6
Una taglia per William
Blake
Non sono soltanto gli autori immaginari come il Mike Noonan di Mucchio d’ossa a provare rimorsi nei confronti dei propri insegnanti di letteratura. James W. Hall è uno scrittore vero, con tanto di prestigioso curriculum accademico (ha studiato letteratura alla Johns Hopkins, una delle migliori università degli USA). I primi titoli che figurano nella sua bibliografia sono raccolte di poesie, salutate con una certa benevolenza dalla critica. «All’inizio tentavo di scrivere romanzi “seri”, molto “letterari”, ha confessato in un’intervista ad Amazon.com, la grande libreria virtuale di Internet. «Insomma, il genere di libro che può essere ammirato da un insegnante di college. Ma la svolta è venuta soltanto quando ho deciso di provare a scrivere il genere di narrativa che amavo in segreto».
La passione inconfessabile di Hall è, neanche a dirlo, il thriller. Nel giro di qualche anno si è guadagnato una certa notorietà con una serie di libri ambientati fra i pescatori e i turisti della Florida meridionale. Come da protocollo, il personaggio ricorrente di Hall, l’investigatore Thorn, nasconde nel suo passato un doloroso segreto. I romanzi hanno titoli a modo loro suggestivi, che non sarebbero dispiaciuti al Noonan di King: espressioni del tipo Bones of Coral (‘Ossa di corallo’) o Red Sky at Night (‘Rosso di sera’). Uno dei libri di Hall in cui invece il dilaniato Thorn non compare si intitola L’alfabeto dei corpi (1998) e rientra alla perfezione nel genere in cui il protagonista di Mucchio d’ossa si considera uno specialista: «Bella giovane donna sola incontra affascinante sconosciuto».
Hall però non ha studiato letteratura invano. Rispetto al grossolano pragmatismo citazionsita rivelato da Connelly nel Poeta, l’autore dell’Alfabeto dei corpi ricorre infatti con maggior discrezione all’uso di citazioni e ammiccamenti colti. Non riesce a rinunciare all’immancabile Salmo 23 (il serial killer del caso gira armato di una scheggia di specchio su cui sono impresse le parole «Sì, anche se camminassi...»), ma per il resto preferisce concentrarsi su un’altra intuizione, decisamente originale nella sua morbosità. Dopo aver adescato, violentato e ucciso le sue vittime, lo Stupratore Sanguinario al quale la polizia di Miami sta dando la caccia ha infatti l’abitudine di disporre i cadaveri in posizioni innaturali. Ci vorranno trecento pagine e il colpo d’occhio di un ex poliziotto in lotta contro l’Alzheimer per capire che ogni corpo rappresenta una lettera e che, tutte insieme, le lettere compongono il nome della donna che ossessiona l’omicida.
Subito dopo questa rivelazione, il poeta (o ex poeta?) Hall si concede il lusso dell’unica esplicita citazione letteraria del libro. Il serial killer ha ormai raggiunto la sua preda e la osserva da poco lontano abbandonandosi a un flusso di pensieri che il romanziere trascrive in terza persona:
Gli bastava una minuscola particella del corpo di lei, una piccola squama di pelle, una goccia invisibile di sudore evaporato. Lei gli stava dentro il naso. Lui la respirava, la assorbiva dentro il proprio corpo direttamente lungo i canali neurali. Le particelle dell’entità fisica di lei gli solleticavano il tronco cerebrale. Pullulava di lei. Fremente nel buio. «Tyger! Tyger! burning bright/In the forests of the night...». Fiamme invisibili, arancioni, rosse e gialle, guizzanti verso il cielo. Bruciava, una larva trasparente, incandescente e invisibile.
Per il lettore di lingua inglese, la coppia di versi che riaffiora nella memoria dello stupratore è almeno altrettanto familiare delle reminiscenze del Secondo Avvento di Yeats che abbiamo incontrato in Millennium. Si tratta infatti dell’incipit de La tigre, il più celebre dei Canti dell’esperienza di William Blake («Tigre! Tigre! divampante fulgore/Nelle foreste della notte», traduceva Giuseppe Ungaretti).
Hall non è il solo autore di thriller a sfruttare il fascino minaccioso di Blake, poeta visionario per eccellenza che meglio di ogni altro sembra incarnare l’idea di letteratura come sapere arcano e letale tanto cara al cinema e alla narrativa di fine millennio. Il primo a intuire il potenziale di ambiguità di Blake è stato lo stesso Thomas Harris nel romanzo d’esordio del dottor Lecter, il già ricordato Drago Rosso. Un’intuizione decisamente precoce, considerato che l’edizione originale del libro porta la data del 1981.
Unanimemente considerato il miglior romanzo di Harris, Drago Rosso tradisce il suo debito con Blake fin dal titolo, ispirato a un acquerello dell’autore inglese che raffigura, appunto, Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole dell’Apocalisse. A proposito del dipinto, Harris è abbastanza abile da disseminare nel corso della trama una serie di falsi indizi. Afferma, per esempio, che l’opera sarebbe stata eseguita da Blake per il più assiduo dei suoi mecenati, lo swedenborghiano Thomas Butts (che nel libro, per una clamorosa svista, viene ribattezzato William), e sostiene addirittura che sarebbe conservata al Brooklyn Museum di New York. In realtà, la versione del Drago Rosso che più assomiglia a quella descritta da Harris è custodita alla National Gallery di Washington, il che non impedisce agli esegeti del romanzo di accapigliarsi via Internet sull’autenticità dell’identificazione.
Nel caso di Drago Rosso, tuttavia, le questioni filologiche hanno un’importanza relativa, poiché tutta la discussione sull’opera di Blake avviene soltanto nella mente del serial killer al quale l’FBI sta dando la caccia. Neppure il dottor Lecter, che dalla sua cella del manicomio di Baltimora entra in contatto epistolare con l’assassino, conosce nei dettagli l’ossessione del suo «avido ammiratore». Gli esperti di Scienza del comportamento (compreso Crawford, che in questo primo romanzo ha un ruolo in sostanza marginale) non riusciranno mai a decifrare con precisione il disegno perverso seguito dal criminale che, a causa del legame tra le sue imprese e la luna piena, è stato ribattezzato «il Lupo Mannaro» dalla stampa scandalistica. «Si potrebbe trovare un appellativo più inappropriato?», si lamenta l’interessato nella lettera inviata a Lecter: «Me ne vergognerei nei suoi confronti, se non sapessi che anche lei è stato vittima delle stesse distorsioni».
Nella sua follia, Francis Dolarhyde, efficiente quanto solitario tecnico di un grande laboratorio cinematografico a St Louis, è convinto di essere qualcosa di molto diverso da un semplice licantropo. Il lupo mannaro, infatti, subisce la metamorfosi a dispetto della propria volontà, obbedendo all’ineluttabile rincorrersi dei cicli lunari. Dolarhyde, invece, sente di essere stato scelto dall’infernale Drago Rosso per portare a compimento, su di sé e sulle proprie vittime, la grande «Trasformazione». Vuole fare esattamente quello che fa, per mostrare al mondo una suprema epifania di orrore e incontrollato erotismo.
Il personaggio di Dolarhyde è, con tutta probabilità, la miglior invenzione letteraria di Harris. In Hannibal la figura di Lecter viene fatalmente ridimensionata dalla rievocazione delle vicende che hanno trasformato il rampollo di una nobile famiglia lituana in un cannibale, ma questo non accade in Drago Rosso, dove il lungo flashback sulla vita di Dolarhyde ottiene un risultato molto più sfumato e inquietante. L’orribile morte della sorellina di Lecter, uccisa e divorata da un gruppo di disertori nazisti nel gelido inverno del 1944, può in qualche modo aiutare a capire da dove venga l’ossessione dello psichiatra per l’antropofagia. Ma si tratta di una rivelazione di tipo esclusivamente razionale, quasi la quadratura del cerchio narrativo tracciato – appunto – a partire da Drago Rosso. Tutto quello che sappiamo dell’infanzia di Dolarhyde, invece, pur non attenuando l’orrore per le sue imprese, ci induce a provare compassione nei confronti dell’assassino. Un sentimento che neppure Jame Gumb, il Buffalo Bill del Silenzio degli innocenti, riuscirà più a suscitare, dato che i retroscena della sua infanzia non fanno altro che rafforzare la sua immagine di mostro sanguinario (la carriera criminale di Jame, infatti, inizia all’età di dodici anni con la spietata esecuzione dei nonni materni).
In Drago Rosso il “romanzo di Francis” ha una sua compattezza narrativa e stilistica ben riconoscibile. Il lettore non fatica a immedesimarsi nelle sofferenze del bimbo nato con il labbro leporino, cresciuto in un orfanotrofio tra le crudeli beffe dei compagni – all’età di cinque anni è convinto che il suo nome sia «Faccia di figa» – e infine usato dalla nonna per uno squallido ricatto morale nei confronti della madre, che nel frattempo ha sposato un politico in carriera. Il problema, semmai, è che il meccanismo di identificazione scatta quando il lettore sa già che, da adulto, quel bambino maltrattato è divenuto un assassino seriale.
Perseguitato da un umiliante complesso di castrazione (la nonna minacciava di tagliargli il pene come punizione per l’enuresi notturna), poco dopo i trent’anni Francis si è infatti imbattuto nell’immagine del Drago Rosso e ha deciso di emularne le gesta. La prima fase della Trasformazione ha riguardato il suo aspetto fisico: si è fatto tatuare sul corpo una riproduzione dell’acquerello di Blake e si è sottoposto a un intervento che gli ha rimodellato il palato sulla dentiera della nonna, strumento simbolico con il quale infierisce sulle sue vittime. Ma perché la metamorfosi sia completa Francis ha bisogno di sacrificare alla gloria del Drago rampante intere famiglie, scelte tra gli inconsapevoli clienti del laboratorio di sviluppo cinematografico di cui è responsabile.
Lecter/Lektor/lector
Tutta questa esegesi delirante avviene, ripetiamolo, soltanto nella mente di Dolarhyde. Neppure Will Graham – il tormentato esperto di psicopatologie criminali che Crawford ha richiamato in servizio per indagare sui delitti del Lupo Mannaro – riesce a penetrare in questo labirinto di ossessioni. A un certo punto, è vero, Graham si imbatte in un ideogramma cinese che, nel gioco del Mah-Jongg, rappresenta il Drago Rosso, ma l’informazione non gli è di nessun aiuto. Quando, per altre vie, si sta avvicinando all’identificazione di Dolarhyde, viene informato da Crawford che qualcuno ha aggredito due impiegate del Brooklyn Museum e ha mangiato «un affare intitolato Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole», ma neppure questo tassello riesce a trovare una collocazione nel mosaico di deduzioni e intuizioni che guida Graham nelle sue indagini. La chiave dell’enigma, probabilmente, si trova in quella «specie di diario» che, dopo la morte di Dolarhyde, l’FBI scopre in una cassetta di sicurezza. «Un registro enorme», lo definisce Crawford, «una cosa da far spavento», proprio come i quaderni compilati da John Doe in Seven. Anche il Lupo Mannaro, dunque, era uno scrittore, e del tipo più pericoloso.
A questo punto, però, Graham ha esaurito il proprio interesse per la mente omicida di Dolarhyde. L’investigatore è rimasto orribilmente sfigurato nello scontro finale con il serial killer (nel Silenzio degli innocenti veniamo a sapere che, nonostante le cure, la faccia di Graham «sembra disegnata da Picasso») e, per quanto lo riguarda, pensa di non aver più nulla da imparare. Di sicuro, non dai libri: né da quelli di Blake né dal delirante brogliaccio di Dolarhyde, che del poeta inglese rappresenta un imbarazzante interprete non autorizzato.
Graham pensa di aver imparato abbastanza o, per usare le categorie care a Blake, di aver sacrificato abbastanza Innocenza all’Esperienza. Immobilizzato nel suo letto d’ospedale, torna con la memoria al parco nazionale di Shiloh, nel Tennessee, visitato anni prima. Lì, a ridosso del grande cimitero che ricorda una delle più sanguinose battaglie della guerra di secessione, Graham ha visto un serpente contorcersi in agonia dopo che un’automobile lo aveva travolto. Ricorda di aver ucciso il rettile «frustandolo violentemente sull’asfalto», di aver visto il cervello dell’animale finire nello stagno per essere inghiottito da un pesce e di aver pensato che Shiloh era «un posto maledetto». Adesso, invece, ha cambiato idea: «Shiloh non è maledetta... sono gli uomini ad esserlo. Shiloh è indifferente».
Sono le ultime parole del libro, alle quali fa seguito soltanto un versetto dell’Ecclesiaste (1,17): «E ho condotto il mio cuore a conoscere la sapienza, e anche a conoscere la pazzia e la stoltezza: e ho riconosciuto che questo ancora è un tormento dello spirito». È il tipo di citazione che potremmo ritrovare in Millennium, ma con una differenza importante: Graham, a differenza di Black, non è un lettore della Bibbia. E neppure delle opere di William Blake, che consentono ad Harris un discreto sfoggio di erudizione nella duplice epigrafe di Drago Rosso. All’inizio del romanzo, infatti, troviamo prima alcuni versi tratti dai Canti dell’innocenza, e precisamente dalla poesia La divina immagine:
[...] Perché la grazia ha cuore umano,
Volto umano la pietà,
E l’amore, umana forma divina,
E veste umana, la pace.
Subito dopo, però, Harris aggiunge questi altri versi, sempre di Blake, precisando in nota che si tratta di un componimento inizialmente scartato dai Canti dell’esperienza e intitolato Una divina immagine:
La crudeltà ha cuore umano,
E volto umano la gelosia,
Il terrore, umana forma divina,
E veste umana, il mistero.
Di ferro forgiato è la veste umana,
Un’ignea forgia l’umana forma,
Ermetica fornace il volto umano,
Sua avida gola il cuore.
A differenza degli indizi discordanti forniti a proposito dell’acquerello del Drago Rosso, questa volta l’informazione di Harris è corretta. La tavola di A Divine Image fu effettivamente stampata da Blake, che però preferì non inserirla nell’edizione definitiva dei Songs of Experience. Di sicuro le due poesie, con la loro contrapposizione speculare, descrivono in modo efficace il percorso umano di Graham, abile segugio di menti criminali costretto a pagare a caro prezzo il «dono sgradevole» di vedere la scena del delitto con gli occhi dell’assassino (una caratteristica che, se mai occorresse ricordarlo, lo rende simile al Black di Millennium).
Anni prima di dare la caccia a Dolarhyde, Graham è riuscito a catturare, grazie a un’intuizione fulminante, il terribile Lecter, che per poco non è riuscito ad ammazzarlo. Più tardi, ancora turbato dalla vicenda del cannibale, l’investigatore ha ucciso un criminale in uno scontro a fuoco, rimanendone così sconvolto da dover essere ricoverato in un ospedale psichiatrico. Una volta dimesso, ha lasciato l’FBI e si è costruito una famiglia. Ha una donna, Molly, e fa da padre al figlio di lei, Willy. Accetta di tornare in servizio illudendosi di non lasciarsi più coinvolgere emotivamente dalle indagini, ma da questo punto di vista il suo fallimento è totale. Grazie alle indicazioni fornitegli da Lecter, Dolarhyde raggiunge Graham a casa sua, lo aggredisce sfigurandolo, ma viene ucciso da Molly. Nessun lieto fine, anche se il mostro è sconfitto: in ospedale, mentre ripensa a Shiloh, Graham ha già capito che, dopo essere stata contaminata dal Male per causa sua, Molly non potrà più vivere con lui.
Ci sono molti libri, in Drago Rosso, ma nessuno viene mai in aiuto di Graham. Neppure la Bibbia, che in un primo momento sembra nascondere la chiave del codice con cui Lecter e Dolarhyde comunicano tra di loro grazie alla piccola pubblicità di un giornale scandalistico (con il suo solito gusto per il blasfemo, il cannibale fa in modo che i finti versetti rimandino in realtà a un libro di cucina). Nel romanzo, l’unico che sembra far uso dei libri è proprio Lecter, che nella sua piccola biblioteca conserva, tra l’altro, una copia de Il naufragio della Deutschland, il poemetto del gesuita Gerard Manley Hopkins che fornisce un’insperata conferma allo psichiatra, convinto che – nel computo delle atrocità – «Dio è sempre in testa» anche rispetto al più efferato dei serial killer. Ma agli occhi di Lecter Graham non è abbastanza colto per apprezzare i versi di Hopkins e così, a suffragio della propria teoria, gli suggerisce di leggere con maggiore attenzione i giornali. Quegli stessi giornali che, non a caso, Dolarhyde dimostra di disprezzare tanto. Quando, nel Silenzio degli innocenti, si prenderà gioco della scarsa cultura dell’FBI, è molto probabile che Lecter pensi a Graham, oltre che a Crawford.
La situazione di Drago Rosso è dunque chiara: i serial killer conoscono la letteratura, i poliziotti che su di loro indagano no. Questo vuol dire che, se si scegliesse di raccontare la storia soltanto dal punto di vista dell’FBI, eliminando per intero il “romanzo di Francis”, le allusioni letterarie potrebbero essere quasi del tutto cancellate, senza arrecare effettivi danni alla trama. È quello che accade in Manhunter – Frammenti di un omicidio, il film che nel 1986 il regista Michael Mann ha tratto da Drago Rosso. Reduce dal successo televisivo della serie Miami Vice, Mann dà del romanzo una trascrizione visiva che rappresenta un’autentica celebrazione delle estetiche degli anni Ottanta: uso ossessivo del colore bianco nelle scenografie, abiti stile Armani per l’attore protagonista William Petersen (un Graham che, alla fine, riesce a sconfiggere Dolarhyde senza perdere se stesso), colonna sonora modaiola al punto giusto. Il tutto, almeno in apparenza, rinunciando ai libri, perfino quelli di cucina: questa volta, infatti, il codice cifrato tra Lecter e Dolarhyde viene decrittato attraverso lo Statuto dello Stato del Maryland. L’unico testo a essere citato in modo esplicito è il manuale medico – ricordato anche in Drago Rosso – che riporta l’illustrazione dell’Uomo Ferito, l’immagine raccapricciante grazie alla quale Graham racconta di aver capito che Lecter era l’assassino che stava cercando. In apparenza si tratta di un libro di medicina simile a quelli che abbiamo già incontrato in Fuori orario e Pulp Fiction, ma in Hannibal lo stesso Harris – sempre più desideroso di confermare la propria allure di autore colto – preciserà che si tratta di un testo medievale.
In Manhunter c’è comunque un particolare che merita attenzione. Nella sceneggiatura, preparata dallo stesso Mann, il cognome dello psichiatra cannibale non è più Lecter, ma Lektor, quasi una trascrizione germanizzata del latino lector, ‘lettore’. Nella sua cella i libri sono ancora ben visibili, anche se si tratta esclusivamente di testi scientifici (nessuna traccia di Hopkins o di altri poeti). Ma il messaggio è comunque chiaro, ed è un anticipo di quello che troveremo in Seven: chi pratica il male conosce i libri. Lo stesso Dolarhyde cinematografico, pur privato della possibilità di rendere conto della propria interpretazione, non rinuncia al riferimento al dipinto di Blake, la cui citazione rischia peraltro di galleggiare nel vuoto. Il “romanzo di Francis”, nel film, non è neppure accennato. Ed è proprio questa riduzione delle prospettive narrative a rendere superflua un’ambientazione più precisa dal punto di vista letterario. La poesia, ancora una volta, è una prerogativa del serial killer.
La tigre e il replicante
In realtà, sia Drago Rosso sia Manhunter contengono un implicito quanto evidente omaggio a Blake, e proprio al Blake celeberrimo della Tigre. In un momento cruciale della trama, Dolarhyde conosce Reba, che lavora in un laboratorio vicino al suo. Al contrario delle altre donne, Reba non intimorisce Francis, perché è cieca e non può quindi deriderlo per il suo aspetto (anche se corretto chirurgicamente, il labbro leporino è ancora intuibile). Al loro primo appuntamento, Dolarhyde – che conosce bene il direttore dello zoo – porta Reba nello studio veterinario dove si sta per sostituire la zanna rotta di una tigre. Il grande felino giace anestetizzato sul lettino e a Reba viene dato il permesso di accarezzarlo o, meglio, di “vederlo” con il tatto.
La scena – che Dolarhyde segue con crescente eccitazione – è quasi una riscrittura in prosa dei versi di Blake. Di fatto, la poesia è una ammirata descrizione del corpo dell’animale, accompagnata dall’interrogativo su «quale mano o occhio immortale» abbia saputo creare una così «agghiacciante simmetria». Anche Reba, nella sua ispezione tattile, ha modo di esplorare il corpo del felino, percependone la fearful symmetry sotto le dita e ascoltando infine attraverso lo stetoscopio il «rombo» di quel cuore sul cui primo palpito, secondo Blake, avrebbero vegliato misteriose intelligenze soprannaturali. «Colui che fece l’Agnello fece pure te?», si chiede il poeta, ed è una domanda che ricorda in modo inquietante quella più volte ripetuta da Lecter all’agente Starling, la quale non può dimenticare di aver udito, da bambina, le urla disperate degli agnelli condotti al macello: «Dunque, Clarice, gli agnelli hanno smesso di gridare?».
«Tyger! Tyger! burning bright/In the forests of the night...», con quel che segue, è anche il «regalo» che il professor Frank Bryant (l’attore Michael Caine) ha tenuto in serbo per la sua allieva prediletta in Rita Rita Rita, un film diretto nel 1983 da Lewis Gilbert sulla scorta dell’omonima commedia di Willy Russell. Bryant è un disilluso insegnante di letteratura con problemi di alcolismo, nel cui studio si presenta un giorno l’improbabile Rita (la bravissima Julie Walters), una parrucchiera che ha deciso di frequentare i corsi della Open University spinta dalla sua passione per i romanzoni d’amore di cui è assidua consumatrice.
Le premesse non sono incoraggianti («Conosce Byron?», chiede il professore durante il primo colloquio; «Byron? E chi è, quello dell’Aspirina?», replica perplessa Rita), ma la ragazza nasconde un’autentica sensibilità letteraria e nel giro di poco tempo assimila in profondità autori come Cˇechov e D.H. Lawrence. Grandi soddisfazioni per il suo insegnante, che inizia a sentirsi un po’ meno inutile, ma anche qualche delusione. Come quando Bryant scopre, appunto, che Rita è già arrivata a Blake per conto suo. Insomma, il «regalo» del professore è già stato scartato.
In Rita Rita Rita la tigre di Blake ha un compito simile a quello del «lupo cattivo» di Pensieri pericolosi: media il rapporto con la realtà e, nello stesso tempo, impedisce di sopravvalutare ciò che non è necessario. In una scena drammatica, che segue il suicidio dell’amica poetessa che Rita ammirava senza riserve, la ragazza afferma di essere cresciuta, di aver imparato a ragionare da sola, perché adesso – dice – «capisco la critica letteraria». Ma il professor Bryant, con le sue ambizioni perdute, il matrimonio fallito e la bottiglia sempre a portata di mano, sta lì a dimostrare che la critica letteraria, in sé, non serve a nulla. Se qualcosa può salvare la vita, questa è la poesia, è il «divampante fulgore» della tigre di Blake, non la sterminata biblioteca che attorno a quei pochi versi è stata costruita a esclusivo beneficio della cultura accademica.
L’alternativa, si capisce, è che anche la critica letteraria diventi, a sua volta, operazione poetica, e cioè creativa. Ed è proprio in questa prospettiva che il cinema può rappresentare una prosecuzione della critica letteraria con altri mezzi, meno ortodossi ma non per questo meno efficaci rispetto a quelli che siamo abituati a considerare. Di fatto, ogni volta che manipola una trama o riutilizza una citazione, il cinema cambia la nostra percezione della letteratura. Anche e specialmente quando si tratta di pellicole che con la letteratura sembrano avere poco o nulla a che fare.
Prendiamo ad esempio un film-simbolo come Blade Runner di Ridley Scott (1982), tratto, com’è noto, da un romanzo di Philip K. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep. Apparso per la prima volta nel 1968, il libro si apre con una citazione da Yeats: «E ancora sogno i suoi passi sul prato;/la rugiada calpesta spettrale,/trafitto dal mio canto trionfale». Tre versi tratti da La canzone del pastore felice, prima composizione di Crossways, la sezione che nella prima raccolta di Yeats (Poems, 1895) raccoglie il meglio delle prove giovanili dell’autore. Difficile capire come mai Dick – scrittore labirintico e paranoico come pochi altri – abbia scelto proprio questo frammento, che nel romanzo è immediatamente seguito da un dispaccio dell’agenzia di stampa Reuters, datato 1966, in cui si dà notizia della morte di una testuggine bicentenaria nella remota isola di Tonga. Una scheggia di realtà, quest’ultima, che serve ad anticipare uno degli aspetti più caratteristici e inquietanti di Do Androids Dream of Electric Sheep: la quasi totale estinzione degli animali e la loro trasformazioni in ricercatissimi simboli di affermazione sociale.
I versi di Yeats non sono l’unica citazione colta presente nel libro, dove giocano un ruolo importante anche Il flauto magico di Mozart e L’urlo di Edvard Munch (un quadro, quest’ultimo, ricordato sia da Connelly nel Poeta sia da King in Mucchio d’ossa). Tutti questi spunti, però, vengono lasciati cadere nella sceneggiatura di Blade Runner. E con le citazioni, significativamente, scompaiono anche gli sviluppi narrativi che le citazioni suggerivano. Nel film di Scott, infatti, il desiderio di possedere un animale vero per affermare il proprio status sociale è appena accennato, anche se rimane l’idea di ditte specializzate nella realizzazione di duplicati bionici di ogni tipo di creatura. Il cacciatore di taglie Rick Deckard (l’attore Harrison Ford), poi, non è affatto un intenditore di lirica e la prima replicante che si trova costretto a «ritirare» non è un soprano con la passione della pittura, ma una spogliarellista che ha scelto il nome d’arte di Salomè e fa coppia fissa con un pitone artificiale.
Nel passaggio dal libro al film, dunque, Yeats sparisce, ma al suo posto compare Blake, che il poeta irlandese – del resto – considerava come il proprio maestro e ispiratore. Roy Batty, il capo dei replicanti in fuga (a interpretarlo è Rutger Hauer) raggiunge, accompagnato dal brutale Leon, il negozio-laboratorio in cui un vecchio cinese fabbrica gli occhi degli androidi per conto della potente Tyrell Corporation. Intabarrato in un complesso sistema di tubi, l’uomo cerca di scacciare gli intrusi parlando concitato in cinese, ma Roy, con calma assoluta, gli rivolge queste parole, che sono le prime da lui pronunciate nel film: «Avvampando gli angeli caddero,/profondo il tuono riempì le loro rive,/bruciando i roghi dell’orco».
Roy ha appena citato Blake, anche se in modo impreciso. I versi declamati dal replicante (nell’originale: «Firey the angels fell,/Deep thunder roll’d around their shores,/Burning with the fires of Orc») provengono da America, una profezia, il poemetto del 1793 in cui l’autore rilegge nella sua prospettiva visionaria la trama degli avvenimenti d’oltre Atlantico. Nel testo di partenza, in realtà, gli angeli non cadono, ma sorgono. Scrive infatti Blake: «Firey the Angels rose, and as they rose deep thunder roll’d/ Around their shores: indignant burning with the fires of Orc» («Con fierezza si alzarono gli Angeli, e mentre si alzavano un tuono profondo/Rotolò sulle spiagge, bruciando pieno di sdegno con i fuochi di Orc»).
Dal punto di vista di Roy, però, il tema della caduta – del resto ben presente nell’opera di Blake e, più ancora, del poeta da Blake più ammirato, John Milton – è molto più congeniale alla sua situazione di arcangelo ribelle. Più in generale, i replicanti sono angeli alla rovescia: non puri spiriti asessuati, ma puri corpi privi di anima. Anche loro sono insorti, come gli angeli di America, ma più che altro hanno abbandonato la relativa sicurezza delle «colonie extramondo» per raggiungere la Terra. Sono caduti, dunque, e adesso intendono trascinare con sé il loro stesso creatore, l’onnipotente (ma in realtà vulnerabilissimo) Mr Tyrell.
La citazione da Blake fa parte della lunga lista di richieste che Ridley Scott presentò a David Peoples, lo sceneggiatore che prese in mano il copione di Blade Runner quando il film era già in lavorazione. Il nuovo arrivato riuscì a soddisfare sia il regista sia Philip Dick, pur non avendo letto il libro di quest’ultimo e limitandosi a rielaborare il lavoro del suo predecessore Hampton Fancher, al quale si devono molte delle intuizioni che hanno fatto la fortuna del film. In una scena successivamente non realizzata, Peoples aveva inserito di sua iniziativa una citazione da Ozymandias di Shelley, la stessa poesia a cui, molti anni dopo, Palahniuk alluderà in Fight Club. Scott aveva apprezzato l’intenzione, dichiarando però di preferire l’opera di Blake. «Ma io non sono un fan di Blake», ha ammesso in seguito lo sceneggiatore, «in effetti non lo avevo mai letto prima. Così, ubbidientemente, continuai e comprai un libro di Blake, trovai il poema America, lo riadattai un po’ e diedi quelle righe a Roy, come se fossero un normale dialogo. E la cosa sembrò funzionare».
Per quanto affrettata, la lettura di Blake deve comunque aver impressionato Peoples, se non altro per quanto riguarda la tendenza a inserire nel dettato poetico nomi dal suono arcano ed evocatore. Come forse si sarà notato, infatti, the fires of Orc del testo originale (sia di Blake sia del film) non sono affatto «i roghi dell’orco» erroneamente suggeriti dal doppiaggio italiano. Orc è invece una delle numerose figure del complesso e contraddittorio pantheon di Blake, del quale avremo occasione di riparlare. Al lettore di America, come degli altri «libri profetici» del poeta, l’esatta interpretazione del valore simbolico del personaggio interessa meno della sua apparizione improvvisa e numinosa: è come se il nome, in se stesso, fosse già sufficientemente carico di significato.
Lo stesso processo si verifica nella più celebre battuta di Blade Runner, ormai universalmente ritenuta una «poesia» anche se, non diversamente dalle frasi minacciose ripetute dal Francese in Millennium, una poesia non è, almeno in senso stretto. Si tratta delle ultime parole pronunciate dall’arcangelo infernale Roy al termine del lungo inseguimento in cui Deckard si trasforma, da cacciatore, in preda. Ormai allo stremo delle forze, il replicante trova l’energia per salvare la vita al suo persecutore che sta per precipitare nel vuoto, e poi pronuncia la battuta che – secondo le testimonianze di chi era presente alla lavorazione del film – riuscì a commuovere perfino la troupe:
Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione – e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
La frase, oggi stampata sulle T-shirt di mezzo mondo, è soltanto in parte opera di Peoples. Rutger Hauer ha infatti sostenuto di aver improvvisato al momento l’espressione «come lacrime nella pioggia» e di aver sintetizzato in poche battute, d’accordo con il regista, un monologo molto più lungo. Quel che resta del lavoro di Peoples, comunque, ha un indubbio sapore blakeano, e non soltanto per l’evidente citazione biblica che suggella il testamento di Roy («A time to be born, and a time to die» è la traduzione di Ecclesiaste 3,2 che si legge nella Bibbia di Re Giacomo). Se Orione e i raggi B fanno parte dell’apparato convenzionale della science-fiction, la trovata delle Porte di Tannhäuser riesce a suggerire un cambio di prospettiva, invocando la complicità di un compositore come Richard Wagner, che non per nulla ha fama di essere grande, arcano e in qualche misura pericoloso. Il più classico pezzo wagneriano, l’inconfondibile Cavalcata delle Walkirie, è la colonna sonora che il fanatico colonnello Kilgore (interpretato da Robert Duvall) sceglie per accompagnare l’attacco aereo ai villaggi vietnamiti in Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola arrivato sugli schermi nel 1979, tre anni prima di Blade Runner. Se anche non fosse stato il compositore prediletto di Adolf Hitler, Wagner rischierebbe di passare per un tipo poco raccomandabile per il semplice fatto di aver ispirato i misfatti di un militarista nazistoide e spietato come Kilgore.
Nel film di Scott, dunque, Wagner rimpiazza in extremis la menzione che nel romanzo di Dick era riservata al Mozart del Flauto magico, ma lo fa richiamando alla memoria dello spettatore un tipo di musica già in qualche modo sospetto. L’evocazione del Tannhäuser rappresenta comunque l’unica esplicita citazione di Blade Runner, complessa e postmodernamente subdola macchina citazionista. E si tratta di una citazione che descrive con largo anticipo il clima di fascinazione e di sospetto nei confronti della cultura che la fiction degli anni Novanta sfrutterà in modo molto più intenso e consapevole.
Un visionario senza talento
Una delle testimonianze più coerenti di questa tendenza è rappresentata da Dead Man, la pellicola del 1995 che, nella filmografia di Jim Jarmusch, precede il già ricordato Ghost Dog. La caratteristica principale di Dead Man sta nell’essere concepito come imprevedibile commentario all’opera di Blake. Si tratta di un’esegesi alternativa, non filologica, condotta in uno stile incongruo e visionario che non sarebbe dispiaciuto all’autore dei Canti dell’innocenza e dell’esperienza. Un western crepuscolare (o, meglio, notturno), che inocula nello spettatore il dubbio che la vera frontiera, se esiste, non sia segnata sulle carte, ma si nasconda all’interno dell’uomo. Anche se conosciuto per lettura diretta, il Blake di Jarmusch è almeno in parte filtrato da un altro libro, Le porte della percezione di Aldous Huxley (1954). Il titolo stesso di questo celebre e provocatorio saggio sulle droghe viene da una citazione di Blake («Se le porte della percezione fossero sgombrate, ogni cosa apparirebbe com’è, infinita») poi riutilizzata da Jim Morrison per il nome del suo leggendario complesso rock, The Doors. L’impressione che Jarmusch sia arrivato a Blake attraverso la cultura delle droghe è confermata dall’epigrafe che apre il film – girato in un livido bianco e nero – e ne suggerisce il titolo. «È preferibile non viaggiare con un morto», ammonisce sibillina la frase attribuita a Henri Michaux, il poeta e pittore di origine belga che in molte sue pagine ha raccontato il «miserabile miracolo» prodotto dagli allucinogeni.
Michaux, in particolare, è stato il cantore della mescalina, la stessa sostanza i cui effetti sono descritti da Huxley nelle Porte della percezione. Si tratta del principio attivo del peyote, la droga sacra della tradizione pellerossa, che l’autore del Mondo Nuovo decide di assumere nel corso di quello che si presenta come un vero e proprio esperimento scientifico. Blake non fornisce soltanto il titolo al saggio di Huxley e al suo successivo completamento, Paradiso e Inferno (1956), che riecheggia il blakeano Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno. Il poeta rappresenta piuttosto uno dei personaggi principali del ragionamento di Huxley, se non addirittura il modello di quella visionarietà «spontanea» che sostanze come la mescalina renderebbero accessibile a chiunque voglia sperimentarla.
«Non potendo nascere di nuovo come visionario, medium, o genio musicale, come possiamo mai visitare i mondi che per Blake, Swedenborg, Johann Sebastian Bach furono casa loro?», si domanda Huxley nelle prime pagine delle Porte della percezione. La mescalina sembra offrire appunto questa possibilità, anche se – annota l’autore in un altro passaggio – «un visionario senza talento può percepire una realtà interiore non meno grande, bella e significativa del mondo visto da Blake; ma egli manca completamente della capacità di esprimere, in simboli letterari o plastici, ciò che ha visto».
Il protagonista di Dead Man è appunto «un visionario senza talento», che per ironia della sorte si chiama Blake, William Blake. Interpretato da Johnny Depp, è un ragazzo che ignora del tutto l’esistenza di un poeta suo omonimo. Viene da Cleveland, Ohio, e in un imprecisato momento del tardo Ottocento sta raggiungendo in treno la città di Machine, ultimo avamposto della civiltà prima della terra incognita che gli avventurieri bianchi contendono agli ultimi pellerossa. L’intento simbolico del film è chiaro fin dalle prime inquadrature: calato nel suo improbabile completo a scacchi, il giovane Blake osserva il paesaggio che scorre fuori dal finestrino, assistendo all’alternarsi di selvagge immagini di vita e di morte che sembrano tratte dalle incisioni dell’altro Blake.
Anche i suoi compagni di viaggio – massaie taciturne e sospettosi cacciatori di bisonti, tutti dai volti ugualmente indecifrabili – hanno la consistenza di apparizioni, in una serie di lampi che culminano nell’epifania del macchinista del treno, un personaggio che pare modellato sul fuochista del primo capitolo di America di Franz Kafka, ma anche sui profeti dai nomi arcani che attraversano l’opera di Blake. Non appena apre bocca, infatti, il ferroviere analfabeta profetizza, alludendo a un viaggio in barca che il ragazzo non ricorda di avere compiuto – e che infatti deve ancora compiere – e, soprattutto, annunciandogli che a Machine non lo attende un impiego da contabile, come gli è stato promesso, ma la morte.
Com’è facile intuire, anche il nome della città è scelto in funzione simbolica. Dominata dall’infernale fabbrica metallurgica del crudele signor Dickinson (un monumentale Robert Mitchum), Machine rappresenta il trionfo della rivoluzione industriale sulla natura, la cui sconfitta è testimoniata dalle carcasse di bisonti che ingombrano le strade. È la Londra spettrale e irredenta dei Canti dell’esperienza, dove «la giovane prostituta che impreca/maledice le lacrime del bimbo appena nato/i letti degli sposi rende tormentosi, sterili». Respinto, fucile alla mano, dal malvagio demiurgo Dickinson, anche il nostro Bill Blake si imbatte in una prostituta, Thel, che cerca faticosamente di cambiare vita fabbricando e vendendo rose di carta (e alla «rosa malata», divorata in segreto dal «verme invisibile», è dedicato un altro celebre «canto dell’esperienza»).
L’intreccio, com’è evidente, rimanda a un altro romanzo di Kafka, Il castello: Bill si trova nella stessa posizione di K., l’agrimensore che giunge alle soglie del maniero convinto di essere stato convocato dal conte (in questo caso, il signor Dickinson, la cui fabbrica è l’equivalente del castello), ma soltanto per scoprire che nessuno lo attende. Thel, in questo senso, sembra svolgere lo stesso ruolo che nel libro di Kafka è affidato a Frieda, la sguattera che diventa amante e confidente di K.
Ma la funzione di Thel, in realtà, è ancora più complessa. La ragazza porta infatti il nome della protagonista de Il libro di Thel (1789), il poemetto a cui Blake lavora contemporaneamente alla pubblicazione dei Canti dell’innocenza. Difficile stabilire con esattezza chi sia la Thel di Blake e quale sia il suo significato simbolico: il poeta ce la presenta come la più giovane e bella tra le figlie di Mne Seraphim e la definisce «signora delle valli di Har». Una creatura semiangelica, a quanto pare, ma che non può fare a meno di interrogarsi sul mistero della caducità. Nel tentativo di comprendere perché ogni creatura sia condannata a perire, Thel dialoga con il Giglio della Valle, con la Nuvola e con il Verme e ottiene dall’Argilla di visitare la terra dei morti. Ma neppure qui trova la risposta che cercava. Le ultime parole che le sentiamo pronunciare compongono ancora una domanda, forse la più angosciosa di tutte: «Perché una piccola tenda di carne sul letto del nostro desiderio?».
Il «letto del desiderio» è il luogo dove si consuma anche la tragedia della Thel di Dead Man. Intenerita dalla gentilezza di Bill, la ragazza ha fatto l’amore con lui, ma i due vengono sorpresi dall’ex amante di Thel, che le spara. Il proiettile che la uccide colpisce al petto il malcapitato contabile, il quale impugna a sua volta una pistola e ammazza l’aggressore. Ferito e confuso, con la colt alla cintura e una rosa bianca di carta ancora appuntata all’occhiello, il ragazzo di Cleveland ruba un cavallo e si trasforma definitivamente in un fuorilegge. L’uomo che ha ucciso, oltretutto, è figlio dell’onnipotente Dickinson, che mette una taglia sulla testa di Blake e lancia al suo inseguimento uno spietato terzetto di bounty killer. Per un curioso contrappasso, Cole Wilson, il cacciatore più sanguinario, dedito a pratiche come l’incesto, il parricidio e il cannibalismo, è interpretato proprio da Lance Henriksen, l’agente Black che in Millennium si troverà a dover dare filo da torcere a loschi figuri colpevoli di delitti non dissimili da quelli di cui lo stesso Wilson si macchia.
«Nascono alcuni ad infinita Notte»
Fino a questo momento l’omonimia tra il ragazzo di Cleveland e il poeta della Tigre non è mai stata notata, tanto meno dal diretto interessato. Il primo – e l’unico – ad accorgersene è il gigantesco pellerossa che si prende cura del ferito e che si fa chiamare Nessuno, interpretato dall’attore Gary Farmer. Appena scopre che lo «stupido uomo bianco» con cui ha a che fare porta il nome di William Blake, Nessuno ha una reazione in apparenza incomprensibile. Prima accusa il ragazzo di mentire, poi gli dice che, se davvero si chiama così, questo significa che è morto, infine pronuncia una nenia dal suono misterioso:
Ogni Notte e ogni Mattina
nascono alcuni alla rovina.
Ogni Mattina e ogni Notte
nascono alcuni al soave diletto.
Nascono alcuni al soave diletto,
nascono alcuni ad infinita Notte.
Bill non è in grado di cogliere la citazione, peraltro molto appropriata. Si tratta di un passaggio di Presagi di innocenza, una lunga poesia del cosiddetto Manoscritto Pickering, il taccuino su cui Blake aveva annotato una serie di testi che sviluppavano e approfondivano il contrasto – ma anche la coesistenza – fra Innocenza ed Esperienza. Ma tutto questo Nessuno non lo dice. La sua spiegazione, molto più concisa, è incentrata su un altro concetto: l’equivalenza tra poesia e omicidio. «Tu eri un poeta e un pittore», dice al redivivo William Blake, «e adesso sei un assassino di uomini bianchi».
Spinto da questa convinzione, Nessuno si incammina con il ferito in quello che è ormai, senza ombra di dubbio, un viaggio iniziatico, destinato a culminare nell’arrivo alla città santa dei pellerossa, quasi una Gerusalemme barbarica dove il ragazzo troverà finalmente la barca (o, più precisamente, la canoa sacra) che gli è stata predetta dal macchinista del treno. Ma fino ad allora Bill non dovrà smettere di esercitare la sua nuova arte. «Questa pistola sostituirà la tua lingua», gli intima Nessuno: «Imparerai a parlare per mezzo di essa. Le tue poesie da ora in poi saranno scritte col sangue».
Adattata al clima allucinato del film di Jarmusch (per Dead Man si è giustamente parlato di un western lisergico), è la stessa idea di letteratura che abbiamo trovato in Seven e in Millennium: la parola come prerogativa dell’assassino, la scrittura come esercizio letale, la poesia come sapere di morte. La strada che porta l’innocente Bill Blake a diventare davvero William Blake passa necessariamente per l’esperienza del sangue.
Nessuno ha elaborato questa poetica, molto personale ma anche molto efficace, durante l’esilio in Gran Bretagna patito da ragazzo. Catturato ancora bambino dai soldati inglesi, è stato messo in mostra in diverse città degli Stati Uniti, sino al trasferimento a Londra. Lì ha frequentato la scuola e, «in un libro», ha scoperto le parole di Blake: «Erano piene di forza», ricorda, «e mi parlavano». Molto probabilmente, Nessuno ha intuito l’affinità che lega la poesia sapienziale di Blake alle leggende della tradizione pellerossa. Spesso, del resto, il gigantesco guerriero si rivolge allo sprovveduto Blake di Cleveland con parole la cui origine appare per lo meno ambigua. «L’aquila non perse mai tanto tempo come quando si lasciò insegnare dal corvo», dice a un certo punto Nessuno ripetendo, a quando pare, un proverbio indiano. In realtà, la frase potrebbe anche essere una libera rielaborazione del “motto” che Blake pone in apertura del già ricordato Libro di Thel:
L’Aquila sa cosa c’è nell’abisso;
O lo andrai a domandare alla Talpa?
Può la Saggezza stare in una verga d’argento,
O l’Amore in una coppa d’oro?
Ma c’è un altro motivo per cui Nessuno è così sensibile alla potenza visionaria dei versi di Blake. Il pellerossa, infatti, ha un’esperienza diretta degli “altri mondi” visitati dal poeta. Le «visioni sacre» del pellerossa sono provocate dal «Grande Padre Peyote», il cui impiego è proibito senza eccezione ai bianchi, compreso l’ormai moribondo Bill, sotto i cui lineamenti emaciati Nessuno intravede già il teschio della morte.
Questo non significa che, mentre si trascina a cavallo in una foresta sempre più ischeletrita, il mancato contabile di Cleveland non stia vivendo un’esperienza mistica. Anche qui Jarmusch si dimostra lettore attento di Huxley, e in particolare di una delle appendici di Paradiso e Inferno, in cui lo scrittore inglese passa in rassegna le ragioni «chimiche» che favorivano il misticismo medievale: i frequenti digiuni, un’alimentazione povera di vitamine e, in particolare, la presenza di piccole infezioni. «Quanto alle tossine delle ferite», scrive Huxley, «queste sconvolgono i sistemi degli enzimi che regolano il cervello e ne diminuiscono l’efficienza».
La situazione di Bill Blake non potrebbe essere descritta meglio. È ferito, e in modo tutt’altro che lieve. Non mangia con regolarità e, quando mangia, è costretto a ingozzarsi con stufato di fagioli e carne di opossum. Niente di strano se il mondo gli si presenta sempre più sotto forma di visione, con figure che appaiono e scompaiono improvvisamente e gli alberi della foresta che disegnano geometrie assolute molto simili a quelle che Huxley sostiene di aver rintracciato negli oggetti più domestici – una sedia, per esempio – sotto gli effetti della mescalina.
Attraverso le visioni, Bill torna a scoprire la sua arte. «Conosci le mie poesie?», chiede senza ombra di ironia allo sceriffo che gli punta contro il fucile. Poi, con naturalezza, uccide l’uomo che voleva arrestarlo e gli dedica come epitaffio uno dei versi che, secondo Nessuno, ha scritto in un’altra vita: «Nascono alcuni ad infinita Notte». In realtà, la rivisitazione dell’opera dell’illustre omonimo è molto più capillare di quanto il giovanotto possa immaginare. Dal vero William Blake, infatti, ha ereditato il disprezzo per la Città Corrotta (Londra o Machine, non importa) e il rifiuto di ogni religione rivelata.
In Dead Man non c’è posto per il cristianesimo. Ce ne accorgiamo quando «Sally», il delirante travestito interpretato dal rocker Iggy Pop, legge ai suoi compagni di bivacco un brano di quello che potrebbe anche essere il profeta Ezechiele («Quel giorno il Signore consegnerà te nelle mie mani, e io ti castigherò, e ti staccherò la testa dal corpo, e abbandonerò le carcasse dell’orda dei gretti filistei agli uccelli dell’aria, alle bestie feroci della terra»), spiegando agli amici stupratori che i filistei erano «un branco di luridi sporcaccioni». Un ricorso degradato e colpevole alla Bibbia, che in Dead Man pare aver completamente perduto la funzione salvifica attribuitale in Pulp Fiction.
Ma la scena più rivelatrice del film è quella in cui, ormai al termine del loro pellegrinaggio, Bill e Nessuno entrano in un emporio che somiglia in modo sinistro a un tempio. Il venditore – un individuo untuoso, che veste come un sacerdote e si esprime in un linguaggio altisonante, di esibita derivazione biblica – raccomanda al giovanotto una partita di munizioni benedette dall’«arcivescovo di Detroit in persona», ma si rifiuta di servire il pellerossa. Nessuno non è per nulla intimorito dall’aperta ostilità dell’uomo e lo sfida con queste parole: «La visione di Cristo, che tu ricevi, è la più grande nemica della mia visione». A prima vista, un rifiuto tanto netto non rientra nel sistema simbolico elaborato da Blake, che nella sua opera non ha mai rinunciato all’evocazione della figura cristica, rimanendo in questo fedele alla convinzione – già espressa negli aforismi di Tutte le religioni sono una, del 1788 – per cui «i Testamenti Ebraico & Cristiano sono Una derivazione originale del Genio Poetico».
Letta con attenzione, però, questa stessa frase aiuta a decifrare il minaccioso messaggio di Nessuno. Per il pellerossa, infatti, nemica non è «la visione di Cristo» in quanto tale, ma «la visione di Cristo» così come la riceve il mercante-sacerdote, e cioè inserita in un sistema di potere che, per un visionario assoluto come Nessuno, non può risultare se non menzognero e coercitivo. Una chiesa trasformata in bazar, appunto. Certo, anche per Blake «i Testamenti Ebraico & Cristiano» hanno importanza, ma soltanto perché rappresentano «Una derivazione originale del Genio Poetico». Per il poeta – e per Nessuno, suo intransigente lettore – la veridicità di ogni visione deve essere messa in rapporto al «vero Uomo» che – si legge ancora in Tutte le religioni sono una – «è la fonte, essendo il Genio Poetico».
Febbricitante e braccato dai suoi inseguitori, Bill Blake è appunto il «vero Uomo» che Nessuno sta guidando a conquistare consapevolezza. È «il Genio Poetico» che compone poesie con la pistola e trasforma in strumento di morte lo strumento di scrittura che il mercante-sacerdote gli porge nel tentativo di farlo cadere in un tranello. Dopo essersi accorto di avere davanti a sé il pericoloso ricercato, il negoziante si finge infatti entusiasta dalla sua presenza e gli offre una penna per farsi autografare uno dei manifesti che annunciano la taglia per la sua cattura. «Vi prego, signore, sarebbe un grande onore», insiste l’uomo mentre cerca di afferrare l’arma che tiene nascosta sotto il bancone. Ma Blake blocca il suo movimento conficcandogli nella mano la penna, come se fosse un pugnale: «Ecco il mio autografo», gli dice impassibile, sancendo in modo definitivo l’identità tra scrittura e morte, tra sangue e inchiostro. Il passo successivo è rappresentato dall’abiura al cristianesimo, che si consuma nell’ultimo scambio di battute con il mercante. «Che Dio condanni la tua anima alle pene dell’inferno», sibila con disprezzo il ferito. E Blake, un attimo prima di ucciderlo: «L’ha già fatto».
Il ragazzo di Cleveland si trova, finalmente, nella stessa posizione del poeta di cui porta il nome: affrancato dalla legge morale, esce dall’emporio che, con la sua mescolanza sacrilega di religione e commercio, intende rappresentare la natura adultera di tutte le chiese e si avvia con Nessuno al «ponte fatto di acqua», «lo specchio», «il posto dal quale viene William Blake, al quale appartiene il suo spirito». «Devo fare in modo che tu possa passare attraverso lo specchio, nel punto in cui il mare incontra il cielo», ha spiegato il pellerossa all’inizio del viaggio. Adesso è ormai chiaro che si tratta dello stesso luogo visitato da Thel nel poemetto di Blake. Soltanto che, a differenza della misteriosa vergine di Har, il protagonista di Dead Man non tornerà mai più dalla terra dei morti.
Milton cattivo maestro
Nel 1996, un anno dopo il film di Jarmusch, lo scrittore britannico Peter Ackroyd pubblica il romanzo Milton in America, nel quale la vicenda di un altro grande poeta inglese viene trasferita tra le praterie e i boschi del Nuovo Mondo. In questo caso il poeta è John Milton, maestro riconosciuto di Blake, ma anche prima scelta del citazionista John Doe in Seven. Oltre a numerosi altri romanzi di ispirazione letteraria, Ackroyd ha al suo attivo una serie di importanti biografie, compresa – appunto – quella di William Blake. L’idea su cui il libro del 1996 si basa è semplice e accattivante: Milton, com’è noto, fu uno dei più convinti sostenitori della rivoluzione puritana guidata da Oliver Cromwell, per volere del quale il poeta ricoprì l’incarico di traduttore ufficiale del Commonwealth. Eppure nel 1660, quando Carlo II fa ritorno in Inghilterra per restaurare la monarchia, Milton rimane a Londra, dove morirà ormai completamente cieco nel 1674. Ma che cosa sarebbe successo – si domanda Ackroyd – se dopo la Restaurazione il poeta, come molti altri puritani, avesse cercato rifugio nelle nuove terre d’oltreoceano?
Si tratta di un’ipotesi che, inizialmente, Ackroyd affronta in tono lieve e ironico, affiancando al sentenzioso Milton l’improvvisato segretario Goosequill (il nomignolo, coniato dal poeta, significa ‘Penna d’oca’), che con la sua arguzia di vagabondo londinese sembra in qualche modo mitigare la severità del vate. Ma una volta in America, il compito di Goosequill diventa sempre più difficile. La comunità puritana del New England non esita a designare l’antico consigliere di Cromwell come propria guida politica e spirituale, battezzando addirittura New Milton la città sulla quale, a dispetto della propria cecità, il vecchio poeta esercita un potere indiscusso. Ma a questo punto, ormai, Milton non è più un poeta.
Eccezion fatta per i titoli delle due sezioni in cui il romanzo è suddiviso (Eden e Fall, ‘caduta’), nella narrazione di Ackroyd non si fa alcun accenno a Paradiso perduto, il poema che il vero Milton iniziò nel 1657, ma al quale si dedicò assiduamente soltanto dopo la fatidica svolta del 1660. Nella finzione romanzesca c’è, sì, un Paradise Regained, ma non si tratta dell’opera effettivamente composta da Milton come prosecuzione del suo capolavoro, quanto piuttosto del possibile titolo del manoscritto al quale un volenteroso «poeta epico» puritano sta lavorando ispirandosi al modello di The Faerie Queen di Spenser. «Mi servo di versi eroici non rimati», spiega il «giovane signor Thornton», ricevendo l’immediata approvazione di Milton: «Ben fatto, è lo stesso metro di Omero e Virgilio». E sarebbe stato anche il metro di Paradiso perduto, se l’autore non avesse lasciato l’Inghilterra per atteggiarsi a profeta in terra d’America.
Com’è facile intuire, la trama del romanzo di Ackroyd incrocia a più riprese quella della Lettera scarlatta di Hawthorne. Ormai determinato a combattere con le armi i coloni cattolici che hanno avuto l’impudenza di fondare non lontano da New Milton la cittadina «papista» di Mary Mount, il capo dei puritani fa visita ai confratelli delle altre città, chiedendo il loro aiuto per la costituzione di un esercito. L’unico a rifiutarsi di collaborare è John Eliot, l’«apostolo degli indiani» ricordato anche da Hawthorne. La diffidenza di Milton nei confronti di questo missionario tollerante e illuminato non deriva dal semplice pregiudizio nei confronti dei «selvaggi», ma dalla necessità di custodire un segreto.
Che Milton si sia perso nei boschi, assentandosi per alcuni giorni dalla colonia, è un fatto che il lettore apprende abbastanza presto. A un certo punto, con riluttanza, il poeta confida al consiglio degli anziani di aver trovato ospitalità in un villaggio pellerossa, ma si tratta di un’affermazione scabrosa, lasciata cadere di comune e tacito accordo. La verità viene rivelata soltanto alla fine del romanzo, in una serie di capitoli che si alternano alla descrizione della sanguinosa battaglia in cui Milton sconfigge i cattolici perdendo per sempre se stesso.
Avventuratosi da solo nei boschi, il vecchio cieco è finito in un trappola indiana. Un laccio gli si è stretto attorno alla gamba, che si è rotta, ma l’improvviso afflusso di sangue alla testa gli ha restituito la vista. Prima che le pratiche magiche di uno stregone gli guariscano l’osso spezzato, nel suo delirio Milton torna con la memoria a Comus, la stessa opera letta da Dimmesdale nella versione cinematografica della Lettera scarlatta:
Oh sì, signor Milton, molto bene. La fanciulla è tratta per incantamento nel bosco, vero? Ella è tentata, ma non pecca. Avete letto ciò che Ariosto scrive sui pericoli della foresta, ma l’allegoria è del tutto trasformata. Molto bene. Sola, tutta sola. Ed avete pensato che il bosco iniziasse a muoversi? Questo c’è soltanto nei nostri antichi racconti, mio buon signore. Che cosa ci dice al riguardo Virgilio? Che pure gli dèi hanno vissuto nei boschi. Tuttavia ho fondata ragione di dubitarne. Non scrive Dante, nel canto decimo terzo, che gli alberi contengono le anime dei suicidi? Conoscete i boschi d’Illiria? Si dice siano incantati. Si crede siano pieni di rumori, signor Milton.
Come il Blake di Jarmusch, anche il Milton di Ackroyd vive un’esperienza mistica grazie al contatto con gli indiani, ma la consapevolezza che ne ricava lo porta alla disperazione e, quindi, al parossismo della violenza. Scatenando un’inutile guerra di religione, anche lui diventa «un assassino di uomini bianchi», e lo fa per dimenticare di aver partecipato al «convito dei sogni», la festa indiana durante la quale, a differenza della casta Dama protagonista di Comus, non ha saputo resistere alla tentazione della carne e si è unito a una giovane squaw. Una colpa per cui Milton sa di essere già stato punito (cacciato dai pellerossa, lungo la via del ritorno ha battuto la testa, perdendo nuovamente la vista), ma che continua ad amplificare trasformandosi in un «diavolo», come dice il sempre più esterrefatto Goosequill. Ma forse sarebbe più esatto sostenere che Milton, non riuscendo più a essere un poeta né un profeta («Dio è in collera con te», gli dice il capotribù prima di esiliarlo), è diventato un cattivo maestro.
Anche per questo forse non ci stupiamo troppo quando nel film L’avvocato del diavolo, di Taylor Hackford (1997), scopriamo che oggi, per meglio gestire i propri affari sulla Terra, Satana ha assunto l’identità di un redivivo John Milton, titolare di un grande studio legale di New York. Interpretato da uno strepitoso Al Pacino, il Milton nostro contemporaneo condivide con il William Somerset di Seven e con il William Blake di Dead Man le gioie di un paradossale anonimato, dato che nessuno sembra accorgersi della sua omonimia con l’autore di Paradiso perduto, un poema nel quale, a quanto pare, l’arcangelo ribelle ha trovato una convincente raffigurazione di se stesso.
Il film è tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1990 da Andrew Neiderman, la cui trama è stata però modificata in modo vistoso dalla sceneggiatura di Jonathan Lemkin e Tony Gilroy. In entrambe le storie c’è un giovane avvocato che cade nella rete tesagli da Milton, ma il protagonista del libro, Kevin Taylor, ha soltanto una vaga somiglianza con il suo corrispettivo cinematografico, il fascinoso Kevin Lomax impersonato da Keanu Reeves. Taylor, per esempio, si rende conto abbastanza presto che il suo datore di lavoro è il diavolo e cerca per questo di farsi aiutare da un sacerdote, padre Vincent, che lo illumina – tra l’altro – sui risvolti letterari della situazione in cui si trova.
«Ha presente quel grande capolavoro sul bene e il
male, Paradiso
perduto, del poeta inglese John Milton?».
«John Milton! John Milton!». Kevin balzò in piedi, con il volto
attraversato da un sorriso profondo e tagliente. Poi si sedette di
nuovo e cominciò a ridere.
«Che cosa c’è di tanto divertente?».
«Lui è divertente.
Anzi, è lui che si diverte con il suo umorismo perverso. Padre
Vincent, l’uomo per cui lavoro si chiama John Milton».
«Davvero?». Lo sguardo del sacerdote si illuminò: «Questo rende
tutto più interessante. Ovviamente lei finora non si era ricordato
del poema...».
«Credo di averlo scansato quand’ero al college. Magari avrò
comprato un sunto e me lo sarò letto al posto
dell’opera».
«In effetti non è un testo di facile comprensione: sintassi
latineggiante, abbondanza di citazioni classiche, metafore che
generano metafore...».
L’indulgenza di padre Vincent non deve trarre in inganno. Il sacerdote, infatti, fa parte della macchinazione infernale ordita ai danni del povero Taylor, studente svogliato come e peggio del Mills di Seven, anche lui tradito da compendi scolastici di pochissime pretese. Nella versione cinematografica dell’Avvocato del diavolo, invece, Paradiso perduto non viene mai ricordato in modo diretto, ma gioca un ruolo ancora più importante. Per tutta la durata del film il ricorso martellante alle citazioni bibliche serve a preparare la duplice rivelazione del finale: non soltanto Milton è il diavolo, ma è anche il padre naturale di Lomax, al quale ha riservato il compito di generare l’Anticristo. Il ragazzo è disorientato, eppure trova la forza di reagire ritorcendo contro lo stesso demonio il celeberrimo verso 263 del primo libro del poema di Milton: «Meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso». In casi estremi, anche i classici possono rivelarsi utili, a meno che non sia subentrato un cattivo maestro a stravolgerne senso e significato.