Come l’«esca dalle lunghe gambe» di Dylan Thomas, anche la ragazza è stata data in pasto alle acque. Come le riviste pornografiche che il farmacista assassino di Millennium nasconde in bagno, anche lei è protetta dalla plastica, un velo che le avvolge tutto il corpo e la preserva dalla decomposizione. E come quello del «pirrata» di Bonvensin, anche il suo volto è rimasto intatto, riconoscibile. E infatti viene subito riconosciuto: «Mio Dio», mormorano sconvolti i soccorritori, «è Laura Palmer». In sottofondo, morbosa e inarrestabile, scorre la musica di Angelo Badalamenti. Benvenuti a Twin Peaks, il serial ideato dal regista David Lynch in collaborazione con Mark Frost e trasmesso negli Stati Uniti nel 1990. Uno degli antenati riconosciuti di Millennium e, di sicuro, la prima serie televisiva ad alludere in modo esplicito a temi come l’incesto e la prostituzione minorile, portando nei salotti di milioni di case l’impossibilità – per dirla con le parole di Frank Black – di «sperare in un lieto fine».
Fin dal primo episodio (un pilot di grande classe, diretto dallo stesso Lynch) Twin Peaks fa precipitare lo spettatore in un gioco di specchi in cui buoni e cattivi si scambiano continuamente le parti. A cominciare da Laura Palmer: se davvero era la figlia esemplare e la studentessa modello di cui tutta la città andava fiera, perché è morta in quel modo orribile? L’hanno ritrovata nuda, coperta soltanto dal famoso telo di plastica, nelle acque del fiume. Come ha fatto ad arrivare lì? E quanto c’è di vero e quanto di simulato nel dolore che tutti sembrano provare? Sono alcune delle domande alle quali è chiamato a rispondere Dale Cooper, l’agente speciale dell’FBI – interpretato da Kyle MacLachlan, uno degli attori preferiti di Lynch – in missione a Twin Peaks, cittadina dell’estremo Nord-Ovest americano, al confine tra Stati Uniti e Canada.
Qui nulla è come appare e l’immagine pubblica delle persone nasconde puntualmente orribili segreti. La doppia vita di Laura è simboleggiata dai due ragazzi che frequenta: l’affettuoso James, motociclista e un po’ poeta, e il violento Bobby, il camionista che la rifornisce di cocaina e con il quale partecipa a orge nel bosco. Ma anche la moglie di Bobby, la bella Shelly, ha una relazione da tenere nascosta, mentre Audrey – figlia dell’affarista senza scrupoli che spadroneggia in città – dissimula la propria verginità atteggiandosi a consumata seduttrice. Quanto all’assassino di Laura, è l’uomo che più le era vicino e che più si mostra straziato dal dolore: Leland Palmer, suo padre, il quale ha agito posseduto da Bob, la creatura demoniaca che tiene in pugno gli inconsapevoli (ma niente affatto incolpevoli) abitanti di Twin Peaks.
In Fuoco cammina con me! (1992), il film in cui Lynch ha raccontato – senza rinunciare al suo stile labirintico e artefatto – l’ultima settimana di vita di Laura Palmer, scopriamo in modo definitivo che anche l’agente Cooper ha un «dono» simile a quello di Frank Black, ma questo non gli impedisce di soccombere a sua volta davanti all’oscuro potere di Bob. Nel film Cooper viene imprigionato nel misterioso Padiglione Nero (il non-luogo infernale da cui provengono le passioni malsane che infestano la cittadina), ma prima, nelle quasi trenta puntate della serie, il giovane detective ha avuto modo di conquistare e spiazzare il pubblico con la sua faccia da bravo ragazzo e la passione per le torte alla ciliegia, l’abitudine di dettare appunti in un microscopico registratore e lo sporadico ricorso a un metodo di indagine zen che fa apparire convenzionali persino le analisi del testo propinate da Frank Black ai poliziotti di Seattle.
Non ci sono ansie millenaristiche, in Twin Peaks, ma in compenso domina la fascinazione del male caratteristica del cinema di Lynch. Il quale non è affatto un regista “letterario”, a dispetto della collaborazione con lo scrittore Barry Gifford, autore del romanzo da cui è tratto Cuore selvaggio (1990) e sceneggiatore, insieme con il regista, di Strade perdute (1996). L’unico film di Lynch che si propone di essere in qualche modo fedele a un testo preesistente è la sontuosa epopea fantascientifica di Dune (1984), tratta dai romanzi di Frank Herbert. Ma anche in questo caso il versante visionario finisce per avere la meglio e la vicenda si trasforma in una sorta di rêverie o, meglio, in una successione di tableaux vivants. «I miei film», ha ammesso Lynch, «sono come dei quadri filmati: ritratti in movimento imprigionati su celluloide».
Eppure anche Twin Peaks pullula di citazioni. Le si può trovare scrupolosamente censite nei siti Internet che, a dieci anni dalla messa in onda del serial, gli ammiratori dell’agente Cooper continuano a tenere aggiornati. Una complessa rete di allusioni e riferimenti in cui il romanticismo di Shelley convive con il Libro tibetano dei morti, si brinda declamando un verso dell’immancabile Yeats e nel frattempo si allude alle serie televisive del passato, prima fra tutte Il fuggitivo, portata sul grande schermo nel 1993 da Andrew Davis, protagonista Harrison Ford.
Di solito, però, in Twin Peaks non viene rivelata la provenienza delle citazioni. In alcuni casi, forse, perché si tratta di testi fin troppo riconoscibili, come accade con i ripetuti imprestiti dalle opere di Shakespeare: «l’inverno del nostro scontento» dal Riccardo iii, «il giorno d’estate» dal Sonetto 18, «la sostanza di cui sono fatti i sogni» dalla Tempesta e via di questo passo. Uno Shakespeare minimo, d’accordo, ridotto in pillole a uso degli studenti svogliati. Ma comunque un autore familiare, che non si può non conoscere e che – particolare importante – non incute alcun timore.
La notazione non ha nulla di moralistico, ma deriva da una constatazione pratica. Nel mondo di Twin Peaks ignorare o far finta di ignorare l’universo della letteratura espone a pericoli considerevoli. Anzi, al peggior rischio che si possa correre in una città votata all’inganno e alla doppiezza: il rischio di essere scoperti. È quello che succede alla già ricordata Audrey, interpretata dall’attrice Sherilyn Fenn. Innamorata di un riluttante Cooper, Audrey si è avventurata in una rischiosa indagine parallela, che la porta all’One-Eyed Jack, il bordello oltre confine in cui anche l’angelica e corrotta Laura Palmer ha lavorato per un certo periodo. Audrey si presenta a Blackie, la maîtresse, che le domanda nome e cognome. «Hester Prynne», risponde con prontezza la ragazza, ma la sua spavalderia crolla quando la donna le replica sorridendo: «Che cosa credi, anch’io al liceo ho letto La lettera scarlatta...». Audrey – che di lì a poco rischierà di finire a letto con il padre Benjamin, replicando così l’incesto fra Leland e Laura Palmer – è più ingenua che spregiudicata. Anche se posa a femme fatale, è ancora illibata e dentro di sé continua a considerare la protagonista del capolavoro di Hawthorne come l’emblema della perdizione. Il suo errore nasce da qui, ed è un errore ingenuo, grossolano. Fatte le debite proporzioni, è come se, in Italia, una pornostar scegliesse il nome d’arte di Lucia Mondella.
Anche in questo Audrey è molto diversa dalla vera Laura Palmer, sempre che si voglia prestare un qualche credito al diario della ragazza redatto dalla figlia del regista, Jennifer Lynch, all’epoca poco più che ventenne. Se Twin Peaks è un bizzarro (e non a caso) isolato tentativo di serial d’autore, Il diario segreto di Laura Palmer rappresenta un altrettanto insolito esperimento di gadget «intelligente». Per quanto pretenzioso nella forma e pretestuoso nell’insistenza sugli appetiti sessuali della protagonista, il Diario ha almeno il pregio di non essere una semplice trascrizione o novelization del racconto televisivo. L’operazione – che forse pretenderebbe di avere una propria autonomia letteraria – si avvicina semmai al successivo Fuoco cammina con me!: nel film siamo testimoni dell’ultima, convulsa settimana di vita di Laura, nel libro assistiamo alla graduale trasformazione di una ragazzina spensierata nella ninfomane tossicodipendente il cui corpo viene ripescato dalle gelide acque del fiume. L’ennesimo gioco di specchi, dunque, che se non altro ha l’astuzia di non rivelare il nome dell’assassino e di non lasciar trapelare quasi nulla del rapporto morboso tra Laura e il padre.
Ofelia a Twin Peaks
Il Diario è concepito con l’intenzione di raccontare una storia diversa rispetto a quella che si è vista in televisione. Non per rivelare qualcosa del molto che manca per rendere la serie pienamente comprensibile, ma semplicemente per fornire una nuova serie di indizi sotto forma di informazioni slegate e casuali, come ci si può aspettare di trovare nei quaderni di una adolescente. Detto altrimenti, il Diario ci presenta il punto di vista della vittima. E il dato interessante è che si tratta di un punto di vista ormai disperatamente estraneo alla tradizione letteraria.
Anche quando è ancora una serena teenager americana, Laura non accenna mai alle proprie letture. Sappiamo che a scuola è molto brava, ma i libri sembrano esulare dai suoi interessi: ha un pony da accudire, trascorre il suo tempo in compagnia dell’amica del cuore Donna oppure, quando capita, della cugina Maddie, che vive in un’altra città e viene a trovarla soltanto durante le vacanze. Ma Laura non pratica la lettura, che per lei sembra appartenere al mondo dell’inganno e della finzione. Leggere è una copertura, esattamente come l’impegno di volontaria a favore degli anziani del paese – ai quali Laura porta i pasti caldi – non è altro che l’ennesimo dettaglio rassicurante nella sua impeccabile immagine ufficiale.
È appunto per copertura che Laura legge ad alta voce le favole tanto amate da Johnny, il fratellino ritardato di Audrey. Il ragazzo ha un debole per La bella addormentata, una storia che da bambina anche Laura ha molto amato. Ma la Laura di adesso sa bene che Johnny, nella sua idiozia, è capace di dimostrare uguale entusiasmo per qualsiasi racconto, non importa quanto efferato e perverso, gli venga propinato. Jennifer Lynch non lo scrive con chiarezza, ma l’impressione è che, quando legge La bella addormentata, Laura stia dalla parte della strega, non da quella della principessa. Anche se alla fine le toccherà impersonare il ruolo della bella addormentata nel fiume o, meglio, di una perversa Ofelia postmoderna.
La sventurata fidanzata di Amleto, il cui corpo senza vita viene ripescato dal fiume in cui si è lasciata annegare, è senza dubbio la più celebre «esca dalle lunghe gambe» della letteratura anglosassone, una figura che assume la forza di archetipo anche in virtù della raffigurazione di cui è oggetto nella pittura preraffaellita. L’Ophelia dipinta nel 1852 da John Everett Millais, per esempio, è un quadro che continua a esercitare intatta la sua forza di fascinazione. Lo ha senza dubbio tenuto presente Charles Laughton quando, dirigendo La morte corre sul fiume, ha amplificato i toni shakespeariani con cui nella Notte del cacciatore di Grubb viene descritto il ritrovamento del cadavere della madre dei piccoli John e Pearl, gettato nel fiume dal malvagio predicatore Powell. Nell’immaginario statunitense più recente, inoltre, l’idea del cadavere femminile abbandonato in acqua costituisce in modo quasi inevitabile un richiamo alla morte di Mary Jo Kopechne, la segretaria (e amante) del senatore Ted Kennedy annegata il 18 luglio 1969 in seguito a un incidente automobilistico di cui era responsabile lo stesso uomo politico. Un caso drammatico ed emblematico, al quale si è ispirata Joyce Carol Oates per il romanzo Acqua nera (1992).
Ma torniamo a Twin Peaks e ai suoi misteri. Se prestiamo fede al Diario, una menzogna legata alla lettura accompagna anche la prima grande trasgressione di Laura. Mentre sta per sgattaiolare di casa in piena notte per partecipare alla festa che segna la sua iniziazione alla cocaina, la ragazza lascia ai genitori una letterina in cui afferma di non riuscire a dormire e di essere andata a riposare in una piccola radura con «un plaid e un libro» nella speranza di riuscire a fare «una dormitina su Nancy Drew o qualcosa del genere». Anche quando finge di leggere, dunque, Laura non si rivolge ai “libri-che-si-leggono-a-scuola”, una definizione che a questo punto possiamo quasi considerare canonica, dato che accomuna il Frank Black di Millennium (ricordate le reminiscenze liceali del Secondo Avvento?) alla maîtresse intellettuale di Twin Peaks. Le indagini poliziesche di Nancy Drew, detective in erba creata dalla scrittrice Carolyn Keene, sono quanto di più rassicurante e convenzionale una ragazzina possa leggere, ma non pretendono certo di essere opere d’arte. Onesto intrattenimento, questo sì, alla stregua degli amori adolescenziali raccontati da Paul Zindel. Niente di meno, niente di più.
Uno dei motivi per cui Laura si perde e Audrey si salva è dunque che la prima non è più una lettrice di grandi libri, mentre la seconda lo è ancora, anche se forse soltanto per obbligo scolastico. In compenso, però, Laura scrive. Tiene aggiornato il suo diario e compone poesie in cui riversa le proprie ansie. Per lei scrivere versi è un modo per venire a patti con il lupo cattivo, che in questo caso ha le sembianze soltanto in parte umane di Bob («Bob Orribile Bestia» è l’acronimo che troviamo annotato nel diario di Laura), l’essere malvagio che, non contento di trascinarla nel bosco per abusare di lei, arriva a impossessarsi dei suoi pensieri.
Anche se non è il Satana della tradizione giudaico-cristiana, Bob è comunque un demone. La sua figura, intravista negli specchi oppure deformata in modo animalesco, ricorda le allucinazioni che il Frank Black di Millennium si trova a fronteggiare non appena si mette sulle tracce di un nuovo serial killer. Non ci fossero altri elementi in comune, basterebbe questa analogia tra Bob e le forze oscure evocate da Chris Carter per tracciare una linea di continuità fra Twin Peaks e Millennium. Molto più raffinato ed estremo sotto altri aspetti, per quanto riguarda la visione pessimistica della letteratura il lavoro televisivo di Lynch è però ancora un passo indietro rispetto al millenarismo spicciolo del suo epigono. In Millennium, ormai lo sappiamo, la letteratura è una porta aperta sull’orrore. In Twin Peaks, come dimostra la vicenda di Audrey, può ancora essere una via di fuga. La stessa Laura ha una parte buona, che compone versi, e una cattiva, che di quegli stessi versi deve essere privata. L’ultima annotazione del Diario è a suo modo rivelatrice:
Caro diario,
so chi è. So
esattamente chi e cosa è Bob, e devo dirlo a tutti. Devo dirlo a
qualcuno e convincerlo a credermi.
Qualcuno ha strappato molte pagine del mio diario, pagine che forse
mi aiutano a capire... pagine con le mie poesie, pagine scritte,
pagine private.
Laura Palmer, la scrittrice, si perde perché non può più trasformarsi in lettrice di se stessa. Ha smarrito l’umiltà, la pazienza e l’attenzione necessari per leggere e ormai è dominata dalla presunzione della scrittura. Una contraddizione da tenere presente, visto che la ritroveremo espressa, sia pure con sfumature diverse, in molti altri film e romanzi.
Hawthorne, questo sconosciuto
Per adesso, invece, torniamo a Hester Prynne. Nel 1990 La lettera scarlatta era ancora considerato un libro talmente famoso negli Stati Uniti che neppure una prostituta di provincia poteva permettersi di ignorarne la trama. Pochi anni più tardi, invece, nel 1995, un regista di buon nome come Roland Joffé sembra non vergognarsi affatto di dirigere un film tratto sì dal capolavoro di Hawthorne, ma che ne sconvolge spirito e sviluppi, sino ad applicarvi un posticcio lieto fine. Demi Moore, la nuova Hester Prynne cinematografica – erede di una tradizione che risale alla superba interpretazione di Lilian Gish nel film muto del 1926 diretto dall’oriundo svedese Victor Sjöström – non avrebbe esitato a dichiarare che, se anche nel romanzo di Hawthorne il reverendo Dimmesdale muore ed Hester rimane sola con la figlia Pearl e la propria infamia, il film può benissimo permettersi un finale diverso, perché intanto «il libro nessuno l’ha letto».
In un certo senso, anche l’attrice ha ragione: i «libri-che-si-leggono-a-scuola» nessuno li ha mai letti veramente. Altrimenti perché un altro regista rispettabile come Salvatore Nocita si sarebbe reso responsabile, nel 1989, di una miniserie televisiva ispirata ai Promessi Sposi in cui più di un’inquadratura poteva davvero creare l’equivoco tra Lucia Mondella e una pornostar? Nel lavoro di Nocita, se non altro, l’equilibrio dei ruoli restava inalterato, con relativa distribuzione di castighi e ricompense. Don Rodrigo, per esempio, moriva ancora di peste, anche se all’agonia su un pagliericcio del lazzaretto preferiva una galoppata su un misterioso stallone nero, che lo depositava sotto un albero in piena campagna, mentre sulla scena gravava un cupo cielo da tregenda.
Tocchi “gotici” come questo – e di questo non meno maldestri e imparaticci – si ripetono in tutta la miniserie di Nocita, che non si sottrae neppure alla tentazione di alludere, nelle sequenze iniziali, a una sotterranea e contraddittoria tensione erotica fra Lucia e il suo persecutore, amplificando goffamente l’insinuante allusione che la monaca di Monza lascia cadere nella sua conversazione con la Lucia manzoniana: «Pareva quasi», leggiamo nel romanzo, «che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura». Il punto è che l’operazione Promessi Sposi era stata pensata anzitutto per il mercato internazionale, che invece, per ironia della sorte, non si è dimostrato per nulla attratto dal prodotto. Nocita e i suoi sceneggiatori hanno fatto del loro meglio per rendere un po’ meno manzoniana la vicenda e hanno strizzato l’occhio ai modelli della fiction statunitense, forse ignorando che proprio uno scrittore americanissimo come Edgar Allan Poe, dopo aver letto in traduzione il romanzo di Manzoni, se ne era dichiarato entusiasta, definendolo un «romanzo originale in tutti i sensi del termine». Scriveva Poe in una recensione apparsa nel maggio del 1835 su «The Southern Literary Messenger» di Richmond, Virginia: «Ecco un libro pari, quanto a contenuto, a due romanzi di Cooper, e costruito per lo meno altrettanto bene». Se proprio si voleva vendere Manzoni agli americani, tanto valeva lasciarlo com’era.
La lettera scarlatta di Joffé rappresenta un caso completamente diverso. Non si tratta dello stravolgimento, più o meno consapevole, di un capolavoro della letteratura nazionale a beneficio di un pubblico straniero: la capacità di penetrazione culturale di Hollywood è tale da escludere a priori la necessità di un’operazione del genere per i film in uscita dagli studios. Se di adattamento c’è bisogno, questo riguarda semmai le pellicole importate dall’estero, al punto che anche un apologo semplice e lineare come Tre uomini e una culla della francese Coline Serreau (1985) ha bisogno di essere rifatto e ambientato negli Stati Uniti per risultare comprensibile al pubblico americano (Tre uomini e un bebè di Leonard Nimoy, 1987).
Regista di film celebrati come Urla del silenzio (1984) e Mission (1986), Joffé si affida invece a Douglas Day Stewart, uno sceneggiatore in sonno dai tempi del successo di cassetta ottenuto con Ufficiale e gentiluomo (1982), per raccontare quello che Hawthorne, non a caso, si era ben guardato dal raccontare. È un elemento sul quale conviene soffermarsi, dato che segna il punto di massima distanza fra la letteratura e la percezione che il cinema odierno alimenta di essa. Neppure Jennifer Lynch, alle prese con il finto diario della sventurata Laura Palmer, riesce a commettere un errore tanto madornale. Come abbiamo già detto, la figlia di Lynch non si preoccupa di colmare le lacune o appianare le contraddizioni di Twin Peaks, ma cerca di costruire un testo in qualche misura autonomo, che racconti altro rispetto a quello che abbiamo visto in TV pur senza entrare in contraddizione con i dati che, in quanto spettatori, conosciamo già. Joffé, invece, non si accontenta di integrare Hawthorne, ma pretende di riscriverlo e correggerlo per renderlo appetibile alle platee globalizzate degli anni Novanta.
Lieto fine a parte, il fallimento della Lettera scarlatta cinematografica deriva dunque dal voler mostrare ciò che strutturalmente deve essere lasciato nascosto. Proviamo a confrontare brevemente libro e film. Pubblicata per la prima volta nel 1850, La lettera scarlatta di Hawthorne si apre con il lungo prologo intitolato La dogana, che ha in apparenza la funzione di rievocare le circostanze in cui lo scrittore sarebbe venuto in possesso dei documenti relativi alla vicenda di Hester Prynne. In realtà, con il suo intreccio di considerazioni personali e malignità su personaggi in vista della Salem ottocentesca, l’introduzione ottiene l’effetto di distrarre temporaneamente l’attenzione del lettore, che al termine del prologo si trova precipitato in una storia già giunta al suo apice e quindi pronta per essere rappresentata in modo drammatico, teatrale.
Il romanzo vero e proprio si apre infatti con la descrizione (speculare a quella che troveremo alla fine) della piazza di Salem nel Seicento, con la folla che osserva incuriosita la porta della prigione. L’andamento è quello di una sceneggiatura cinematografica ante litteram, o comunque di un elaborato copione teatrale, come accade anche nel Moby Dick di Melville, che di Hawthorne fu amico e consigliere. Il personaggio di Hester Prynne ci viene presentato in modo già definitivo: è l’adultera condannata alla generale deprecazione dalle severe leggi della comunità puritana, una donna il cui isolamento viene accentuato in modo ancora più doloroso dalla presenza della figlia nata dal suo adulterio, la piccola Pearl. Già alla sua prima apparizione, Hester porta cucita sul corpetto la A scarlatta, la lettera infamante di cui Pearl appare di volta in volta come emanazione o causa.
La prima immagine, dunque, fissa già il rapporto misterioso tra madre e figlia, a proposito del quale il puritano Hawthorne si spinge a richiamare la dottrina cattolica della «Divina Maternità». D’ora in poi Hester non potrà più separarsi da Pearl. Anche i colloqui più intimi, anche le decisioni più drammatiche avverranno alla presenza della bambina, ai cui occhi la madre si identifica in tutta naturalezza con la lettera sgargiante che le orna il petto. Più che raccontare una storia, si direbbe che il romanzo di Hawthorne sia interessato a esplorare una rete di relazioni interpersonali (lo stesso adulterio, in ultima analisi, non è altro che la creazione di un nuovo rapporto a scapito di un altro già esistente), al centro delle quali si trova non tanto l’amore impossibile da cui la bambina è nata, ma il legame profondo e inquietante tra madre e figlia. Ne è consapevole la stessa Hester, che si ritrova spesso a interrogare Pearl con parole perplesse e rivelatrici: «Sei veramente la mia bambina?».
Pearl ha la prontezza e la malizia di un folletto, tanto che i maggiorenti della comunità sospettano che sia figlia del diavolo. A questo proposito è bene osservare come l’interrogativo su chi sia il padre di Pearl viene posto da Hathworne quasi contemporaneamente a quello sull’identità dello straniero che arriva a Salem giusto in tempo per assistere alla pubblica umiliazione di Hester. Siamo nel terzo capitolo, significativamente intitolato Il riconoscimento, ma nella sostanza dall’inizio del romanzo la scena non è ancora cambiata: sulla gogna – un palcoscenico, sia pure infamante – c’è Hester che tiene in braccio Pearl, da un balcone vicino il reverendo Arthur Dimmesdale esorta la donna a rivelare il nome del padre della piccola e, mescolato alla folla, lo straniero osserva tutto in silenzio. Scopriremo presto che l’uomo senza nome è l’anziano marito di Hester, appena tornato da una lunga prigionia presso gli indiani. Ma contrariamente a quanto accade di solito nel romanzo ottocentesco, nel quale l’agnizione chiude un ciclo narrativo, il «riconoscimento» descritto da Hawthorne diventa il motore dell’intera vicenda. I due sposi si incontrano nella prigione dove la donna continua ad essere rinchiusa e stringono un patto segreto simile a quello che lega Hester all’amante che la donna si rifiuta di smascherare. Anche del marito, che si professa medico e ha assunto il falso nome di Roger Chillingworth, Hester si impegna infatti a non svelare l’identità. Ma di questo particolare, almeno, il lettore è subito messo al corrente.
Avviene invece in modo molto più lento e complesso la rivelazione del fatto che il padre di Pearl è proprio il giovane e stimato reverendo Dimmesdale. Hawthorne lascia trapelare indizi isolati, insiste sui sospetti di Chillingworth e sugli inspiegabili scrupoli del religioso, ma evita a lungo di sciogliere l’enigma, conservandosi reticente perfino nella famosa scena notturna in cui Dimmesdale, salito in segreto sulla gogna, chiama vicino a sé Hester e Pearl. La rivelazione definitiva avviene soltanto con l’incontro fra Hester e Dimmesdale nella foresta, una lunga sezione narrativa che occupa diversi capitoli nella seconda metà del romanzo.
La donna ha già comunicato a Chillingworth l’intenzione di rompere il patto e di rivelare a Dimmesdale che il medico è in realtà suo marito. Ma nel bosco succede molto di più: pur senza rievocare gli inizi della loro passione (di cui il lettore continua a ignorare tutto), Hester e Dimmesdale rinnovano il loro impegno d’amore e decidono di fuggire insieme in Europa. La donna si libera simbolicamente della lettera scarlatta e della cuffia che le nasconde i capelli e vorrebbe che la presenza di Pearl suggellasse la solenne promessa che ora la lega a Dimmesdale. La bambina-folletto però si ribella, impone alla madre di riprendere l’aspetto abituale e lascia trapelare una certa diffidenza nei confronti del reverendo. Il quale, secondo quanto ci rivela Hawthorne, anche nel momento in cui progetta di scappare con l’amante non rinuncia a pregustare gli ultimi bagliori della sua prestigiosa carriera ecclesiastica.
Dimmesdale è un debole, non un eroe. E come un debole muore sulla gogna, per una crisi cardiaca che lo raggiunge proprio nel momento in cui dovrebbe finalmente fuggire con Hester e Pearl. Trova la forza di confessare la sua colpa e di mostrare la A che porta scolpita nella carne, ma ormai è troppo tardi. La sua morte, paradossalmente, porta alla disfatta di Chillingworth, privato di ogni possibilità di vendetta, e affranca Pearl, che nell’istante in cui riconosce Dimmesdale come padre cessa di essere la creatura enigmatica amata e temuta dalla madre. Hester, però, rimane ancora più sola. Farà ritorno a Salem soltanto molti anni dopo, senza mai raccontare che cosa sia stato di Pearl, anche se molti segnali fanno pensare che la figlia sia felicemente sposata. Nessun lieto fine invece per Hester, se non quello del suo corpo sepolto vicino a quello di Dimmesdale, i due tumuli coperti da un’unica lastra che porta impressa la famigerata A scarlatta.
Il piccolo Henry guarda un quadro
Atto d’accusa contro l’intolleranza e l’ipocrisia, il romanzo di Hawthorne si basa dunque sul non detto. Una caratteristica che – prima ancora di essere sfruttata da registi come Sjöström o il giovane Wim Wenders, che nel 1973 realizza in Germania la sua Lettera scarlatta, affidando a Senta Berger il ruolo della protagonista – era già stata colta dalle arti figurative dell’Ottocento. In un celebre saggio su Hawthorne, Henry James ricorda infatti come il suo primo incontro con i personaggi della Lettera scarlatta sia avvenuto proprio attraverso un quadro visto da bambino nel quale era raffigurata «una donna bella e pallida che indossava un vestito nero d’altri tempi e una cuffia bianca, e che tra le ginocchia aveva una bimbetta dall’aria birichina, vestita in maniera fantasticamente elaborata e con una corona di fiori in testa». Prosegue James:
Ricamata sul petto della donna c’era una grande A color cremisi. Su di essa scorrevano maliziosamente, per gioco, le dita della bambina, che però guardava stranamente fuori dal quadro. Mi fu detto che quelle erano Hester e la piccola Pearl, e che quando fossi diventato grande avrei potuto leggere la loro interessante storia. Ma il quadro mi rimase vividamente impresso nella mente; mi aveva vagamente spaventato e inquietato e quando, anni dopo, lessi il romanzo per la prima volta, ebbi la sensazione di averlo già letto e di conoscere bene le sue due strane eroine.
È probabile che, in realtà, James stia proiettando sui suoi ricordi infantili la successiva conoscenza del libro, ma resta il fatto che il dipinto, così descritto, risulta una vera e propria lettura critica del capolavoro di Hawthorne. In primo luogo, viene ribadita la centralità assoluta del rapporto tra madre e figlia, con una sottolineatura sapiente dell’ambigua attrazione di Pearl per la famigerata lettera scarlatta. Ma l’impressione è che l’anonimo artista abbia riconosciuto l’importanza di quell’elemento teatrale al quale si accennava in precedenza e che nel romanzo viene espresso anche dagli elaborati vestiti – più simili a costumi di scena che a semplici abiti – che l’abile Hester confeziona per Pearl.
Tanta complessità svanisce nel film diretto da Joffé, nel quale Pearl è diventata una presenza del tutto ornamentale. Alla figlia di Hester viene riservato, di fatto, soltanto il ruolo di voce fuori campo, con sporadici interventi di raccordo e, nel finale, una tirata fra il moralistico e il politically correct, che dovrebbe chiarire anche allo spettatore più ottuso il «messaggio» del film. «L’amore dei miei genitori è stato unico al mondo», assicura la voce di Pearl, «il significato del loro amore vive dentro di me e vivrà anche nei miei figli, per sempre. Chi può decidere cosa sia il peccato nel disegno di Dio?».
Certo, anche la Hester di Hawthorne, nelle ultime pagine del romanzo, confessa di aver inutilmente atteso «una qualche più luminosa età» in cui fosse possibile «ristabilire rapporti tra uomo e donna su nuove basi, meglio capaci di produrre mutua felicità». Ma il suo fallimento non fa altro che rendere ancora più esemplare la parabola del romanzo, nel quale Joffé (ed è forse l’equivoco di partenza) crede invece di riconoscere «un trattato contro l’adulterio».
Che il libro di Hawthorne fosse esposto a rischi di questo tipo non è una novità. Già Richard Sherman, il protagonista di Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955), lavora in una casa editrice di tascabili, la cui caratteristica è di presentare versioni «scandalistiche» dei capolavori della letteratura inglese e americana. Il suo principale, Mr Brady, è convinto che La lettera scarlatta funzionerebbe meglio con un titolo del tipo «Io sono un’adultera». Ecco il commento dello sconsolato Sherman, così come lo riporta George Axelrod in The Seven Year Itch, la commedia del 1952 da cui è tratto il film di Wilder: «In copertina ci sarà un’immagine di Hester Prynne con una sigaretta in bocca, fasciata in un abitino corto e aderente. L’unico problema è che, se vogliamo un abito abbastanza corto da farci vendere un po’ di copie, allora non ci resta più spazio per cucire la lettera scarlatta».
Sigaretta a parte, è grosso modo quello che succede nel film di Joffé. Che cosa racconta, in definitiva, La lettera scarlatta cinematografica degli anni Novanta? Anzitutto di un Dimmesdale eroico (l’attore Gary Oldman), che divide il suo tempo tra la parrocchia di Salem e la missione tra i pellerossa. La prima sequenza del film di Joffé costituisce un’evidente e perfino patetica autocitazione da Mission: il funerale del vecchio capo indiano, la fiaccola funebre portata di corsa attraverso i boschi del Massachusetts, il colloquio del nuovo capo con Dimmesdale, definito «l’unico bianco che è venuto da noi con cuore sincero», eccetera. Di tutto questo, nel libro di Hawthorne non c’è traccia. C’è sì un riferimento all’attività dell’«apostolo Eliot», e cioè il missionario John Eliot (1604-1690), personaggio storico ben noto per il suo impegno di evangelizzazione nei confronti dei nativi. Ed è pur vero che Hawthorne menziona Eliot, spiegandoci che Dimmesdale lo ammira e gli fa visita, pur essendo troppo cagionevole (o troppo timoroso?) per lavorare al suo fianco.
La scena successiva del film rappresenta l’arrivo a Salem di Hester, impersonata da Demi Moore. Gli anziani la guardano subito con sospetto perché non segue con scrupolo le severe regole d’abbigliamento imposte dalla comunità e, più che altro, perché vuole vivere da sola, senza attendere l’arrivo del marito dall’Inghilterra. Insomma, anche Hester è subito mostrata come un’eroina al passo con i tempi (i nostri, non i suoi), una donna gelosa della sua indipendenza, che sceglie di stabilirsi in una fattoria fuori città e sa come resistere alle avances del gradasso locale.
L’incontro con Dimmesdale è inevitabile, così come la passione che ne nasce. Una domenica mattina Hester, addentratasi nel bosco con tanto di coroncina di fiori in testa (probabilmente del tipo che James ricorda di aver visto in capo a Pearl nel quadro della sua infanzia), spia un uomo nudo che nuota nel ruscello. Ancora turbata, si affretta per raggiungere la chiesa, ma il suo calesse finisce per impantanarsi. Riceve l’aiuto di un misterioso gentiluomo in cui crede di riconoscere il nuotatore di poco prima e che di lì a poco vedrà predicare sul pulpito. Si tratta di Dimmesdale, che appare sorpreso e confuso nel momento in cui apprende che la nuova parrocchiana è già sposata. Il pastore si ritira con una scusa ma Hester, senza volere, finisce per seguirlo.
La scena si svolge nella biblioteca annessa alla chiesa e rappresenta un piccolo capolavoro di ipocrisia cinematografica. Dunque, La lettera scarlatta è un film antiletterario, che presuppone la sostanziale ignoranza del romanzo di Hawthorne da parte dello spettatore e non si fa scrupolo di rivoluzionarne trama e messaggio. Eppure, obbedendo in modo inerziale allo stereotipo per cui, fino a prova contraria, di un lettore ci si può sempre fidare, il film di Joffé inventa una complicità fra Hester e Dimmesdale basata appunto sui libri.
Dimmesdale si trova già in biblioteca, ma Hester, quando entra, non se ne accorge. La donna inizia a curiosare tra gli scaffali, leggendo i titoli dei volumi e commentandoli tra sé e sé: «Breve descrizione del Giudizio Universale... Ah, bene: Le basi della disciplina nella visione autentica del mondo. Sono tutti trattati di grande impegno. Il manuale della buona massaia...». «...per mariti abbandonati...», conclude Dimmesdale, uscendo finalmente allo scoperto. Sorpresa, ma non troppo, Hester chiede al pastore che cosa stia leggendo. «Comus, un testo di John Milton», risponde l’uomo. «Di John Milton?», controinterroga Hester, come se esistesse un altro Comus. E aggiunge: «Sì, lo conosco, l’ho letto anch’io». Davanti allo stupore di Dimmesdale, la donna prosegue non senza civetteria: «Beh, guardate che io non sono solo trine e merletti. Appena ho un momento libero ne approfitto per leggere». Da qui in poi siamo in pieno topos del libro galeotto: dopo aver appreso che il reverendo ha ormai letto più volte tutta la biblioteca a sua disposizione (compreso il fatidico Manuale della buona massaia), di lì a qualche giorno Hester gli porta in prestito i libri del marito. Scopriamo a questo punto che il pastore sta lavorando a una traduzione della Bibbia nella lingua dei nativi, altra attività che rimanda alla figura storica di John Eliot. Ma dopo aver insistito sull’affinità intellettuale tra i due personaggi, la sceneggiatura lascia bruscamente cadere lo spunto, che evidentemente risulta estraneo al vero spirito dell’«adattamento» allestito da Joffé.
La scena in cui Dimmesdale si reca da Hester per restituirle i libri e, nello stesso tempo, ammettere di essere innamorato di lei, è l’ultima in cui si faccia riferimento esplicito alla letteratura. D’ora in poi i libri, quando appaiono, servono soltanto da nascondiglio delle lettere che, di tanto in tanto, Hester si arrischia a inviare al padre di sua figlia. Per il resto il film alterna sequenze softcore (le fantasie erotiche di Hester durante il bagno, il furibondo amplesso con Dimmesdale nel granaio) a incongrue citazioni del vecchio cinema d’avventura (Chillingworth, interpretato da Robert Duvall, che si traveste da pellerossa per tendere un infruttuoso agguato al rivale, l’attacco degli indiani che impedisce la duplice esecuzione dei due amanti).
Tutto questo rende ancora più incomprensibile la scena della biblioteca. Dimmesdale legge Milton, d’accordo. Ma perché proprio Comus? Forse perché, con la sua ambientazione allegorica, l’opera rappresenta un omaggio alla bellezza di Hester, che poco prima abbiamo vista acconciata come una ninfa dei boschi? O forse perché la vittoria della castità sul vizio, cantata con entusiasmo dal puritano Milton, dovrebbe rappresentare un antidoto per l’attrazione che il pastore avverte verso la bella parrocchiana? Ma se lo spettatore non conosce La lettera scarlatta (e l’ipotesi che non conosca il libro è la premessa su cui si regge l’intera trasposizione cinematografica diretta da Joffé), come può decifrare le sottili allusioni contenute nella menzione del masque miltoniano?
La risposta è forse più semplice di quanto si possa immaginare: Comus è citato proprio perché è un testo relativamente poco conosciuto, un titolo abbastanza esoterico da trasmettere al pubblico una sensazione di lontananza – e quindi di estraneità, se non di minaccia – nei confronti della letteratura. La tradizione letteraria è una vasta e forse pericolosa terra di nessuno, che può essere magari saccheggiata per ricavarne abbozzi di trama da ammodernare, ma che lo spettatore medio non è tenuto né invitato a visitare di persona.
Solitudini e sovrani
Su una premessa diametralmente opposta si basa Hester, la parziale riscrittura della Lettera scarlatta pubblicata in Gran Bretagna dall’americanista Christopher Bigsby nel 1994, l’anno precedente l’uscita del film di Joffé. Nelle intenzioni dell’autore, Hester dovrebbe essere qualcosa di diverso da un semplice pastiche o, peggio, da uno dei vari sequel e prequel che nell’ultimo decennio hanno invaso il territorio di confine tra cinema e letteratura (si pensi alle varie prosecuzioni, più o meno autorizzate, di Via col vento).
Come già Jennifer Lynch alle prese con le memorie di Laura Palmer, anche Bigsby prova a immaginare che cosa possa essere successo ai personaggi prima che Hawthorne abbia iniziato a occuparsi di loro. Si parte con la vita solitaria di Roger Chillingworth (è il nome con cui Bigsby sceglie di chiamarlo fin dall’inizio), gentiluomo e studioso inglese sul quale grava la maledizione di una nascita adulterina. Il matrimonio con Hester – la ragazza che lo ha soccorso dopo l’incidente di cui è stato vittima con il suo cavallo – è per lui soltanto un esperimento di nuovo tipo, destinato a essere presto abbandonato a favore delle più consuete indagini alchemiche e cabalistiche. Ma anche la Hester di Bigsby è – come dichiara testualmente l’autore – «la donna di domani». Non si rassegna alla parvenza di vita coniugale voluta da Chillingworth e, con l’aiuto del marito della cugina, si imbarca su una nave diretta in America. L’unico altro passeggero è un giovanotto dall’aria tutt’altro che malaticcia, il reverendo Arthur Dimmesdale. Mentre il vascello è inseguito dai pirati, i due si abbracciano castamente per la prima volta: Hester racconta ad Arthur le sue sventure, ma le mani insanguinate dell’uomo – che si è ferito aiutando i marinai sul ponte – già le lasciano impressa sulle spalle una macchia stranamente simile a una A.
Lungamente attratti l’uno dall’altra, Arthur ed Hester consumano il loro primo (e per lungo tempo unico) rapporto sessuale quando è già in vista il porto di Boston, la città che nel libro di Bigsby prende il posto della Salem di Hawthorne. Non si incontrano più per quasi due anni, finché Dimmesdale, durante una passeggiata nel bosco, non si imbatte nella donna addormentata. Il concepimento di Pearl avviene in un clima di tenerezza, cui fa subito seguito la separazione dei due amanti. Il resto segue nella sostanza la trama del romanzo originale, preferendo però mettere l’accento sulla relazione tra i due amanti piuttosto che indagare ulteriormente il rapporto tra madre e figlia.
Il libro di Bigsby, non diversamente dal Diario segreto di Laura Palmer, ambisce a una sua autonomia, anche se poi rimanda fatalmente al capolavoro a cui si ispira. Di fatto, lo scrittore inglese sceglie di non raccontare più quello che è già stato raccontato – e meglio – da Hawthorne. Tutta la parte finale del libro non è altro che una sintesi, talvolta francamente ellittica, della Lettera scarlatta. Quando si tratta di descrivere Hester che si avvia alla gogna con la neonata in braccio, poi, Bigsby non fa altro che trascrivere una pagina intera del testo di Hawthorne.
Nonostante abbia ricevuto apprezzamenti illustri, Hester è un romanzo tutt’altro che convincente. In parte per l’abitudine dell’autore di intercalare al racconto considerazioni moraleggianti prossime alla banalità («Viviamo di comandamenti ereditati da altri, così come parliamo con parole nate su labbra altrui. Tutto questo non è un imperativo, è soltanto il catechismo del passato»), ma più che altro perché manca di uno statuto letterario ben definito. Il britannico Bigsby ironizza sulla fragilità culturale degli americani («così insicuri di se stessi», scrive, «da aver bisogno di ribadire ogni giorno la propria identità, come per paura che sia svanita durante la notte»), ma in realtà il suo romanzo attinge a piene mani all’immaginario d’oltreoceano.
Sulla nave di Hester, per esempio, troviamo un marinaio muto, che si esprime indicando i tatuaggi di cui il suo corpo è interamente ricoperto. È una citazione del Queequeg di Melville, l’arpioniere pagano che in Moby Dick diventa amico inseparabile di Ishmael, ma anche una ripresa dell’”Uomo illustrato”, uno dei più noti personaggi inventati da Ray Bradbury, narratore “di genere” per eccellenza. Ma non basta: come il predicatore folle della Notte del cacciatore di Grubb, anche il marinaio muto porta tatuate – sul torace, però, non sulle mani – le parole LOVE e HATE. Il fatto che Hester se ne accorga soltanto quando le lettere, a causa delle sforzo in cui l’uomo è impegnato, si confondono in modo da formare una terza parola, LATE (‘tardi’), non è che una conferma della propensione di Bigsby per un tono tanto predicatorio quanto prevedibile.
A voler insistere nell’analisi, si potrebbe addirittura sostenere che Hester tradisce più di un debito – per quanto involontario – proprio nei confronti dell’altrimenti insospettabile Twin Peaks. Come Laura, anche Hester ha una cugina con cui si confida. Come Laura, anche Hester è attratta dalla foresta e, più che altro, tiene un diario al quale affida considerazioni non sempre credibili. Il suo raccapriccio per l’uccisione delle foche, per esempio, è del tutto anacronistico, anche perché – come osserva peraltro lo stesso Bigsby – Hester è cresciuta in campagna e ha visto uccidere altri animali, maiali compresi. E lo sgozzamento di un porco non è meno raccapricciante dell’esecuzione delle foche a colpi di bastone.
Non è l’unico caso in cui Hester cerca di ammiccare ai temi più in voga sulla scena contemporanea. Al termine di una lunga tirata contro l’antisemitismo, con la quale Bigsby sembra addirittura rivendicare all’Inghilterra il discutibile primato dell’invenzione del pogrom, veniamo infatti a scoprire che anche il padre naturale di Chillingworth era un ebreo. Il tocco dovrebbe servire per creare un parallelismo tra il destino del marito di Hester e quello di Pearl, entrambi condannati a non conoscere il proprio vero padre, ma la trovata risulta più astuta e meno incisiva di quanto vorrebbe apparire.
Anche se maneggia materiali in qualche modo “volgari”, Bigsby ci tiene ad accreditarsi come letterato. Suggerisce analogie o discordanze tra i suoi personaggi e gli eroi del romanzo inglese dell’Ottocento, con una particolare predilezione per l’Heatcliffe di Cime tempestose, e alla fine sostiene che si riterrebbe soddisfatto se Hester avesse guadagnato un solo nuovo lettore alla Lettera scarlatta. In questo modo, però, tradisce la consapevolezza di muoversi in un mondo nel quale la letteratura è ormai diventata estranea al sentimento del pubblico. Chi è in grado di decifrare il riferimento al romanzo di Emily Brontë, con tutta probabilità già conosce La lettera scarlatta di Hawthorne. Se davvero non è un pastiche, a che cosa serve, dunque, un romanzo come Hester? A quale lettore si rivolge? Che cosa ne potrebbe pensare lo spettatore medio del film di Joffé?
Di sicuro, aggiungendo alla trama originaria elementi di presunta attualità – quali appunto la sensibilità ecologica, l’orrore per l’antisemitismo e una più marcata coscienza femminista –, Bigsby è convinto di rendere un buon servizio a Hawthorne e alla letteratura in generale. È come se dicesse: ecco, di questo parlano i grandi libri, di qualcosa vicino a noi, comprensibile e attuale. Il punto è che, invece, i grandi libri parlano sì di qualcosa che ci riguarda, ma che diventa comprensibile soltanto se tenuto a debita distanza.
«Merita Shakespeare di essere letto, quantunque egli ci parli solo di sovrani?»: suona così il titolo della lezione che Jean Travers, l’insegnante protagonista de Il mistero di Wetherby di David Hare (1985), tiene davanti ai suoi allievi. Dopo l’inspiegabile suicidio di uno sconosciuto che ha scelto di togliersi la vita in casa sua, la donna – interpretata da Vanessa Redgrave – si ritrova a fronteggiare le contraddizioni della sua esistenza, segretamente lacerata tra una superficiale e solitaria serenità borghese e un passato oscuro, drammatico e sensuale. Eppure, sintetizzando in due righe il proprio rapporto con Shakespeare, Miss Travers riesce ancora a trovare un punto di equilibrio.
Il fulcro della frase sta proprio in quel «quantunque» che esprime, allo stesso tempo, le infinite possibilità e la continua fallibilità del linguaggio. E la risposta al quesito è, con ogni probabilità, che le tragedie di Shakespeare ci appassionano proprio perché parlano di sovrani, perché la disperazione di Macbeth non fa altro che ingigantire e rendere esemplare – ponendolo in prospettiva – il disagio di chi teme che la vita non sia altro che «una favola vana, narrata da uno sciocco». Per restare alla metafora centrale del film di Hare, la letteratura parla sempre di sconosciuti che scelgono casa nostra per mettere in scena i propri drammi.
L’amante del guru
Rivendicare la distanza di cui i grandi testi hanno bisogno per conservare la propria grandezza non significa in alcun modo giustificare il sentimento di lontananza, e in definitiva di estraneità, che molta fiction contemporanea alimenta nei confronti dell’idea stessa di letteratura. In questo senso, anche il pastiche parodistico può essere un buon esercizio per rimettere ordine fra le parole di uno scrittore del passato e il nostro presente, senza sovrapporli in modo indebito e illusorio. Prima di essere ammodernata da Bigsby, per esempio, la stessa Lettera scarlatta è stata completamente rielaborata da John Updike in S. (1988), un romanzo che trasforma la remissiva Hester secentesca nella combattiva Sarah di fine millennio, una signora della buona borghesia di Boston che un bel giorno abbandona tutto e tutti per seguire la parola ispirata del solito guru indiano in trasferta nell’Arizona.
Che il libro di Updike sia una Lettera scarlatta rediviva è un dato più alluso che dichiarato. Gli indizi sono molti, ma in apparenza nessuno di essi decisivo. In epigrafe al romanzo, per esempio, appaiono due brani tratti dal capolavoro di Hawthorne e nei messaggi che Sarah spedisce ai destinatari più diversi sono disseminate allusioni quasi goliardiche a situazioni e personaggi della Lettera scarlatta. Il marito di Sarah è un medico e si chiama Roger Worth, mentre la donna di cognome fa Price e rivendica di discendere dalle grandi famiglie dell’aristocrazia puritana del Massachusetts, Prynne compresi. Il gioco di parole è evidente (il nome da sposata di Sarah, Price Worth, significa qualcosa come ‘che vale la spesa’), così come l’allusione al Chillingworth di Hawthorne. Tra i conoscenti della coppia figurano gli Hibbens e i Pyncheon, nomi che rimandano rispettivamente alla Lettera scarlatta (la signora Hibbins è la sorella del governatore sospettata di stregoneria) e a La casa dai sette abbaini; la figlia di Sarah si chiama ovviamente Pearl, viene ancora paragonata a un folletto ma è ormai è una donna fatta, che sembra non approvare per nulla l’infatuazione mistica della madre.
Questi e altri sono i segnali che Updike lancia al lettore per fargli capire qual è il vero argomento di S., che è poi lo stesso tema che fa da sottofondo alla Lettera scarlatta. Discendente del John Hathorne che nel 1692 era stato uno dei più inflessibili persecutori delle streghe di Salem, nel romanzo Hawthorne descrive infatti, anzitutto, la fine di un’utopia. I puritani, che avevano lasciato l’Inghilterra per sperimentare in America una forma di convivenza ispirata a criteri di verità e giustizia, hanno invece creato una società in cui domina l’ipocrisia. La vera colpa di Dimmesdale, agli occhi di Hawthorne, non è di aver amato Hester, ma di averla lasciata sola a scontare le conseguenze dell’adulterio.
Anche il romanzo di Updike descrive, sebbene in modo molto più beffardo, un’analoga crisi dell’utopia. Sarah arriva nell’ashram dell’Arhat (il «Meditatore Supremo» di cui si è infatuata seguendo un corso di yoga a Boston) illudendosi di entrare in un mondo nuovo, ma ben presto scopre di essere precipitata in un groviglio di inganni e doppiezza. Come il reverendo Dimmesdale, anche l’Arhat non è il santo che pretende di essere. Tanto per cominciare non è un indiano, ma un ebreo di origine armena nato a Watertown, Massachusetts. Il suo esibito disinteresse per ogni realtà terrena, inoltre, nasconde uno spirito venale e affarista. Il colpo di scena è che, questa volta, Sarah/Hester non cade nella trappola. Diventa l’assistente di fiducia e l’amante del guru e, approfittando della sua posizione, trasferisce in una serie di depositi fidati e conti in banca segreti buona parte dei proventi dell’ashram. Dopo di che lascia l’Arizona per una sperduta isoletta tropicale, dove gusta in solitudine la propria vittoria, ottenuta senza bisogno di cucirsi addosso una A scarlatta. Le è bastato indossare per qualche tempo il sari.
La riscrittura della Lettera scarlatta è il livello più profondo del libro di Updike. L’autore è consapevole che verrà raggiunto soltanto da una parte dei suoi lettori, ma ha strutturato il racconto in modo da non impedire agli altri di interessarsi – divertendosi – alle peripezie della sua eroina. S. è ancora un atto di fiducia nei confronti della letteratura, un romanzo che denuncia il proprio debito verso la tradizione in modo scorciato ed elegante. Se non lo facesse, quello di Updike non sarebbe un omaggio o una parodia, ma qualcosa di diverso. Non sbaglieremmo, forse, a parlare di un remake letterario.