La scuola rende liberi
Conoscenza e libertà
Cambiamo prospettiva. Invece di partire dall’alto dei principi della Costituzione, proviamo a partire dal basso, dalla quotidianità della vita. Per uno studente, la vita consiste anche nel frequentare la scuola. È necessario allora chiedersi a che cosa serve andare a scuola, per entrare in una relazione effettiva con lei.
Per capirlo credo convenga prima di tutto ragionare sulla libertà, che consiste nel poter scegliere. Chi è libero sceglie ciò che ritiene più opportuno, più utile, più piacevole. Chi non è libero deve eseguire ciò che gli viene detto di fare, deve obbedire.
Scegliere significa optare fra due o più alternative. Per farlo occorre conoscerle, altrimenti la scelta è solo apparente, il suo risultato non coincide con quel che avremmo voluto: quante volte ciascuno di noi si è detto, evitando accuratamente congiuntivi e condizionali, «se lo sapevo non lo facevo»? È la prova che per scegliere bisogna sapere. Anche per scegliere dove comperare una pizza buona devo sapere dove la fanno buona.
Il primo elemento necessario per una scelta libera consiste, dunque, nel conoscere le alternative e cosa comportano. Non solo per comperare la pizza. Alla fine delle medie occorre scegliere tra le varie superiori: liceo classico, scientifico, linguistico, musicale, alberghiero, scienze umane… Per farlo consapevolmente è necessario sapere cosa si studia al classico, allo scientifico, al linguistico, e così via. Se si sceglie senza saperlo può succedere che si sia costretti a cambiare indirizzo dopo aver sperimentato che quella non era la strada giusta.
Le informazioni, però, da sole non bastano. Bisogna anche saper discernere, distinguere quel che è giusto da quel che è sbagliato, ciò che serve da ciò che è inutile, o, per usare parole impegnative, il bene dal male.
Credo che potremmo convenire sul fatto che l’esercizio della libertà presuppone la conoscenza, intesa sia come possesso delle informazioni sulle alternative tra le quali scegliere, sia come capacità di discernere.
Imparare a essere liberi
Alla domanda «Perché si viene a scuola?», generalmente i ragazzi rispondono: «Per imparare», e cioè per conoscere, per sapere. Se la conoscenza è necessaria per essere liberi, e se la scuola serve a conoscere, andare a scuola serve a diventare liberi.
Sarebbe anche necessario che la scuola fosse attrezzata per svolgere effettivamente questo compito. Una scuola che non sia basata sull’obbedienza: se si deve obbedire, come si può imparare a gestire la propria libertà? Obbedire significa fare ciò che ti viene imposto di fare, senza capirne il perché, fare quel che scelgono altri (chi ti ordina di obbedire; se invece capisci il perché e lo condividi, non è più obbedienza).
Che in una prospettiva di libertà l’obbedienza non sia una virtù emerge dal pensiero di don Lorenzo Milani, ma non solo dal suo. E il dibattito sull’argomento non è nuovo.
In proposito esistono tre linee fondamentali di pensiero. Secondo la più tradizionale, l’obbedienza è un valore: di fronte a un ordine, non è necessario chiedersi il perché; il perché lo sa chi comanda. È la concezione con la quale hanno cercato di giustificarsi i gerarchi nazisti. Adolf Eichmann, per esempio, si difendeva con qualcosa più o meno del tipo: «Eseguivo ordini, e li eseguivo anche bene, la responsabilità non è mia, ma di chi mi dava gli ordini». L’ordine, in questa prospettiva, non è sindacabile (perché chi lo dà è sovraordinato).
All’opposto, un’altra concezione ritiene che la libertà (e la conseguente responsabilità della scelta) non venga meno, e di fronte all’ordine consista nella scelta se obbedire o no, accollandosi le conseguenze, per quanto pesanti possano essere. È la visione del martire (dal greco martyr, «testimone»), di chi testimonia la propria convinzione – religiosa, ma anche laica, civile, solamente umana – in un contesto che la soffoca. Scelgo di non piegarmi e di esercitare la mia libertà perché ritengo di essere nel giusto. La parola «martire» richiama alla memoria i primi cristiani, che si facevano torturare e uccidere pur di non abiurare la loro fede. Ma martiri, appunto nel senso di testimoni, possono essere considerati per esempio Rosa Parks (che fu arrestata per non essersi alzata, su un autobus, da un sedile riservato ai bianchi) e coloro che in Italia, nella seconda metà del secolo scorso, per motivazioni ideali preferirono finire in carcere piuttosto che prestare il servizio militare, al tempo obbligatorio per i maschi. Perfino nel nostro Codice penale, che pur risale al fascismo, soltanto «l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità»: se l’ordine è illegittimo e la sua esecuzione costituisce reato se ne risponde (articolo 51).
C’è poi una via di mezzo: una sorta di mediazione fra libertà e obbedienza. È quella che ha cercato Kant nel breve scritto Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, distinguendo tra la libertà riservata alla sfera privata e l’obbedienza riguardante la sfera pubblica.
Se il suo compito è educare alla libertà, la scuola non può essere fondata sull’obbedienza. Deve aiutare a costruirsi la capacità di essere liberi, scegliendo i propri comportamenti non per paura delle conseguenze della disobbedienza, ma perché se ne conosce e condivide lo scopo. Deve accompagnare a sviluppare il senso critico: il saper discernere, in un contesto di rispetto della libertà altrui tanto quanto della propria.
È necessario, per esempio, che gli studenti, se non condividono un’affermazione di un professore, possano discuterne e confrontarsi con lui, che dovrebbe essere consapevole di poter sbagliare. La comunicazione, cioè, non può essere unidirezionale (il docente parla, gli studenti ascoltano) ma pluridirezionale (tutti dialogano, pur mantenendo la diversità dei ruoli).
Perché le regole siano condivise, è importante farle insieme. Il confronto può appianare le divergenze, o renderle comunque sopportabili, e spesso porta alla condivisione; e se sono anche opera propria, sono più facilmente osservate e l’obbedienza non serve più.
Una questione di metodo
L’educazione alla libertà non passa dunque attraverso l’imporre o il conculcare (parola cara a tanti adulti), ma il lavorare insieme allo scopo di informarsi e di sensibilizzarsi a scegliere. Metodi simili sono già stati sperimentati, per esempio quello raccontato ne I ragazzi felici di Summerhill: l’esperienza di una scuola-comunità fondata cent’anni fa, nel 1921, in cui vigevano soltanto due regole, rispettarsi l’un l’altro e partecipare all’assemblea che aveva il compito di valutare se i rapporti fossero stati rispettosi o meno. È un sistema non applicabile a tutti, perché sembra richiedere non indifferenti disponibilità economiche da parte delle famiglie degli studenti.
Al di là di quell’esperienza, si può immaginare una scuola diversa, fondata su alcuni punti fermi indispensabili, centrati effettivamente sul principio base della pari dignità.
È necessario, in primo luogo, che la regola sia sperimentale, perché tutti (studenti e docenti) la possano comprendere in quanto derivata dall’esperienza, e la possano verificare sperimentandola. Ritorna il tema dal quale eravamo partiti, e la considerazione della regola come strumento indirizzato a un fine.
È necessario, cioè, che la regola sia creata basandosi sull’osservazione della realtà e non consista in un imperativo immotivato.
Come diventare cittadini, a partire dalla scuola
Proviamo dunque ad applicare alla scuola l’articolo 3 della Costituzione e vediamo i risultati.
Come abbiamo detto, dal riconoscimento della pari dignità consegue che nessuno può essere discriminato, e che quindi la legge ha il compito di assicurare a ciascuno opportunità analoghe. Applicando il principio alla scuola, essa diviene il luogo in cui, tenendo conto delle differenti necessità di ogni singolo studente, ciascuno sia messo in grado di evolversi secondo le sue inclinazioni tanto quanto gli altri, imparando a sua volta a non discriminare.
È compito della scuola, cioè, aiutare ciascuno a realizzarsi secondo i propri desideri e le proprie capacità. È suo compito evitare che le differenze di genere, di lingua, di etnia, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali penalizzino chiunque. E, sottolineo, le condizioni personali e sociali, alle quali non si presta sempre l’attenzione necessaria. Si può essere alti o bassi, corpulenti o smilzi, ricchi o poveri, accuditi o trascurati; si può capire subito o far più fatica, vivere in una casa grande e bella o in un appartamentino piccolo e sovraffollato: sono condizioni che frequentemente creano discriminazione, specie di fatto (ossia di comportamento e non di diritto).
Se la scuola aiuta a comprendere cosa ci serve per poterci realizzare e per poter procedere verso la ricerca della felicità (è una parola grossa, ma è necessario usarla), aiuta a porsi domande serie sull’adeguatezza della società verticale a garantirci la nostra libertà.
E una scuola che non valorizza le differenze e che non offre a tutti di usufruire delle stesse opportunità non è una scuola democratica.
La legge del più forte
Nessun diritto, o quasi, potrebbe esistere se non esistessero le risorse per renderlo effettivo. Il diritto all’istruzione non potrebbe essere garantito se lo Stato non avesse i mezzi (denaro) per costruire le scuole, mantenerle, retribuire i docenti, il personale, e così via. Lo stesso vale per gli ospedali, per la forza pubblica, per l’illuminazione notturna…
L’articolo 53 della Costituzione dice:
Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Senza risorse pubbliche si tornerebbe alla condizione descritta da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi: don Rodrigo ha la sua polizia privata perché può pagare i bravi, e quindi è garantito; mentre non sono garantiti Renzo e Lucia perché, non potendo permettersi una polizia privata, sono succubi del potere di don Rodrigo, il quale non è investito di alcuna autorità istituzionale, è un signorotto, un privato che esercita un sopruso. Senza risorse pubbliche destinate a garantire i diritti di tutti, questo sopruso viene reso possibile (anche ai tempi di don Rodrigo si pagavano le tasse, ma queste erano destinate a garantire i privilegi di chi stava in alto): sottrarsi al dovere di pagare le tasse, dunque, significa tradire la dignità altrui e, con la loro, la propria.
La persona, poi, ha anche l’onere di verificare come le risorse vengono impiegate. Svolgere la propria funzione politica di cittadino consiste anche in questo. Succede, lo sappiamo, che il denaro raccolto tramite il fisco venga mal impiegato, a volte sprecato; che la disorganizzazione delle istituzioni danneggi, invece di aiutare, chi paga le tasse. È compito nostro contribuire a fare in modo che queste situazioni finiscano, attraverso il voto ma anche, e soprattutto, facendo sentire pubblicamente la nostra voce.
A scuola, ma non solo, può capitare che la prepotenza cerchi di farsi legge: mi riferisco agli episodi di bullismo, di razzismo, di omofobia, di sessismo, ma anche alle prevaricazioni che a volte mette in atto qualche insegnante. Il bullo (il razzista, l’omofobo eccetera) si sottrae alla necessità di rispettare gli altri così come l’evasore fiscale si sottrae alla necessità di pagare le tasse. Parlo di «necessità» e non di «dovere» perché sia il rispetto degli altri sia il pagamento delle imposte sono strumenti per evitare discriminazioni. Non usandoli ci si mette su un piano diverso dagli altri, non curandosi dei loro diritti ma solo di acquisire privilegi prevaricando (anche l’omesso pagamento delle tasse è una prevaricazione, perché accolla agli altri il costo dei propri – a questo punto – privilegi).
Così facendo, il bullo e l’evasore si illudono di essere più liberi degli altri. In realtà stanno danneggiando i presupposti dei diritti di cui essi stessi godono; per così dire, segano il ramo dell’albero su cui stanno seduti. In politica il modello del bullo è il dittatore. Ebbene, in uno Stato anche il dittatore non è libero, perché è costretto a stare dentro uno schema: dipende dalla necessità di mantenere il potere, e per far questo deve comportarsi da dittatore. Il rifiuto di esercitare le proprie funzioni, ossia di adeguarsi alle necessità di convivenza, crea un equilibrio instabile e pericoloso per sé stessi oltre che per gli altri.
La società gerarchica, imperniata sulla legge del più forte, è una società verticale, il cui fondamento è la negazione della dignità. Di quella altrui, perché ledo i diritti della persona che discrimino, che vesso, che danneggio, che costringo all’obbedienza, che tratto secondo un rapporto di sudditanza. Ma anche della mia, perché mi privo della funzione di mettermi in relazione con gli altri, mi sottraggo ai benefici della reciprocità. L’analisi dei motivi per i quali spesso si intende sopraffare gli altri meriterebbe un capitolo a sé. Qui basta osservare che riguardano il rifiuto della condizione di essere umani (e il dispetto per non essere onnipotenti) e un travisato bisogno di amore.
Quando la legge è ingiusta
Il tema della libertà e del dovere porta con sé un corollario rilevante: se una legge è ingiusta, bisogna rispettarla comunque o la si può trasgredire? Per intenderci, nel 1938 gli italiani avrebbero dovuto (come generalmente hanno fatto) rispettare le leggi razziali, oppure avrebbero dovuto violarle (aiutando, per esempio, gli ebrei a sfuggire alla deportazione)?
Credo sia necessario in proposito distinguere il significato di due termini che a volte tendiamo a ritenere sinonimi: «legalità» e «giustizia». Legalità significa, alla lettera, rispetto della legge. Esistono norme che impongono o proibiscono determinati comportamenti, e la legalità esiste se si fa ciò che è imposto e non si fa ciò che è proibito.
La giustizia, dunque, può non coincidere con la legalità: oggi e qui (ma non ovunque) la giustizia che sta nella Costituzione (ma non sempre nella testa delle persone) consiste nel riconoscimento e nel rispetto di chiunque allo stesso modo, indipendentemente da genere, lingua, etnia, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali. Così, qui e ora, una legge è giusta quando preserva la dignità della persona ed è ingiusta quando la viola. Se una legge è ingiusta, si può porvi rimedio attraverso i canali istituzionali, tra i quali è decisivo il giudizio sulla legittimità della legge da parte della Corte costituzionale (perché la Corte possa giudicare la legge è necessario che in un procedimento giudiziario venga sollevata la questione di incostituzionalità e che il giudice la consideri non manifestamente infondata e rilevante per la decisione).
Ove non esista un sistema analogo a quello previsto dalla nostra Costituzione, o anche nel caso in cui la decisione della Corte costituzionale arriverebbe tardi (poniamo perché una legge legittima da subito la tortura), l’unico modo di porre rimedio a una legge ingiusta è assumersi la responsabilità della trasgressione. Se non si usa violenza, trasgredire è un dovere civile. È ciò che John Locke chiamava l’«appello al cielo» di fronte a una tirannia: se un potere assoluto impone una legge ingiusta, ci si può appellare a un potere superiore ed eterno, quello della giustizia.
Io articolerei ulteriormente la regola di Locke nel modo seguente: se la legge ingiusta viola i diritti fondamentali della persona più significativi; se non la si può modificare prima che produca i suoi effetti; se ci si assume la responsabilità della violazione (che può voler dire essere considerati criminali, essere perseguiti, anche penalmente) e non si usa violenza, la legge non solo può, ma nei casi più gravi addirittura deve essere trasgredita.
L’obbedienza di per sé non è un valore, e anzi, se ci guardiamo indietro, vediamo che la gran parte dei passi avanti sulla strada del riconoscimento reciproco sono stati compiuti attraverso la trasgressione.