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I tomisti della squadra omicidi

Con un nome e un cognome così, ci mancherebbe altro se non si trovasse a suo agio tra i libri. Si chiama Somerset, William Somerset, e da come si muove disinvolto fra i grandi della letteratura si direbbe che taccia per modestia il Maugham finale. Ma non può essere l’autore de La luna e i sei soldi. Primo, perché siamo negli anni Novanta e lui è vivo e vegeto (lo scrittore, invece, è morto nel 1965). Secondo, perché è un nero americano e non un inglese nato a Parigi. Terzo, perché fa il poliziotto e nella sua carriera ha scritto soltanto verbali, altro che romanzi. Però è un lettore. A suo rischio e pericolo, il detective Somerset è uno che conosce i libri.

Può piacere o dispiacere (a molti, anche in Italia, è dispiaciuto), ma resta il fatto che Seven, il film del 1995 in cui Morgan Freeman interpreta il ruolo di Somerset, rappresenta una svolta nel cinema degli anni Novanta. E non soltanto perché, com’è noto, interiorizza la caccia al serial killer in modo da negare qualsiasi ipotesi di lieto fine, ma anche – e specialmente, per quanto ci riguarda – perché fa delle citazioni letterarie la minacciosa struttura portante della vicenda.

Il merito va soltanto in parte al regista David Fincher, solitamente poco incline ad allusioni letterarie. Anche la già ricordata intuizione conradiana di Alien3, che trasforma il raccapricciante «ospite segreto» nella creatura che Ripley si appresta a partorire, non è altro che un corollario – in parte meccanico, com’è prevedibile che accada nei sequel – dell’aspetto fetale del mostro ideato da H.R. Giger per l’Alien capostipite diretto nel 1979 da Ridley Scott. Il sottotesto letterario è del resto quasi completamente assente da The Game (1997), il film che Fincher dirige sull’onda del successo di Seven. Intendiamoci, anche The Game nasconde spunti interessanti, se non altro per quanto riguarda il gioco di specchi fra realtà e finzione nella società mediatica, un tema che lo apparenta a The Truman Show di Peter Weir (1998). Ma le citazioni questa volta scarseggiano. L’unico richiamo esplicito riguarda il racconto della guarigione del cieco nato nel Vangelo secondo Giovanni (per l’esattezza il versetto 9,25: «Prima ero cieco e ora ci vedo»).

È pur vero che a un certo punto, nella sua fuga disperata dal complotto in cui crede di essere caduto, il protagonista di The Game – l’ultramiliardario Nicholas van Orton, impersonato da Michael Douglas – cerca la compagnia di un libro. Un ottimo libro, per di più: To Kill A Mockingbird, ovvero Il buio oltre la siepe, lo straordinario romanzo in cui si consuma la parabola narrativa della scrittrice Harper Lee. Ma anche in questo caso non ci si può fidare delle apparenze. Van Orton non sta cercando la consolazione in un classico della letteratura americana. La vistosa copia rilegata di To Kill A Mockingbird che si porta appresso per la città è soltanto il nascondiglio del revolver di cui ha intenzione di servirsi per uscire dal vicolo cieco in cui pensa di essere finito. Il successivo film di Fincher, il discusso Fight Club (1999), si mantiene fedele all’omonimo libro pubblicato nel 1996 da Chuck Palahniuk, ma non tanto da conservarne la fuggevole e incisiva citazione da Ozymandias di Percy Bysshe Shelley, una poesia di rovine e distruzione perfettamente intonata al clima apocalittico del romanzo.

In realtà, il motivo per cui Seven è, nello stesso tempo, un unicum e un modello va ricercato nella sceneggiatura di Andrew Kevin Walker, un autore pressoché coetaneo di Fincher – è nato nel 1964, un anno dopo il regista – che ha lavorato al progetto del film nel tempo libero concessogli dal suo impiego di commesso in un negozio di dischi (Tarantino, altro ragazzo d’oro della classe del ‘63, si è invece guadagnato da vivere tra gli scaffali di un videonoleggio). Per le citazioni Walker ha un’autentica passione. È molto probabile che l’apparizione di Harper Lee in The Game sia una sua trovata (ha collaborato, anche se non accreditato, alla realizzazione del film) e di certo non è casuale che uno dei personaggi di 8MM – Delitto a luci rosse di Joel Schumacher (1999), prima sceneggiatura importante di Walker dopo il successo di Seven, sia un lettore del Truman Capote di A sangue freddo, romanzo che non per nulla viene citato anche in Seven.

A Walker il film di Fincher deve anzitutto la propria scansione simbolica e allusiva: sette omicidi lungo l’arco di una settimana, da lunedì a domenica, in una simbolica illustrazione dei peccati capitali. «È un predicatore», dice a un certo punto il detective Somerset a proposito del serial killer a cui sta dando la caccia, «e i delitti sono il suo sermone». Si tratta di un’affermazione valida anche per lo stesso Seven, che con la tradizione della morality play medievale condivide, tra l’altro, la tendenza a un’ambientazione allusiva e indistinta.

La Città Senza Nome

Fin dalle origini (pensiamo al gangster movie degli anni Trenta e Quaranta), il thriller si caratterizza per la descrizione precisa e addirittura metodica del paesaggio urbano. Città, strade, distretti di polizia: tutto viene indicato e precisato, con la stessa pignoleria che in Millennium induce Chris Carter a dotare la famiglia Black di un indirizzo, sia pure inventato. Niente di tutto questo accade in Seven, il cui carattere angoscioso è accentuato dal fatto di svolgersi in una Città Senza Nome che è anche, irrimediabilmente, la Città Corrotta: un implicito richiamo ai racconti del ciclo arturiano che sottolinea ulteriormente il carattere neomedievale del «sermone» cinematografico allestito da Fincher e Walker. Non a caso i diversi recensori hanno suggerito, di volta in volta, ambientazioni diverse, che vanno dalla generica New York alle più plausibili Los Angeles e San Francisco. La squadra speciale che collabora alle ricerche del maniaco omicida ha il nome in codice di «California» e dal colloquio di Somerset con Tracy (Gwyneth Paltrow), la giovane moglie del detective che lo affianca nelle indagini, apprendiamo che la coppia proviene da un’altrettanto imprecisata città del «Nord».

Anche ammessa l’identificazione con la California, comunque il mistero della Città Senza Nome è tutt’altro che risolto. La pioggia incessante già vista nella Los Angeles di Blade Runner (1982) qui non è più giustificata da alcuna presunta catastrofe ecologica, ma assume a sua volta un valore simbolico che l’art director di Seven, Gary Wissner, riproporrà in occasione della sua consulenza all’episodio pilota di Millennium. La prima immagine che si presenta allo spettatore della serie televisiva è infatti quella di un sordido vicolo di Seattle – l’ingresso del peep show frequentato dal Francese – flagellato da una pioggia impetuosa. Un marchio di fabbrica, più ancora che un’autocitazione.

La vera domanda è un’altra: perché una Città Senza Nome? Come mai, pur collocandosi in un genere cinematografico così prodigo di dettagli realistici, i personaggi evitano sempre di rivelare qualsiasi indizio sul luogo in cui si trovano? Anche gli altri indicatori abituali (le insegne dei taxi, i cartelli stradali eccetera) vengono accuratamente cancellati, in modo da suggerire che questa sanguinosa morality play postmoderna possa avere come sfondo una qualsiasi delle nostre Città Senza Nome. Lo stesso serial killer, del resto, si accredita come perfetto e perverso Everyman di fine millennio scegliendo di nascondersi dietro le generalità fittizie di John Doe, l’uomo qualunque del celebre film diretto da Frank Capra (Arriva John Doe, 1941), nel quale la pioggia svolgeva una funzione catartica, di purificazione, perfettamente opposta a quella del diluvio castigatore di Seven. «Non importa chi sono, chi sono non ha nessuna importanza», ripete alla fine l’assassino.

Con la sua indeterminatezza pregnante, la tradizione della poesia allegorica di origine medievale è il punto di riferimento imprescindibile per cogliere le intenzioni di Walker. Il voluto schematismo spazio-temporale di Seven (la Città Senza Nome, la settimana di sangue che allude, stravolgendola in senso blasfemo, alla cronologia della Creazione) si accompagna al tratteggio altrettanto esemplare dei protagonisti. John Doe, il Senza Nome – l’attore che lo impersona, Kevin Spacey, non compare nei titoli di testa del film, in modo da accentuare l’effetto sorpresa – è braccato da due personaggi simbolici ben noti alla poesia inglese. Sono Innocenza ed Esperienza, le due condizioni dell’anima in cui il visionario William Blake ha voluto riassumere i momenti decisivi dell’esistenza umana.

Esperienza, lo sappiamo già, è Somerset, il lettore Somerset, un detective che dopo oltre trent’anni di servizio sta per andare volontariamente in pensione: quella dedicata alle indagini su John Doe dovrebbe essere infatti la sua ultima settimana di servizio. A incarnare Innocenza è invece il suo compagno e, almeno inizialmente, avversario, il detective David Mills (l’attore Brad Pitt), la cui immaturità, come vedremo fra poco, si traduce nella pressoché totale ignoranza della letteratura. La contrapposizione fra i due personaggi è complicata dal fatto che Somerset sta per lasciare la polizia senza mai aver esploso un colpo di pistola, mentre Mills ha ucciso un uomo durante la prima delle azioni a cui ha partecipato nell’altra, e altrettanto fantomatica, Città Senza Nome da cui proviene. Il modo reticente e impacciato in cui il giovane racconta al collega più anziano questo doloroso episodio del suo passato rivela che, nonostante abbia ucciso, Mills è ancora Innocenza, ed è Innocenza proprio perché, a differenza di Somerset, non possiede le parole adatte per esprimere i suoi sentimenti.

La differenza fra i due personaggi è espressa anche dalle case in cui vivono. L’appartamento in cui Mills si è appena trasferito con la moglie – una circostanza, questa del trasloco, che accentua la somiglianza, tutt’altro che casuale, con la famiglia Black in Millennium – è disordinato, molto personale e del tutto privo di libri. La coppia ha una buona cultura musicale ed è abbastanza snob, nel suo genere, da preferire le gloriose incisioni su vinile ai più asettici compact disc, ma non pare sentire il bisogno di libri, nonostante Tracy abbia un diploma di insegnante. Né la donna né il marito, comunque, danno segno di cogliere la quasi totale omonimia fra il nuovo collega di David e il celebre romanziere di Schiavo d’amore.

Il monolocale di Somerset è invece ordinato, vagamente impersonale, con uno scaffale di libri ben in vista a fianco del letto e un metronomo sul comodino. Una delle primissime inquadrature del film ci rivela che gli oggetti che Esperienza porta con sé nel momento di uscire di casa sono un mazzo di chiavi, un orologio da tasca (prima allusione alla rigida struttura temporale del racconto), un coltello a serramanico e una penna. Insieme, gli ultimi due oggetti – una lama e uno strumento di scrittura, cioè della parola – sembrano quasi comporre la citazione biblica di Ebrei 4,12: «Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio: essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (in inglese il passaggio è reso ancora più efficace dall’assonanza tra word, ‘parola’, e sword, ‘spada’). Esattamente il compito che Somerset, nella sua veste di detective intellettuale, si appresta a compiere ogni mattina.

Siamo ancora, a quanto pare, nel territorio delle citazioni cifrate, del tipo di quelle che abbiamo incontrato in Titanic. Ma a prevalere in Seven sono invece le citazioni esplicite e ben riconoscibili, vale a dire gli indizi che il sanguinario John Doe lascia deliberatamente alle sue spalle. Proviamo a ripercorrere a sommi capi lo svolgimento del racconto. È lunedì mattina e, come al solito, piove. Somerset e Mills (il cui primo burrascoso incontro rappresenta l’antefatto del film, precedente i titoli di testa) vengono chiamati sulla scena di uno strano delitto: un grande obeso incatenato mani e piedi davanti a un gigantesco piatto di spaghetti. L’autopsia stabilirà che l’uomo è stato stroncato da un’emorragia internata dovuta all’eccessiva ingestione di cibo. L’innocente Mills crede a una «normale» vendetta messa in atto da un sadico, ma l’esperto Somerset è convinto che la spiegazione non possa essere così semplice: per lui la spietata, metodica uccisione del grassone è soltanto l’anello iniziale di una lunga catena di delitti. «Se vuoi ammazzare qualcuno, non ci perdi tanto tempo», sostiene, «a meno che l’atto in sé non abbia un significato» (il corsivo è mio). Somerset, il lettore, sa che le parole e, più in generale, i segni hanno importanza soltanto se collocati nella giusta prospettiva semantica, nel loro contesto simbolico e concettuale. Quella che abbiamo appena riportato è, in estrema sintesi, la prima delle lezioni di metodo – e di vita – che l’anziano detective si accinge a impartire al collega più giovane.

La conferma dell’intuizione di Somerset arriva il giorno dopo, martedì. In un elegante palazzo del centro, viene trovato il corpo dissanguato di Elijah Gould, un facoltoso quanto discusso avvocato di origine ebraica. Sulla scena del delitto domina, scritta con il sangue della vittima, la parola AVARIZIA. L’indagine viene affidata a Mills, ma nel frattempo Somerset compie un nuovo sopralluogo nell’appartamento dell’obeso, scoprendo – nascosta in modo da poter essere però ritrovata, sia pure con una certa difficoltà – la parola GOLA, vergata sul muro. Vicino alla scritta, fissata con una puntina da disegno, la prima delle citazioni scelte da John Doe per chiosare il suo ipertesto criminale: «Lunga e impervia è la strada/che dall’inferno si snoda verso la luce». A differenza di Frank Black, Somerset non ha bisogno di un dizionario delle citazioni per ricostruire la provenienza del frammento. Si tratta di due versi del Paradiso perduto di John Milton (per l’esattezza II.432-433), un titolo e un autore di cui Mills prende buona nota con aria lievemente perplessa.

Il personaggio interpretato da Brad Pitt è un bravo ragazzo, magari un po’ troppo sicuro di sé, ma di certo non è un intellettuale. Come i killer piccolo-borghesi di Pulp Fiction, ha un debole per le citazioni pop: riviste come «Vogue», oppure serie televisive come Charlie’s Angels. Per quanto riguarda i libri, poi, non va più in là del Guinness dei primati. Somerset, invece, ha una padronanza invidiabile di conoscenze che, per il momento, possiamo accontentarci di definire esoteriche. Sa che gola e avarizia sono due dei sette peccati capitali, elenca con prontezza gli altri cinque e prevede – con fin troppa precisione, purtroppo – che John Doe metterà a segno un delitto per ognuno dei vizi fissati dal canone medievale.

Per documentarsi meglio, Somerset decide di trascorrere la notte in biblioteca, mentre i poliziotti di guardia giocano a poker ascoltando la musica di Bach. Il detective sembra camminare assorto fra gli scaffali, ma sa esattamente che cosa cercare: il Purgatorio di Dante, il «racconto del Parroco» nei Canterbury Tales di Chaucer, un’enciclopedia del cattolicesimo – una circostanza, questa, che ribadisce la funzione di “religione arcana” assegnata al cattolicesimo da una tradizione che, come abbiamo già ricordato, va dal romanzo gotico di fine Settecento fino all’horror contemporaneo.

Somerset fotocopia dunque le parti salienti dei volumi che ha consultato e stila un appunto per Mills, raccomandandogli di leggere per intero quei testi. Lo strano – l’inquietante – non è che Somerset conosca e frequenti libri come questi, ma che questa conoscenza gli sia indispensabile per mettersi sulle tracce di un serial killer. Non a caso, mentre Somerset sfoglia l’edizione dell’Inferno di Dante illustrata da Gustave Doré, Mills è alle prese con le fotografie, altrettanto infernali e raccapriccianti, che mostrano i cadaveri delle vittime di John Doe. Sono pur sempre immagini di corpi scempiati, ma nelle incisioni di Doré è riconoscibile un significato che manca invece del tutto alle polaroid scattate dalla Scientifica.

Mills prova a seguire il consiglio del collega, ma leggere poesia è un’impresa che sembra superare le sue forze. Per evitare un’altra crisi di nervi simile a quella che la mattina di mercoledì lo sorprende sulle prime pagine del Purgatorio («Dante, maledetto poeta del cazzo!», grida esasperato buttando via il libro), si procura di nascosto una serie di sunti scolastici delle opere suggeritegli da Somerset. E soltanto grazie a questi schematici riassuntini a uso di adolescenti svogliati riesce, se non altro, a farsi un’idea generale del «sermone» dell’assassino.

In biblioteca con l’FBI

Come tutti i cattivi studenti, Mills ha la tendenza a soffermarsi su notizie irrilevanti, perdendo così di vista la struttura complessiva del testo. Fa osservare a Somerset, neanche fosse chissà quale scoperta, che il killer non sta rispettando la successione dei peccati capitali così come sono disposti da Dante lungo le cornici del Purgatorio («Viene prima la superbia, non la gola», dice, dimenticando di aggiungere che anche il Parroco di Chaucer segue lo stesso ordine presente nella Commedia), ma nel frattempo non riesce a cogliere il trasparente riferimento rappresentato dal secondo omicidio. In questo caso, oltretutto, l’assassino ha collocato la citazione in bella evidenza, come se fosse una didascalia di una scena già di per sé eloquente: «Una libbra di carne umana, né più né meno: né cartilagine né ossa, ma soltanto carne. Una volta fatto questo, sarai libero di andartene». Somerset non ha dubbi. «Il mercante di Venezia», spiega a Mills, il quale, preso alla sprovvista, cerca di cavarsela con un generico «Non l’ho visto», lasciandoci capire come l’idea di leggere un’opera di Shakespeare gli risulti ancora più estranea dell’eventualità di vederla rappresentata in teatro.

Somerset, però, è un buon maestro: trova le parole giuste per rendere comprensibile anche un concetto altrimenti ostico come quello di «attrizione forzata» («È quando ti penti dei tuoi peccati, ma non per amore verso Dio») e più che altro si sofferma sulle questioni di metodo. «Il segreto è trovare qualcosa: un dato, un particolare, e concentrarvicisi, considerando ogni remota possibilità», dice, invitando Mills a lasciare da parte le emozioni per esercitare un rigore simile a quello del filologo. Da insegnante onesto, però, Somerset non nasconde all’allievo la fatica, spesso disperata, che questo compito richiede: «Perfino il più promettente indizio conduce solo ad altri indizi», ammette qualche ora più tardi, frenando l’ottimismo del collega più giovane.

Nel frattempo siamo arrivati a giovedì e alla scoperta del corpo martoriato della terza vittima, un pedofilo tossicodipendente che ha scontato con un anno di forzata e totale immobilità la colpa della propria accidia. I due investigatori sono ormai convinti che l’assassino segua un disegno preciso, ma continuano a considerare l’avversario in modi diversi: per Mills è soltanto un disgustoso maniaco, per Somerset è qualcosa di più. Come scopriremo presto, Esperienza ha già capito che il killer è, a suo modo, un autore.

La svolta nelle indagini avviene il giorno seguente, venerdì, e nasce proprio da questo conflitto di valutazioni. «È soltanto uno squilibrato», sbotta per l’ennesima volta Mills, aggiungendo subito dopo: «Non è perché uno si fa la tessera della biblioteca che diventa un genio» (nell’originale la battuta suona: «Just because the fucker’s got a library card doesn’t make him Yoda!», un’allusione alla saga cinematografica di Star Wars che conferma come l’orizzonte delle citazioni del giovane coincida alla perfezione con la pop culture dell’americano medio).

La trama di Seven sta per raggiungere il suo momento di massima implausibilità e, nello stesso tempo, più rivelatore dal punto di vista culturale. Assecondando il gusto americano per la paranoia, lungo la linea che va da Jfk – Un caso ancora aperto di Stone fino al complotto galattico di X-Files, Somerset rivela al ragazzo che da anni l’FBI tiene sotto controllo le letture degli americani. Chiunque entri in una biblioteca per prendere in prestito o in lettura uno dei cosiddetti «libri bollati» (testi sul nucleare, per esempio, o Mein Kampf di Hitler) finisce nell’apposita banca dati federale.

Fin qui, passi. Quello che non si capisce è piuttosto come mai John Doe – che non soltanto dispone di un’invidiabile autonomia finanziaria, ma evita accuratamente di dotarsi di carte di credito o di altri strumenti che possano comunque lasciare una traccia del suo passaggio – decida di frequentare una biblioteca anziché comprare, magari anche soltanto in edizione economica, i testi dai quali trae ispirazione. Ma l’elemento più sorprendente è rappresentato proprio dall’elenco di «libri bollati» grazie al quale Somerset e Mills riescono a rintracciare il loro uomo. Vi figurano la Divina Commedia e, di nuovo, una Storia del cattolicesimo, i più che appropriati Omicidi e pazzi maniaci e L’omicidio moderno e come si indaga, ma anche il già ricordato A sangue freddo e Delitto e castigo («È sugli omicidi?», chiede Mills a proposito di quest’ultimo e Somerset, non si sa bene perché, gli risponde: «Non esattamente»), le opere di Sade («Shadé», pronuncia malamente Mills, facendo confusione con una celebre cantante degli scintillanti anni Ottanta) e, finalmente, quelle di san Tommaso d’Aquino.

Per motivi inspiegabili, Somerset lascia perdere le altre tracce e si concentra sull’altrimenti insospettabile Doctor Angelicus: «Sui sette peccati capitali qualcosa ha scritto», è la sua laconica giustificazione. Seguendo questa pista, i due poliziotti scoprono l’indirizzo di John Doe. La casa dell’assassino è un incrocio fra un museo degli orrori, un tempio schizoide e una biblioteca in cui un memorialista folle conservi i propri manoscritti. Duemila quaderni, secondo la stima di Somerset, ognuno dei quali conta circa duecentocinquanta pagine. Lo spettatore sa che John Doe è uno scrittore, sia pure di tipo molto particolare, fin dai titoli di testa, che scorrono sopra una serie di sgradevoli dettagli delle mani martoriate del killer (l’uomo ha l’abitudine di escoriarsi i polpastrelli in modo da non lasciare impronte digitali) al lavoro sui famigerati quaderni. Ora però Mills e Somerset hanno la prova che il «sermone» – e cioè il vero testo – dell’imprendibile John Doe sono i suoi omicidi.

Ma torniamo alla trovata dei «libri bollati». Qui la sceneggiatura di Seven fa inequivocabilmente confusione. Prima Somerset sembra dire che l’FBI tiene in osservazione un gruppo relativamente ristretto di opere, ma subito dopo pare di capire che tutti i libri, da Milton a Truman Capote, sono in realtà sotto controllo. È una procedura di routine oppure una ricerca particolare eseguita su richiesta di Somerset? Più che la verosimiglianza, tuttavia, in questo momento cruciale del film a Walker interessa la possibilità di trasmettere l’idea della letteratura come universo estraneo, dominato dal mistero, dalla minaccia e dalla colpa. Ed è proprio in base a questa convinzione che perfino san Tommaso può essere coinvolto – come ispiratore, se non addirittura come complice – nella sanguinaria «predicazione» del sedicente John Doe. Detto altrimenti, se vogliono catturare il serial killer, i detective della squadra omicidi devono diventare, a loro volta, tomisti.

Sabato e domenica – gli ultimi due concitati giorni di indagini, durante i quali John Doe riesce, pur consegnandosi nelle mani degli investigatori, a portare a termine il proprio efferato quaresimale – risultano decisamente avari di spunti letterari. Lo stesso assassino tralascia del tutto la pratica delle citazioni e nella conversazione finale con Somerset e Mills si limita a una serie di oscure allusioni bibliche, prive però di precisi riscontri testuali. L’ultimo suo sfoggio letterario, forse, sta nell’ambiguo elogio della normalità con cui accompagna la confessione di quello che considera il suo unico peccato, l’invidia. «Ho giocato ad assaporare la vita dell’uomo comune. Ma non ha funzionato», dice a un Mills sempre più sconvolto, aggiungendo poco dopo: «Perché io invidio la tua vita normale. A quanto pare è l’invidia il mio peccato».

Una riflessione sulla «normalità» della vita suggella un romanzo che abbiamo già avuto modo di ricordare, Schiavo d’amore di William Somerset Maugham. Nel libro l’ultima tappa dell’iniziazione umana del medico Philip Carey è descritta in questi termini:

Comprese che l’uomo normale è la cosa più rara che esista. Ciascuno ha un difetto fisico o morale. Rivide tutti coloro che aveva conosciuto (tutto il mondo era come un ospedale senza poesia né prosa); vide una lunga processione: chi era deforme nel corpo e chi nello spirito; chi era ammalato nella carne – cuori deboli o polmoni congestionati – chi era nevrastenico, abulico, alcolizzato. In quell’istante provò un’infinita pena per tutti. Erano strumenti impotenti di un destino cieco. [...] L’unica cosa ragionevole era accettare la bontà degli uomini e sopportare con pazienza i loro difetti. Le parole del Salvatore spirante gli attraversarono la mente: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno».

Nel mondo di Seven questo passaggio dallo sdegno alla compassione non è più possibile. John Doe – che forse sta rendendo omaggio al più colto tra i suoi inseguitori con una citazione trasversale – è convinto che la normalità non possa più redimere il peccato, il quale ha ormai avuto il sopravvento. Sull’automobile della polizia che lo conduce verso la finale rivelazione dell’orrore, spiega così la logica dei propri delitti:

Vediamo un peccato capitale ad ogni angolo di strada, in ogni abitazione. E lo tolleriamo, lo tolleriamo perché lo consideriamo comune, insignificante. Lo tolleriamo mattina, pomeriggio e sera. Adesso basta, però. Servirò da esempio. E ciò che ho fatto ora verrà prima decodificato, poi studiato, infine seguito. Per sempre.

In Schiavo d’amore Philip Carey rinuncia a dipingere non perché disprezzi la pittura, ma soltanto perché si rende conto di non essere abbastanza dotato da poter esprimere qualcosa di grande e di personale. Nel film, invece, il viaggio di Mills nell’inferno della letteratura non porta ad alcun lieto fine. Anzi, John Doe riesce comunque a comporre il suo capolavoro e fa della propria morte il coronamento dell’opera grandiosa e perversa che è persuaso di aver creato. Fa recapitare a Mills la testa tagliata della moglie Tracy e, davanti alla disperazione dell’uomo, lo pungola in modo da farlo cadere nella trappola. «Trasformati in vendetta, David», dice John Doe a Mills: «Trasformati in IRA». Mills spara e il «sermone» è finalmente concluso.

L’ultima parola – o, meglio, l’ultima citazione – spetta a Somerset. Mills, inebetito e sconfitto, è stato arrestato, ma il detective-lettore ha ancora la forza per trovare consolazione nella memoria: «Ernest Hemingway una volta ha scritto: “Il mondo è un bel posto e vale la pena di lottare per esso”. Condivido la seconda parte». Dal punto di vista letterario, la conclusione rischia di apparire deludente. Dopo il giro di giostra fra Milton, Dante e Chaucer, lo spettatore avrebbe il diritto di aspettarsi qualcosa di più imprevedibile del pur efficace Hemingway. A pensarci bene, però, la battuta di Somerset invita lo spettatore a lasciare aperto uno spiraglio, prima che le semplificazioni di Millennium esortino a sbarrare del tutto la porta. Oltre che per ispirare i serial killer e dar loro la caccia, la letteratura può anche servire per cercare un senso nella crudele insensatezza della realtà. Non tutta la letteratura, forse, ma almeno una metà di essa. In ogni frase c’è sempre una «seconda parte» su cui fare affidamento. Ed è per questo che le parole possono servire a porre una distanza fra noi e ciò che accade. All’opposto, se non ci serviamo del linguaggio e delle sue metafore, metafore e linguaggio si allontanano da noi diventando oscure e minacciose, come le frasi deliranti che John Doe ha vergato con la sua grafia micidiale sui duemila quaderni che più nessuno, forse, avrà il coraggio di leggere.

Marco Aurelio spiegato da un cannibale

Soltanto quattro anni separano il pessimismo radicale di Seven dalle atmosfere cupe, ma non altrettanto nichiliste, del Silenzio degli innocenti di Jonathan Demme (1991), tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1988 da Thomas Harris. Spesso accostati l’uno all’altro, ma in realtà segnati da profonde differenze, entrambi i film ricorrono in modo consapevole all’ambigua suggestione di una tradizione culturale solitamente considerata più che rispettabile e piegata, invece, al servizio del Male. In questo senso la scena più significativa del Silenzio degli innocenti è senza dubbio quella in cui lo psichiatra cannibale Hannibal Lecter (interpretato da Anthony Hopkins) passa senza soluzione di continuità dall’ascolto delle Variazioni Goldberg alla brutale aggressione dei propri carcerieri. La musica di Bach introduce alle immagini raccapriccianti dell’uomo che spalanca le fauci, trasformandosi in quello che, fino all’ultimo momento, lo spettatore aveva sperato che non fosse: una belva assetata di sangue.

La più temibile arma di Lecter però non è la cultura di tipo artistico-letterario. Nei suoi colloqui con l’agente Clarice Starling, impersonata da Jodie Foster, e più ancora nell’indimenticabile scambio di battute con la senatrice Martin, la cui figlia è stata rapita da un altro serial killer («Mi dica, senatore: ha svezzato da sé Catherine? L’ha allattata lei?», domanda Hannibal, con il volto imprigionato in una maschera di cuoio e metallo. «Sì, l’ho fatto», risponde la donna. «Ha indurito i suoi capezzoli, vero?»), il criminale fa ricorso anzitutto alla sua sapienza di psichiatra. Il panico più profondo che il film di Demme ingenera nello spettatore proviene dal contrasto fra la sostanziale simpatia, se non ammirazione, suscitata da quest’uomo colto, professionalmente capace e perfino spiritoso e le sue imprese mostruose. Finché non lo vediamo in azione, continuiamo a sperare che non si tratti davvero del pazzo cannibale di cui parlano i referti criminologici. E anche dopo averlo visto sbranare i due agenti ci sorprendiamo a pensare che i suoi delitti, in fondo, non hanno nulla a che vedere con le sue qualità umane, delle quali fa addirittura parte quella che potrebbe sembrare una forma di intesa paterna nei confronti dell’orfana Clarice. Lo spettatore si trova insomma a fare i conti con un sentimento di involontaria immedesimazione, ben sintetizzato dall’ultima battuta del film – «Sto per avere un vecchio amico per cena stasera» –, con la quale l’evaso Lecter annuncia, diabolico e blasé, di essere in procinto di divorare il direttore del manicomio criminale di Baltimora in cui è rimasto a lungo segregato.

La battuta conclusiva è senza dubbio uno dei tocchi migliori della sceneggiatura scritta per Demme da Ted Tally, che ha intelligentemente rielaborato (e semplificato) il romanzo di Harris. Il cambiamento più vistoso riguarda il personaggio di Jack Crawford, interpretato nel film da Scott Glenn. Insieme con Lecter, Crawford rappresenta un importante elemento di continuità fra Il silenzio degli innocenti e il precedente romanzo di Harris, Drago Rosso (1981), portato sullo schermo nel 1986 da Michael Mann con il titolo ManhunterFrammenti di un omicidio. Ispirato alla figura di John Douglas, un autentico cacciatore di serial killer, Crawford ci viene presentato come il responsabile di Scienza del comportamento, la sezione dell’FBI specializzata nelle indagini sui criminali psicopatici. Ammirato da Clarice, che nutre per lui un sentimento che forse non è soltanto di devozione filiale, Crawford nel Silenzio degli innocenti di Harris è impegnato in una duplice lotta: sul versante professionale deve stanare Buffalo Bill, il folle omicida che scuoia le sue vittime per rivestirsi della loro pelle, ma nello stesso tempo, tra le pareti di casa, assiste con tenerezza la moglie Bella, malata terminale. Un personaggio energico e melanconico insieme, dunque, che assomiglia molto poco al Crawford cinematografico, un investigatore brillante e sicuro di sé, della cui vita privata non sappiamo nulla e che, a quanto pare, non deve misurarsi con un’incombente tragedia domestica (nel romanzo, al contrario, Bella muore proprio nel momento in cui le indagini si stanno avvicinando alla svolta risolutiva).

Insieme con il lato d’ombra di Crawford, dal film spariscono tutte – o quasi – le citazioni letterarie sparse da Harris nel romanzo. Già Drago Rosso era costruito attorno a un complesso sistema di rimandi all’opera di un solo autore, William Blake, con conseguenze che avremo modo di esaminare nel dettaglio più avanti. Per Il silenzio degli innocenti, invece, Harris ha scelto di richiamarsi a una costellazione più ampia, anche se ben circoscritta, di poeti: e.e. cummings, una cui «orribile poesiola» – come la definisce Harris per conto di Clarice – suggerisce ai giornali scandalistici il nomignolo di Buffalo Bill; John Donne, testualmente citato da Lecter (che però ne tralascia il nome) nella lettera in cui comunica a Crawford il proprio dispiacere per la malattia di Bella; T.S. Eliot, dal cui Mercoledì delle ceneri Clarice preleva, rimaneggiandoli, i versi che accompagnano come una preghiera la sua discesa agli inferi della psiche: «Insegnaci la partecipazione e l’indifferenza./Insegnaci a tacere».

Per tutto il libro è chiaro che Clarice non può stare alla pari con la sterminata cultura di Lecter, capace di passare con disinvoltura dall’entomologia alla psicanalisi junghiana attraverso un improvvisato excursus sul termine imago. Eppure è chiaro che l’amore per i libri è qualcosa che fa parte dell’inconfessabile corrente di simpatia che si instaura fra di loro. Nel film questo elemento è meno evidente rispetto al romanzo, se non altro per il fatto che la presenza fisica dei libri è molto rarefatta. Sintomatica, in questo senso, la descrizione della cella di Lecter nel manicomio di Baltimora. Scrive Harris: «Al di là della rete, Clarice scorse un tavolo imbullonato al pavimento, carico di libri in brossura e di fogli, e una sedia, imbullonata anche quella». Per tutto il romanzo, inoltre, la privazione dei libri (e dell’asse del water) viene presentata come l’unica punizione temuta dall’altrimenti imperturbabile Lecter. Nel film, al posto dei libri troviamo i disegni del cannibale, ai quali lo stesso Harris, del resto, dedica molta attenzione: in particolare, Demme lascia intuire una possente figura umana a carboncino che non può non ricordare gli analoghi giganti del già menzionato Blake.

Tenuti lontani dallo sguardo dello spettatore, nel film i libri tornano ad essere visibili nella cella di massima sicurezza improvvisata per Lecter a Memphis, dove è stato trasferito su richiesta della senatrice Martin. Qui si svolge l’ultimo dialogo fra lo psichiatra omicida e Clarice, che lo trova intento nella lettura della rivista «Poetry». Ed è qui che la sceneggiatura recupera l’unica citazione superstite fra le molte presenti nel romanzo di Harris. Ecco la trascrizione di una delle fasi salienti del dialogo:

LECTER: Ho letto i rapporti sul caso [di Buffalo Bill, N.d.R.], e tu? Tutto quello che ti serve per trovarlo è proprio lì, in quelle pagine.
CLARICE: E allora mi dica come.
LECTER: Prima regola, Clarice: semplicità. Leggi Marco Aurelio: «Di ogni singola cosa chiedi che cos’è in sé, qual è la sua natura». Che cosa fa quest’uomo che cerchi?
CLARICE: Uccide le donne.
LECTER: No, questo è accidentale. Qual è la prima, la principale cosa che fa? Uccidendo, che bisogni soddisfa?
CLARICE: Rabbia... Essere accettato socialmente... Frustrazione sessuale...
LECTER: No: de-si-de-ra. Questo è nella sua natura.

A prima vista, lo scambio di battute è molto simile a quello riportato nel romanzo:

«Ho letto il dossier, Clarice, e lei? Tutto ciò che ha bisogno di sapere per trovarlo è lì dentro, se presta attenzione. Avrebbe dovuto arrivarci persino Crawford. A proposito, ha letto lo stupefacente discorso di Crawford all’Accademia Nazionale di Polizia, l’anno passato? Citava Marco Aurelio sul dovere, l’onore e la forza d’animo... vedremo se sarà altrettanto stoico quando Bella tirerà le cuoia. Credo che copi la sua filosofia dal Bartlett’s Familiar. Se capisse Marco Aurelio, potrebbe risolvere il caso».
«Mi spieghi in che modo».
«Quando lei dimostra qualche raro barlume d’intelligenza contestuale, Clarice, dimentico che la sua generazione non sa leggere. L’imperatore consiglia la semplicità. I primi principi. Di ogni cosa particolare, domanda: Che cos’è in se stessa, nella propria costituzione? Qual è la sua natura causale?».
«Per me questo non significa niente».
«E che cosa fa, l’uomo che vuole catturare?».
«Uccide...».
«Ah», disse bruscamente Lecter, e per un momento distolse la faccia. «Questo è incidentale. Qual è la prima cosa che fa, la cosa principale? Quale bisogno soddisfa uccidendo?».
«La rabbia, il risentimento sociale, la frustrazione sess...».
«No».
«E allora che cosa?».
«Desidera. Anzi, desidera essere proprio ciò che lei è. Desiderare è nella sua natura».

In entrambi i casi Lecter cita Marco Aurelio per impartire a Clarice una lezione sul concetto di natura causale. Ma perché, tra tanti filosofi che hanno affrontato l’argomento, ricorrere proprio all’imperatore romano? Nel film l’interrogativo – ammesso che qualche spettatore se lo sia effettivamente posto – resta senza risposta. La strategia di Lecter risulta invece con chiarezza dal romanzo: il cannibale ricorre a Marco Aurelio per screditare Crawford agli occhi di Clarice. Il responsabile di Scienza del comportamento ha commesso l’imprudenza di richiamare una vaga esortazione morale di Marco Aurelio, attingendo all’immagine più nota, perfino banale degli scritti dell’imperatore. È probabile che la sua sia davvero una citazione di riporto, come suggerisce malignamente Lecter (il Bartlett’s Familiar Quotations è il più famoso dizionario delle citazioni americano, continuamente ristampato e aggiornato dal 1855). Ma la vera abilità dello psichiatra si rivela nell’odioso riferimento all’imminente morte di Bella, che gli offre l’occasione di ritorcere contro Crawford le parole di Marco Aurelio. Lecter usa con rigore l’aggettivo «stoico» (com’è noto, Marco Aurelio è una delle figure più significative del tardo stoicismo) e, più che altro, accusa Crawford di non essere in grado di trarre profitto dalle conoscenze che millanta.

A questo punto viene la frase decisiva del dialogo: «Se capisse Marco Aurelio, [Crawford] potrebbe risolvere il caso». Quello che Lecter invoca – e probabilmente teme – è un detective capace di combinare filosofia e filologia, e cioè di considerare un normale dossier poliziesco alla stregua di un testo che ha in se stesso la propria chiave interpretativa. Forse Lecter intuisce che Clarice potrebbe raggiungere questo risultato, come lascia supporre l’elogio alla sia pure sporadica «intelligenza contestuale» della ragazza. Ma è ancora troppo presto: la vera educazione intellettuale di Clarice avverrà soltanto nel terzo romanzo della serie, Hannibal (1999), e avrà esiti insospettati.

Per il momento la recluta Starling si trova ancora nella situazione dell’agente Mills di Seven, suo coetaneo: entrambi appartengono a una generazione che, come sostiene a ragione Lecter, «non sa leggere». Quello che lo psichiatra cannibale ignora è che, sia pure con uno scarto di qualche anno, il detective intellettuale a cui pensa esiste davvero, ma in un altro film. In Seven, infatti, Somerset si rivela un esperto cacciatore di quidditates, sostanze e accidenti, anche se il suo aristotelismo è mutuato dalla scolastica e non dalla filosofia d’età imperiale. Se mai si trovasse a leggere Marco Aurelio, lascerebbe perdere le generiche esortazioni morali e, come nel caso di John Doe e del suo orribile «sermone», si sforzerebbe di capire il più profondo significato della citazione.

Lecter non rinuncia a un tocco di snobismo perverso, e rintraccia negli scritti di Marco Aurelio un precetto metodologico di cui Crawford, probabilmente, non sospetta neppure l’esistenza (la formulazione scelta dal cannibale sembra avvicinarsi a Ricordi XII.18, ma l’invito a indagare sulla natura causale delle cose ricorre anche in altri brani dell’opera, per esempio VII.29 e XI.17). Somerset ha l’umiltà dell’autodidatta e non fa sfoggio di virtuosismi. Ha un’idea di chi sia Tommaso d’Aquino, sa che «sui sette peccati capitali qualcosa ha scritto» e tanto gli basta. Intellettuale sì, ma pur sempre poliziotto, e quindi pragmatico.

Nel Silenzio degli innocenti, dunque, Lecter è un omicida sanguinario nonostante la sua cultura. Sia pure per oscuri secondi fini, si spinge addirittura a suggerire a Clarice che se l’FBI disponesse di conoscenze più raffinate in campo umanistico le indagini risulterebbero più efficaci. Ma il vero malvagio del film (e del libro) non si circonda di pretese intellettualistiche. Harris mostra con impietosa precisione come l’orizzonte culturale di Jame Gumb – l’assassino meglio noto come Buffalo Bill – sia di una povertà mostruosa quasi quanto le sue imprese: riviste di cartamodelli, immagini rubate alle pubblicità pornografiche in TV, il culto ossessivo e morboso delle reginette di bellezza... L’unica volta che abbozza una citazione, Buffalo Bill sbaglia clamorosamente: la ditta di confezioni – in pelle, naturalmente – avviata dal serial killer porta il nome di Mr Hide, con una meschina banalizzazione del personaggio di Stevenson, che si chiama invece Hyde in modo da occultare ulteriormente il riferimento al verbo to hide, ‘nascondere’.

Seven, al contrario, ci trasmette il sospetto che John Doe sia un criminale proprio perché conosce così a fondo – come lettore e anche come scrittore – la tradizione letteraria di cui si serve per comporre il suo «sermone». L’esperto Somerset ne è consapevole, e per questo sopravvive. L’innocente Mills si ostina a non ammetterlo, e per questo soccombe, pagando a caro prezzo la pecca generazionale di «non saper leggere». In Hannibal, del resto, la stessa Clarice per salvarsi dovrà rinnegare se stessa, trasformandosi – come direbbe il Black di Millennium – in «ciò che sappiamo di poter diventare nella parte più oscura della nostra coscienza».

Copioni, collezionisti e poeti

Le imprese di un killer citazionista non costituiscono un problema soltanto per Somerset e Mills. In Copycat di Jon Amiel (1995), un film arrivato nelle sale pressoché contemporaneamente a Seven, Sigourney Weaver interpreta il ruolo di Helen Hudson, un’esperta in omicidi seriali caduta in profonda e duratura depressione fobica dopo che uno degli assassini condannati a causa delle sue perizie è evaso di prigione ed è quasi riuscito a ucciderla. Ora Cullum – questo il nome del pazzoide – è di nuovo in carcere, ma in compenso anche la dottoressa Hudson è prigioniera della devastante agorafobia che si è impossessata di lei. Lavorando d’intuito e scavando nella sua ordinatissima banca dati, si accorge che l’assassino che agisce impunito in città sta seguendo un piano ben preciso: ripetere, fin nel minimo dettaglio, i più celebri delitti dei serial killer che lo hanno preceduto. È un copycat, un copione, ovvero un citazionista nella sua forma più elementare e grossolana.

Rispetto alle aperture letterarie di Seven, Copycat rimane all’interno di una serie di riferimenti quasi esclusivamente legati al mondo del crimine. Certo, la dottoressa Hudson è una scrittrice e la bella casa-fortezza in cui si è segregata è stata pagata grazie ai cospicui diritti d’autore, come non manca di farle notare con una punta di perfidia l’agente Monahan (l’attrice Holly Hunter). Lo stesso Cullum, il serial killer a cui il Copione più direttamente si ispira, ha raccontato la propria versione dei fatti in un libraccio dal titolo sintomatico, My Life with a Knife, ‘La mia vita con un coltello’, una copia del quale viene recapitata alla dottoressa Hudson con un sanguinolento dito umano per segnalibro.

Quando arriva il momento di cimentarsi nella critica testuale, però, la sceneggiatura di Copycat lascia da parte libri e letteratura e costringe l’affascinante psicanalista a rileggere in controluce una canzone dei Police, Murder By Numbers, il cui testo le è stato inviato dal suo persecutore in segno di sfida. Rispetto ai poeti di Seven, l’istigazione all’omicidio della canzone interpretata da Sting è molto più esplicita – e molto più ironica, si capisce – di qualsiasi citazione dal Paradiso perduto o dal Mercante di Venezia. In prossimità del sia pur relativo lieto fine, poi, il Copione si rivelerà non un intellettuale deviante come John Doe, ma il solito ragazzotto complessato dalla mamma, le cui uniche letture sono – con tutta evidenza – le biografie dei serial killer da cui prende spunto per le sue sanguinose bravate.

Se Copycat rappresenta una parziale digressione dal clima di Seven, cui rimane tuttavia legato dal tendenziale citazionismo, Il collezionista di Gary Fleder (1997) rappresenta un evidente tentativo di sfruttare il successo del film diretto da Fincher. Nel ruolo del protagonista ritroviamo Morgan Freeman (l’agente Somerset di Seven), che questa volta impersona il dottor Alex Cross, «il criminologo più famoso e più letto del paese», come lo definisce un amico poliziotto. Anche Cross, quindi, è uno scrittore e deve vedersela con un killer che si nasconde dietro il nome di un altro scrittore, il libertino Giacomo Casanova. Ma le suggestioni letterarie del film – tratto da un romanzo di James Patterson apparso negli Stati Uniti nel 1995, lo stesso anno di Seven e Copycat – si esauriscono quasi immediatamente, anche perché, come ha modo di osservare la donna medico che assiste una delle vittime, l’assassino «è abile, ma non conosce la propria storia: il vero Casanova non avrebbe mai approvato».

L’obiettivo del criminale, infatti, non è uccidere le ragazze che attirano la sua attenzione, ma rapirle e «collezionarle» in un lugubre harem sotterraneo, dove ciascuna è costretta a esercitare l’arte in cui eccelle: la nipote di Cross, per esempio, deve continuare a suonare il violino a beneficio del suo carceriere, eseguendo eleganti partiture di Johann Sebastian Bach, lo stesso compositore prediletto dal dottor Lecter nel Silenzio degli innocenti e dai poliziotti in servizio alla biblioteca in Seven. Casanova non si accontenta di incutere terrore, ma pretende che le donne prescelte per la sua «collezione» si innamorino di lui. Per questo cerca di sorprenderle e blandirle con piccoli regali, come Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy, il romanzo che l’indomabile Kate McTiernan (interpretata da Ashley Judd) trova sul comodino della cella in cui il «seduttore» l’ha rinchiusa. È il volume che la ragazza era andata a ritirare in libreria poco prima del rapimento. In quell’occasione, inoltre, Kate, apprezzato medico ospedaliero, aveva preso informazioni su un libro illustrato che aiutasse i bambini a superare la paura. Quest’ultimo è un particolare introdotto dalla sceneggiatura di David Klass, che invece fa cadere quasi del tutto le frequenti allusioni alla letteratura erotica – da Histoire d’O alle opere del marchese De Sade, dallo stesso Casanova ai romanzi di Jean Genet – che attraversano il romanzo di Patterson. Da questo punto di vista, nel film di Fleder ci si deve accontentare di una fuggevole allusione a un meglio precisato Die Welt der Flagellanten, mentre viene lasciato cadere il ricorso a un’immagine presente nel libro di Patterson e che ritroveremo sfruttata con maggior spregiudicatezza in Hannibal di Harris: quella, cioè, alla favola della Bella e la Bestia.

Per trovare un’altra trama in cui le citazioni letterarie giochino lo stesso ruolo decisivo e inquietante esaminato nel caso di Seven bisogna rivolgersi non al cinema, ma alla letteratura. O, meglio, a quella narrativa di genere che con il cinema è strettamente imparentata. Il libro è Il Poeta dell’americano Michael Connelly, pubblicato nel 1996, un anno dopo il successo del film sceneggiato da Walker. Ex cronista giudiziario del «Los Angeles Times», Connelly è un coscienzioso artigiano del genere poliziesco, con una passione per i dilemmi morali (un suo romanzo, Debito di sangue, ci presenta un detective alle prese con le conseguenze etiche del trapianto di cuore cui è stato sottoposto) e per un citazionismo allegramente grossolano. Diversi suoi libri hanno per protagonista il detective Harry Bosch, dove «Harry» è davvero – per quanto improbabile possa sembrare – il diminutivo di Hieronymus.

In un’autointervista a uso dei fan disponibile nel suo sito Internet, Connelly spiega senza imbarazzo i motivi di una scelta tanto ambiziosa. «Al college ho avuto modo di studiare brevemente le opere del vero Hieronymus Bosch», afferma ripetendo un cliché che ben conosciamo (“quello-che-si-studia-a-scuola”): «Era un pittore del XV secolo che nei suoi quadri riproduceva scenari assai dettagliati di un mondo dissoluto, violento e contaminato. Questo sentimento di un universo impazzito si ritrova in tutti i suoi dipinti, compresa la raffigurazione dell’Inferno che tengo appesa vicino al computer nel mio studio. Ho pensato che il nome del pittore si adattasse perfettamente al mio personaggio perché mi dava la possibilità di giustapporre in modo metaforico la Los Angeles di oggi e i paesaggi di Bosch».

Nessuna pretesa intellettualistica, dunque, ma più modestamente il riutilizzo pragmatico di un autore allo stesso tempo colto e popolare, qual è in definitiva il pittore delle Tentazioni di sant’Antonio. Con lo stesso spirito, privo di qualsiasi preoccupazione filologica, Connelly inserisce nella trama del Poeta l’opera in versi di Edgar Allan Poe. La scelta è, a suo modo, ancora più sintomatica. Non fosse altro che per i film diretti da Roger Corman negli anni Sessanta, il nome di Poe è conosciuto anche da chi non ha mai letto una riga delle sue opere. Nella cultura popolare planetaria i suoi libri sono sinonimo di orrore e forse anche di perversione (uno dei poliziotti che incontriamo nel Poeta lo definisce, in modo senz’altro sbrigativo, «uno stronzo morboso»).

Connelly, però, non si accontenta del Poe della vulgata mass-mediatica. Per dare al proprio lettore l’illusione di essere alle prese con un romanzo molto più sofisticato del solito thriller, si rivolge a quello che ritiene il versante meno frequentato, più esoterico e arcano dell’opera dello scrittore: le composizioni in versi. Predilezione sintomatica, specie se si torna con la memoria alle pagine che, già nel 1930, Aldous Huxley dedicava ai versi di Poe come massima espressione del connubio tra volgarità e letteratura. «La sostanza di Poe è raffinata», scriveva l’autore de Il Mondo Nuovo, «è la forma ad essere volgare. Egli è, per così dire, uno di quegli uomini che nascono nobili, ma hanno la sventura di essere guastati da un incorreggibile cattivo gusto». Detto altrimenti, è l’autore ideale per dare manforte a Connelly.

Il Poeta infatti mette in scena un plot molto compiaciuto della propria complessità, nel quale le citazioni dalle poesie di Poe svolgono, di volta in volta, la funzione di indizio determinante, di depistaggio e di tranello. Il racconto è affidato alla voce del protagonista, Jack McEvoy, reporter di cronaca nera in un quotidiano di Denver. Oltre che con il solito dramma infantile (si è reso responsabile, senza volerlo, della morte della sorella maggiore), deve vedersela con il suicidio del fratello Sean, stimato detective della polizia locale che, a quanto parrebbe, ha deciso di togliersi la vita ossessionato dall’impossibilità di risolvere un caso di omicidio particolarmente crudele.

Come molti suicidi, anche Sean ha lasciato un biglietto. Sei parole in tutto: «Fuori dallo spazio. Fuori dal tempo». Tutto qui. Ma Jack non è convinto che si tratti di una lirica ammissione di sconfitta. Forte della tradizione e delle risorse (non tutte ortodosse) dell’investigative journalism, viene a scoprire che, negli ultimi anni, nel resto degli Stati Uniti altri poliziotti hanno scritto, prima di uccidersi, messaggi altrettanto laconici e ispirati. In realtà, i biglietti dei suicidi sono accomunati da qualcosa di più profondo e inquietante: tutti, senza eccezione, nascondono una citazione dalle poesie di Poe.

Jack non ci mette molto a confessarci di avere un romanzo nel cassetto, una storia a suo modo metaletteraria che, dal poco che ne sappiamo, sembra rifarsi in modo impudico e non dichiarato a Misery di Stephen King (uno scrittore paralizzato, una dattilografa che sottopone i suoi testi a un editing radicale e al quale l’autore non può opporsi, un odio montante...). Eppure, nonostante le ambizioni di romanziere, Jack non si accorgerebbe delle citazioni se non venisse in suo aiuto una solerte impiegata del centro di documentazione del giornale, che consulta il cd-rom giusto al momento giusto. A metterla sulla strada è comunque Jack, che con una fortunata intuizione riesce a capire che Rusher, il misterioso personaggio con cui Sean aveva appuntamento il giorno della morte, è in realtà l’abbreviazione di Roderick Usher, il protagonista de La caduta della casa degli Usher, uno dei più celebri racconti di Poe.

Più che la cultura letteraria, è il mestieraccio ad aiutare il cronista nel formulare l’ipotesi che lo porterà sulle tracce dell’assassino del fratello. La convinzione iniziale di Jack – poi in parte smentita – è che ci sia in circolazione un serial killer che prima compie i suoi orrendi delitti, poi ossessiona con la propria inafferrabilità i detective incaricati del caso e infine li costringe a simulare il suicidio. Le citazioni di Poe, scelte in modo da poter essere lette come ultimo messaggio delle vittime, non sono altro che un tocco d’autore nella messinscena.

Una libreria sospetta

Jack sarà anche un ottimo reporter e un eccellente investigatore dilettante, ma rimane comunque un pessimo critico letterario. È vero, non appena si mette su quella che ritiene sia la pista giusta si affretta a comprare una raccolta delle opere di Poe, ma passano settanta pagine prima che si decida a leggerle. Nel frattempo, si noti bene, l’angustiato cronista ha trovato tempo e modo per acquistare e leggiucchiare un altro libro, e cioè Ferite multiple di Alan Russell (Multiple Wounds nell’originale). Non si tratta di un’invenzione di Connelly, esattamente come non è inventato il Rue Morgue Mystery Bookshop, la libreria di Boulder, Colorado, dove Jack acquista il suo Poe. Un paio d’anni dopo la pubblicazione del Poeta, tra l’altro, il negozio di Boulder – la stessa città, ricordiamo, in cui è ambientato l’episodio L’innocenza perduta nella prima serie di Millennium – si è ritrovato al centro di una polemica legata alla morte della piccola Miss Colorado JonBenet Ramsey. Gli investigatori hanno cercato di scoprire se i genitori della bambina, da tempo sospettati del delitto, avessero acquistato al Rue Morgue Mystery Bookshop una copia de Il giorno dopo domani, il thriller di Allan Folsom che descriverebbe un omicidio simile a quello di cui è stata vittima la bambina. Ma in nome della privacy, i responsabili della libreria si sono rifiutati di fornire i tabulati relativi alla loro clientela.

Per non correre rischi, il protagonista del Poeta si procura la sua copia di Ferite multiple in una libreria di Washington, dove si è momentaneamente trasferito per proseguire le ricerche. Jack deve avere una strana idea della distrazione, visto che – nel bel mezzo della caccia a un serial killer e con il lutto per la morte del fratello ancora da elaborare – si imbarca nella lettura di un romanzo che mette in scena un caso di sanguinosa personalità multipla con pretesi riferimenti colti (la protagonista del libro si chiama Helen Troy, come dire Elena Di Troia, in omaggio al feticismo classicheggiante del padre). Allo stesso modo, verso la fine del racconto, Jack si mette in contatto con l’agente letterario nominato in uno dei suoi romanzi preferiti, A Morning For Flamingos di James Lee Burke, altro titolo e altro autore reali, molto apprezzati del resto dallo stesso Connelly.

E Poe? Jack vi ricorre più come farebbe Mills che non seguendo i consigli di Somerset. Legge soltanto quello che ritiene essenziale, vale a dire le poesie, e salta a piè pari tutto il resto. Quando scopre che il messaggio di uno dei presunti suicidi suona «Il Signore assista la mia povera anima», si accontenta di registrare la mancata rispondenza con i versi di Poe, senza neppure sospettare che si tratti delle parole pronunciate dallo scrittore in punto di morte. Per accorgersene gli sarebbe bastato, probabilmente, dare una scorsa all’introduzione biografica del paperback comprato al Rue Morgue Mystery Bookshop, introduzione nella quale si trova un altro importante indizio, e cioè il nome Edgar Perry, lo pseudonimo di Poe che il killer adopera come chiave d’accesso alla rete telematica per pedofili di cui è accanito frequentatore. Ma anche questo Jack lo scoprirà soltanto grazie all’interessamento degli uomini dell’FBI, costretti a esercitare la critica letteraria a beneficio di questo aspirante scrittore dalle buone intuizioni e dal pessimo metodo.

Poco importa che, nell’intreccio immaginato da Connelly, a escogitare il diversivo delle citazioni da Poe sia proprio il capo degli agenti federali, vero responsabile della catena di finti suicidi che è costata la vita anche al fratello di Jack. Il punto è che nel Poeta manca del tutto un personaggio che sostenga – sia pure in modo contraddittorio, come Somerset in Seven – le ragioni della letteratura. Certo, all’FBI ci sono professionisti in grado di ipotizzare che, chissà, in una delle poesie citate dal killer potrebbe nascondersi un autoritratto dell’assassino, ma tutti sembrano tirare un respiro di sollievo quando, a caccia ormai apparentemente conclusa, uno dei detective fa il verso al paranoico colonnello Kilgore di Apocalypse Now: «Amo l’odore del napalm la mattina. Odora di vittoria». Basta con i letterati morbosi alla Poe. Il cinema, questa sì è maschia arte americana.

Da parte sua, Connelly sembra condividere in tutto la prospettiva di Jack, per il quale, nel migliore dei casi, i libri non sono tutti uguali. Da una parte ci sono “quelli-che-si-studiano-a-scuola”, utili per distillarne qualche minacciosa frase a effetto come accade nel caso di Poe, oppure per rimettere in circolazione oscuri profeti di sventura come il vecchio Bosch. Dall’altra parte, invece, ecco i libri “normali”, quelli che si leggono e scrivono nel mondo reale, consolatorie favole nere di serial killer, personalità multiple e fantasmi vendicatori. Storie che, a loro modo, aiutano a porre una distanza fra noi e la realtà, anche se si tratta di una distanza posticcia, da quinta teatrale.

Michael Noonan, il protagonista di Mucchio d’ossa di Stephen King (1998), è fin troppo consapevole di questa distinzione, ma a differenza del Jack di Connelly sa bene qual è la vera letteratura. Si diverte a scrivere romanzi dai titoli stereotipati (Da uno a due, La promessa di Helen, L’ammiratore di Darcy, L’uomo dalla camicia rossa eccetera), che per sua stessa ammissione appartengono al genere «bella giovane donna sola incontra affascinante sconosciuto», ma quando è necessario può improvvisare una convincente lezione sul significato di Bartleby lo scrivano di Herman Melville. Appena concluso il contratto per la pubblicazione del suo primo libro, domanda ansioso alla moglie: «Nessuno lo confonderà con Look Homeward, Angel, vero?». In realtà, Mike conosce già la risposta: «Io non ero Thomas Wolfe (nemmeno Tom Wolf o Tobias Wolff)», commenta autoironico, «ma venivo pagato per fare quello che amavo e non c’è niente di più bello al mondo; è come avere la licenza di rubare».

Mike sa benissimo di meritarsi la smorfia di rimprovero con cui il suo insegnante di scrittura creativa commenta il manoscritto ricevuto in lettura, ma non può farci niente. Anche se non raggiungono mai la cima della classifica, i suoi libri sono comunque dei best seller che gli garantiscono una vita agiata e non gli impediscono di amare e comprendere la vera letteratura. Da questo punto di vista, Mucchio d’ossa è forse il più colto e consapevole dei libri di King. La vicenda – orrifica la sua parte, ma giocata con delicatezza sui temi dell’amore coniugale e della famiglia – ruota attorno, infatti, a un nucleo compatto di citazioni.

Il titolo, per esempio, viene da una frase attribuita a Thomas Hardy, che secondo King avrebbe dichiarato: «A confronto del più insignificante essere umano che posi effettivamente il piede sulla faccia della terra e vi proietti la sua ombra, anche la più sagace caratterizzazione in un romanzo non è che un mucchio d’ossa». Nel corso del romanzo, la metafora si rivela orribilmente vera (nei pressi della casa di campagna di Mike, rimasto vedovo, è davvero sepolta una malefica bag of bones), ma più che altro diventa l’emblema di quella rinuncia alla scrittura che lo stesso protagonista si prepara a compiere, seguendo l’esempio non soltanto di Hardy, il narratore che negli ultimi anni della sua vita volta le spalle al romanzo per dedicarsi alla poesia, ma anche del già ricordato Bartleby. Le ultime parole del libro, citazione esplicita del racconto di Melville, non lasciano dubbi in proposito: «Ho posato la mia penna da scrivano. Di questi tempi preferisco di no».

Insieme con una serie di valutazioni più o meno divertite, più o meno maligne sui «colleghi» di King, da Danielle Steel allo stesso Thomas Harris, Mucchio d’ossa contiene altre tre importanti serie di citazioni. Una è rappresentata dall’opera di Maugham, che Jo – la moglie morta di Mike – considerava il più grande romanziere inglese del Novecento, di gran lunga più importante del lodatissimo D.H. Lawrence. In uno dei suoi incubi, Mike immagina di ritrovare la donna distesa sotto il letto, con una copia della Luna e i sei soldi che le copre il volto come un sudario. Il punto è che lo scrittore ha davvero ritrovato il romanzo di Maugham in camera, rimanendo incomprensibilmente colpito da una battuta dell’alterco fra Strickland (che nella finzione corrisponde a Paul Gauguin) e il marito della sua amante. D’ora in poi «“Buffo ometto”, disse Strickland», sarà una frase ricorrente nel libro, proprio come i riferimenti a Rebecca di Daphne du Maurier, romanzo che giustifica l’identificazione tra la casa al lago dei Noonan e la dimora stregata di Manderley, sulla quale continua a incombere l’ombra della prima signora de Winter. Terzo e ultimo autore che King manipola con abilità è Ray Bradbury (uno scrittore per il quale l’autore di Shining ha spesso dimostrato ammirazione), che con La terza spedizione, forse uno dei più celebri racconti di Cronache marziane, fornisce al racconto un’altra metafora decisiva: quella della minaccia nascosta sotto la patina ingannevole di una rassicurante quotidianità.

Questo significa, tra l’altro, che in Mucchio d’ossa la letteratura non rappresenta un pericolo, ma una risorsa. Anzi, l’unica risorsa rimasta a Mike – che ormai si considera un ex scrittore, incapace com’è di portare a termine un nuovo romanzo – per tenere testa al dolore che invade la sua vita e all’orrore che la minaccia. Contrariamente a quanto accadeva in Seven, nel libro di King le grandi opere del passato (e tutto sommato anche del presente, come dimostra l’inclusione di Bradbury nel «canone» implicitamente proposto da Mike) non sono affatto porte spalancate sull’abisso, ma una forma potente e accessibile di esorcismo. Non a caso, quando si ritrova a spiegare Bartleby lo scrivano alla giovane e inesperta Mattie – un’incarnazione di Innocenza che può ricordare il Mills di Seven – il protagonista di Mucchio d’ossa fa di tutto per riportare il racconto di Melville sul terreno di una comprensibile, ma non per questo meno emozionante quotidianità:

Immaginati un... un pallone pieno di aria calda. C’è solo una fune a tenerlo legato alla terra e quella fune è il suo impiego da scrivano. Noi possiamo misurare il grado di consunzione di quell’ultima fune con il numero progressivamente crescente delle cose che Bartleby preferisce non fare. Alla fine la fune si spezza e Bartleby vola via.

Si è spesso affermato che, sotto l’esibita propensione per il Grand Guignol, King è uno scrittore molto più tradizionalista, se non addirittura conservatore, di quanto si potrebbe credere. Di sicuro nei suoi libri la distinzione fra Bene e Male è sempre netta, senza alcuno spazio per le ambiguità che attraversano Il silenzio degli innocenti, Seven o Millennium. In questo senso, la teoria della letteratura – minima, ma tutt’altro che minimalista – sottintesa a Mucchio d’ossa rappresenta una conferma significativa. Per King i grandi libri sono e rimangono portatori di salvezza, in una visione che in qualche modo si ricollega alla conversione preterintenzionale del killer Jules in Pulp Fiction. A correre qualche rischio sono semmai i narratori di genere, gli artigiani dell’industria culturale come Michael Noonan o Paul Sheldon, il protagonista di Misery (1987), tenuto prigioniero da una lettrice forsennata che non si rassegna alla sparizione della sua eroina prediletta. Con la sua violenza estrema e paranoica, la storia dell’infermiera-aguzzina Annie Wilkes (un ruolo che nel film Misery non deve morire, diretto nel 1990 da Rob Reiner, ha meritato un Oscar all’attrice Kathy Bates) non fa altro che rappresentare un esempio plastico di come non deve essere un lettore e di come solitamente i lettori, per fortuna, non sono. A proposito: oltre che delle romanticherie di Sheldon, la diabolica Annie è una frequentatrice assidua anche delle opere di William Somerset Maugham. Dal quale, a differenza del John Doe di Seven, sembra aver tratto scarso profitto.