19.
Gentile signora maestra

Gentile signora maestra,

ho chiamato la segreteria della scuola per avere i lavori di Alessia e Livia – i loro temi, i compiti in classe, i quaderni e i disegni – ma mi hanno spiegato che si tratta di documenti di proprietà dell’istituto e che si possono ottenere in copia solo in casi di effettiva comprovata necessità seguendo una particolare procedura. Quando ho chiesto cosa fosse la “effettiva comprovata necessità” non hanno saputo fare esempi concreti. Immagino il trasferimento in una scuola di un altro stato che richieda i loro materiali come condizione per l’iscrizione, ha infine ipotizzato la segretaria, sfinita dalla mia insistenza. Ho immaginato per un attimo di farlo. Di iscrivere Alessia e Livia in una scuola francese, o italiana. Ho percorso rapidamente, mentalmente, gli ostacoli che avrei dovuto superare. Non me la sono sentita. Comportarmi come se loro e io, noi tre, avessimo davvero davanti un nuovo anno scolastico sarebbe stata una trappola micidiale, alla fine. In qualche momento avrei finito per crederci. Perché vede, signora maestra: Alessia e Livia non torneranno a scuola a settembre. Non si iscriveranno in seconda elementare. Dunque è con questa realtà che dobbiamo lavorare: starci dentro, non dimenticare ma non impazzire nel ricordo, non rivivere eternamente il tempo passato, provare a immaginarne uno futuro. Questioni così, mi sono chiesta, potrebbero configurarsi come “effettiva comprovata necessità”? Non credo che ci sia una casistica a cui fare riferimento. Capisco che in assenza di precedenti non sia facile prendere per primi una decisione. Sono consapevole di creare una difficoltà alla struttura scolastica e me ne scuso. Tuttavia la mia “effettiva necessità”, adesso, è quella di restare in vita. Ho almeno una buona ragione: fino a che io sono viva Alessia e Livia sono vive con me. Per farlo – per restare giorno dopo giorno in vita – ho bisogno di custodire le loro cose intatte. Così come le hanno lasciate, tutte. I vestiti e i giochi, le scarpe – non so spiegarle perché, ma soprattutto dalle loro scarpe è impossibile separarsi. Nessuno può camminare scalzo, qui in Svizzera, non le pare? Le scarpe sono fondamentali. Poi mi servono i loro disegni e le loro parole scritte, i loro pensieri. Devo ripassarli, riordinarli. Ripetermeli di tanto in tanto. Rivederli. Ecco, solo questo. Spero di riuscire in uno sforzo di sintesi a trascrivere sulla richiesta, in una riga, in cosa consista questa “effettiva comprovata necessità”. Intanto volevo illustrargliela.

Difatti è a lei che devo rivolgermi, mi hanno detto quando finalmente sono riuscita ad avere conto della “particolare procedura”. Prima di tutto ci vuole il nulla osta dell’insegnante. Il suo nulla osta, signora maestra. Bisogna che lei ritenga che non ci sono ostacoli. Che lei non ne crei, immagino anche.

È per questo che dopo tanto silenzio mi sono risolta a scriverle. Dipende da lei la possibilità che io torni ad avere fra le mani i temi di Alessia e Livia: in specie penso a quello intitolato “Chi sono io” che leggemmo insieme a casa quando lo portarono per farmi vedere il voto e che mi fece piangere di allegria. I loro disegni, ci devono essere anche quelli in cui si erano dipinte con le trecce – una si era disegnata col viso in un cerchio l’altra in un triangolo, un modo sensazionale di descriversi perfettamente diverse –, e quello della casa blu, e poi quello della famiglia che fa il picnic sul lago. Poi i problemi di matematica, certo, le somme in particolare mi ricordo, con le decine e le unità scritte con colori diversi. Avevamo comprato le matite il giorno prima perché Livia diceva che lei, maestra, le voleva con la punta più grande: le nostre matite nell’astuccio erano troppo magre. È un materiale che sento di dover conservare, custodire.

Non le nascondo che raccontarle tutto questo mi mette a disagio, e voglio essere onesta con lei: non ho compreso, in questi mesi, il suo silenzio. L’ho anche patito, sebbene non fosse la prima delle mie fonti di dolore. È successo però che quando tornavo col pensiero alla scuola, e dunque alle bambine a scuola, e alla loro maestra – a lei –, mi sia chiesta le ragioni della sua assenza. Avrà senz’altro avuto moltissimi problemi con la classe, li immagino, avrà dovuto assistere lo sgomento dei compagni delle bambine e spiegare loro cosa fosse accaduto: avrà dovuto cercare e trovare le parole adatte. Poi forse avrà pensato che non fosse il momento. Dopo ancora sarà subentrata la discrezione. Il rispetto.

Ho ricordato la mia maestra: era italiana, anche lei era molto discreta. La mia “signora maestra”, Francesca. Ricordo il suo profumo, spezie orientali. Alta, elegante. Avrei voluto somigliarle. Parlava piano, dolcemente. Sono passati tanti anni e la ricordo come se la vedessi adesso, proprio come se la sentissi. Anche Alessia e Livia devono averla amata, signora: devono aver ascoltato a bocca aperta le sue spiegazioni, le sue letture, i suoi consigli su come si impara un verso a memoria. La memoria dei bambini, che spettacolo. La penso in tutto quel tempo in cui io non ero con loro e c’era lei, invece, tutto quel tempo di vita che lei custodisce: fatto di sorprese, di nomi e concetti sconosciuti, di mondi che si svelano e per la prima volta si rivelano. Un poco la invidio. Che mestiere meraviglioso, che compito supremo il suo.

Ebbene, signora maestra. Quali che siano i motivi per cui lei non ha voluto o potuto farsi presente con me in questi mesi, sappia che non ci sarà mai bisogno di parlarne, di chiedere o dare spiegazioni. Mi auguro soltanto che non abbia inteso così manifestarmi la sua disapprovazione: solo di questo non saprei darmi ragione. Sono stati in tanti a scomparire, in tanti in segreto a censurare, giudicare, a emettere verdetti di condanna. È facile affacciarsi nelle vite degli altri, decretare in un quarto d’ora una colpa, rientrare dentro casa e sentirsi al sicuro nel giusto, poi riprendere sonno. Chiunque può farlo, qualche volta deve: un giudice, un arbitro, un testimone. Una maestra, credo, è fatta di una materia diversa. La mia maestra era diversa. Diceva sempre: avete tutti ragione, ma adesso forse è meglio se proviamo a fare così. Hanno tutti sempre le loro ragioni. Adesso forse è meglio se proviamo a cercare una strada. Non so come sia, oggi, “fare così”. Le chiedo solo, signora, di tenere aperta la sua porta. Dentro la procedura, magari, c’è un varco che conduce alla risposta.

Sappia che molto, e sempre, di tutto il tempo che ha dedicato alle mie figlie la ringrazio.

I.