Anche per giocare servono le regole

La regola non è la sanzione

Le regole non sono importanti, le regole sono essenziali. Sono il complesso di indicazioni attraverso cui possiamo vivere insieme, possiamo cioè fidarci l’uno dell’altro, a condizione che le osserviamo tutti (o perlomeno in grande maggioranza).

Quando vado nelle scuole, sento che i ragazzi intendono le regole come limiti alla libertà. È una visione inesatta, che identifica la regola con la sanzione, mentre la regola non è la sanzione, che anzi può anche mancare. Faccio un esempio: tutte le mattine bisogna lavarsi i denti. È una regola, può essere declinata in forma impositiva: «Devi lavarti i denti tutte le mattine». Non prevede alcuna sanzione, ma viene generalmente rispettata. Se non seguo questa regola (questa indicazione), si ammaleranno i denti. Se chiedo – altro esempio – a qualcuno «ti piacciono le torte?», di solito risponde di sì. La domanda se esista una relazione tra la torta e le regole non ha una risposta immediata. Ci vuole più di un attimo per realizzare che per fare la torta di mele devo seguire la ricetta, altrimenti non sarà una torta di mele. Anche qui non c’è sanzione per chi non segue la ricetta, ma se non la seguo non ottengo il risultato a cui tendo, e se ho proposto una torta di mele e non ci ho messo le mele chi la mangia ci rimane male.

L’aspetto che generalmente sfugge è proprio la relazione tra il precetto (la regola, l’indicazione) e le sue conseguenze. Pensiamo ai videogiochi: per giocare è necessario seguire le regole, a cominciare da quella di accendere la console. Per giocare bene, inoltre, bisogna conoscere le regole altrettanto bene. Il più bravo, quello che vince, è chi sa cosa deve (è necessario) fare in ogni singola situazione. Le regole, insomma, sono uno strumento. Seguire una regola è il modo per raggiungere il risultato prefissato: avere i denti sani, preparare una torta, vincere ai videogiochi.

Le leggi sono un sottoinsieme delle regole: si chiamano leggi le regole prodotte da chi è autorizzato a farle, seguendo una procedura prestabilita per creare – appunto – le leggi. Ogni regola può essere trasformata in legge; ogni legge, a sua volta, può smettere di essere tale e tornare a essere una regola, o addirittura non essere più nemmeno una regola. Un esempio: la regola di lavarsi i denti tutte le mattine può diventare legge in un contesto in cui alle istituzioni prema particolarmente l’igiene orale dei cittadini. Al contrario, il divieto di fumo nei locali pubblici potrebbe non essere più imposto per legge in un contesto in cui ciascun cittadino non solo abbia smesso di fumare ma ritenga dannoso e assurdo accendersi una sigaretta.

Il rapporto fra regole e leggi cambia anche in base ai mutamenti della cultura e della sensibilità generale. Oggi come in passato si ha come regola di non tradire il proprio partner, ma mentre fino a poco tempo fa l’adulterio (femminile) era reato, ora non lo è più: significa che la regola è rimasta nella nostra cultura pur venendo meno la legge. Sono le circostanze storiche a far sì che un determinato comportamento sia previsto da una regola, oppure da una legge, oppure non sia per nulla disciplinato.

La legge, come la regola, non prevede necessariamente una sanzione. La formula con cui viene espressa una legge stabilisce spesso un rapporto causale artificiale (ciò succede, per esempio, affermando che «chiunque cagiona la morte di un uomo viene punito»: la punizione, nel senso della condanna alla prigione, non è una conseguenza naturale dell’omicidio), ma non sempre è così. La legge che ha introdotto l’ora legale non ha minacciato i cittadini in caso di inadempienza, senza per questo perdere il suo carattere di legge. Non c’è bisogno della sanzione, se si capisce rapidamente che la trasgressione non consente di raggiungere la conseguenza naturale; per esempio, se non mi adeguo al cambiamento dell’ora non posso incontrarmi con chi lo ha fatto.

Un bambino dice «non è giusto» correlando istintivamente la sua idea di giustizia alla propria esperienza. Un bambino che vive in Italia avrà un modo diverso di stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è rispetto a un altro che vive in Iran ed è probabilmente abituato ad assistere a impiccagioni nel campo in cui ha appena giocato una partita di calcio. Per gli adulti vale lo stesso: il concetto di giustizia delle tricoteuses* che smaniavano per la ghigliottina è diverso da quello di un cittadino dell’Europa di oggi.

Le regole creano la fiducia necessaria a vivere insieme. Tornando a casa da scuola, ci sono studenti che sanno di trovare il pranzo pronto, che qualcuno ha preparato per loro. Se un giorno trovano la tavola vuota, probabilmente si arrabbiano: più che per la fame, perché è stata violata una regola. La regola, infatti, era di trovare il pranzo pronto. Creava fiducia, la tavola vuota ne è un tradimento. Aver violato la regola può generare un conflitto, comunque delude. Le regole, dunque, sono funzionali alla relazione. In una comunità, il loro fine è organizzare le relazioni in modo da generare fiducia reciproca.

Due modi di vivere insieme

Ogni persona è mossa dai propri interessi e dai propri sentimenti. Questi possono essere in contrasto con quelli degli altri (se partecipiamo a un concorso, vogliamo vincere sia noi che gli altri), e anche con quelli della collettività (se vogliamo vincere anche se non siamo i più competenti).

Nessun individuo è completamente isolato dagli altri, ciascuno vive in una rete di relazioni che possono essere organizzate in modo verticale o orizzontale. Verticale è la società in cui le relazioni sono gerarchiche, orizzontale è quella in cui tutte le persone sono ritenute ugualmente degne di considerazione e rispetto.

La società verticale si fonda sulla legge del più forte e ha una struttura molto semplice, con leggi e regole non particolarmente numerose e complesse: la legge divide le persone tra libere e schiave, o tra uomini e donne, tra cittadini e stranieri, tra possidenti e diseredati, e stabilisce a chi spettano i diritti e a chi i doveri; in altre parole, distingue tra chi è degno e chi non lo è.

I primi stanno sopra nella scala sociale, i secondi sono sottomessi e hanno la sola responsabilità di obbedire (o di scegliere di disobbedire e subire le conseguenze, a volte terribili, che ne derivano).

I ragazzi che crescono in una comunità organizzata gerarchicamente, per legge o per cultura, hanno di solito un destino segnato: chi è nato sotto continuerà a stare sotto, chi è nato sopra continuerà a stare sopra.

La società orizzontale è articolata e complessa, perché, considerando degna ogni persona, ha lo scopo di garantire analoga possibilità di realizzarsi a chiunque vi partecipi. Ed è difficile da mettere in pratica se, come succede, siamo stati abituati a relazionarci nel modo opposto. Impariamo dagli altri, vedendoli agire. Il sopruso fa parte della nostra cultura, è tramandato da generazioni, e per non esserne vittime è necessario esercitare su sé stessi un’attenzione continua. È una grande sfida anche vincere la tentazione della sopraffazione, perché questa, in un modo o nell’altro, è stata sempre l’impronta dello stare insieme.

La Costituzione italiana ha impresso l’impronta opposta, anticipata di poco da esperimenti falliti, come la Costituzione di Weimar – il primo statuto democratico della storia tedesca –, o abortiti, come la Costituzione della Repubblica romana, o ancora falliti e incompleti, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, stesa durante la Rivoluzione francese, che riservava i diritti soltanto agli uomini.

Nel 1893, per la prima volta, è stato riconosciuto il diritto di voto alle donne in Nuova Zelanda in elezioni parlamentari; dunque, per quel che riguarda il genere, l’applicazione dell’idea che ogni persona abbia pari dignità ha poco più di cento anni. In Italia le donne hanno votato per la prima volta nel 1946. L’abolizione della schiavitù, l’emancipazione degli ebrei, le tappe fondamentali in cui si è affermata l’idea di pari dignità delle persone sono piuttosto recenti, rispetto a una storia millenaria in cui si credeva che le donne valessero meno degli uomini, gli ebrei meno dei cristiani, le persone con la pelle scura meno di quelle con la pelle chiara, e via dicendo.

Il contesto culturale in cui la nostra civiltà si è sviluppata si fonda sul presupposto che esistano gerarchie determinate dal genere, dalla religione, dall’etnia, dal censo, dalla salute, dalla professione; le regole, in una società orizzontale, svolgono la funzione di garantire che invece tutti siano ugualmente degni.

La differenza, in sintesi, si risolve nella relazione esistente tra diritti e doveri. Occorre premettere che i secondi, i doveri, quando non siano imposti per motivi ideologici, stanno in rapporto subordinato e funzionale con i diritti. I comandi e i divieti (doveri), infatti, servono a far sì che le possibilità (diritti) siano esercitabili. Per esempio, il mio diritto alla riservatezza del domicilio è garantito dal divieto rivolto a tutti di entrare in casa mia senza permesso. La società verticale è caratterizzata dalla circostanza che i doveri che gravano su tanti sono finalizzati a garantire i diritti di pochi. Il diritto del re alla riservatezza delle sue stanze era garantito dal divieto rivolto a tutti di entrarvi, ma non esisteva un analogo divieto, rivolto al re, per garantire che questi non entrasse nelle stanze dei sudditi.

La società orizzontale, invece, è caratterizzata dalla circostanza che, essendo tutti degni quanto gli altri, nessuno può avere diritti o doveri che non abbiano gli altri. E allora, se il presidente della Repubblica ha garantita la riservatezza delle sue stanze, non può entrare nelle stanze di qualsiasi cittadino senza il suo permesso. Perché questo modello possa funzionare fino in fondo è necessario un altro ingrediente. Lo troviamo, per esempio, all’articolo 2 della Costituzione italiana, secondo il quale «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo […] e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà». L’ingrediente ulteriore è appunto la solidarietà, definita dal Dizionario Treccani online come il «rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega i singoli componenti di una collettività nel sentimento appunto di questa loro appartenenza a una società medesima e nella coscienza dei comuni interessi e delle comuni finalità».

Se l’idea che a ciascuno siano garantite opportunità analoghe a quelle degli altri non si traducesse nella consapevolezza di far parte della stessa comunità, ove è solida la relazione tra coloro che vi partecipano, difficilmente si osserverebbero le regole che derivano dalla constatazione della pari dignità, perché difficilmente sarebbero condivise. E si sa che le regole servono a poco se non sono osservate, e che è difficile siano osservate se non vengono capite e condivise.

Una società orizzontale si trasforma in verticale, senza che cambi nemmeno una legge, se mancano le risorse per garantire i diritti di tutti (ovviamente compresi i nostri). Perché ciascuno possa esercitare i propri diritti serve un sistema tributario equo: chi ha di più paga di più (in misura progressiva) rispetto a chi ha di meno.

La società orizzontale non nega le differenze, anche in riferimento alle possibilità economiche, ma queste differenze non possono incidere sull’effettiva praticabilità dei diritti fondamentali da parte di chiunque. Per questo, per esempio, l’istruzione (compresi gli asili nido e la scuola dell’infanzia) è gratuita, e le risorse per mantenerla arrivano dai diversi livelli di imposizione fiscale, che gravano di più su chi ha, o guadagna, di più. La società orizzontale non livella i talenti verso il basso affinché tutti siano uguali, e favorisce la ricerca individuale della felicità: dà a ciascuno la possibilità di essere sufficientemente informato e di avere quanto serve per scegliere il meglio per sé senza danneggiare gli altri. La società orizzontale è quella che consente di incrociare virtuosamente capacità e aspirazioni personali, rendendo il più possibile ciò che si fa nella vita quotidiana in linea con la propria inclinazione.