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Una lezione di critica
letteraria
Lo chiamano il Francese. Gli altri clienti del peep show si accontentano di mormorare oscenità alle ragazze, ma lui no. Lui – il Francese – appoggia un biglietto al vetro che lo separa dalle spogliarelliste. Sul biglietto c’è la «poesia». Scritta a mano, in uno stampatello ordinato e maniacale. Le donne guardano quelle parole e ne hanno paura, perché non possono capirle. La «poesia» è in francese e loro sono sane ragazze americane, non conoscono altra lingua che non sia il loro inglese da fast food. Il Francese è diverso, diverso da tutte loro e anche dagli uomini che frequentano il locale. Non soltanto perché conosce un’altra lingua, d’accordo. Ma senz’altro anche per questo.
Il Francese è il primo dei serial killer ai quali l’ex investigatore dell’FBI Frank Black dà la caccia in Millennium, la serie con cui, nel 1996, l’autore televisivo Chris Carter ha cercato, senza riuscirci, di replicare lo straordinario successo ottenuto con X-Files. Non più il complotto contro il quale lottano gli agenti Mulder e Scully, ma una miscela ancora più esplosiva, nella quale le aspettative del millenarismo apocalittico si scontrano con gli episodi più sconvolgenti della cronaca nera: omicidi seriali, perversioni erotiche, incesti, manie religiose e oscure profezie di morte. Lo slogan con cui Millennium è stato lanciato negli Stati Uniti («L’attesa... L’ansia... A chi importa?») basterebbe da solo a spiegare quali corde Carter intendesse toccare.
Soppresso per scarsità di ascolti nell’estate del 1999, Millennium si è rivelato un prodotto molto meno sofisticato di quanto si volesse far credere. Fin dal primo episodio la sceneggiatura cade in contraddizioni imbarazzanti e la stessa vicenda che dovrebbe garantire la continuità tra i vari episodi della serie (il tentativo di Black di proteggere la propria famiglia dalle minacce di un mondo corrotto) mostra spesso i segni di una ripetitività tutt’altro che convincente. Eppure c’è un motivo per cui il pasticcio paranormale di Millennium merita attenzione, ed è l’appello sciamanico e minatorio a una tradizione letteraria che, agli occhi del telespettatore globale medio, risulta non meno estranea e pericolosa della «poesia del Francese». Ecco perché, se vogliamo provare a misurare la lontananza che separa oggi i grandi libri dai loro potenziali lettori, dobbiamo rassegnarci a passare un po’ di tempo in compagnia di Black e del suo ambiguo «dono».
Il protagonista, anzitutto. Frank Black, l’abbiamo già detto, ha lavorato per molto tempo alle dipendenze dell’FBI. Un cacciatore di serial killer, uno dei migliori. Ha assicurato alla giustizia assassini spietati, tra cui un massacratore cannibale che – non diversamente dall’Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti – aveva l’abitudine di cucinare in padella le proprie vittime. Poi qualcosa ha ceduto. Frank ha iniziato a ricevere per posta foto polaroid scattate di nascosto alla moglie Catherine e alla figlia Jordan, di cinque anni. Ha capito che qualcuno – un uomo dalla mente malata come quelli che è abituato a combattere – vuole giocare con lui una partita di morte. O forse soltanto spaventarlo, chissà. Comunque sia, Black si è persuaso di non poter correre rischi. Ha lasciato l’FBI e si è trasferito con la famiglia a Seattle, la sua città d’origine.
Tuttavia – sono parole sue – non può «limitarsi a sperare in un lieto fine». È convinto che la degenerazione dei costumi e l’esplosione di violenza che caratterizzano la società contemporanea abbiano un legame ben preciso con la svolta epocale dell’anno Duemila. Per questo ha deciso di entrare nel Gruppo Millennium, una misteriosa società di consulenza alla quale l’FBI ricorre per la soluzione dei casi più inquietanti. Il suo reclutamento nel Gruppo Millennium è dovuto a quello che lo stesso Black definisce «il mio dono e la mia condanna»: la capacità di percepire il delitto attraverso gli occhi dell’assassino. «Divento la cosa che temiamo di più», risponde a chi gli chiede spiegazioni, «ciò che sappiamo di poter diventare nella parte più oscura della nostra coscienza».
Nell’episodio inaugurale, Black si è appena sistemato nella bella casa gialla alla periferia di Seattle quando legge sul giornale la notizia della brutale uccisione di una giovane donna. Tanto gli basta per capire che un serial killer sta mettendosi all’opera. Si offre di collaborare con la polizia, ma il suo vecchio amico, il detective Bob Bletcher, non si convince della gravità della situazione finché l’omicidio di un giovane gay non rivela l’esistenza di un complesso piano paranoico. Ed è qui che Black entra in scena, non più nelle vesti dell’esperto criminologo, ma in quelle – decisamente imprevedibili – del critico letterario.
Andiamo con ordine. Frank ha scoperto che la ragazza uccisa lavorava nel peep show frequentato dal Francese. Una collega della vittima gli ha rivelato l’esistenza del Francese e della sua incomprensibile «poesia», mentre il Gruppo Millennium gli ha fornito una registrazione video, effettuata dal sistema a circuito chiuso del locale, in cui si scorge un uomo dallo sguardo allucinato, intento a parlare con se stesso. A questo punto Black ha seguito il metodo che qualsiasi antropologo alle prese con una tradizione orale adotterebbe: si è armato di carta e penna e ha cercato di approntare una trascrizione il più possibile corretta della «poesia» del Francese (il quale, con buona pace della sceneggiatura, parla in un inglese appena complicato da qualche arcaismo).
Vale la pena di soffermarsi sulla scena in cui Frank, nello studio-laboratorio che occupa la cantina della casa gialla, decifra le parole pronunciate dal presunto serial killer. All’inizio capta soltanto qualche suono, ma ben presto riesce a completare le frasi in modo spedito, con una sicurezza addirittura sospetta. È chiaro che non sta più scrivendo, a fatica, sotto dettatura: Black procede rapidamente perché in realtà riconosce le parole del Francese. Il quale, a sua volta, si esprime per citazioni.
La circostanza è sottolineata in maniera puntuale ne Il Francese, il romanzo – o, meglio, la novelization – che la scrittrice Elizabeth Hand ha tratto da questo episodio di Millennium. Sulla pagina Black si muove un po’ più impacciato di quanto accada sul piccolo schermo. Riesce a cogliere soltanto parole isolate, come «INNOCENZA RITO ANNEGARE». Al resto provvede un dizionario delle citazioni che, a quanto pare di capire dal racconto della Hand, rappresenta un abituale strumento di lavoro del detective. La funzione che nel thriller classico è riservata al bisturi dell’anatomopatologo o al microscopio della Scientifica, in Millennium è delegata – e in modo niente affatto casuale – a un repertorio letterario.
Con o senza dizionario, Black è dunque riuscito a ricostruire il suo testo nella forma più soddisfacente possibile, assolvendo così al primo dovere di ogni filologo coscienzioso. Ora non gli resta che pubblicare i risultati del suo lavoro ed è quanto fa in un’altra sequenza che merita di essere analizzata nel dettaglio. La scena si sposta all’interno della sede della polizia di Seattle. Ci troviamo in una grande stanza disadorna, con tutta probabilità una spartana sala per le riunioni. Poche sedie e molti agenti in piedi, ad ascoltare attenti e perplessi l’esposizione di Black, che ha alla sua sinistra un televisore sul quale scorrono le immagini del Francese e alla sua destra una lavagna ricoperta di appunti.
Fissiamo questo fotogramma e avremo una delle immagini più ricorrenti nel cinema degli anni Novanta. L’equivalente dell’assalto alla diligenza nel western classico, per intenderci. Se anche accendessimo il televisore soltanto in questo momento, sapremmo con certezza che siamo in una stazione di polizia nel bel mezzo della caccia a un serial killer. E intuiremmo con altrettanta sicurezza che l’uomo alla lavagna è l’esperto chiamato a riassumere lo stato delle indagini. È per questo che crediamo già di conoscere le parole che usciranno dalla bocca di Black: il solito, e a suo modo rassicurante, profilo socio-psicologico dell’assassino. Qualcosa come «maschio, bianco, età compresa tra i venticinque e trentacinque anni, istruzione superiore...». Invece no. Black sta per parlare di poesia, Sacre Scritture e profezie. In altri termini, sta per tenere una lezione di critica letteraria.
Le immagini che passano sul televisore di fianco a lui sono soltanto un espediente per attirare l’attenzione dei poliziotti. Il vero documento è riportato sulla lavagna, dove Black ha ricopiato l’ormai famosa «poesia». Leggiamola:
Voglio vederti danzare sulla torbida marea del
sangue.
Il rito dell’innocenza sta per annegare.
Verrà la morte seconda, e lo stagno ardente di fuoco e
[di zolfo per gli esecrabili fornicatori.
Tu avrai il tuo posto nello stagno ardente.
Ora nella città del mare la grande peste è giunta.
Un centone, questo è chiaro. Frammenti di brani diversi giustapposti in modo da trasmettere una solennità di tipo iniziatico. Quali che siano le fonti del Francese, la sua ambizione è costruire un testo che ricordi il tono ispirato della Bibbia, dalla quale proviene infatti una delle citazioni impiegate. L’impressione suscitata dall’insieme è forse ancora più importante dell’esatta individuazione delle fonti. Questo testo infatti è ciò che, secondo un abile manipolatore della cultura popolare come Chris Carter, il pubblico televisivo è disposto a considerare “poesia”: un insieme di parole dal suono misterioso e arcano, che esprimono il retaggio di una sapienza perduta e probabilmente pericolosa.
Black, in realtà, non legge per intero la «poesia», ma si limita a indicare la provenienza delle citazioni che la compongono. Spiega anzitutto che i primi due versi sono tratti – con qualche licenza, si potrebbe aggiungere – da Il Secondo Avvento di William Butler Yeats: «Tutto si dissocia, il centro crolla. L’anarchia si rovescia sul mondo. La torbida marea del sangue avanza», declama Black davanti ai poliziotti sempre più sospettosi. «E poi invece», prosegue, «cita l’Apocalisse». Il tempo di ascoltare il Francese che declama il terzo, lunghissimo verso della sua «poesia», e Black precisa: «Dalle Rivelazioni. “Morte e inferno. Gli esecrabili e i fornicatori saranno gettati nel lago di fuoco”». Con un certo impaccio, il doppiaggio italiano introduce la dizione di Rivelazioni, dando l’impressione che si tratti di un testo diverso dall’Apocalisse. Ma chiaramente non è così (Revelation è soltanto il titolo attribuito al testo giovanneo dalle traduzioni inglesi della Bibbia) e infatti il brano richiamato da Black corrisponde ad Apocalisse 21,8: «Ma per i vili e gl’increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gl’idolatri e tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte».
Come si può notare, all’occorrenza anche Black sa adattare in modo efficace le sue fonti. Dal lungo elenco di peccatori del testo neotestamentario ha estrapolato il riferimento alla fornicazione, rendendo così evidente il legame tra le letture del Francese (buone letture in apparenza, se non addirittura ottime) e il suo accanimento contro i lussuriosi: prima la spogliarellista – che, con un prevedibile effetto mélo, era in realtà una ragazza madre costretta a esibirsi per mantenere la sua bambina – e poi gli omosessuali che si prostituiscono nel parco di Seattle. La rinuncia all’esattezza testuale produce comunque i suoi frutti. Bletcher, che non per niente è il capo, si sente autorizzato ad azzardare un’ipotesi: «Sta pregando», dice.
La preghiera di Nostradamus
Black si affretta a correggerlo («No, profetizzando»), ma l’effetto è assicurato. Nella mente del pubblico si è ormai prodotto un cortocircuito tra una serie di elementi solitamente considerati in modo più che positivo – la poesia, la Bibbia, la preghiera – e la sete di sangue del serial killer. Lo stesso Black, per riuscire a vedere con gli occhi dell’assassino e a pensare con la sua mente, ha dovuto varcare la porta stregata della letteratura.
Ma perché il Francese starebbe profetizzando? Semplice, perché la citazione finale della «poesia» proviene dall’opera di un profeta o sedicente tale, e cioè Nostradamus. «Sedicesimo secolo, profeta e poeta», spiega succintamente Black, citando subito dopo dall’originale il passaggio adoperato dal Francese: «La grande peste dans la cité maritime». Non contento dello sfoggio poliglotta, impugna un gessetto rosso e scrive peste sulla lavagna, proprio sopra al corrispettivo inglese plague. È la stessa parola, ricorda ai poliziotti, trovata sulle bare predisposte dal Francese per seppellire vive le sue vittime.
Bletcher ormai ha capito dove Black intende arrivare: «E l’assassino vuole realizzare questa profezia?», domanda all’amico, che in tutta risposta completa la citazione – in inglese, questa volta, e in una traduzione come al solito piuttosto libera – da Nostradamus: «Nella città del mare la grande peste è giunta. Non si fermerà finché la morte non sarà placata con il sangue di un uomo giusto. La grande signora è oltraggiata dalla finzione» (si tratta, per la precisione, della quartina 53 nella seconda centuria delle Profezie del 1555).
Ultimata la ricognizione delle fonti, Black è pronto per procedere con l’interpretazione del testo. «Seattle è la città del mare», puntualizza: «L’AIDS è la grande peste. Lui è l’uomo giusto che placherà la morte con il suo sangue innocente». Dopo tanta erudizione, il resto dell’analisi (e dell’episodio) segue uno svolgimento abbastanza prevedibile. Smessi i panni del filologo, Black traccia infatti un profilo tutto sommato convenzionale del Francese, i cui delitti potrebbero derivare da un forte disagio di natura sessuale, con tutta probabilità dovuto al rapporto morboso con la madre, identificata con la «grande signora» di Nostradamus.
La lezione di Frank non è stata propriamente un successo. Bletcher non riesce a convincersi, i suoi uomini non vogliono neppure provarci. Ma lo spettatore sa già che gli agenti dovranno pentirsi di tanta incredulità. Anche perché il Francese altri non è se non un tecnico che lavora nel laboratorio di analisi della polizia. Lo scontro decisivo avrà luogo proprio lì ma, secondo le nuove regole imposte da Millennium, non sfocerà in un «lieto fine». Le ultime parole del serial killer suonano piuttosto come una minacciosa conferma delle pessimistiche previsioni del detective visionario. «Credi di poter fermare la fine? Credi che si possa fermare?», chiede il Francese a Black poco prima di essere raggiunto dai colpi esplosi da Bletcher. Poi, già a terra, si risponde da solo: «Non la fermerai... Non puoi...». Questo però Black lo sa già. Per via del suo «dono», certo. Ma anche perché è un lettore.
Una delle prime sequenze del telefilm ci mostra Frank, durante il trasloco, osservare con sguardo pensoso i libri stipati in uno scatolone che l’uomo richiude immediatamente, come se fosse stato colto in flagrante, non appena sente la voce della moglie Catherine. Anche la ricerca delle fonti del Francese, del resto, avviene a notte fonda, mentre il resto della famiglia riposa. Senz’altro ci sono libri, nella casa gialla, ma non troppo in vista. Frank pare preferisca tenerli nel suo studio in cantina, insieme con il potente computer che gli permette di accedere alla banca dati di Millennium. Come se non ci fosse differenza tra una biblioteca e un archivio di imprese criminali.
Il primo episodio di una serie televisiva ha lo scopo di creare un clima, aiutando gli spettatori a mettere a fuoco le proprie aspettative. Il pilot di Millennium non fa eccezione. Giunta sul piccolo schermo il 25 ottobre 1996, dopo un lungo battage pubblicitario del quale faceva parte anche un debutto tardivo, a stagione televisiva già ampiamente iniziata, la storia del duello tra il Francese e Black dovrebbe servire anzitutto a far comprendere che anche le ultime, relative certezze che abitavano l’universo di X-Files sono cadute. Per accorgersene basta confrontare il glamour un po’ improbabile dell’aitante Mulder, interpretato da David Duchovny, e dell’algida Scully, impersonata da Gillian Anderson, con la maschera affilata di Lance Henriksen, l’attore scelto per il ruolo di Black. La prima impressione è quella di un miscasting, di un errore che costringa Henriksen a recitare “fuori parte”: è troppo anziano per essere il marito di Catherine (l’attrice Megan Gallagher, a sua volta più vicina ai quarant’anni che ai trenta), i suoi capelli sono troppo neri per non essere tinti e, in definitiva, ha una faccia poco rassicurante. Non per nulla il ruolo al quale, prima di essere scritturato da Carter, Henriksen deve la sua notorietà presso il grande pubblico è quello dell’androide Bishop nel fantascientifico Aliens – Scontro finale di James Cameron (1986) e del suo clone Bishop II nell’ancor più cupo Alien3 di David Fincher (1992).
Ma l’idea-guida di Millennium è proprio questa: nessuno è al sicuro. Se non altro, nessuno è al sicuro da se stesso. Lo impara a sue spese Frank nell’episodio inaugurale della seconda serie, Il principio e la fine, nel quale uccide con spietata determinazione il suo misterioso persecutore, l’Uomo della polaroid, che nel frattempo ha rapito e tiene prigioniera Catherine. Ma anche la piccola Jordan ha il suo lato d’ombra, dato che condivide il «dono» del padre ed è già visitata da visioni e premonizioni che rischiano di compromettere la sua infantile innocenza. Le sole ad essere davvero pure sono le vittime. Come Bletcher, che finirà sgozzato, forse in un rito satanico, tra le pareti della casa di Black. E come la stessa Catherine, che nel corso della seconda serie sacrifica la propria vita a un virus misterioso, nel quale sembrano confluire tutte le minacce di fine millennio.
E la letteratura? Quella del Francese e della sua «poesia» è soltanto una trovata sporadica? Se così fosse, Millennium non meriterebbe tanta attenzione. Più ancora che per la scabrosità dei temi affrontati, infatti, la serie si caratterizza per il ricorso esibito e costante a citazioni letterarie. L’impostazione originale prevedeva che ogni episodio si aprisse con una scritta bianca su fondo nero (una soluzione grafica molto amata dagli autori di siti Internet, specie se di argomento in qualche modo “proibito”), letta in tono drammatico da una voce fuori campo. Citazioni, appunto, e provenienti da un insieme di testi tutti in qualche modo compresi all’interno del triangolo Yeats-Apocalisse-Nostradamus individuato fin dalla prima puntata.
Limitiamo la nostra analisi alla prima serie di Millennium, dato che nelle due stagioni successive, nel tentativo di risollevare i dati di un’audience più che deludente, il telefilm finisce per perdere la sua fisionomia iniziale, avvicinandosi piuttosto al clima di X-Files (la fusione tra i due filoni, a quanto pare, era stata preventivata fin dal principio da Carter, per il quale però sarebbe stato Millennium a dover venire in soccorso di X-Files, e non viceversa). Nella seconda serie, per esempio, si viene a scoprire che lo stesso Gruppo Millennium non si limita a combattere le forze del Male, ma è a sua volta implicato in un vasto complotto apocalittico, al quale va fatta risalire, tra l’altro, l’inarrestabile epidemia che ha provocato la morte di Catherine. Al posto degli alieni che ossessionano l’irriducibile Mulder, poi, subentra l’inquietante visione dell’angelo della morte che tormenta una delle agenti del gruppo, Lara Means, destinata a subire un devastante tracollo nervoso poco dopo la misteriosa iniziazione al «livello superiore» di Millennium. Nella terza e ultima serie, infine, Black decide di adoperare il proprio «dono» per sventare le trame ordite dai misteriosi arconti di Millennium e rientra nei ranghi dell’FBI, dove trova ad attenderlo Emma Hollis, una giovane investigatrice nera di grandi ambizioni, con ogni evidenza modellata sulla Clarice Starling de Il silenzio degli innocenti o, meglio ancora, su Ardelia Mapp, l’afroamericana compagna di stanza di Clarice all’accademia del Bureau a Quantico. La complicazione suprema – in un certo senso l’ultima carta giocata da Carter e dagli altri autori che gli si sono affiancati nell’elaborazione della serie – consiste nella cooptazione di Emma nel Gruppo Millennium: braccato da tutti, nell’ultima puntata Black si trova a poter contare soltanto sull’aiuto della figlia Jordan, dotata di poteri paranormali sempre più raffinati. E mentre la trama compie queste evoluzioni, la consuetudine delle epigrafi viene progressivamente abbandonata.
«Solo Ezechiele è il mio profeta»
Nella sua programmazione originaria, dunque, la prima serie di Millennium era composta di ventun episodi, il primo dei quali – e cioè il pilot sul quale ci siamo soffermati in precedenza – privo di epigrafe. Restano venti telefilm, sette dei quali si aprono con un’epigrafe di provenienza biblica. Il più citato risulta il Libro di Giobbe (tre ricorrenze, rispettivamente negli episodi La sfida, Il testimone e Patto con la morte), al quale si affiancano Geremia (Il purificatore), l’Esodo (Il serial killer) e il Vangelo secondo Luca (Relazioni di sangue). Quest’ultima è l’unica esplicita epigrafe neotestamentaria ed è emblematica della strategia di decontestualizzazione alla quale venivano sottoposti i testi impiegati in Millennium. Per introdurre lo spettatore in una fosca vicenda di abbandono infantile, attrazione omosessuale e violenza, si fa infatti ricorso a uno dei versetti evangelici che annunciano la risurrezione: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona (Lc 11,29)». Le ultime parole, che abbiamo riportato in corsivo, vengono spiegate nel versetto successivo («Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione», Lc 11,30) e danno il senso all’intero brano: non verranno dati più segni semplicemente perché il segno c’è già, ed è il segno di Cristo che, come Giona nel ventre della balena, resterà nel sepolcro tre giorni e tre notti, per poi risorgere. Nella citazione di Millennium è proprio il richiamo a Giona a venire soppresso. Troncandosi con il perentorio «non le sarà dato nessun segno» il versetto di Luca assume un’intonazione decisamente minacciosa, che non lascia alcuna speranza di redenzione o salvezza.
Non a caso nella sua struttura originaria l’impostazione generale del serial era costituita da un continuo richiamo all’Apocalisse, considerata l’origine delle ansie millenaristiche di cui si nutre ogni singolo episodio. All’Apocalisse si ispira il Francese per la sua «poesia» e dalle ultime parole del testo giovanneo proviene il titolo originale di una delle puntate più esplicite e inquietanti, Maranatha, che nell’edizione italiana è diventata, semplicemente, L’apocalisse. In questo episodio – che tra l’altro sfoggiava un’epigrafe anch’essa di origine biblica, tratta dal libro del profeta Abacuc – si assiste alle imprese di un sedicente Anticristo di origine russa, già coinvolto nel disastro atomico di Chernobyl. E ancora, ne Il dinamitardo, le cifre finali del numero telefonico adoperato dall’attentatore per far esplodere i suoi ordigni sono 666, ossia il fatidico numero della Bestia di Apocalisse 13,18.
È bene osservare come, nella prima serie di Millennium, la Bibbia fosse considerata anzitutto in quanto testo letterario, in perfetta consonanza con la tradizione culturale angloamericana, anch’essa – come avremo presto occasione di constatare – ampiamente sfruttata dal citazionismo degli autori. Ma questo, come nel caso del Vangelo secondo Luca, non impedisce che le Sacre Scritture vengano manipolate in modo da suggerire l’effettiva presenza di una minaccia soprannaturale che incombe sul mondo.
In Pericolo per Catherine, ultimo episodio della prima stagione americana, Black lascia chiaramente intuire che le porte degli inferi si stanno spalancando. «Tutti hanno una teoria sulla crescente violenza nella nostra società», gli dice un detective dell’FBI. Ma un altro investigatore, sarcastico, lo interrompe: «Mia moglie dà la colpa agli ormoni artificiali nella carne di manzo». Il primo non demorde e torna a chiedere: «Senta, è vero che alcune persone credono che ci sia una forza demoniaca nell’aria?». «Già», aggiunge un terzo, «sembrano dare una spiegazione religiosa». «Sì, alcune persone lo pensano», ammette Black. «Lei cosa ne pensa?», insiste il primo agente. «Non credo sia la carne di manzo», conclude Frank. In un altro episodio, Il Messaggero (che nell’originale ha un titolo di intonazione addirittura liturgica: Powers, Principalities, Thrones and Dominions), il trionfo delle forze infernali è impedito dall’intervento di un angelo. Proprio come se lo scontro finale tra Bene e Male descritto dalla visione di Giovanni fosse già iniziato.
Insieme con l’Apocalisse, il testo biblico più presente nel tessuto di Millennium prima maniera è il Libro di Ezechiele. Come apprendiamo con un certo sgomento nel corso de L’essenza del male, l’episodio in cui Bletcher viene ucciso, lo stesso indirizzo dei Black corrisponde a una citazione da questo testo profetico. La casa gialla di Seattle è infatti situata al numero 1910 di Ezekiel Drive, che corrisponde a Ezechiele 19,10: «Tua madre è radicata nel tuo sangue come una vite nel fiume. Era feconda di frutti e rigogliosa di rami grazie a cotanta acqua» (l’edificio che compare nella serie si trova in realtà nella cittadina canadese di New Westminster). Un’allusione, neppure troppo velata, ai pericoli cui Catherine e Jordan sono esposte a causa del «dono» di Frank.
Anche la scelta di Ezechiele non è casuale. Per complessità simbolica e ricchezza di dettagli, la visione del profeta costituisce infatti una delle fonti più frequentate dall’intera apocalittica giudaica, il genere letterario di cui la rivelazione di Giovanni rappresenta il testo più noto ed emblematico. Ma per sapere questo non occorre essere biblisti. Non negli Stati Uniti, almeno. Quando i tecnici del Gruppo Millennium inseriscono una nuova password vocale nel computer di Frank, per esempio, impostano sì la frase «Solo Ezechiele è il mio profeta», ma con una motivazione quantomeno bizzarra. «È un oscuro riferimento a un grande film americano, quindi indecifrabile dai pirati dell’informatica, che usano frasari convenzionali», sostengono, alludendo con tutta probabilità a una celebre battuta di Pulp Fiction sulla quale avremo modo di tornare.
Erudite soltanto in apparenza, le citazioni di Millennium obbediscono in realtà a un codice facilmente decifrabile da parte dello spettatore al quale si rivolgono. Esse confidano su una sorta di preconoscenza dei testi i quali, a causa del contesto del tutto inusuale in cui vengono collocati, assumono un significato nuovo e niente affatto rassicurante. L’idea di letteratura che ne deriva corrisponde, nel migliore dei casi, a un sapere collocato in una sfera lontana dalla normalità dell’esistenza. Nel momento in cui un poeta è citato da un serial killer, anche il poeta diventa pericoloso quanto l’assassino. Ed è proprio per questo che la stessa poesia – intesa come espressione più alta dell’intera tradizione letteraria – assume i connotati di un sapere perduto e minaccioso, attraversato da misteri che possono essere percepiti e decifrati soltanto dagli iniziati.
Anche se la definizione può apparire sorprendente, quella compiuta da Millennium è dunque un’operazione di critica letteraria. Un’interpretazione del testo grossolana finché si vuole, ma esercitata in funzione vicaria rispetto a forme più convenzionali di trasmissione del sapere umanistico (la scuola, l’accademia, le “buone letture”) che evidentemente non riescono più a raggiungere il grande pubblico. È come se la letteratura fosse ormai dimenticata e dispersa e l’unico possibile contatto con quel che resta della civiltà della parola fosse costituito dai frammenti nei quali – più o meno casualmente – capita di imbattersi. Citazioni pericolose, perché sempre fuori contesto. Ed epigrafi maledette, perché il loro significato originario è ormai decifrabile soltanto a prezzo di una dedizione assoluta, che assomiglia in modo inquietante alla possessione.
Yeats e l’elenco del telefono
Da questo punto di vista, gettare in pasto al pubblico il nome di Yeats nella prima puntata di Millennium è indice di notevole abilità. Tanto per cominciare, si tratta di uno dei poeti più conosciuti del mondo anglosassone. Nel Francese, la già ricordata novelization dell’episodio inaugurale della serie, si parla infatti del Secondo Avvento come di un testo che Black «aveva studiato alle superiori». E anche durante la sfortunata lezione di Frank al distretto – annota ancora l’autrice di questa versione “scritta” del telefilm –, non appena viene nominata la poesia «uno o due agenti fecero un cenno d’assenso, per indicare che conoscevano il titolo».
Per fare un altro esempio legato alla cultura popolare dei nostri anni, si può notare che Yeats è il poeta citato più frequentemente da Robert James Waller nel romanzo I ponti di Madison County (1992). Non si tratta dell’unico riferimento letterario del libro, ma è comunque il solo destinato a sopravvivere nella trasposizione cinematografica del romanzo diretta da Clint Eastwood nel 1995. Nel film come nel libro, infatti, durante la loro passeggiata serale gli amanti Francesca e Robert citano i versi conclusivi – peraltro celeberrimi – della Canzone di Aengus il Vagabondo: «Le mele argentee della luna,/le mele dorate del sole».
Nel marzo del 1996, e cioè pochi mesi prima del debutto televisivo di Millennium, un servizio trasmesso dalla National Public Radio sottolineava come tra i politici statunitensi fosse invalsa l’abitudine di citare in ogni possibile occasione un brano di Yeats. Tra le testimonianze riportate una riguardava il vicepresidente Al Gore, che citava gli stessi versi del Secondo Avvento declamati da Black davanti agli attoniti poliziotti di Seattle: «Tutto si dissocia, il centro crolla. L’anarchia si rovescia sul mondo». Manca soltanto la «torbida marea del sangue», e poi la corrispondenza è perfetta. Non a caso, nello stesso servizio radiofonico, si riportava la battuta di un autorevole commentatore della politica americana, William Safire, per il quale Il Secondo Avvento sarebbe così inflazionato che ormai, per citarlo, si dovrebbe ritirare il numero e mettersi in coda.
Non è difficile spiegare la crescente risonanza di cui questa poesia gode nei nostri anni. Proviamo a leggere il testo integrale:
Il Secondo Avvento
Girando e girando nella spirale che si allarga
Il falco non può udire il falconiere;
Le cose crollano; il centro non può reggere;
Mera anarchia è scatenata sul mondo;
La corrente torbida di sangue è scatenata, ovunque
Il rito dell’innocenza è sommerso;
Ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori
Sono pieni di appassionata intensità.
Di certo qualche rivelazione è vicina;
Di certo il Secondo Avvento è vicino.
Il Secondo Avvento! Appena dette queste parole
Una vasta immagine emergente dallo Spiritus Mundi
Mi turba la vista: in qualche luogo tra le sabbie del deserto
Una forma – corpo di leone, la testa di uomo,
Lo sguardo inespressivo e spietato come il sole –
Si muove sulle sue lente cosce, mentre tutto all’intorno
Turbinano le ombre degli sdegnati uccelli del deserto.
Le tenebre scendono ancora; ma adesso io so
Che venti secoli di sonno pietroso
Furono turbati fino all’incubo dal dondolar di una culla.
E quale mai informe animale, giunta finalmente la sua ora,
Si avvicina a Betlemme per nascere?
Scritto nel 1919, all’indomani della prima guerra mondiale, Il Secondo Avvento è in effetti uno dei documenti più significativi dell’itinerario di Yeats. Se Nostradamus – secondo l’icastica definizione di Black – fu «profeta e poeta», in modo speculare Yeats fu un poeta che volle farsi profeta. Dalla riscoperta delle tradizioni celtiche all’attività nella setta ermetica della Golden Dawn, dal matrimonio con la veggente Georgie Hyde-Lees alla stesura di quella summa esoterica che è La visione, la vita e l’opera di Yeats finiscono per congiurare nella costruzione di un’inedita figura di poeta-mago che ha tra i suoi modelli dichiarati l’eclettismo spirituale di William Blake. Un autore di cui torneremo a parlare più avanti e al cui cognome, con buona verosimiglianza, allude quello del protagonista di Millennium, Black (fatto salvo, si capisce, l’ovvio riferimento al «nero», all’oscurità, alla minaccia).
La svolta epocale annunciata dal Secondo Avvento è, in estrema sintesi, la fine del millennio cristiano. Yeats adopera una terminologia squisitamente biblica – l’espressione the Second Coming, nella tradizione religiosa anglosassone, designa il ritorno di Cristo sulla Terra –, ma la mette al servizio della rivincita di arcane divinità ancestrali, guidate dalla sfinge che attende di svegliarsi nelle solitudini del deserto: una Bestia di sembianze apocalittiche, in qualche modo simile ai mostri che balenano nelle «percezioni» del tormentato Black. Il tema è presente in molti altri testi di Yeats, per esempio nel racconto I re magi (in Rosa Alchemica, del 1896), dove tre anziani fratelli irlandesi si mettono in viaggio verso Parigi per assistere alla nascita mistica di un unicorno, messaggero degli dèi pagani. Osserva uno dei «magi» di Yeats: «Forse il cristianesimo era buono e piaceva al mondo, e perciò adesso sta scomparendo e gli Immortali cominciano a risvegliarsi». La trama complessiva di Millennium non si discosta troppo da questo schema, anche per quanto riguarda le considerazioni sulla fine del cristianesimo. Non a caso, nell’episodio Il serial killer assistiamo a una catena di omicidi rituali – con tanto di recupero delle pratiche dell’Inquisizione – di cui sono vittime alcuni sacerdoti.
Per quanto basata su premesse tutt’altro che semplici da divulgare (la teosofia, il neoplatonismo ermetico, la dottrina dell’Anima Mundi), in Millennium la poesia di Yeats diventava autorevole testimonial delle angosce di cui la serie intende farsi portavoce. Chris Carter è probabilmente il personaggio più sgradevole che un critico letterario possa immaginare, ma questo non gli impedisce di fare della letteratura un uso estremamente efficace sul piano della narrazione televisiva.
Nato a Bellflower, in California, nel 1957, Carter ha iniziato la sua carriera come giornalista, collaborando alla rivista «Surfing Magazine». Verso la metà degli anni Ottanta è approdato alla Disney in veste di sceneggiatore e produttore. Ha avuto fortuna con un paio di serie televisive (tra cui Cinque ragazzi e un miliardario, trasmessa anche in Italia), un po’ meno sul versante cinematografico. Di fatto, prima di X-Files: il film di Rob Bowman (1998), la sua più ragguardevole sortita sul grande schermo era rappresentata dalla collaborazione a una pellicola di fantascienza diretta nel 1989 da Michael Anderson e intitolata, profeticamente, Millennium. Quando gli capita di rievocare le tappe salienti della propria formazione di autore televisivo, Carter – che ha avuto la singolare ventura di figurare sia nell’elenco degli uomini più influenti degli USA sia in quello dei più sexy – non si maschera dietro pose intellettualistiche. Importanti, per la sua visione del mondo, sono stati la serie televisiva Kolchak – The Night Stalker (giudicata severamente, invece, da un intenditore come Stephen King), lo scandalo Watergate (grazie al quale afferma di aver maturato l’atteggiamento scettico e sospettoso su cui poggia il clima di X-Files) e la controcultura dei surfer californiani. La sua formazione accademica, di fatto, si riduce a un diploma in giornalismo. Nel suo ufficio di Vancouver, in Canada, dove nascevano anche le trame di Millennium, non si trova affatto la babele di libri che ci si potrebbe aspettare. Sul tavolo da lavoro, raccontano i giornalisti che lo hanno incontrato, Carter tiene soltanto un dizionario, una Bibbia e un elenco del telefono, dal quale attinge i nomi dei personaggi destinati a comparire nei telefilm.
Disinvolto finché si vuole, e del tutto privo di qualcosa che assomigli lontanamente allo scrupolo filologico, quando vuole Carter sa però essere molto efficace. La citazione dello Yeats apocalittico del Secondo Avvento nel pilot di Millennium, per esempio, ottiene un risultato che va ben al di là della definizione di un’atmosfera minacciosa e decadente. L’autore irlandese avrà sì fama di mago, occultista e visionario, ma rimane anzitutto un poeta. Un grande scrittore, un premio Nobel, uno di quelli che si studiano «alle superiori». È un nome rassicurante, quello di Yeats, ma nello stesso tempo, dopo averlo sentito nominare in un contesto come quello di Millennium, lo spettatore sa che anche nel testo in apparenza più innocuo può nascondersi il seme del Male. Nella sconcertante prospettiva critica sostenuta da Black la letteratura è infatti la porta d’ingresso in un regno maledetto, la via che ci obbliga a confrontarci con «ciò che sappiamo di poter diventare nella parte più oscura della nostra coscienza». Meglio tenerla a bada, perché in ogni Yeats si nasconde un Nostradamus.
Chi ha paura di Teresa d’Avila?
Questo spiega come mai, posti in epigrafe agli episodi della prima serie di Millennium, i classici della letteratura universale assumano un aspetto tanto allarmante. Ci sono nomi abbastanza prevedibili nell’immaginaria antologia compilata da Carter e dai suoi collaboratori. Nietzsche, per esempio, presente con una massima così nicciana da sembrare apocrifa («L’uomo è la più crudele delle belve», nell’episodio Il piacere di uccidere). Ma non si tratta di una novità, se pensiamo che già nell’esilarante Un pesce di nome Wanda di Charles Crichton (1988) Kevin Kline interpretava un criminale da strapazzo che prendeva coraggio annusandosi le ascelle e citando a casaccio La volontà di potenza. Risalendo ancora più indietro nel tempo, si potrebbe ricordare l’epigrafe nicciana («Ciò che non ci uccide ci rende più forti») che, in modo adeguatamente enfatico e perentorio, fungeva da ouverture alla versione cinematografica di Conan il barbaro diretta nel 1981 da John Milius. E Nietzsche, sia pure en travesti, faceva capolino anche nel magniloquente Zardoz di John Boorman (1973), un film che – come avremo modo di vedere – può essere considerato tra i precursori della tendenza espressa da Millennium.
Abbastanza scontata è anche la frase di Jean-Paul Sartre che nel serial di Chris Carter apre l’episodio Il dinamitardo («Sono responsabile di tutto tranne che della mia responsabilità»), mentre la prospettiva si fa più complessa nel caso del Moby Dick di Melville, da cui è tratta l’epigrafe de Il giudice: «Questo mondo visibile pare fatto d’amore, le sfere invisibili erano fatte di paura». Altro scrittore “da studiare a scuola”, Melville, su questo non c’è dubbio. Ma anche una risorsa inesauribile per i cercatori di fosche citazioni, come potrebbe dimostrare il classico La notte del cacciatore di Davis Grubb (1953), che da Moby Dick prende due delle epigrafi che ne contrassegnano lo svolgimento. In particolare, la frase posta in apertura del romanzo («Dove finiscono gli assassini, amico! Chi può pronunciare una condanna quando il giudice stesso viene portato in giudizio?») non sfigurerebbe in un qualsiasi episodio di Millennium.
La notte del cacciatore rappresenta un precedente notevole, anche se remoto, delle atmosfere di Millennium. Romanzo “di culto” di un autore che, in seguito, ha molto lavorato come sceneggiatore cinematografico e televisivo, la storia dei due bambini inseguiti lungo il fiume dal patrigno malvagio divenne nel 1955 l’unico, straordinario film diretto da Charles Laughton (in Italia la pellicola è conosciuta con il titolo La morte corre sul fiume). A interpretarlo, nel ruolo del diabolico predicatore Harry Powell, un Robert Mitchum in stato di grazia, che in una delle scene più memorabili della pellicola dà vita al duello tra Bene e Male mettendo in mostra le lettere che porta tatuate sulle dita delle mani: LOVE (amore) sulla destra e HATE (odio) sulla sinistra. La trama della Notte del cacciatore, di per sé, ha poco di letterario, se non l’omaggio – virato decisamente al nero – ad autori come William Faulkner e John Steinbeck. Ma in realtà il libro è attraversato da una fitta serie di citazioni, le più evidenti delle quali sono appunto poste all’inizio delle diverse sezioni del racconto: oltre a Melville, troviamo schegge di John Donne, Rudyard Kipling, Gerard Manley Hopkins e una filastrocca infantile («Corri corri, cagnolino! Il grosso cane ti è vicino!») che in questo contesto assume un significato di allucinante terrore.
Ma più che altro La notte del cacciatore è un romanzo dal forte impianto biblico, caratteristica valorizzata anche dalla regia di Laughton, che pure sceglie di amplificare gli elementi fiabeschi già presenti nel libro di Grubb, in modo da fornire una moderna versione della favola di Hansel e Gretel. Nonostante tutto, però, La notte del cacciatore non è un romanzo apocalittico. Alla fine il predicatore malvagio viene sconfitto e i due piccoli orfani trovano rifugio nella casa della signora Cooper, una figura in parte fiabesca e in parte sacrale, che sullo schermo è impersonata da una memorabile Lilian Gish. Per quanto terribile, il loro è stato un cammino di redenzione e di salvezza (ecco il sottofondo biblico), che le stesse citazioni scelte da Grubb si incaricano di certificare. Dal cupo pessimismo della frase di Melville sull’impossibilità di giudicare con giustizia, si arriva infatti alle parole conclusive del gesuita Hopkins, che non lasciano dubbi sul significato del racconto: «E io vi dico che siamo avvolti dalla misericordia come dall’aria...». Niente di tutto questo può avvenire nel mondo di Millennium, nel quale l’ineluttabilità della condanna ha la meglio su qualsiasi esercizio di speranza. E gli scrittori – che sono sempre Yeats e Nostradamus insieme, come sappiamo – hanno il compito di ricordarlo, sono porte spalancate sulla zona oscura dell’umanità. Così, almeno, vuol farci credere Chris Carter.
Continuiamo a percorrere l’elenco delle epigrafi della prima serie di Millennium. Abbiamo già detto della Bibbia e di Nietzsche, di Sartre e di Melville. Ora vale la pena di segnalare due autori dell’antichità classica. Il primo è Platone, chiamato in causa per Il grande cataclisma, storia di una setta convinta dell’imminenza di un nuovo diluvio universale. La frase tratta dal Timeo ha una sua efficacia («Voi ricordate un solo diluvio, ma ve ne sono stati molti altri in precedenza»), ma non testimonia affatto di una lettura diretta del testo greco. Di fatto, la si può trovare citata in qualsiasi manuale di stranezze, del tipo di quelli in dotazione agli agenti di X-Files, sotto la voce «Atlantide» (quella di Platone, com’è noto, è la più antica versione conosciuta del mito di una civiltà sepolta nel mare).
Non andiamo molto meglio con Cicerone, dalle cui opere retoriche proviene la frase sul rapporto tra memoria e oblio («Ricordo ciò che non vorrei ricordare, non riesco a dimenticare ciò che vorrei dimenticare») che introduce L’esperimento, l’episodio in cui Black è vittima di un’amnesia e in cui viene la definitiva conferma del fatto che anche la piccola Jordan possiede il «dono». In casi come questi, si ha l’impressione che Carter e i suoi collaboratori stiano davvero adoperando un dizionario delle citazioni, esattamente come deve fare Black per smontare il mosaico testuale del Francese. Il che non vuol dire che gli autori di Millennium non sappiano muoversi con astuzia.
Una trovata notevole, per esempio, è quella che ha portato a scegliere una frase di santa Teresa d’Avila come prologo alla trama, particolarmente cupa, de Il marchio di Lucifero, l’episodio in cui la cognata di Frank viene rapita nel giorno del battesimo del suo primogenito, sepolta viva e poi miracolosamente rianimata, in una scena che rappresenta un equivalente “laico” della risurrezione. Ma la citazione iniziale, proveniente dal teresiano Libro de su vida, lascia intendere che c’è poco da rallegrarsi: «Con voce terribile mi disse che ero sì sfuggita dai suoi artigli, ma mi avrebbe nuovamente catturata». Anche qui, tutto sommato, nulla di nuovo. È almeno dal 1764, anno di pubblicazione de Il castello di Otranto di Horace Walpole, che l’immaginario cattolico viene adoperato per alimentare gli incubi del gotico. Basti pensare, tra i classici, a Il monaco di Matthew Gregory Lewis (1796) e a Dracula di Bram Stoker (1897) oppure, più di recente, a L’esorcista di William Peter Blatty (1971) e più ancora all’omonima saga cinematografica inaugurata nel 1973 dal film di William Friedkin. Tutti casi in cui il cattolicesimo viene presentato come depositario di una conoscenza arcana, che sola è in grado di contrastare l’avanzata delle potenze del Male.
La scommessa di Carter, però, sta nel fatto di adoperare questa risorsa tradizionale soltanto nella seconda metà della serie (Il marchio di Lucifero è il quindicesimo episodio su un totale di ventuno), quando il carattere di Millennium è ormai ben delineato. La prima epigrafe in assoluto si trova in Fuoco dalla Gehenna (il telefilm che segue immediatamente il pilot) e proviene invece da un autore insospettabile, il poeta Wystan Hugh Auden, finito in compagnia di Nostradamus per via di un verso di Blessed Event, il testo del 1939 che annuncia gli orrori della seconda guerra mondiale. «Sento l’odore del sangue, sarà il tempo dell’insana follia», scrive Auden, e tanto basta per rendere sospetta tutta la sua opera.
È il tipico caso di decontestualizzazione violenta. Fra Teresa d’Avila e il battesimo di un neonato un legame può forse esistere, per quanto pretestuoso. Tra Auden e il lavaggio del cervello cui sono sottoposti gli adepti di uno strano culto segreto in Fuoco dalla Gehenna l’accostamento è invece del tutto arbitrario. Ma ormai sceneggiatori e pubblico ragionano in base all’identificazione tra il poeta Yeats e il veggente Nostradamus, deducendone un coinvolgimento di entrambi nello scenario dell’Apocalisse. Auden è un poeta e, in quanto tale, non ha alcun diritto a chiamarsi fuori dalla partita.
Stessa sorte tocca a una scrittrice altrimenti insospettabile come George Eliot, chiamata in causa all’inizio dell’episodio La reincarnazione («Il passato di un uomo non è semplicemente una storia morta... È una parte ancora fremente di lui, che porta brividi e amarezza, e i formicolii di una meritata vergogna»), e al poeta americano William Rose Benét (1886-1950), che suggerisce l’ultima epigrafe della prima serie, quella che compare in Pericolo per Catherine: «E ora non v’è che silenzio,/silenzio, silenzio che annuncia/tutto ciò che ignoriamo». Altro scrittore familiare al pubblico americano è senza dubbio Robert Louis Stevenson, la cui affinità con le cupezze della serie televisiva è garantita, se non altro, da Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Con una punta di snobismo, però, la banda di Millennium non ricorre a questo testo celeberrimo, ma rintraccia la citazione introduttiva di Un cittadino stimato in Virginibus Puerisque, ironico saggio sul matrimonio datato 1881. La frase («Le menzogne più crudeli spesso vengono dette in silenzio») è comunque pertinente al caso di incesto che vede coinvolta, in veste di assistente sociale, la moglie di Black, Catherine, e si segnala inoltre per l’insistenza sul tema del silenzio, presente anche nei versi di Benét trascritti poco sopra.
L’elenco è quasi terminato. Restano da ricordare l’abbastanza inconsueto Ernest Renan di Un caso particolare («O Dio, se un Dio esiste, salva la mia anima, se ne ho una...»), l’anonimo proverbio inglese del 1560 de L’essenza del male («Ogni uomo prima di morire vede il diavolo») e quello che è forse il vero colpo basso inferto alla sensibilità dello spettatore, ossia la frase di Charles Manson – il satanista psicopatico che nel 1969 guidò l’assalto alla villa di Roman Polanski, decretando l’uccisione della moglie del regista, l’attrice Sharon Tate – posto all’inizio del Messaggero: «La paranoia non è altro che una forma di consapevolezza; e la consapevolezza non è altro che una forma d’amore». Più che una citazione, una dichiarazione di poetica, vista l’insistenza con cui, da X-Files in poi, Chris Carter ha giocato la carta del complotto epocale, della perturbante congiura di tempi ed eventi.
L’esca dalle lunghe gambe
La citazione più interessante e rivelatrice dell’intera serie non si trova però tra le epigrafi, ma nella struttura di un episodio all’apparenza abbastanza convenzionale, L’innocenza perduta. L’epigrafe c’è anche qui ed è fatta risalire a una fonte che – caso unico – viene indicata con il solo titolo dell’opera, senza cioè segnalare l’autore. Si tratta di un verso dal Faust di Goethe: «Due anime, ahimè... alloggiano nel mio petto» (I.1112). Un’allusione, tutt’altro che velata, alla doppia vita di Art Nesbitt, il farmacista di Boulder, nel Colorado, responsabile di una serie di delitti a sfondo sessuale (l’episodio, si noti, andò in onda negli USA il 31 gennaio 1997, poco più di un mese dopo che proprio a Boulder si era consumato il misterioso omicidio di JonBenet Ramsey, la piccola regina di bellezza trovata morta in circostanze oscure e inquietanti il 26 dicembre 1996).
Messo sull’avviso dalla facilità con cui l’assassino sembra avere accesso a droghe e farmaci, Black punta l’attenzione su Nesbitt, scoprendo ben presto che l’uomo è impotente. La circostanza – rivelata dalla moglie dell’indiziato – contribuisce ad alimentare l’imbarazzo dell’investigatore locale con cui Black collabora. Anche il poliziotto, infatti, dopo anni di indagini su crimini sessuali, non è più riuscito ad avere rapporti con la moglie, da cui ha divorziato.
L’importante non è tanto la soluzione del caso (scoperto, Nesbitt preferisce uccidersi che consegnarsi alla polizia, secondo uno schema molto frequente in Millennium), quanto il fatto che, questa volta, l’intera vicenda è una citazione o, meglio, la riscrittura di un testo poetico. L’indizio principale viene dal titolo originale dell’episodio, Loin Like A Hunting Flame, libera trascrizione di un verso tratto da La ballata dell’esca dalla lunghe gambe di Dylan Thomas. L’autore dell’episodio, Ted Mann (produttore e sceneggiatore di lunga esperienza, attivo a Hollywood sin dalla fine degli anni Sessanta), deve avere una buona conoscenza del testo, dal momento che l’espressione scelta per il titolo si trova quasi al termine della lunga ballata – oltre duecento versi – composta dal poeta gallese nel 1941. Ad avere «i lombi» come «fiamma da caccia» è il misterioso giovane pescatore che getta in mare, attaccato all’amo, il corpo di una ragazza: l’«esca dalle lunghe gambe», appunto, secondo l’immagine che Thomas mutua in parte da una poesia dell’immancabile Yeats (La mosca dalle lunghe gambe), in parte da un componimento del poeta metafisico John Donne.
Il contenuto sessuale della poesia è esplicito. Lo stesso autore la definì come «la descrizione di una copula gigantesca». Pesci, polipi, aquile e altri animali si congiungono con il corpo agonizzante della donna, in una visione di passione e disfacimento che di volta in volta esalta o deprime il desiderio del pescatore, incapace di esercitare in modo meno violento la propria sessualità.
Composta in evidente competizione con il Bateau Ivre di Rimbaud, la poesia di Thomas è dunque un’elaborata fantasia erotica, con molti elementi di tanatofilia. Quando, al termine del telefilm, Black parla di «sesso e morte» uniti in «un unico inseparabile impulso», formula una definizione che si adatta ai delitti di Nesbitt (l’uomo prima droga le sue vittime, poi le fotografa mentre fanno l’amore, infine le uccide), ma anche al perverso comportamento del pescatore di Thomas.
Durante una perquisizione in casa del farmacista, inoltre, gli investigatori trovano, ben nascosta, una vecchia rivista pornografica. Nesbitt l’ha prima chiusa ermeticamente in una busta di plastica, poi occultata in bagno, nella vaschetta dello scarico del water. Proprio come il pescatore di Thomas, che lancia «nei flutti/una ragazza viva con ami alle labbra», anche Nesbitt consegna alle acque – sia pure di un degradato mare domestico – i corpi che alimentano le sue fantasie. Nel corso delle indagini, del resto, Black si è convinto che, prima di colpire, l’assassino assuma a sua volta sostanze stupefacenti, in modo da amplificare le proprie percezioni. Anche questo dettaglio è già presente nella Ballata di Thomas, dove leggiamo del «tentatore che sotto le palpebre/mostra all’io addormentato donne nude/bianche come la luna e come l’albero alte/ /camminare vogliose e belle di vergogna».
A dissipare ogni dubbio sul legame tra la poesia e il telefilm, provvede infine il cognome del detective di Boulder con cui Black collabora. Il poliziotto brusco e impacciato, che in passato ha vissuto un dramma simile a quello di Nesbitt, si chiama Thomas. Come Dylan Thomas, appunto, il poeta del vitalismo estremo e autodistruttivo che, su iniziativa degli sceneggiatori di Millennium, viene cooptato tra i profeti dell’Apocalisse.