La società che garantisce
Le regole non funzionano in astratto; perché succeda è necessario che ciascuno di noi s’impegni per farle funzionare. Questo impegno riguarda tutti, anche i magistrati (lo sono stato per tanti anni), gli educatori (cerco di esserlo da tempo), i giovani (mi pare di esserlo stato molti anni fa).
Da magistrato ho potuto toccare con mano una tra le tante contraddizioni fra teoria e pratica: secondo la Costituzione, la radice del diritto penale italiano non dev’essere retributiva; di fatto, invece, lo è. La concezione della pena in Italia consiste, nella sua essenza, nell’agire la vendetta da parte dello Stato, invece che del privato, nei confronti di chi ha trasgredito la legge. Il nostro sistema è diverso da quello degli Stati Uniti, dove la concezione retributiva della pena è radicale, ma è molto diverso anche da quello vigente nei paesi scandinavi o in Olanda, dove è forte l’idea che la risposta a un reato debba avere uno scopo riabilitativo, piuttosto che punitivo. In Olanda si è passati dal sistema cosiddetto custodiale (fondato sulla chiusura in cella per la gran parte della giornata) al sistema cosiddetto trattamentale, che ha già dato e continua a dare risultati molto positivi sotto il profilo della diminuzione della recidiva. Perciò tante celle ora sono vuote, e l’Olanda le ha affittate nel 2015, per un triennio (e per 25 milioni di euro), alla Norvegia, perché la politica di quest’ultima esclude che si possano ammassare i detenuti in prigione. Ho visto personalmente cartelli nelle carceri norvegesi più o meno di questo tenore: «Volete più telefonate a settimana e un vitto migliore? Chiedete di essere trasferiti in Olanda».
In Olanda tante celle sono vuote, e si possono affittare, proprio per via della svolta. Gli istituti penitenziari erano stati costruiti per contenere molte più persone, che però nel frattempo sono diminuite. Ora il carcere serve a preparare il detenuto al suo ritorno nel mondo. Si ricorre alla libertà condizionata, si fa in modo che quando la persona torna in libertà abbia un lavoro, ci si coordina con i Comuni per il reinserimento. L’approccio trattamentale o riabilitativo è molto più efficace nella prevenzione del crimine e della recidiva: è la dimostrazione che il riconoscimento della dignità è cardine di una giustizia che si preoccupi contemporaneamente della dignità di chi ha trasgredito e della sicurezza della collettività.
Nel 1764 Cesare Beccaria pubblicò Dei delitti e delle pene: aveva ventisei anni, divenne celebre nel mondo e nel giro di qualche decennio la tortura venne abolita.
Venne abolita perché le idee espresse nel testo erano condivise dalla cultura dell’epoca. Ora, se Beccaria avesse scritto il suo libro nel Cinquecento anziché nella seconda metà del Settecento, sarebbe stata abolita la tortura o sarebbe stato abolito Beccaria? Certo Beccaria, perché per la cultura di allora la tortura era una giusta punizione. È stato il cambiamento della mentalità collettiva a portare all’abolizione della tortura.
Un cambiamento analogo potrebbe avvenire per l’ambiente, tema che più di ogni altro ha smosso i ragazzi negli ultimi anni, grazie anche al movimento Fridays for Future avviato da Greta Thunberg, che si è posta in contrasto con la visione del mondo della cultura generale. Il simbolo della sua intransigenza è lo sciopero del venerdì, che ha messo in imbarazzo le istituzioni in quanto utilizza una trasgressione (non andare a scuola una volta alla settimana) per affermare un’idea che gli adulti ormai da troppo tempo sembrano non prendere seriamente in considerazione. Non mi riferisco solo ai «grandi» del pianeta, a quei politici e a quegli industriali che sono propensi a difendere i propri interessi, ma anche ai genitori e agli insegnanti dei ragazzi che scioperano: credo che solo alcuni si siano posti il problema prima che Greta si manifestasse con la sua individuale, ostinata e intransigente posizione di rottura rispetto alla cultura dominante. In effetti, sono convinto che anche sul tema della sostenibilità ambientale una posizione intransigente possa essere utile nella fase della denuncia, ma che senza una mediazione non si possano ottenere risultati soddisfacenti. Come abbiamo già sottolineato, infatti, la dignità si vivifica attraverso il dialogo. Anche sul tema dell’ambiente, secondo me, sarebbe molto importante chiarirsi in primo luogo con sé stessi. Quanti, alla resa dei conti, sarebbero disposti a ridurre drasticamente l’uso della plastica (al di là delle bottigliette d’acqua), a non cambiare il cellulare ogni tre o quattro anni, a limitare l’uso dell’aereo per le vacanze (o, guardando agli adulti, per lavoro), a ridurre il consumo della carne, a rinunciare ad accendere l’impianto di aria condizionata al minimo caldo? Insomma, prima di convincere gli altri bisogna essere sicuri delle proprie convinzioni, e cercare di applicarle anche in controtendenza. Il tema dell’ambiente è un terreno importante sul quale misurare la nostra capacità di uscire dalla cultura verticale (per quanto ci poniamo in basso nella gerarchia in cui viviamo, abitiamo comunque la parte del mondo che a livello globale si situa ai piani alti), dato che siamo vicini al punto di non ritorno e non abbiamo un pianeta di riserva, come dice uno slogan dei Fridays for Future.
L’ambiente è il contesto in cui viviamo, il nostro habitat. Parlare di ambiente non significa soltanto discutere di nobili ideali o degli accordi globali come il Protocollo di Kyoto, ma vuol dire anche evitare i comportamenti che mettono a rischio le nostre vite. I disastri non succedono solo per fatalità – come è avvenuto in Giappone a Fukushima – ma anche per incuria o per dolo.
Vale anche per il cambiamento climatico dovuto al surriscaldamento globale. Credo sia fondamentale mettersi d’accordo per fronteggiare questa malattia del pianeta che abbiamo creato noi. Come sempre, però, un conto è fare le regole, un altro osservarle: vale per gli individui come per gli stati. Il vero problema sta proprio nella difficoltà del cambiamento culturale.
In Occidente lo sviluppo è passato attraverso l’inquinamento troppo spesso indiscriminato. Si può dire oggi alla Cina e all’India di non inquinare, quando noi lo abbiamo fatto nei decenni in cui loro non lo facevano (e lo facciamo in tanti campi ancora oggi, magari a casa loro)?
Per questo credo ci sia bisogno di un cambiamento di cultura globale. Il nostro stile di vita non è più sostenibile: il riscaldamento d’inverno, l’aria condizionata d’estate, le automobili, gli aerei, le industrie, gli allevamenti intensivi.
La vita di noi adulti è accompagnata da una convinzione che ha contraddistinto la nostra cultura per decenni, forse per secoli: una spiccata tendenza ad allargarci fino a che non incontriamo un limite insuperabile. Questo limite non l’avevamo mai incontrato prima d’ora; e adesso? Adesso facciamo fatica a cambiare la nostra cultura. Per questo la spinta ambientalista sta arrivando dai giovani, da persone che non vedono quella cultura come una faticosa conquista ma come un problema per il domani. Credo sia come per la tortura: ciò che abbiamo ritenuto giusto, visto da una nuova prospettiva, per molti è diventato ingiusto.
Un’espressione che sento pronunciare spesso nei discorsi che i rappresentanti delle istituzioni fanno ai ragazzi introducendo, per esempio, un incontro nella loro scuola, è «voi siete il futuro». Forse mi sbaglio, ma a me pare che chi si senta definire in questo modo, magari anche inconsapevolmente, percepisca che potrà contare in futuro, ma che oggi non vale nulla. Gli studenti, invece, valgono esattamente come gli adulti (lo dice l’articolo 3 della Costituzione), e l’unica differenza sta nel fatto che il loro lavoro consiste nel frequentare la scuola e nello studio, e che questo è retribuito in natura con il loro mantenimento. Per il resto sono cittadini come gli altri, con limitatissime restrizioni dipendenti dall’ancora scarsa capacità di discernere. Ma i giovani non sono solo il futuro, sono anche il presente, e anche da loro dipende la fisionomia del presente. Perché la Costituzione sia viva, e non soltanto l’istantanea del momento storico in cui è stata scritta, una somma di suggerimenti dei quali si può tranquillamente fare a meno, è necessario che anche i giovani (forse soprattutto i giovani) contribuiscano a far sì che sia viva. Come si sta insieme dipende principalmente dalla cultura, dai principi ai quali ci si riferisce e dalla loro pratica da parte della collettività. La cultura non si cambia, se non eccezionalmente (e marginalmente), per legge: se cultura e legge confliggono, prevale (in genere) la cultura. L’insieme delle persone, la comunità, attraverso piccoli spostamenti progressivi può modificare il modo di pensare, abolire i vecchi principi e introdurne di nuovi.
Ho fiducia nei giovani. Credo che, se lo vorranno, partendo dalla fondamentale questione dell’ambiente, il loro impatto sarà tanto rilevante da espandersi a tutti gli altri aspetti connessi, passando dal «dove viviamo» al «come viviamo». Grazie a loro la nostra cultura può cambiare e può affermarsi finalmente una società per quanto possibile orizzontale, priva dei soprusi e delle ingiustizie che negano la dignità della persona.