MATILDE.

Matilde era una modista di Parigi appena ventenne quando fu sedotta dal Barone. Nonostante la loro relazione non fosse durata più di due settimane, in quel breve periodo, come per contagio, la ragazza assorbì la concezione della vita dell'amante e il suo modo di risolvere le cose mettendosi gli stivali delle sette leghe. Le era rimasta impressa una cosa che il Barone le aveva detto una sera casualmente: che le donne parigine erano tenute in gran conto in Sud America per la loro esperienza in materie amorose, la loro vivacità e il loro spirito che contrastava con l'atteggiamento di molte mogli sudamericane ancora legate a una tradizione di modestia e di obbedienza, che sminuiva la loro personalità ed era da attribuire, probabilmente, alla riluttanza degli uomini a far delle amanti delle proprie mogli. Come il Barone, Matilde scoprì una formula per far fronte alla vita adottando una serie di ruoli, ovvero dicendosi la mattina mentre si spazzolava i capelli biondi: "Oggi voglio diventare questa o quella persona," per procedere poi in quel senso. Un giorno decise che le sarebbe piaciuto essere la rappresentante raffinata di una modista parigina, e andare in Perù.

Tutto quel che le restava da fare era entrare nel ruolo. Così si vestì con cura, si presentò con sicurezza straordinaria a casa della modista, fu assunta come rappresentante e ottenne un biglietto su una nave per Lima. Una volta a bordo si comportò come una missionaria francese dell'eleganza. Il suo talento innato nel riconoscere un buon vino, un buon profumo, un buon taglio di abiti, le dava un'aria da signora di classe. Aveva gusti raffinati in fatto di cibi. Matilde aveva attrattive piccanti per valorizzare questo ruolo. Rideva continuamente, qualsiasi cosa le succedesse. Le perdevano una valigia, e lei rideva. Le pestavano i piedi, e lei rideva. Fu la sua risata ad attrarre il rappresentante della Compagnia spagnola, Dalvedo, che la invitò a sedere al tavolo del comandante. Dalvedo era elegante nel suo abito da sera, aveva il portamento di un capitano, e molti aneddoti da raccontare. La sera seguente la portò a ballare. L'uomo si rendeva conto perfettamente che il viaggio non era abbastanza lungo per un corteggiamento in piena regola, pertanto incominciò immediatamente a corteggiare il piccolo neo sul mento di Matilde. A mezzanotte le chiese se le piacevano i fichi d'India. Matilde non li aveva mai assaggiati. Dalvedo disse che ne aveva alcuni nella sua cabina. Ma Matilde aveva deciso di accrescere il suo valore con la resistenza, per cui quando entrarono in cabina si mise sulla difensiva. Di solito le era facile respingere le mani degli uomini che sfiorava facendo la spesa, le pacche furtive sul sedere dei mariti delle clienti, le strizzatine ai capezzoli degli amici che la invitavano al cinema. Niente di tutto questo la turbava. Aveva un'idea vaga ma tenace di quel che poteva eccitarla. Voleva essere corteggiata con un linguaggio misterioso, un desiderio che le veniva dalla sua prima avventura di sedicenne. Uno scrittore, che era una celebrità a Parigi, era entrato un giorno nel suo negozio. Non voleva un cappello, le chiese invece se aveva dei fiori fosforescenti di cui aveva sentito parlare, fiori che al buio splendevano. Li voleva, disse, per una donna che al buio splendeva. Era pronto a giurare che quando la portava a teatro, seduta nel palco scuro nel suo abito da sera, ella aveva una pelle luminosa quanto la più delicata delle conchiglie marine, con un tocco di rosa pallido. E voleva questi fiori perché lei li mettesse nei capelli.

Matilde non li aveva. Ma, appena l'uomo se ne fu andato, corse a guardarsi allo specchio. Questo era il tipo di sentimento che voleva ispirare. Poteva farlo? Il suo splendore non era di quel genere. Lei era molto più simile al fuoco che alla luce. Aveva occhi ardenti, di colore violetto. I capelli eran tinti di biondo, ma emanavano un alone ramato.

Anche la sua pelle aveva un tono ramato, era soda e per niente trasparente. Il suo corpo le riempiva i vestiti a pennello,

generosamente. Non portava il busto, ma aveva la stessa sinuosità che il corsetto conferiva ad altre donne. Si inarcò in modo da spingere i seni in avanti e il sedere in alto. L'uomo era tornato. Ma questa volta non voleva comprare niente. Rimase in piedi a guardarla, con il lungo viso dai tratti raffinati illuminato da un sorriso, e i gesti eleganti che trasformavano in un rituale il semplice gesto di accendersi una sigaretta. Le disse: "Questa volta sono tornato solo per vederla." Il cuore di Matilde si mise a battere all'impazzata, mentre sentiva che era giunto il momento atteso per anni. Si sollevò quasi sulla punta dei piedi per sentire quel che l'uomo le avrebbe detto. Immaginò di essere la donna luminosa che, seduta nel palco buio, riceve gli insoliti fiori.

Ma quel che il raffinato scrittore dai capelli grigi pensò bene di dirle, con la sua voce aristocratica, fu: "Come ti ho vista, mi è venuto duro." La crudezza delle parole fu come un insulto. Matilde arrossì e gli diede uno schiaffo. Scene del genere si ripeterono in varie occasioni. Matilde scoprì che, in sua presenza, gli uomini di solito rimanevano senza parole, privi di ogni inclinazione al corteggiamento romantico. E si lasciavano sfuggire espressioni della stessa pesantezza al solo vederla. Faceva un effetto talmente diretto che tutto quel che gli uomini riuscivano a esprimere era il loro turbamento fisico. Invece di accettarlo come un tributo, Matilde si offendeva. Ora si trovava nella cabina dell'affabile spagnolo, Dalvedo. Dalvedo chiacchierava, sbucciando alcuni fichi d'India per lei. Matilde si rassicurò e sedette sul bracciolo della poltrona col suo vestito da sera di velluto rosso.

Ma la preparazione dei fichi fu interrotta. Dalvedo si alzò e disse: "Lei ha sul mento il più seducente dei nei." Matilde pensò che avrebbe cercato di baciarla ma non lo fece. Invece si sbottonò in fretta i pantaloni e, come farebbe un guitto con una donna di strada, le disse: "Inginocchiati." E Matilde, di nuovo, gli diede uno schiaffo e si diresse verso la porta. "Non te ne andare," la pregò lui, "mi fai impazzire, guarda in che stato mi hai ridotto! Ero in queste condizioni tutte le sere, quando ballavo con te. Non puoi lasciarmi adesso!" Cercò di abbracciarla e, mentre lei lottava per divincolarsi se ne venne macchiandole tutto il vestito. Matilde dovette coprirsi col mantello da sera per riguadagnare la cabina. Comunque, appena raggiunta Lima, Matilde realizzò il suo sogno. Gli uomini la avvicinavano con parole fiorite, nascondendo le loro intenzioni dietro un paravento di fascino e fronzoli. Questo preludio àll'atto sessuale soddisfaceva Matilde. Le piaceva essere un po' incensata. E a Lima lo fu, molto, era parte del rituale; veniva innalzata su un piedistallo di poesia di modo che la sua caduta nell'abbraccio finale potesse sembrare più miracolosa. Vendette più notti che cappellini. A quel tempo Lima subiva fortemente l'influenza della sua vasta popolazione cinese e fumare oppio era costume diffuso. Giovani ricchi si spostavano in bande di bordello in bordello, oppure passavano le notti nelle fumerie d'oppio, frequentate da prostitute, e affittavano delle stanze assolutamente spoglie nel quartiere dei bordelli, dove si drogavano in gruppo e ricevevano la visita delle puttane. Ai giovani piaceva far visita a Matilde. Questa trasformò il suo negozio in un boudoir, pieno di divani, di pizzi e satin, con tende e cuscini. Martinez, un aristocratico peruviano, la iniziò all'oppio. Portava da lei i suoi amici a fumare. A volte passavano due o tre giorni persi al mondo e alle famiglie. Le tende rimanevano chiuse, l'atmosfera era scura, sonnolenta. Gli uomini si dividevano Matilde tra loro. L'oppio li rendeva più voluttuosi che sensuali. Potevano passare delle ore ad accarezzarle le gambe. Uno di loro le prendeva un seno, un altro affondava i suoi baci nella carne soffice del collo, premendo soltanto con le labbra, perché l'oppio esaltava ogni sensazione. Un bacio poteva farla rabbrividire da capo a piedi. Matilde giaceva nuda sul pavimento. Tutti i movimenti erano lenti. Tre dei quattro giovani eran sdraiati tra i cuscini. Pigramente, un dito cercava il suo sesso, lo penetrava, giaceva tra le labbra della vulva, senza muoversi. Un'altra mano lo cercava a sua volta, si accontentava di tracciar cerchi intorno al sesso, cercava un altro orifizio. Un uomo offriva il pene alla sua bocca. Lei lo succhiava lentamente, ogni contatto esagerato dalla droga. Poi giacevano immobili per ore, a sognare. Più tardi prendevano forma altre immagini erotiche.

Martinez vedeva il corpo di una donna, distesa, senza testa, una donna con i seni di una balinese, il ventre di un'africana, le natiche alte di una negra; tutto questo si confondeva in un'immagine di carne mobile, una carne che sembrava fatta di elastico. I seni tesi si gonfiavano verso la sua bocca e la sua mano si protendeva alla loro volta, ma ecco che altre parti del corpo si tendevano, divenivano prominenti, sovrastavano il suo stesso corpo. Le gambe si aprivano in modo disumano, impossibile, come se fossero staccate dalla donna, per lasciare il sesso esposto, aperto, come un tulipano che qualcuno aveva aperto a forza.

Questo sesso era anche mobile, plastico come gomma, come se lo tendessero mani invisibili, mani strane che volevano smembrare il corpo per spingersi al suo interno. Poi il sedere si girava completamente verso di lui e perdeva la sua forma, come se qualcuno lo stesse tirando.

Ogni movimento tendeva ad aprire il corpo completamente, fino a strapparlo. Martinez veniva preso dalla frenesia perché altre mani stavano toccando quel corpo. Si sollevava un po' e cercava il seno di Matilde, e se vi trovava una mano, o una bocca che lo stava succhiando, cercava il suo ventre come fosse ancora l'immagine che popolava il suo sogno d'oppio, poi si abbassava, scivolando lungo il corpo di lei sino a poterla baciare tra le gambe aperte. Il piacere di Matilde

nell'accarezzare gli uomini era così immenso, e le loro mani che passavano sul suo corpo la accarezzavano così completamente, così continuamente, che non riusciva quasi mai a raggiungere l'orgasmo. Se ne rendeva conto solo dopo che gli uomini se n'erano andati e si risvegliava dai suoi sogni d'oppio con il corpo ancora inquieto.

rimaneva sdraiata a limarsi le unghie e a dipingerle con lo smalto, si dedicava alla sua raffinata toilette per future occasioni, si spazzolava i capelli biondi. Seduta al sole, si schiariva i peli del pube con batuffoli di acqua ossigenata per armonizzarli coi capelli. Abbandonata a se stessa, era tormentata dal ricordo delle mani sul suo corpo. Ora ne sentì una sotto il braccio, che le scivolava verso la vita. Le venne in mente Martinez, il suo modo di aprirle il sesso come un bocciolo, i colpetti della sua lingua veloce che copriva la distanza dal pelo pubico alle natiche, fermandosi nella fossetta alla fine della colonna vertebrale. Come gli piaceva questa fossetta, che portava le sue mani e la sua lingua a seguire la curva all'ingiù e svanire tra le due morbide rotondità carnose. Pensando a Martinez, Matilde si sentì invadere dalla passione. E non riuscì ad aspettare il suo ritorno. Si guardò le gambe che a furia di vivere in casa erano diventate bianche molto allettanti, di un bianco gesso simile alla carnagione delle donne cinesi, di un morboso pallore da serra che gli uomini, e in particolare i peruviani di pelle scura, amavano molto. Si guardò il ventre, senza un difetto, senza una sola piega che non avrebbe dovuto esserci. I peli pubici erano rosso dorati, brillavano al sole. "Com’è che mi vede lui?" si chiese. Si alzò e portò un lungo specchio vicino alla finestra e lo appoggiò al pavimento, contro una sedia. Poi vi si mise di fronte, seduta sul tappeto, e lentamente aprì le gambe. La vista era incantevole. La pelle era immacolata, la vulva rosata e piena.. Pensò che era come la foglia dell'albero della gomma con il suo latte segreto che la pressione delle dita poteva far uscire, la mistura odorosa che assomigliava a quelle delle conchiglie marine. Così era Venere, nata dal mare, con dentro questo piccolo chicco di miele salato, che solo le carezze potevano far uscire dai recessi nascosti del suo corpo. Matilde si chiese se sarebbe riuscita a farlo uscire dal suo misterioso nocciolo. Aprì con le dita le piccole labbra della vulva e incominciò ad accarezzarla con la dolcezza di un gatto. Avanti e indietro, si accarezzò come faceva Martinez con le sue dita scure più nervose. Le vennero in mente quelle dita scure sulla sua pelle, così in contrasto col suo pallore, così grosse che sembravano più adatte a far male che a suscitare piacere con il loro tocco. Con quanta delicatezza la toccava, pensò, tenendo la vulva tra le dita come se stesse toccando del velluto. Anche lei la prese come faceva lui, tra il pollice e l'indice. Con l'altra mano libera continuò ad accarezzarsi.

Provò lo stesso scioglimento che sentiva sotto le dita di Martinez. Da qualche luogo oscuro stava arrivando un liquido salmastro, a coprire le ali del suo sesso; e tra esse ora brillava. Poi Matilde volle sapere che aspetto aveva quando Martinez le diceva di girarsi. Si sdraiò sul fianco sinistro offrendo il culo allo specchio. Ora poteva vedere il suo sesso da un'altra prospettiva. Si mosse come si muoveva per Martinez. Vide la sua mano apparire sulla collinetta formata dalle natiche, che prese ad accarezzare. L'altra mano si spostò tra le gambe e comparve nello specchio da dietro. Questa mano le accarezzava il sesso avanti e indietro. Poi venne inserito un indice e Matilde incominciò a strofinarvisi contro. Ora era in preda al desiderio di essere presa da entrambe le parti, e affondò l'altro indice nel buco tra le natiche.

Ora, spostandosi in avanti, sentiva il dito nella vagina, e, sporgendosi indietro, sentiva l'altro dito, come le capitava a volte quando Martinez e un amico la accarezzavano insieme. L'avvicinarsi dell'orgasmo la eccitò e i suoi gesti divennero convulsi, gesti che volevano staccare l'ultimo frutto da un ramo, tirando e strappando per far precipitare tutto in un orgasmo selvaggio, che venne mentre si guardava allo specchio, vedendo le sue mani muoversi, il miele brillare, tutto il sesso e il culo umidi di un umore lucente tra le gambe. Dopo aver visto i propri movimenti allo specchio. Matilde capì la storia raccontatale da un marinaio i cui compagni si erano costruiti una donna di gomma per passare il tempo e dar sfogo al desiderio che li tormentava durante i sei o sette mesi in mare. La donna era stata costruita benissimo e dava loro un'illusione perfetta. I marinai l'amavano e se la portavano a letto. Era fatta in modo che ogni apertura li potesse soddisfare. Aveva il pregio che un vecchio indiano aveva una volta attribuito alla sua giovane moglie: poco dopo il loro matrimonio, questa era l'amante di tutti i giovani della fattoria. Il padrone chiamò il vecchio indiano e lo informò della condotta scandalosa della sua giovane sposa e gli consigliò di sorvegliarla meglio. L'indiano scosse la testa

scetticamente e rispose: "Be', non capisco perché dovrei preoccuparmi tanto. Mia moglie non è fatta di sapone, mica si consuma." La stessa cosa avveniva con la donna di gomma. I marinai la trovavano riposante e arrendevole, una compagna davvero meravigliosa. Tra di loro non c'erano gelosie né lotte, né possessività. La donna di gomma era molto amata.

Ma, a dispetto della sua innocenza, del suo buon carattere, della sua generosità, del suo silenzio, a dispetto della fedeltà ai suoi marinai, attaccò la sifilide a tutti quanti. Matilde rise ripensando al giovane marinaio peruviano che le aveva raccontato questa storia, alla descrizione del suo modo di giacere sulla donna di gomma come se fosse un materasso che a volte lo faceva balzar in aria per pura elasticità.

Matilde quando prendeva l'oppio, si sentiva esattamente come questa donna di gomma. Com'era piacevole la sensazione di abbandono totale! La sua sola occupazione era contare i soldi che le lasciavano i suoi amici.

Uno di loro, Antonio, non sembrava soddisfatto del lusso della sua stanza. La pregava sempre di andare da lui. Era un pugile e aveva l'aria di uno che sa come far lavorare le donne per farsi mantenere. Aveva allo stesso tempo l'eleganza necessaria a far sentire una donna fiera di lui, l'aria curata dell'uomo ozioso, e maniere soavi che, si intuiva, potevano diventare violente al momento opportuno. E negli occhi aveva l'espressione di un gatto che ispira il desiderio di accarezzarlo, ma non ama nessuno, non pensa mai di dover contraccambiare gli impulsi che suscita. Aveva un'amante che ben gli si addiceva, perché era a lui eguale in forza e vigore e sapeva incassare i colpi a meraviglia. Una donna che portava la sua femminilità con onore e non chiedeva pietà agli uomini; una donna vera che sapeva che una lotta vigorosa era un meraviglioso stimolante per il sangue (la pietà invece lo diluiva soltanto, e che le migliori riconciliazioni avevano luogo solo dopo una lotta. Sapeva che Antonio quando non era con lei era dalla francese a prender oppio, ma per lei era meno preoccupante saperlo che non sapere affatto dove fosse. Oggi Antonio aveva appena finito di lisciarsi i baffi con soddisfazione e si stava preparando per una festa d'oppio. Per placare la sua amante prese a pizzicarla e a darle delle pacche sul sedere. Era una donna dall'aspetto insolito, con sangue africano nelle vene. I suoi seni erano più alti di quelli di tutte le donne che Antonio conosceva, quasi paralleli alla linea delle spalle, ed erano

assolutamente rotondi e grandi. Erano stati questi seni ad attrarlo in principio. La loro posizione così provocante, così vicino alla bocca, puntati verso l'alto, in qualche modo risvegliava in lui una risposta immediata. Era come se il suo sesso avesse una particolare affinità con quei seni, e, non appena avevan fatto la loro apparizione nel bordello in cui Antonio l'aveva trovata, il suo sesso si era alzato per sfidarli sullo stesso terreno. Ogni volta che era andato al bordello, aveva sperimentato la stessa sensazione. Alla fine fece uscire la donna dalla casa chiusa e visse con lei. All'inizio riusciva a far l'amore soltanto coi suoi seni: lo tormentavano, lo ossessionavano. Quando le metteva il pene in bocca, essi sembravano puntarsi contro di lui arrabbiati, così finiva per appoggiarlo tra questi seni, stringendoli contro il pene con le mani. I capezzoli erano grandi e si indurivano nella sua bocca come il nocciolo di un frutto. Eccitata dalle sue carezze, la donna veniva lasciata con la metà inferiore del corpo completamente trascurata. Le gambe le tremavano, implorando violenza, il sesso le si apriva, ma l'amante non ci faceva caso. Si riempiva la bocca dei suoi seni e tra questi posava il suo pene, gli piaceva vedere il suo seme irrorarli. Il resto del corpo di lei si contorceva, gambe e sesso accartocciati come foglie ad ogni carezza, a dimenarsi nell'aria, e alla fine la donna metteva lì le proprie mani e si masturbava. Quel mattino, prima di andarsene, egli ripet‚ le sue carezze. Le morse i seni. Lei gli offrì il sesso, ma lui non volle prenderlo, la fece invece inginocchiare davanti a sé e le fece prendere il pene in bocca. La donna gli strofinò contro i seni. Questo espediente a volte la faceva venire. Poi egli uscì e si incamminò con calma verso la casa di Matilde. Trovò la porta accostata ed entrò con i suoi passi felini, che non facevano rumore sul tappeto.

Trovò Matilde sdraiata sul pavimento, davanti allo specchio. Era appoggiata alle mani e alle ginocchia e si guardava tra le gambe nello specchio. "Non muoverti Matilde," le disse, "questa è una posa che mi fa impazzire. Si accovacciò su di lei come un gattone gigantesco, e il suo pene la penetrò. Diede a Matilde quel che non voleva dare all'amante.

Infine il suo peso la fece affondare scompostamente sul tappeto. Le sollevò il sedere con le mani e cadde su di lei ancora e ancora. Il suo pene sembrava fatto di ferro rovente. Era lungo e sottile e lui lo muoveva in tutte le direzioni e scattava dentro di lei con una agilità che Matilde non aveva mai sperimentato. Accelerò ancor di più i suoi gesti e disse rauco: "Vieni adesso, adesso, vieni ti dico, datti tutta a me, ora. Dammela, come non hai mai fatto prima. Datti adesso." A queste parole, Matilde incominciò a gettarsi contro di lui furiosamente, e l'orgasmo venne come un lampo che li colpì entrambi nello stesso istante. Gli altri li trovarono ancora avvinghiati sul tappeto e risero vedendo lo specchio che aveva assistito all'amplesso. Incominciarono a preparare le loro pipe d'oppio. Matilde era languida e Martinez iniziò il suo sogno di donne sdraiate dal sesso aperto. Antonio conservava la sua erezione e chiese a Matilde di sedersi su di lui, e lei lo assecondò. Quando questa festa d'oppio fu finita e se ne furono andati tutti salvo Antonio, egli le ripropose di accompagnarlo alla sua fumeria speciale. Il ventre di Matilde bruciava ancora dei suoi colpi profondi, ed ella acconsentì, perché voleva rimanere da sola con lui e ripetere l'amplesso. Camminarono in silenzio per le stradine di Chinatown. Donne di tutte le parti del mondo sorridevano loro dalle finestre aperte, stavano in piedi sulla soglia invitandoli a entrare. Alcune stanze si potevano vedere dalla strada. Solo una tenda nascondeva i letti. Si vedevano le coppie avvinghiate. C'erano donne siriane, con i loro costumi nativi, donne arabe coi corpi seminudi ornati di gioielli, donne cinesi e giapponesi che facevano gesti invitanti, grandi donne africane, accosciate in cerchio, che chiacchieravano tra di loro. Una delle case era piena di puttane francesi, con indosso corte camicie rosa, che sferruzzavano e cucivano come fossero a casa loro. Adescavano sempre i passanti con promesse di specialità. Le case erano piccole, illuminate debolmente, polverose nebbiose di fumo, piene di voci fonde, del mormorio degli ubriachi, degli accoppiamenti. I cinesi adornavano l'ambiente e lo rendevano ancor più confuso con paraventi e tende, lanterne, incensi, Budda d'oro. Era un labirinto di gioielli, fiori di carta, arazzi di seta, tappeti, con donne altrettanto varie dei disegni e dei colori che invitavano i passanti ad andare a letto con loro. Era in questo quartiere che Antonio aveva una stanza. Portò Matilde su per una scala squallida, aprì una porta che stava per cadere a pezzi, e la spinse dentro. Non c'erano mobili nella stanza. Sul pavimento c'era una stuoia cinese e su questa era sdraiato un uomo vestito di stracci, un uomo così emaciato, con un aspetto così malsano, che Matilde si ritrasse. "Ah, sei qui," disse Antonio irritato "Non sapevo dove altro andare." "Lo sai che non puoi stare qui; la polizia ti sta cercando."

"Sì, lo so." "Suppongo che sia stato tu a rubare la cocaina l'altro giorno. Sapevo che dovevi esser stato tu." "Sì." L'uomo parlava con aria assonnata, indifferente. Poi Matilde vide che aveva il corpo coperto di graffi e piccole ferite. L'uomo fece lo sforzo di tirarsi su a sedere.

Teneva una fiala in una mano e nell'altra una penna stilografica e un coltellino a serramanico. Matilde lo osservò con orrore. Egli ruppe il collo della fiala con il dito, scuotendo via i vetri rotti. Poi, invece di inserire una siringa ipodermica, inserì la penna stilografica e aspirò il liquido. Con il coltellino si fece un taglio sul braccio che era già coperto di ferite vecchie e recenti, e nel taglio nuovo inserì la penna stilografica e si iniettò la cocaina nella carne. "E' troppo povero per comprare una siringa con l'ago da iniezione," disse Antonio.

"E io non gli ho dato i soldi perché pensavo che in questo modo sarei riuscito a impedirgli di rubarla. Ma ecco cos'ha trovato al posto dell'ago." Matilde voleva andarsene, ma Antonio non glielo permise.

Voleva che prendesse la cocaina con lui. L'uomo era di nuovo sdraiato con gli occhi chiusi. Antonio estrasse la siringa e fece un'iniezione a Matilde. Si sdraiarono sul pavimento e Matilde fu sopraffatta da un torpore incredibile. Antonio le disse: "Ti senti morta, vero?" Era come se le avessero dato dell'etere. La voce di lui sembrava provenire da una grande distanza. Gli fece segno che si sentiva venir meno. "Passerà," la rassicurò lui. E allora incominciò l'incubo. Lontano, c'era la figura dell'uomo prostrato, sdraiato sulla stuoia, poi la figura di Antonio, molto grande e nera. Antonio prese il coltellino e si chinò su Matilde.

Ella sentì il suo pene dentro di sé, morbido e piacevole e si mosse con gesti ondulati, lenti e rilassati, ma il pene venne estratto. Lo sentì dondolare sulla carne umida e serica tra le sue gambe, ma non era stata soddisfatta e fece un movimento per recuperarlo. Poi, nell'incubo, Antonio aprì il coltello, e Si chinò sopra le sue gambe aperte, la toccò con la punta della lama e la inserì leggermente. Matilde non sentì dolore e non aveva energie per muoversi, era ipnotizzata da questo coltello aperto. Poi si rese conto all'improvviso di quel che stava succedendo, capì che non era un brutto sogno. Antonio stava fissando la punta del coltello che toccava l'apertura del suo sesso. Matilde gridò.

La porta si aprì. Era la polizia, venuta ad arrestare il ladro di cocaina. Matilde venne strappata all'uomo che tante volte aveva tagliato l'apertura del sesso delle puttane, e che, per questa ragione, non avrebbe mai toccato la sua amante in quel posto. Era stato salvo solo quando aveva vissuto con lei, quando i seni provocanti avevano distolto la sua attenzione dal sesso, l'attrazione morbosa per quella che lui chiamava "la piccola ferita della donna", che era così violentemente tentato di allargare.