4.
Mathias
Perché ho sposato Mathias? Per non contraddirlo. Non mi sembrava importante sposarsi o no. Ero incinta, sarebbero nate le bambine. Pensavo a quello. Gli avevo anche detto: se non te la senti di stare con me non importa, vai pure. Non aveva reagito bene alla notizia della gravidanza. Anzi, a ripensarci adesso direi che quella è stata l’unica volta in cui l’ho visto perdere il controllo in tutta la nostra vita insieme. Quando gli ho detto sono incinta ha cominciato a balbettare, poi a raschiare la gola come se dovesse tossire senza riuscirci. Non ci voleva credere, diceva no no no. Come hai fatto, non è possibile. Non è proprio possibile, come è potuto succedere. Era un evento che non aveva programmato né previsto: una cosa inconcepibile per lui. In effetti sembrava impossibile anche a me. Tecnicamente, diciamo, non avrei dovuto restare incinta quella volta. Invece è successo. Gli ho detto: fai come vuoi, io vado avanti. Mi ha chiesto tempo, poi mi ha proposto una vacanza insieme, per parlarne. Siamo andati in Egitto. Non ne abbiamo parlato, che io ricordi. Non molto almeno. È tornato subito a essere quello che conoscevo. Tranquillo, positivo, allegro. Aveva ripreso il controllo della situazione. È stata una bella vacanza, serena. Io ero felice della gravidanza. Lui mi ha detto: avremo una famiglia, dunque sposiamoci. Sposiamoci in Italia, a casa tua. Ho pensato a casa mia – ai campi intorno, all’albero su cui da piccola volevo costruire la casa di legno, quello che si vede dalla finestra della mia stanza – e ho detto: va bene.
Com’era Mathias? Fisicamente? Era bello. Alto, sportivo, biondo. Un po’ strabico, ma non mi ricordo se strabico verso l’interno o verso l’esterno. La memoria fa certi scherzi: lavora, proprio. È una specie di salvavita: quando deve cancella. Delete. Strabico comunque, questo lo so: i suoi occhi andavano in due posti diversi. Ma poco, una cosa affascinante e un po’ ipnotica. La prima volta che l’ho visto mi ha fatto ridere tutta la sera. Eravamo in montagna in uno di quei fine settimana che la nostra azienda organizzava per far conoscere i dipendenti di paesi diversi. Lavoravamo per la stessa multinazionale. Io, italiana, a Losanna. Lui, svizzero, in Italia. A Bologna. Una specie di scambio di posto, abbiamo cominciato a parlare di questo. C’erano una sessantina di persone. Non mi aveva colpita in modo speciale, avrei anche passato la serata con altri. Solo che dopo le presentazioni ogni momento me lo trovavo vicino. Era sempre lì, io mi spostavo e lui era lì. Gentile, educato, premuroso. Raccontava aneddoti divertenti, era molto allegro. Ricordo che mi apriva le porte. Un gesto insolito, antico. Era serio, una persona seria. Solare, anche – così biondo bianco e ridente –, ma fermo. Come una roccia in mezzo al mare. Ha insistito perché ci vedessimo ancora. Ci siamo visti. Era una persona di princìpi molto saldi, forti. Era molto, molto affidabile. Non so come dirlo meglio: era sempre presente. Quella che poi si sarebbe rivelata rigidità al principio mi pareva sicurezza. Sapeva sempre cosa fare, come farlo, quando. Aveva le mani lunghe, le unghie con le lunette bianche. Prendeva ogni cosa con cura. Ti potevi dimenticare di tutto, c’era lui a pensarci.
Non ero proprio innamorata. Ero leggermente innamorata. Stavo bene. Vivevo a Losanna, una città piccola, semplice, tranquilla. Facevo un lavoro importante, da avvocato, per una multinazionale: giravo il mondo. Andavo ogni tanto a trovarlo a Bologna, una città dove avevo studiato e che amavo. Andavamo al cinema, tantissimo. La sera era un uomo capace di lasciarti leggere fino a tardi, nel letto. Non ce ne sono tanti. Io leggo ore e ore, anche la notte: con lui mi sentivo libera di farlo. Passeggiavamo sotto i portici, mangiavamo il gelato. Lo frequentavo da poco più di un anno quando sono rimasta incinta. Avevo trentacinque anni, un buon lavoro, un ottimo stipendio. Può succedere nella vita di non potersi permettere una gravidanza. Capita che sia troppo presto, no?, o con qualcuno che non va. Con Mathias non c’era niente che non andava. Non me la sono sentita di fare calcoli su cosa convenisse. Ho pensato: il bambino è venuto, è il momento, andiamo. Poi ho saputo che erano due. Mesi dopo. Lui era così tranquillo, come sempre. Due o tre cosa cambia?, mi ha detto. Rideva.
La prima volta che mi sono spaventata, la sensazione di avere accanto un perfetto sconosciuto, è stata un giorno sotto i portici a Bologna. C’era un bambino che mendicava, sporco e col petto scoperto. Faceva freddo. Mi sono fermata e mi veniva da piangere. Ho cominciato a parlargli. Era così piccolo. Mathias mi ha tirato per un braccio: cosa fai, vieni via. Gli ho detto: è un bambino, guarda. Mi ha risposto: ma cosa t’importa, ce ne sono milioni, andiamo. L’ho guardato in faccia e i suoi occhi chiari mi sono sembrati vuoti. Occhi da uccello. Pozzi ciechi. È stato solo un attimo. Abbiamo ripreso a passeggiare e a parlare – mi sembra – del film che stavamo andando a vedere. Però io ero distratta da questo fenomeno nuovo che non avevo visto mai. La totale assenza di compassione. Totale, assoluta. Perfetta.
Mathias ha un fratello gemello che è uguale ma più grigio e introverso. La sua versione triste. Non ne parlava mai. Ha anche una sorella, sposata con un italiano di Rimini e poi separata. Ha un padre e una madre, separati anche loro. La madre si chiama Norma. Di rado ho conosciuto persona più impeccabile nella durezza. Mathias della sua famiglia non parlava mai. Le loro relazioni erano scandite da fatti, non da emozioni. Impegni appuntamenti visite. Non li ho mai sentiti alzare la voce tra loro. Non ho mai sentito Mathias ridere, con loro, o ricordare il passato. Non sono mai riuscita a immaginarlo bambino.
Dopo il parto ho avuto un’infezione con un principio di setticemia. Ho davvero rischiato di morire. Mia madre era sempre lì, accanto a lei un’infermiera mi controllava a vista. Non potevo tenere Alessia e Livia con me, naturalmente. Mathias arrivava all’ora delle visite, la sera. Entrava in stanza con i suoi amici, per me sconosciuti, e mi faceva foto dentro il letto, mi presentava: ecco mia moglie. Non diceva il mio nome. Diceva mia moglie. Avevo le flebo ed ero debolissima, non avevo nemmeno la forza di rispondere. Sentivo il desiderio di mandarlo via, potevo solo girare la testa dall’altra parte sul cuscino. Ho pensato tante volte, dopo, che avrei dovuto lasciarlo subito, allora. Avrei dovuto capire che non poteva esserci amore dentro quella sua smania di mostrarmi senza vedermi. Ma un po’ era troppo tardi e un po’, quando sono tornata a casa e stavo bene, mi è sembrata una sciocchezza. Alessia e Livia erano la meraviglia del cielo. Non sono mai stata felice come con loro. Tutto il resto era meno importante.
Io guadagnavo più di lui. È brutto da dire ma è la realtà. Non ne abbiamo mai parlato, eppure è un fatto: lavoravamo per la stessa azienda e io avevo un ruolo superiore, ero più richiesta, viaggiavo di più, avevo maggiori responsabilità. Lui si sentiva, credo, un po’ frustrato, sottovalutato. Non l’ha mai detto, non abbiamo mai discusso di questo. Però io sentivo come una specie di risentimento, nel suo silenzio. Si chiudeva nello studio a leggere i suoi grafici sui titoli in Borsa, tagliava pagine di giornale e sentivo attraverso la parete quel rumore continuo di strappi, come piccoli schiaffi.
La nostra casa era davvero molto grande, troppo. Aveva una piscina interna che mi faceva paura, nel seminterrato. Anche la lavanderia, una stanza quadrata e sempre buia: ci passavo davanti senza guardare dentro. Non mi piaceva ma era bella, obiettivamente, e l’aveva scelta lui. Un giorno ho chiamato un imbianchino per rinfrescarla. Era italiano. Mathias girava con uno specchietto per vedere se avesse dipinto anche gli angoli ciechi delle cornici delle porte, saliva sulla scala a controllare dietro gli armadi. Con lo specchietto in mano, sì. Diceva: è italiano, non ci si può fidare. Abbiamo avuto una forte discussione in macchina. Era sabato, stavamo andando in piscina con le bambine. Perché hai chiamato un italiano, gridava, lo sai che lavorano male. Ha frenato, mi ha fatto scendere, è ripartito. Non volevo preoccupare le bambine, volevo solo che smettesse di gridare. Sono tornata a casa a piedi. Sono rientrati dopo quattro ore. Erano stati in piscina, effettivamente. Alessia e Livia erano eccitate e con le guance rosse: papà ci ha comprato i lecca lecca giganti, ci siamo divertiti tantissimo mamma. Lui non mi ha detto niente, della macchina: non ha chiesto scusa, nulla. Come se niente fosse successo.
Non ha mai alzato le mani. Era un altro tipo di violenza. Ho cominciato ad aver paura dei suoi silenzi. Delle sue piccole manie silenziose. Del modo in apparenza indulgente con cui demoliva e rifaceva da capo ogni cosa che avessi fatto io. Metteva dappertutto dei post-it gialli: istruzioni. Sul frigo, sugli armadi, dentro i cassetti. Decine sullo specchio del bagno. Le istruzioni – ordini – erano per me. Sono andata in un centro per donne maltrattate. Non sapevo a chi rivolgermi per capire come comportarmi dentro quella selva di regole. Hanno disegnato una spirale. Mi hanno detto: signora, lei è qui al centro, in questo punto. Se non reagisce finirà in fondo. Il finale è sempre tragico. Ne esca. Lì è quando ho sentito dire “psicorigido” la prima volta. Personalità psicorigida. Gli ho proposto di andare insieme da uno psicologo. Mi ha detto: vengo, ma solo se è tedesco. Siamo andati. Siamo stati in cura a lungo da una terapeuta di coppia. Nessuno, quando è sparito con le bambine, ha sentito l’esigenza di chiedere il suo parere. Dopo qualche tempo ha scelto una psicologa diversa, dove andava da solo, un paio di volte ci è stato con le bimbe. Era lì anche il giovedì prima di sparire. Nemmeno con lei hanno parlato gli investigatori. Quando l’ho chiamata io, ha riagganciato.
Negli ultimi mesi di convivenza non dormivamo più insieme. La casa era grande, c’erano camere vuote. Non sembrava un problema. Più che altro un fatto di comodità. Io avevo orari diversi, e mi occupavo delle bambine. Per lui andava bene così, non ha mai obiettato. Per me era un modo per sentirmi più tranquilla la notte. Quando eravamo stati insieme, una delle ultime volte, avevo sentito una prepotenza che non conoscevo e che mi aveva fatto paura. Una cosa brutta. Ero molto stanca, lui era nervoso per certe questioni di lavoro. Quando ho detto vado nell’altra stanza per un po’, non ha avuto niente da ridire.
La separazione è stata molto civile, tranquilla. Era chiaro che come coppia non potevamo proseguire. A me era molto chiaro. Mathias era contrario, al principio, ma più che altro perché non riusciva a concepire che agissi di mia iniziativa senza tenere in conto il suo parere. Sei mia moglie, mi diceva. Poi da un momento all’altro ha detto: va bene, come vuoi. Alessia e Livia avevano cinque anni, ormai. Saint-Simon è un paese molto piccolo. Gli ho proposto di lasciare noi tre nella casa e di andare a stare lui in un appartamento più vicino al suo luogo di lavoro: sarebbe venuto nel weekend. Non ha nemmeno preso in considerazione l’idea di uscire dalla “sua” casa. Sono andata via io. In un piccolo appartamento, molto vicino alla scuola delle bimbe. Mathias adorava le bambine, aveva di loro una cura materna, e loro lo amavano: con lui sarebbero andate in capo al mondo. Nella casa grande – dopo la separazione – c’era sempre Dolores, la baby-sitter di tutta la vita. Mathias e Dolores si capivano, si trovavano benissimo insieme: lei accudiva un po’ anche lui. Gli preparava le pietanze che preferiva, gli faceva trovare pronti gli abiti che sapeva avrebbe scelto, era indulgente e allo stesso tempo sollecita. Quando Alessia e Livia tornavano da me, invece, durante la settimana, eravamo solo noi tre. Non avevamo bisogno di nessuno. Tutto sembrava funzionare.
Per le vacanze di Natale lui ha proposto di portarle per tre settimane in barca con dei nostri amici. Non era proprio come negli accordi, ma le bambine insistevano e ho detto: va bene, andate con papà. Ci sono foto bellissime di quella vacanza, ero felice di saperli felici. Al ritorno, a gennaio, Alessia e Livia sarebbero rientrate a scuola.
Abbiamo avuto insieme ancora due settimane.
Mathias era come sempre, impeccabile. L’ultimo weekend di gennaio sarebbero state di nuovo con lui. È venuto a prenderle, poi mi ha telefonato la domenica e mi ha detto: non importa che tu venga a riportarle da te stasera, stanno bene, stanno giocando a casa di amici, non preoccuparti. Le porto a scuola io domattina. Tu vai all’uscita.
Era il 30 gennaio del 2011. Non le ho viste mai più.