanto perché la voglia di correre si era affievolita. Avevo perso qualcosa, e al tempo stesso nella mia coscienza di corridore era nato qualcosa di nuovo. E probabilmente nel processo di scambio si era ingenerato quell'abbattimento per me inusuale.

Cos'era l'elemento nuovo sorto dentro di me? Non riesco a trovare un vocabolo che lo definisca con esattezza, ma forse l'espressione «chiara visione» ci si avvicina. Al termine di quella maratona di cento chilometri, mi ero per così dire inoltrato in un «territorio diverso». Dal 75° chilometro in poi la stanchezza era scomparsa di colpo e la mia coscienza si era svuotata, e in questa evoluzione c'era un significato filosofico, o forse religioso. Qualcosa che mi obbligava all'analisi interiore. Così non nutrivo più nei confronti del correre quel semplice, approssimativo ottimismo di prima.

O forse no, forse non era una cosa tanto drammatica.

Forse mi ero semplicemente un po' stufato di correre. Avevo corso troppo, per troppi anni. E poi andavo avvicinandomi ai cinquanta, e le mie facoltà fisiche si trovavano di fronte a una barriera difficile da eludere, quella dell'età. Probabilmente avevo la sensazione concreta di aver superato l'apice della mia energia. Magari stavo attraversando un'età critica per l'uomo, l'equivalente maschile della menopausa, e dovevo emergere dalla depressione spirituale che essa comportava.

Oppure avevo messo insieme tutti questi elementi per creare un cocktail negativo di natura sconosciuta. Per me, che ero il diretto interessato, sviscerare e analizzare obiettivamente tale processo non era possibile.

Comunque l'ho chiamato «abbattimento del corridore».

Aver corso fino in fondo tutta l'ultramaratona, va da sé, è stata per me una grande gioia, una gioia che mi ha dato fiducia in me stesso. Ancora oggi sono convinto di aver fatto bene a partecipare a quella gara. In seguito, però, è successo qualcosa che si può chiamare un «sintomo postumo». Per un lungo periodo non sono riuscito ad accettare il mio declino in quanto maratoneta - benché non potessi vantare un passato glorioso. A ogni competizione cui partecipavo facevo un tempo sempre peggiore.

Sia gli allenamenti che le gare, a prescindere da piccole differenze, erano diventati tutti uno stesso rito ripetitivo che non mi faceva più tremare il cuore. La quantità di adrenalina che producevo il giorno della gara sembrava scesa di un grado. Anche per questa ragione il mio interesse si è spostato dalla maratona a una nuova sfida, il triathlon, e allo squash che pratico con entusiasmo in palestra. Di conseguenza il mio stile di vita a poco a poco è cambiato. Sono arrivato a concepire l'idea che correre non è tutto nella vita, constatazione se vogliamo evidente. Insomma, in maniera non del tutto conscia, ho preso le mie distanze dalla corsa. Come da un amore che ha perso l'ardore irragionevole dei primi tempi.

Quindi, ora che sto superando l'abbattimento del corridore, mi sento come se stessi emergendo da una foschia che mi ha avvolto per lungo tempo. Non me ne sono liberato del tutto, ma comincio ad avvertire segnali di un nuovo inizio. Quando al mattino mi metto le scarpe da jogging, riesco a sentire come un leggero movimento interiore. Intorno a me, e dentro di me, l'aria ha cominciato a smuoversi, questo è certo. Voglio coltivare con ogni cura questo piccolo germe. Voglio concentrare il mio spirito su quanto avviene nel mio corpo, in modo da non lasciarmi sfuggire il minimo suono, la minima immagine, il minimo impulso.

Adesso, finalmente in maniera del tutto onesta, ogni giorno corro e accumulo chilometri per la prossima maratona.

Intendo aprire un quaderno nuovo, una boccetta d'inchiostro nuova e scrivere parole nuove. Perché provi per la seconda volta questo slancio, non saprei spiegarlo.

Forse l'antica passione è rifiorita perché sono tornato nella città di Cambridge, e sul fiume Charles. Insieme a questo paesaggio di cui avevo nostalgia, ho ritrovato il ricordo dei giorni in cui mi godevo la corsa senza pensieri. O magari è soltanto un fattore temporale. Dentro di me è avvenuto un progressivo e inevitabile aggiustamento, e il periodo necessario al suo completamento è finalmente finito; forse mi succede soltanto questo.

Come ho già detto, mentre scrivo penso, come probabilmente fanno tutti gli scrittori di professione. Non è che metta per iscritto le cose che ho pensato, le penso mentre le scrivo. Le mie idee prendono forma nell'atto stesso di scrivere. E rivedendo quanto ho scritto approfondisco le mie riflessioni. Però succede anche, naturalmente, che per quanto porti avanti il discorso, non arrivi a una soluzione, che per quanto riveda il testo, non raggiunga il mio obiettivo.

E ciò che mi sta succedendo adesso, per esempio. In questi casi non mi resta che formulare un certo numero di ipotesi. O parafrasare uno dopo l'altro i miei dubbi stessi.

Oppure paragonare strutturalmente a qualcos'altro l'insieme di quei dubbi.

A essere sincero, non riesco a capire per quali ragioni e in quali circostanze l'abbattimento del corridore si sia insinuato dentro di me. E per quali ragioni e grazie a quali circostanze adesso si stia dissolvendo, stia per sparire. Per il momento la spiegazione mi sembra lontana. In conclusione, ciò che posso dire è soltanto questo: forse la vita è così.

Forse è una cosa che dobbiamo semplicemente accettare, a prescindere da ragioni e circostanze. Come le tasse, come i flussi delle maree, come la morte di John Lennon, come un errore dell'arbitro durante i campionati del mondo.

Ad ogni modo molti mesi sono passati, e ho la sensazione che si sia compiuto un ciclo. Correre è tornato a essere un piacere quotidiano, una componente indispensabile delle mie giornate. Ormai sono quattro mesi che faccio jogging ogni giorno senza saltarne uno solo. E non è una semplice routine o un rito fisso. E il mio corpo che mi chiede in modo naturale di uscire per la strada e mettermi a correre. Così come sento il bisogno di frutta fresca e succosa quando ho sete. Ho proprio voglia di vedere come mi comporterò alla maratona di New York del 6 novembre, quanto mi piacerà, quanto mi convincerà.

Il tempo che farò non è un problema. Ormai, per quanto mi sforzi, non riesco più a correre come una volta. Lo ammetto volentieri. Non è piacevole dirlo, ma invecchiare significa proprio questo. Come io svolgo il mio ruolo, così il tempo svolge il suo. E lui lo fa in modo molto più onesto, molto più preciso di me. Perché dal momento in cui si è generato - chissà quando - ha continuato ad avanzare senza fermarsi un attimo. E le persone tanto fortunate da non morire giovani hanno il privilegio di invecchiare con regolarità, cosa di cui dovrebbero essere grate. L'onore del declino fisico è in attesa. E una verità che dobbiamo accettare, alla quale ci dobbiamo abituare.

L'importante per me non è competere contro il tempo, ma sapere con quanta facilità riuscirò a correre tutti i quarantadue chilometri della maratona, quanto piacere proverò, queste sono le cose che vanno acquistando sempre maggior significato. Imparerò ad attendere con gioia, ad apprezzare qualcosa che non si può calcolare in cifre. E cercherò a tastoni un risultato di natura nuova da cui trarre orgoglio.

Non sono un giovincello insensato che sfida i record, e neppure una macchina inorganica. Sono semplicemente uno scrittore professionista che, pur conoscendo i propri limiti, si sforza di conservare il più a lungo possibile le sue capacità e le sue energie.

Alla maratona di New York manca soltanto un mese.