Capitolo quarto
19 settembre 2005, Tòkyo
Correre per la strada ogni mattina mi ha insegnato molto riguardo alla scrittura
Il 10 settembre ho lasciato l'isola di Kauai e sono tornato a Tòkyo, dove intendo fermarmi soltanto due settimane.
Vado e vengo in auto fra l'appartamento di Tòkyo che uso come ufficio e la mia casa nella provincia di Kanagawa.
Naturalmente non ho smesso di correre ma, poiché è molto che manco dal mio Paese, devo occuparmi di faccende arretrate di vario genere. Sistemare tante cose una per una.
Devo anche incontrare diverse persone. Quindi per tutto il mese non potrò allenarmi quanto vorrei, ma penso di riuscire comunque a trovare il tempo per fare delle lunghe corse.
Ne ho già fatte due di venti chilometri e una di trenta.
Mantenendo così la media di dieci chilometri al giorno.
Mi esercito con particolare insistenza sulle salite. Intorno alla mia casa seguo un percorso che ne include parecchie - forse equivalenti in tutto all'altezza di un palazzo di quattro o cinque piani - e l'ho fatto undici volte di fila. In un'ora e quarantacinque minuti. Sono giornate terribilmente afose, e patisco l'umidità. Il percorso della maratona di New York è quasi tutto in pianura, ma bisogna passare su sette grandi ponti e, dal momento che sono tutti ponti sospesi, la parte centrale resta più alta. Ho già corso tre volte a New York, ma quel leggero salire e scendere l'ho sentito nelle gambe più di quanto mi aspettassi.
Poi, in riserva per l'ultimo tratto, in Central Park salite e discese si fanno più ripide e qui finisco sempre col rallentare.
Le stesse salite, quando faccio jogging al mattino, mi sembrano dolci pendii innocui ma, quando le affronto verso la fine di una maratona, si ergono davanti a me come muri. E si portano via senza pietà l'ultima forza d'animo che avevo ancora in riserva. Ho un bel farmi coraggio dicendomi che fra poco arriverò al traguardo, ho l'impressione di non arrivarci mai. Ho sete, ma il mio stomaco non domanda altro liquido. E a questo punto che le mie gambe cominciano a levare grida di dolore.
Nei percorsi accidentati, non è che io sia proprio una schiappa. Anzi, nelle salite di solito supero diversi corridori, quindi in genere sono contento di trovarne qualcuna lungo il percorso. Le ultime in Central Park, però, mi lasciano sempre esausto. Quanto mi piacerebbe correre gli ultimi pochi chilometri con facilità - si fa per dire -, lanciarmi con tutte le mie forze in uno sprint finale e tagliare il traguardo sorridendo! Ecco, questo è uno degli obiettivi della prossima maratona.
Una delle regole fondamentali di un allenamento intensivo è che si può anche diminuire la quantità complessiva di esercizio, ma non bisogna mai riposare due giorni di seguito.
I muscoli, come gli animali da fatica, hanno buona memoria. Se vengono abituati gradualmente, con prudenza, a portare il carico, vi si adattano con facilità. Se li si persuade dando loro ogni giorno un compito concreto, chiedendo loro di svolgere gentilmente per noi una certa quantità di lavoro, si fanno coraggio e rispondono alla domanda usando a poco a poco sempre più energia. Ovviamente ci vuole tempo. Se li si forza non si ottiene nulla.
Ma se ci si mette tutto il tempo necessario, e si avanza gradino per gradino, diventeranno più docili, più pazienti e non solleveranno obiezioni - anche se a volte non avranno l'aria contenta.
Bisogna far assimilare ai nostri muscoli, a forza di ripeterlo, il concetto che c'è tot lavoro da fare. I muscoli sono onesti. Se li trattiamo equamente, non protestano.
Ma se per alcuni giorni di fila non si fa portare loro alcun carico, automaticamente si monteranno la testa, penseranno: «Oh, bene, non abbiamo più bisogno di farci il mazzo!» e non daranno più il massimo della loro potenza.
I muscoli, come tutti gli esseri viventi, possibilmente vorrebbero vivere senza faticare troppo quindi, se non vengono caricati di un fardello, si rilassano e dimenticano le buone abitudini. E una volta che la memoria è svuotata, per riempirla di nuovo bisogna ricominciare tutto da capo.
Ovviamente hanno bisogno di pause per riprendere fiato. Tuttavia in questo periodo cruciale, con la gara in vista, è necessario dare loro delle direttive ferree. Trasmettere loro un messaggio chiaro: «Badate bene, questa non è una faccenda da poco! Dobbiamo mantenere fra noi un rapporto di tensione massima, al limite del cedimento». Tutti i corridori che hanno una certa esperienza sanno benissimo, l'hanno capito da soli, come funziona questo scambio.
Nell'intervallo di tempo in cui mi trovo in Giappone esce un mio nuovo libro, la raccolta di racconti Tòkyo Kidanshù («Storie curiose di Tòkyo»), e devo rilasciare diverse interviste. Devo correggere le bozze di un libro di critica musicale che sarà in libreria in novembre e discutere con i redattori riguardo alla copertina. Molte ore se ne vanno per revisionare la mia vecchia traduzione delle opere complete di Raymond Carver, che verranno ripubblicate in edizione tascabile. Devo anche scrivere una lunga prefazione alla raccolta che uscirà l'anno prossimo negli Stati Uniti col titolo Blind Willow, Sleeping Woman. E trovo pure il tempo di scrivere regolarmente queste pagine sulla corsa - anche se in realtà nessuno mi ha chiesto di farlo.
Ci sono inoltre alcune pratiche amministrative da sistemare.
La ragazza che lavorava come assistente nell'ufficio di Tòkyo mentre io e mia moglie vivevamo in America ci ha annunciato di punto in bianco che entro dicembre ci lascia, perché all'inizio dell'anno prossimo si sposa, così dobbiamo cercare qualcuno che la sostituisca. Né possiamo permetterci di chiudere l'ufficio in questo momento, dovendo organizzare una serie di conferenze che terrò a Cambridge all'università.
La programmazione di questi eventi mi tiene molto occupato.
E intanto devo continuare a prepararmi per la maratona di New York.
Insomma vorrei potermi sdoppiare.
Ad ogni modo tra una cosa e l'altra continuo ad allenarmi.
Correre ogni giorno per me è una fonte di vita, quindi non è concepibile che faccia pause o smetta col pretesto che sono oberato di lavoro. Se dovessi rinunciare perché ho troppe cose da fare, di sicuro finirei per non correre più per tutta la vita. Di motivi per continuare ne ho pochissimi, ma di ragioni per non smettere ne ho tante da riempire un camion a rimorchio.
Non resta che coltivare con cura quei «pochissimi motivi». Trovare il tempo per continuare a farlo sempre e ovunque.
Quando mi trovo a Tòkyo di solito corro nel parco di Jingù Gaien, sulla pista circolare che si trova accanto allo stadio. Il luogo non è certo paragonabile al Central Park di New York, ma è comunque un bellissimo spazio verde, uno dei pochi nel centro della città. Sono tanti anni che vado lì a correre e ho ben chiaro in testa ogni particolare del percorso. Ne conosco a memoria ogni sporgenza, ogni differenza di livello. Quindi per allenarmi è perfetto, perché mi permette di concentrarmi sulla velocità. Il problema è che il traffico intorno è spaventoso, in certe ore della giornata sono numerosi anche i pedoni, e l'aria è irrespirabile.
Però è nel centro di Tòkyo, cosa potrei volere di più? Sono già fortunato ad avere un posto dove correre vicino a casa.
Il circuito di Jingù Gaien è comodissimo, misura 1325 metri ed è dotato di un segnalatore ogni cento metri.
Quando decido di coprire una determinata distanza - cinque chilometri e mezzo, cinque, quattro e mezzo - uso sempre questa pista. Ho iniziato a correre qui, e all'epoca ci veniva anche Seko Toshihiko, che si allenava assiduamente per prepararsi alle Olimpiadi di Los Angeles, con un'espressione spasmodica sul volto. Nella sua mente c'era soltanto l'oro lucente di una medaglia. Per lui che non aveva partecipato alle precedenti Olimpiadi - quelle di Mosca, boicottate dal Giappone per ragioni politiche -Los Angeles rappresentava l'ultima chance di vincere una medaglia.
Fluttuava intorno a lui come un'aura patetica, la si vedeva chiaramente nei suoi occhi mentre correva.
All'epoca Nakamura, l'allenatore dei corridori della S&B, era ancora in buona salute, e nella squadra c'erano atleti veramente bravi, in grado di battere chiunque. Si allenavano ogni giorno su quel circuito nel parco di Jingù, così a forza di incrociarci avevamo preso l'abitudine di salutarci con un cenno del capo. Una volta, quando si esercitavano a Okinawa, mi hanno persino permesso di seguirli per raccogliere materiale per un articolo su di loro. Il mattino facevano jogging ognuno per conto proprio, prima di andare in ufficio, poi il pomeriggio si allenavano in gruppo. Dal momento che anch'io mi recavo lì a correre ogni mattina prima delle sette (all'epoca c'era meno traffico, passavano poche persone e l'aria era relativamente pulita), mi capitava di incrociare qualche atleta della S&B che si esercitava da solo. Ci salutavamo con uno sguardo, nei giorni di pioggia ci scambiavamo un sorriso, come per dirci l'un l'altro: «Certo che è una bella fatica!» Ne ricordo bene due in particolare, due giovani, Taniguchi Tomoyuki e Kanei Yutaka.
Dovevano avere entrambi tra i venticinque e i trent'anni, venivano dalla squadra di atletica di Waseda e da studenti si erano distinti nella staffetta di Hakone. Quando il ruolo di istruttore passò a Seko, divennero delle giovani speranze della S&B. Penso che potessero aspirare a una medaglia olimpica, resistevano all'allenamento più duro. Purtroppo però, durante un campo estivo nell'Hokkaido, ebbero un incidente stradale e morirono insieme.
Avevo visto con i miei occhi fino a che punto si erano esercitati, quindi la notizia della loro morte fu per me uno shock terribile. Un grande dolore, che mi ha lasciato un rimpianto sincero.
Non li conoscevo personalmente. Si può dire che non ci siamo quasi mai parlati. Ho saputo solo dopo la loro morte che entrambi erano sposati da poco. Ma per averli visti ogni giorno sullo stesso circuito, corridori su lunga distanza come me, sentivo che c'era fra noi, a modo nostro, una certa intesa emotiva. Perché ci sono cose che si capiscono soltanto fra maratoneti, anche se di livello atletico molto diverso. Io la penso così.
Ancora oggi, quando corro di prima mattina sulla pista di Jingù Gaien o su quella intorno ad Akasaka Goshó, a volte mi tornano in mente quei due ragazzi. A ogni curva, mi sembra quasi di vedermeli venire incontro, di vederli correre in silenzio soffiando fiato bianco dalla bocca. E ogni volta mi chiedo dove siano andati a finire i loro pensieri, le loro speranze, i loro sogni. E dire che si erano sottoposti a un allenamento tanto duro... I pensieri delle persone svaniscono dunque così, nel nulla, con la morte fisica?
Quando sono a casa, nella provincia di Kanagawa, mi alleno in maniera diversa. Come ho già detto, seguo un percorso che include diverse salite piuttosto ripide. Ne esiste anche un altro che si può fare in tre ore, perfetto per prepararsi alla maratona. E quasi tutto piatto, costeggia la riva del fiume e quella del mare, è chiuso al traffico e ha pochissimi semafori. L'aria, a differenza di quella di Tòkyo, è pulita. Correre da solo per tre ore non è molto divertente, lo ammetto, ma è una cosa cui sono preparato.
Arrivo fino a un certo punto, poi faccio dietro front, e nel frattempo mi godo la musica, tranquillo. Però, una volta che inizio, non posso smettere quando voglio, quando sono stanco. Devo per forza arrivare fino a casa, anche a costo di strisciare. Comunque non si può dire che l'ambiente non sia gradevole.
Ora vorrei tornare alla scrittura.
Quando rilascio un'intervista, a volte mi viene posta la domanda: «Qual è la qualità più importante per uno scrittore?» La qualità più importante per uno scrittore, non c'è nemmeno bisogno di dirlo, è il talento. Se uno non ha il minimo talento letterario può scervellarsi finché vuole, metterci tutto il suo ardore, non scriverà mai nulla di valido.
Più che una qualità necessaria, questa è una condizione preliminare.
Senza carburante, anche l'automobile più bella non va avanti.
Il problema però con il talento, nella maggior parte dei casi, è che chi lo possiede non riesce a controllarne bene la quantità e la qualità. Mettiamo che uno pensi: «Non ne ho abbastanza, devo potenziarlo», oppure: «Meglio economizzarlo, farlo durare il più a lungo possibile usandolo poco per volta...» Bè, le cose non funzionano così. Il talento se ne frega delle nostre intenzioni. Fa di testa sua, viene fuori quando gli pare e piace, finché c'è, poi quando è esaurito non si fa più vedere. E vero che bruciare in breve tempo un talento straordinario e fare una morte drammatica in giovane età -al pari di Schubert, di Mozart, di alcuni poeti e cantanti rock -, diventare un mito insomma, è un destino che affascina, ma per la maggior parte di noi non credo costituisca un modello di vita.
Se mi chiedessero qual è la qualità più importante per uno scrittore dopo il talento, direi senza esitare la capacità di concentrazione. La facoltà intellettuale di riversare tutto il talento di cui siamo dotati, intensificandolo, su un unico obiettivo. Chi non è capace di fare questo non riuscirà a portare a compimento nulla di buono. Invece usando in maniera efficace l'energia mentale, in una certa misura si compensa un talento carente. Io di solito mi concentro nel lavoro tre o quattro ore al giorno, al mattino. Mi siedo alla scrivania, e rivolgo la mia mente soltanto a ciò che voglio scrivere. Non penso a nient'altro. Non vedo nient'altro. Uno può avere tutto il talento che vuole, avere la testa piena di splendide idee, ma se per caso ha un terribile mal di denti - tanto per fare un esempio - non riuscirà a scrivere un bel niente. La capacità di concentrazione viene azzerata dal dolore. Ecco cosa intendo quando dico che chi ne è privo non può portare a compimento nulla.
Dopo la capacità di concentrazione, viene la perseveranza.
Ammettiamo che uno riesca a concentrarsi nella scrittura per tre o quattro ore al giorno: se dopo una settimana si stufa, non potrà mai creare un'opera di una certa lunghezza. A uno scrittore - per lo meno a chi non si accontenta di buttar giù poche pagine - occorre la capacità di continuare a concentrarsi giorno dopo giorno per sei mesi, un anno, due anni di fila. Facciamo un parallelo con la respirazione. Supponendo che concentrarsi consista semplicemente nell'azione di trattenere il respiro in fondo ai polmoni, persistere significa imparare il trucco per respirare piano, lentamente, pur continuando a trattenere il respiro. Se non si riesce a trovare un equilibrio tra queste due modalità, sarà difficile continuare a scrivere per molti anni in maniera professionale. Trattenere il respiro, e continuare a respirare.
Per fortuna la capacità di concentrazione e la perseveranza, al contrario del talento, con l'allenamento si possono acquisire e coltivare, anche potenziare. Si svilupperanno naturalmente esercitandosi ogni giorno a stare seduti alla scrivania e a focalizzare la propria attenzione su un punto. Come ho già detto, questo processo è simile all'allenamento muscolare. Bisogna inviare di continuo al nostro organismo, e farglielo assimilare bene, il messaggio che ci è necessario scrivere senza interruzioni, lavorare concentrandoci giorno dopo giorno. Poi gradualmente spostare il limite più in là. Aumentare a poco a poco, in modo quasi impercettibile, la quantità. E sempre lo stesso processo, che si tratti di scrivere o di irrobustire i muscoli e trasformare il nostro corpo correndo quotidianamente. Stimolarsi, e perseverare. Stimolarsi, e perseverare. E ovvio che occorre molta pazienza.
Ma si tratta solo e semplicemente di questo.
Quello straordinario autore di gialli che fu Raymond Chandler confidava in una lettera: «Anche se non scrivo niente, ogni giorno mi siedo comunque diverse ore alla scrivania e mi concentro», e io capisco benissimo con quale intenzione lo facesse. In quel modo Chandler allenava metodicamente i muscoli necessari alla propria professione, e rafforzava la propria volontà.
Un allenamento quotidiano che gli era indispensabile.
Scrivere un romanzo, fondamentalmente, è una sfacchinata, io ne so qualcosa. In sé, l'atto di redigere delle frasi è forse uno sforzo mentale. Ma scrivere fino in fondo un libro intero è qualcosa che si avvicina alla fatica fisica.
Naturalmente non richiede esercizi preparatori come sollevare pesi, correre per chilometri o saltare a grande altezza.
Di conseguenza la maggior parte della gente, giudicando solo dall'apparenza, pensa che il lavoro dello scrittore sia un'attività tranquilla, puramente intellettuale. Basta che uno abbia la forza di sollevare una tazzina di caffè, e prima o poi scriverà qualcosa. Quando si prova a farlo sul serio, però, ci si rende conto che scrivere un romanzo è tutt'altro che riposante. Dovrebbe essere una cosa evidente.
Seduti alla scrivania, si focalizzano i nervi su un punto, si solleva la fantasia dal livello terra come un raggio laser, si fa nascere una storia, si scelgono le parole a una a una, si mantengono tutti i fili della trama nella posizione giusta - questo genere di lavoro richiede per un lungo periodo di tempo una quantità di energia molto maggiore di quanto di solito si pensi.
Non ci si muove concretamente, eppure si fa uno sforzo che consuma carne e ossa all'interno del corpo. E ovvio che è la testa, il cervello, a formulare i pensieri. Ma lo scrittore assimila quell'apparato che si chiama «racconto» e lo pensa con tutta la propria persona, azione che lo obbliga a usare la propria resistenza fisica in misura adeguata - in molti casi a sfruttarla senza pietà.
Gli scrittori benedetti da un talento naturale possono compiere quest'impresa quasi inconsciamente, in alcuni casi senza nemmeno saperlo.
Soprattutto da giovani, se il loro talento supera un certo livello, non hanno alcuna difficoltà a scrivere a lungo. Riescono a eliminare i problemi con estrema facilità. Essere giovani significa traboccare di energia. Non c'è bisogno di cercare quasi nulla. Capacità di concentrazione e perseveranza, se necessarie, arrivano da sole. Essere giovani e di talento equivale ad avere le ali sulla schiena.
Tuttavia questa libera prodigalità, man mano che viene meno la giovinezza, a poco a poco perde il suo splendore e il suo naturale vigore.
Ciò che un tempo si riusciva a fare senza sforzo, superata una certa età costa sempre maggior fatica. Nello stesso modo in cui una palla a poco a poco perde velocità anche se a lanciarla è un campione.
Naturalmente è possibile che la maturità compensi il calo di talento. Così come il bravo lanciatore a partire da un certo momento si trasforma in un giocatore d'intelletto, maestro nel tirare palle viziose. Però in questo processo c'è un limite. E anche l'ombra - si può sospettare - di un senso di perdita.
Al contrario, gli scrittori che non hanno la fortuna di possedere uno straordinario talento naturale - o diciamo quelli che raggiungono un livello appena sufficiente - fin da giovani devono acquisire a proprie spese una certa energia fisica. Con l'allenamento riusciranno a sviluppare capacità di concentrazione e perseveranza. E per loro sarà necessario usarle - entro certi limiti - in sostituzione del talento. Ed ecco che mentre si resiste con tutte le proprie forze, succede di incontrare per caso il vero talento che se ne stava acquattato dentro di sé. Mentre si scava con una pala una buca ai propri piedi sudando sette camicie, ecco che per caso si scopre una vena d'acqua segreta che dormiva in profondità. Un bel colpo di fortuna davvero! Ma se si è verificato, fondamentalmente è perché con l'allenamento si era acquisita la forza fisica di scavare una buca profonda. Gli scrittori che hanno visto fiorire il loro talento in tarda età non sono forse passati più o meno tutti attraverso questo processo?
Naturalmente al mondo esistono anche degli scrittori benedetti da un talento genuino e gigantesco che si conserva intatto dall'inizio alla fine, e le cui opere si mantengono sempre sullo stesso, altissimo livello. Vene d'acqua che non si prosciugano mai, per quanto vi si attinga. Ma sono casi eccezionali. Senza di loro - Shakespeare, Balzac, Dickens, tanto per nominarne qualcuno - la letteratura non sarebbe mai arrivata alle vette che ha raggiunto nel corso della sua storia. I giganti però alla fine restano giganti.
Per quanto si dica, sono esseri straordinari, mitici.
Ma gli scrittori, per lo più, non sono giganti - fra questi mi colloco ovviamente anch'io - e devono tutti, in maggiore o minor misura, ciascuno a suo modo, inventarsi qualcosa e sforzarsi con costanza di potenziare il proprio talento, che è insufficiente. Se non lo fanno, non riusciranno a scrivere per un lungo periodo delle opere che abbiano un qualche valore, seppur modesto. In che modo si può rafforzare il proprio talento, prendendo spunto da dove, dipende dalla personalità e dalle caratteristiche naturali di ogni scrittore.
Nel mio caso, ho imparato molte cose riguardo alla scrittura facendo jogging ogni mattina sulle strade. In maniera naturale, con la pratica.
Quanto posso mostrarmi severo verso me stesso? Ho sviluppato adeguatamente il mio fisico? Mi sono riposato abbastanza? Fino a che punto la mia coerenza è giustificata, a partire da quando diventa ristrettezza mentale? In che misura devo prestare attenzione al paesaggio esteriore, e in che misura posso invece dedicarmi all'introspezione? Quanta fiducia posso avere nelle mie capacità, devo dubitare ancora di me stesso? Se all'inizio della mia carriera di scrittore non avessi cominciato anche quella di maratoneta, ho l'impressione che le mie opere sarebbero state diverse. In che modo diverse concretamente non lo saprei dire. Però sarebbero state un'altra cosa.
Comunque sia, penso di aver fatto molto bene a continuare a correre fino a ora senza mai interrompere. Perché?
Perché i libri che ho scritto mi piacciono. Perché sono felice della prospettiva di crearne altre e curioso di sapere come saranno. Sono un essere umano imperfetto e in quanto scrittore ho i miei limiti; ma per me, mentre percorro il cammino di una vita non particolarmente brillante, piena di contraddizioni, il fatto di poter comunque provare alla fine questo sentimento non costituisce forse il raggiungimento di qualcosa? Magari esagero, ma ho l'impressione di poter addirittura parlare di «miracolo». E se fare jogging ogni giorno mi ha in qualche misura aiutato ad arrivare a questo risultato, provo nei confronti della corsa un profondo senso di gratitudine.
Succede ogni tanto che qualcuno chieda ironicamente a un maratoneta: «Ma ci tiene davvero tanto a vivere a lungo?» In realtà, credo che non siano poi molte le persone che corrono spinte da questa motivazione. Piuttosto mi sembra che siano ben più numerose quelle cui non interessa campare cent'anni ma, finché sono al mondo, desiderano condurre un'esistenza piena.
Se ci restano anche solo dieci anni di vita, è di gran lunga preferibile viverli intensamente, perseguendo uno scopo, che non lasciarli trascorrere con indifferenza, e io sono convinto che a questo fine la corsa a piedi sia di grande utilità. La vera funzione della corsa è di migliorare anche solo di poco, entro i limiti che sono stati attribuiti a ciascuno di noi, la combustione delle nostre energie. Al tempo stesso la si può ritenere una metafora della vita - nel mio caso della scrittura - e credo che la maggior parte delle persone che corrono sia d'accordo con me.
Vicino al mio ufficio di Tòkyo c'è una palestra dove mi reco per farmi fare dei massaggi. Servono a distendere i muscoli e richiedono l'aiuto di una «forza esterna», di un trainer. Grazie al lungo e severo allenamento tutti i muscoli del mio corpo sono tesi e duri, ma se non li sciolgo ogni tanto con un po' di stretching, potrebbero anche cedere, magari alla vigilia di una gara. Spingere il proprio corpo fino al limite estremo è importante, ma se lo si oltrepassa, si finisce col perdere in un colpo tutto quanto.
Il mio trainer è una donna giovane, ma molto robusta.
La «forza esterna» che ricevo da lei è accompagnata da un certo dolore -direi quasi un dolore molto intenso. Tanto che, dopo una mezz'ora di questi massaggi, sono interamente bagnato di sudore, biancheria inclusa.
«Però, bravo, si è fatto proprio dei bei muscoli! Stanno per scoppiare, - mi dice sempre la ragazza con ammirazione.
- Di solito la gente lascia perdere molto prima.
Incredibile che una persona che conduce una vita normale abbia questo fisico!» Mi ripete sempre che se continuerò a sottoporre la mia muscolatura a un tale sforzo, prima o poi mi capiterà qualche guaio. Può darsi che sia così.
Ma ho l'impressione che in qualche modo supererò ogni problema - anche se è soltanto una speranza. Perché sono anni che ho con i miei muscoli questo rapporto al limite estremo dello sfruttamento.
Nei periodi di allenamento intensivo diventano duri come pietre. Tanto che al mattino, quando mi metto le scarpe da jogging e comincio a correre, mi sento i piedi talmente pesanti che ho l'impressione che non si muoveranno mai più come dovrebbero. Parto adagio, quasi trascinandoli sull'asfalto. Non riesco a tenere il passo neppure con le signore del vicinato che fanno la loro passeggiata ad andatura sostenuta. Tuttavia, se tengo duro e vado avanti, poco per volta i muscoli si rilassano, e in capo a una ventina di minuti corro come una persona normale. Gradualmente aumento anche la velocità. Finché non sento più alcun dolore e procedo come se niente fosse.
Insomma, i miei muscoli sono di quel genere che ha bisogno di tempo per mettersi in moto. All'inizio sono completamente intorpiditi. In compenso, una volta che si scaldano, continuano a lavorare per un tempo piuttosto lungo senza sforzo eccessivo. Credo che si possano definire dei tipici «muscoli da lunga distanza». Di conseguenza su quella corta hanno una pessima resa. In una corsa breve, non è escluso che comincino a funzionare a gara terminata.
Mi chiedo se non sia una caratteristica genetica, anche se non sono uno specialista in materia. E credo che ci sia un legame tra le prerogative innate dei miei muscoli e quelle del mio spirito. Può darsi, cioè, che lo spirito umano sia comandato a bacchetta dal corpo. Oppure, al contrario, che le caratteristiche spirituali svolgano un'azione sullo sviluppo dei muscoli. O magari il corpo e lo spirito si influenzano a vicenda in modo misterioso, e operano in concomitanza?
Tutto ciò che posso dire è che l'essere umano ha delle «tendenze congenite complessive», e da lì non scappa, che gli piaccia o meno. Una tendenza fino a un certo punto la si può correggere, ma non la si può stravolgere.
E ciò che di solito viene chiamato «natura».
Il mio battito cardiaco normalmente è di sole cinquanta pulsazioni al minuto. Credo che sia piuttosto lento (ho sentito che Takahashi Naoko, medaglia d'oro a Sydney, ne conta trentacinque al minuto). Tuttavia, una mezz'ora dopo aver cominciato a correre, sale fino a settanta, e col passare delle ore può arrivare addirittura a cento. Insomma, è soltanto dopo uno sforzo prolungato che raggiunge i valori di una persona normale. Anche questo dimostra che il mio fisico è portato alla corsa su lunga distanza.
Giorno dopo giorno, man mano che mi abituavo a correre e il mio corpo si adattava al nuovo tipo di esercizio, ho visto il mio battito cardiaco diventare sempre più lento. Per fortuna, altrimenti il mio cuore finirebbe per scoppiare, visto che mentre corro batte sempre più veloce! Ogni volta che in un ospedale americano, nel corso di analisi di routine, un'infermiera mi ha misurato il polso, mi sono sempre sentito dire: «Ah, lei è un corridore!» I maratoneti probabilmente hanno tutti un battito cardiaco molto lento, per un lungo periodo della loro vita. Tra le persone che fanno jogging in città, si distinguono subito i principianti dai veterani. I primi ansimano col fiato corto, i secondi invece respirano a ritmo regolare, corrono pensando tranquillamente ai fatti propri, mentre il loro cuore scandisce lentamente il tempo. Quando due veterani si incrociano sul percorso, ascoltano l'uno il ritmo del respiro dell'altro, percepiscono l'uno il modo di scandire il tempo dell'altro. Così come gli scrittori sono reciprocamente sensibili ai rispettivi modi di raccontare.
Seguono pagine con alcune foto brevemente descritte nel testo.
18 luglio 1983, Grecia: sul percorso originario, Murakami taglia per la prima volta il traguardo di una maratona intera. (Foto Masao Kageyama).
2. Completato l'intero tragitto, Murakami si riposa in una tipica osteria greca. (Foto Masao Kageyama).
3. A circa dodici chilometri dalla partenza. (Foto Masao Kageyama).
23 giugno 1996, ultramaratona di cento chilometri al lago Saroma. Al punto di ristoro del 55° chilometro, Murakami si cambia e riparte. Salite e discese, l'impresa diventa ardua. (Foto Eizo Matsumura).
Al 97° chilometro, attraversando il Parco floreale di Wakka. (Foto Eizo Matsumura).
Il traguardo: cento chilometri in 11 ore e 42 minuti! (Foto Eizo Matsumura).
Adesso i miei muscoli sono molto duri e tesi. Ho un bel fare stretching, non si rilassano. Probabilmente è dovuto al fatto che sono nella fase più intensa dell'allenamento, ma comunque mi sembrano troppo rigidi. Ogni tanto devo sciogliere la parte più dura delle gambe picchiando forte col pugno - cosa che naturalmente fa male. Sono testardi quanto me, i miei muscoli. Anzi, molto di più. Ricordano, e resistono. In una certa misura migliorano, però non vengono a compromessi. Non mostrano alcuna elasticità.
Comunque sia, sono i miei muscoli, con i loro limiti e le loro tendenze, e me li devo tenere. Così come mi accontento della mia faccia e del mio talento, anche se non mi soddisfano del tutto. Non avendone altri di ricambio, devo arrangiarmi con quelli che mi ritrovo. Man mano che avanzo negli anni, sono diventato sempre più bravo a compensare le carenze. Come quando si apre il frigorifero, si prende quel poco che resta e ci si mette a cucinare qualcosa come si può - e nemmeno tanto male. Anche se ci sono soltanto mele, cipolle, formaggio e umeboshi, non ci si lamenta.
Ci si accontenta di quello che c'è. Perché si è già fortunati che rimanga ancora qualcosa. Raggiungere questa consapevolezza è uno dei vantaggi dell'età.
Sono di nuovo a Tòkyo, dopo un lungo periodo di assenza.
E settembre e in città fa ancora caldo. Un calore persistente e particolarmente afoso. Mentre corro in silenzio traspiro abbondantemente.
In breve tempo sento il berretto inzupparsi. Vedo gocce di sudore imperlare il mio corpo.
Tanto nette che proiettano la loro ombra sul terreno.
Poi cadono al suolo e in un attimo evaporano.
Ovunque nel mondo, i corridori su lunga distanza hanno sul viso la stessa espressione assorta. A cosa pensino non lo so, però sembra proprio che riflettano profondamente su qualcosa. Provo ammirazione vedendoli impegnati a correre con un caldo simile, poi mi rendo conto che sto facendo la stessa cosa anch'io.
Mentre mi alleno sul circuito di Jingù Gaien, una donna passandomi accanto mi saluta. E una mia lettrice. E raro, ma a volte succede. Mi fermo e scambio con lei qualche parola.
«Sono più di vent'anni che leggo i suoi libri», mi dice.
Ha cominciato che non ne aveva ancora venti, e adesso ne ha quasi quaranta. Eh si, invecchiamo tutti, in maniera equanime.
«La ringrazio», rispondo. Le sorrido, e ci salutiamo con una stretta di mano. Anche se temo che la mia sia bagnata di sudore. Poi mi rimetto a correre. Lei riprende a camminare verso il luogo dove è diretta - chissà quale - mentre io procedo verso la mia meta.
La mia meta? New York, ovviamente.