– Fermati. Fermati un attimo.

Anna camminava a pugni stretti sulla salita che dalla cava portava all’hotel, inseguita da Pietro.

– Dove vai? Fermati.

Lei accelerò il passo.

Pietro cercava di starle dietro. – Aspetta… – Le strinse una spalla. – Anna!

La ragazzina si liberò con uno scossone e si inerpicò su una frana che copriva un tornante. Affondò con i piedi nella terra, fece un paio di passi e si inginocchiò senza piú fiato.

– Anna, mi fai parlare?

– Che vuoi?

Pietro deglutí. – C’era Angelica… Non potevo farmi vedere. Lo prendiamo di notte. So dove dormono.

Un sorriso acido increspò le labbra della ragazzina. – Prendiamo? Chi?

– Tuo fratello. Aspettiamo la notte e lo prendiamo. Io e te. Te lo prometto.

Anna piegò la testa di lato, come se Pietro parlasse una lingua straniera. – Sei un minchionaccio. Anzi un cagasotto. E di che parli? Io e te? Ma tu chi cazzo sei? E soprattutto, che cazzo vuoi da me? – Il tono della sua voce cresceva di volume e si rompeva. – Ma io ti conosco? Siamo amici? Fratelli? – Gli mollò uno spintone e Pietro finí giú di culo. – Lasciami in pace, che è meglio, io sono piú cattiva di Angelica. Vai a cercare le scarpe, vai –. A quattro zampe, incespicando, superò la frana e riprese la marcia.

Pietro non la seguí. Urlò: – Ti ho portato io da tuo fratello. Sei uscita in quella maniera… Ho provato a fermarti, ma tu…

Anna si tappò le orecchie.

Quel cagasotto non l’aveva aiutata. E se c’era una cosa che odiava erano i cagasotto.

Superò l’hotel e si avviò su un sentiero che scendeva su un versante della collina nascosto dalla nebbia.

Doveva cancellare dalla mente Astor, Pietro e andarsene via. Immaginò il proprio cuore che si copriva di fango come un alveare difeso da vespe giganti.

Adesso puoi fare quello che vuoi. Sei libera.

Una ventata le aprí la visuale. Su un pendio coperto di spazzatura bruciata, tre grandi vasche di cemento digradavano una nell’altra circondate da palme avvolte nella plastica blu e da grandi sassi ocra. La piú bassa, soffocata da una cappa di vapore, era piena d’acqua che puzzava di uovo marcio. Un rivolo fumante e giallastro sgorgava da un tubo di cemento e finiva nella piscina incrostando i bordi di calcare. Teste apparivano e sparivano tra i vapori come boe in un porto nebbioso.

Anna scese delle scalette, passando accanto a un gruppo che dormiva intorno alle ceneri di un falò. Raccolse una bottiglia mezza piena di liquido nero, come quello che aveva visto distribuire nell’anfiteatro.

Si spogliò nuda, appallottolò i vestiti e li nascose dietro una fila di barili. Si sedette sul bordo della vasca e con uno slancio di braccia si immerse. Il calore le oppresse il petto e si irraggiò nei muscoli indolenziti, strappandole un sospiro di piacere. Sotto, a mezzo metro, sporgeva un sedile. Ci si sedette lasciando la testa fuori. Con le gambe sospese, la nuca contro la parete, l’acqua che le sciabordava nelle orecchie, si attaccò alla bottiglia. L’intruglio le colò denso nello stomaco. Era zuccheroso e amaro.

Sentiva il vociare basso degli altri bagnanti, i passeri sugli alberi, il vento tra le palme.

Astor era diventato grande, se n’era andato. Non la voleva piú.

Meglio cosí.

– Come lo chiamano? Mandolino, – sussurrò divertita.

Il liquido nero faceva effetto. Galleggiava non solo nell’acqua, ma dentro se stessa.

Alcune teste le si avvicinarono come trascinate dalla corrente e le si strinsero intorno.

Le palpebre le pesavano e in quei vapori opalescenti non riusciva a distinguere i volti. Sembravano foche.

Un campanello di pericolo le suonò nel cervello torpido, ma lei non lo ascoltò, stanca di tenere alta la guardia.

Le strapparono la bottiglia di mano. Voleva protestare, ma le parole non le uscirono di bocca. Pensò di spostarsi, ma era troppo faticoso. Chiuse gli occhi. Stordita e distante da tutto, sognava di prendere i pensieri tristi, farne gomitoli e lanciarli in un tunnel buio.

Il sole stampava un alone sulle nuvole di zolfo. Il calore che arrivava dal fondo della piscina portava su alghe, bolle pigre e terra. Le pareva che il bordo opposto si fosse allontanato e che la vasca fosse una grande pentola di brodo fumante in cui un cuoco aveva messo tutto a cuocere.

Mamma a Natale preparava i tortellini con il lesso e le patate. Eccola che poggia la zuppiera sul tavolo del soggiorno. «Questi si mangiano a Bassano». E le versa nel piatto tante ranocchie verdi che nuotano nel brodo chiazzato d’olio.

Dondolava all’interno del proprio corpo, ci cadeva dentro, fluttuando lenta come una piuma in un pozzo dalle pareti di carne, e si ritrovava in una grotta calda e accogliente. Se guardava in alto, sopra di lei, un buco tondo e scuro terminava nella sua bocca. Attraverso le arcate dei denti vedeva scorrere le nuvole.

Quelli intorno le stavano addosso, le si strusciavano contro, qualcuno le spalmava il fango sulla faccia e le parlava con una voce distorta che pareva uscire da un tubo. Sentiva dita sul naso, sulle guance, sulle labbra. Scavavano solchi nella pelle come il cuneo dell’aratro nella terra bagnata.

– Voglio bere, – mugugnò sputando l’acqua fetida che le riempiva la bocca socchiusa.

L’intruglio adesso le sembrava salato. La nebbia cambiava colore, dal grigio al verde e dal verde al rosa.

– Sei bella. Hai già avuto il sangue? – domandò una voce.

Non poteva parlare. Le parole arrivavano sul palato senza la forza necessaria per diventare suoni. Si accumulavano in bocca come gioielli d’argento dal sapore aspro. Sentiva sulla lingua gli spigoli appuntiti di anelli e orecchini. Sollevò una mano. Era trasparente. Sotto la pelle scorrevano rivoli dorati tra fasci di fieno appena falciato.

– Sei molto bella, – sussurrava la voce.

Anna scoppiò a ridere.

Mani le scivolavano sulle gambe e sullo stomaco, le strizzavano i seni e i capezzoli. Dita le esploravano la bocca cercando la lingua, le tiravano le labbra, altre le affondavano tra le cosce. Arcuò la schiena, contorcendosi e allungando le braccia si aggrappò al collo di uno, gli affondò il volto fra i capelli fradici graffiandogli la schiena. Le respiravano nelle orecchie, premevano le labbra contro le sue. Se la contendevano. Le spalancarono le gambe afferrandola per i piedi e reggendola per le ascelle. Urlò quando le morsero forte un capezzolo, ma una mano le tappò la bocca. Con uno scatto rabbioso la coscienza riemerse e Anna cominciò a scalciare, agitando le braccia, si divincolò annaspando e ingoiando la broda che le scese tiepida e fetente per la gola. Tossendo si aggrappò alle sponde della vasca e si allungò sul bordo, ma una morsa le serrò un polpaccio cercando di riprendersela.

Anna stese le braccia e piantò le dita a terra. Affondò il tallone su un naso e riuscí a liberarsi tra le proteste di tutti.

Ansimando, scossa dai brividi, si sollevò in piedi, mani sullo stomaco, continuando a tossire e a sputare. La pelle rosa fumava come se fosse bollita. Fece qualche passo incerto nel freddo, strofinandosi il torace, battendo i denti. Si diresse verso i barili dove aveva nascosto i vestiti ma non c’erano piú.

Si poggiò contro un muretto e a bocca aperta liberò un fiotto caldo e acido che le annaffiò i piedi. Si sentí subito meglio, la testa però continuava a girarle e non riusciva a smettere di tremare. Corse intorno alla piscina, sgusciando tra i corpi. Trovò un golf rosso sbrindellato che le arrivava alle ginocchia. Si arrotolò le maniche. Infilò un paio di scarpe e si diresse barcollando verso le scale.

La collina si inclinava da una parte e lei cercava di raddrizzarla buttandosi dall’altra. Ovunque c’erano figure nere. I muri dell’albergo si flettevano e le venivano incontro come cavalloni di cemento. Terrorizzata, sollevò le braccia per difendersi e indietreggiò, finendo contro qualcuno che la spinse via dicendole: – Le anatre di Pasqua.

Piegata su se stessa, come se l’avessero pugnalata nello stomaco, si avviò verso una baracca.

La porta era sprangata. Girò intorno al prefabbricato mollando pugni sulle pareti di lamiera. Con la fronte contro la grondaia scoppiò a piangere, esausta, lasciandosi scivolare a terra.

La costruzione poggiava su dei blocchi di cemento. Ci si infilò sotto. Lí nessuno l’avrebbe trovata.

Gli effetti dell’intruglio evaporavano dal suo corpo in lente esalazioni verdi.

La festa del Fuoco si celebrò il 2 novembre 2020, il giorno dei morti. Che cadesse in quella data fu sicuramente un caso.

In Sicilia si raccontava che nella notte tra l’1 e il 2 i defunti tornassero dall’aldilà a trovare i parenti e portassero ai bambini regali e dolci. I piccoli si svegliavano e, aiutati dai genitori, trovavano crozzi ’i mottu, pupatelli croccanti e ripieni di mandorle tostate, cioccolatini e altre delizie nascoste tra le coperte, negli armadi e sotto i cuscini dei divani.

Forse alcuni degli orfani del Grand Hotel Terme Elise ricordavano ancora la caccia ai dolcetti, ma la cognizione del tempo era andata persa. Celebrazioni, onomastici e compleanni non significavano piú niente. Ora era la Rossa che scandiva il tempo con macchie, noduli e pustole. Se qualcuno aveva al polso un orologio era per vanità. Nel mercato del baratto un orologio valeva quanto un cellulare, un computer o un Boeing 747. Meno di uno Smarties.

Quando il sole apparve nell’incavo tra due colline di fronte all’hotel erano le sette e dieci del mattino, ma pochi riuscirono a godersi lo spettacolo.

Molti avevano smesso di soffrire durante la notte. In tanti dormivano sfatti dall’alcol, dalle medicine e dalle Lacrime della Picciridduna. Altri, agli sgoccioli, fissavano il vuoto con le pupille ghiacciate e le labbra contratte, come mistici in preda alle visioni, o si dibattevano squassati dalla tosse, bruciati dalla febbre, soffocati dal catarro. Altri ancora si aggiravano avvolti nelle coperte, ingobbiti e con le gambe sottili da marabú, alla ricerca di avanzi, di qualcosa da mangiare.

Il puntino solare si sciolse come burro in una padella nera, si allargò in una cupola arancione, lasciò le colline tingendo il cielo di schiume violacee e spinse i suoi raggi fino all’albergo. Alle otto e dieci si insinuò sotto la baracca.

Anna, sospesa tra veglia e sonno, lo avvertí sul collo e attraverso le palpebre chiuse. Una morsa le serrava la testa, lo stomaco le doleva, ma l’effetto della droga era svanito. Strinse le dita e si passò la lingua sui denti. Non ricordava come era finita lí e nemmeno quello che era successo nella piscina, però sentiva ancora addosso le mani rapaci dei ragazzini. Fu scossa da un brivido di imbarazzo. Aprí gli occhi e mise a fuoco, a pochi centimetri dal naso, le assi del pavimento della baracca coperte di ragnatele.

Doveva andare via da quel posto.

Sgusciò da sotto il prefabbricato e strizzò gli occhi abbagliata dal sole. La folla era aumentata e non c’era piú uno spazio libero. Tutti erano accampati attorno a fuochi spenti e si riparavano dal freddo con teli di plastica, coperte e cartoni. La stradina che portava all’uscita era percorsa da un flusso che s’intrecciava nei due sensi.

Anna si diresse verso i cancelli passando sopra l’anfiteatro. Il sole scintillava sui cocci di bottiglia, sulle lattine e sulle stagnole colorate delle merendine. Gli spalti erano una distesa di malati da cui si levava un coro di rantoli, colpi di tosse e lamenti. I guardiani trascinavano via quelli che non avevano superato la nottata e li ammucchiavano sotto le colonne. Una ragazzina dai lunghi capelli rossi cantava accanto a un corpo senza vita.

Si avviò nel passaggio coperto che portava ai cancelli, ma controcorrente era difficile avanzare. Si ritrovò schiacciata contro il muro. Nessuno controllava piú gli ingressi.

Si domandò dove stesse andando.

Il Podere del gelso era stato profanato e andare in Calabria senza Astor non aveva senso. Niente aveva senso senza Astor. Lei era cresciuta intorno a suo fratello come un albero cresce intorno al filo spinato, si erano fusi insieme e ora erano una cosa sola.

Fissò i volti scavati, gli occhi spenti dei ragazzini che spingevano per entrare.

Era una di loro, una dei tanti confusa in quella folla di disperati, una sardina in un banco di sardine che la Rossa avrebbe divorato, come un tonno affamato, senza stare troppo a scegliere.

Lasciò che la calca la trascinasse di nuovo indietro.

Tra due scavatori arrugginiti, dei ragazzini, tutti maschi, si erano ricavati un angolo riparato e alimentavano un fuoco con pezzi di cartone e legno. Si passavano scatolette e confezioni di biscotti.

Anna li osservava da qualche metro con l’acquolina in bocca, si fece coraggio, si avvicinò e chiese: – Mi date qualcosa?

Quelli si guardarono.

Anna giunse le mani in una preghiera silenziosa.

Chissà, forse riuscirono a vederne la bellezza nascosta sotto le ciocche di capelli lerci e lo sporco che le copriva il volto, o semplicemente provarono pena, fatto sta che le fecero segno di sedersi e le passarono un vasetto.

Anna tirò fuori un cetriolo sott’aceto moscio e viscido che le sembrò delizioso. Lo finí in un attimo e con le dita cercò nel fondo del vasetto i rimasugli.

Vedendola cosí affamata, un tipo rapato, dai tratti femminili, rovistò dentro un borsone che teneva tra le gambe e le allungò un barattolo.

Anna, senza nemmeno leggere cosa fosse, svitò il coperchio e si mise la poltiglia in bocca. Era insapore. Senza chiedere permesso prese da terra una bottiglia di Sprite e ci si attaccò. Osservò i ragazzini. Indossavano tutti una canottiera rossa e stretta, con il numero sulla schiena, e tra le loro cose c’era un pallone arancione.

Scoprí che erano i sopravvissuti di una squadra di minibasket di Agrigento. Dopo l’epidemia si erano riuniti nella loro palestra e lí avevano vissuto insieme negli ultimi quattro anni, organizzando gruppetti di raccoglitori. I piú grandi oramai erano morti. Per arrivare fino all’hotel ci avevano messo tanto e gli era capitato di tutto. Erano stati attaccati dai cani, poi da un gruppo di ragazzini che di notte li aveva derubati e picchiati senza ragione. Il loro playmaker era stato accoltellato e l’ala destra era stata morsa da una vipera mentre attraversavano un campo.

– Ma tu sai quando c’è la festa? – le chiese un biondino scostandosi la frangetta davanti agli occhi.

– Non so niente –. Anna aveva adocchiato un barattolo di pesto vicino alla brace. Adorava quella salsa verde.

– Dicono che la Picciridduna sia altissima. Piú di due metri –. Intervenne un altro lungo e sottile come un insetto stecco, che doveva essere il capitano della squadra.

Quello rapato non era d’accordo. – No, dicono che è bella. La tengono chiusa nella stanza 237 dell’albergo.

Ognuno aveva la sua teoria.

Anna prese un’altra sorsata di Sprite. – Lo sapete perché non la fanno vedere?

Gli altri la fissarono in silenzio.

– Perché non esiste nessuna Picciridduna. È una bugia. I Grandi sono tutti morti.

Quello sottile protestò. – Ma questa è speciale. È riuscita a resistere. È… Come si dice?

– Immune, – concluse un altro con un cappello di lana calato sulla fronte. – Nel suo sangue ha la sostanza che distrugge il virus.

Anna fece un ghigno cattivo e ribadí: – I Grandi sono tutti morti, non ve lo ricordate? – Puntò l’indice verso l’albergo. – ’Sto casino serve solo a quelli con le collane per farsi dare le cose quando entri. Scommetto che non ci sarà nessuna festa, vi prendono in giro.

I ragazzini si zittirono puntando gli occhi sulle fiamme.

Uno che era rimasto in disparte e aveva le labbra piene di pustole e croste parlò con una vocina fiacca. – Ti sbagli tu. Esiste. Esiste eccome –. E tossí come se dovesse sputare fuori i polmoni. – La bruceranno, mangeremo la cenere e la Rossa ci passerà.

– Se volete crederlo, fate pure –. Prese il vasetto di pesto, ci infilò l’indice dentro e se lo leccò.

L’atmosfera era cambiata. Ora la fissavano con occhi meno amichevoli.

Anna si passò la lingua sulle labbra. – Lo mangiavo sempre con la pasta.

Quello malato sospirò con un filo di voce. – Tu perché sei qui? – Prima del morbo doveva essere stato grasso, adesso aveva la pelle appesa allo scheletro come un vestito a una gruccia.

– Ero venuta a cercare uno... Ma non c’era. Tra poco me ne vado.

– Vattene subito, – le disse il capitano. – Noi siamo sicuri che ci salveremo perché siamo i piú forti… – Guardò gli altri e portò la mano all’orecchio. – Chi siamo noi?

– Il San Giuseppe Club! – urlarono tutti insieme sollevando le braccia.

Anna si alzò e cercò un muretto libero dove sedersi.

A qualche metro da lei un gruppetto di ragazzini razzolava nella spazzatura litigandosi una coperta.

Passò il resto della giornata cercando cibo e sonnecchiando. Aveva tentato di entrare dentro l’albergo, ma non aveva la collana e l’avevano cacciata via.

Girava voce che la festa del Fuoco sarebbe stata quella notte. Qualcuno aveva visto gruppi di guardie costruire barricate giú alla cava e si raccontava addirittura di un camion che si muoveva.

Perfino Anna si stava convincendo che qualcosa sarebbe successo. Erano tanti e l’attesa era cresciuta troppo, si rischiava una rivolta.

Vagava tra la folla senza meta. Accendini, candele, torce elettriche brillavano nel nero della notte e lenzuoli si gonfiavano come vele luminose sui corpi stesi. I falò sprizzavano scintille e divoravano ruote, legna, plastica e tutto quello che era combustibile. Le percussioni battevano un ritmo veloce e sempre uguale. Un paio di volte le capitò di incrociare Pietro. Le ronzava attorno senza il coraggio di avvicinarsi.

La stanchezza le aveva rallentato i pensieri, che scorrevano lenti e poco importanti.

Qualcuno le toccò una spalla. – Scusa…

Si girò e si trovò di fronte una specie di scimmione. Aveva una testa ovale che pareva modellata nel pongo, con il naso rincagnato e due occhietti neri. Le spalle gli scendevano scoscese come falde di un tetto. Si era dipinto la faccia di rosso e di bianco e la bocca di verde come per andare a una partita dell’Italia. Era nudo, se si escludeva un paio di mutandoni tenuti da un elastico nero con su scritto «Sexy boy» che gli fasciavano le chiappe. La indicò. – Il golf è mio. Me lo hai preso alla piscina.

Anna si strinse tra le mani il maglione sbrindellato. – Parli di questo?

– Sí. Potresti ridarmelo? – Aveva problemi con le r e con le p.

La ragazzina sollevò le spalle.

– Era di mio nonno Paolo, – spiegò Mutandone. Le fiamme dei falò brillavano su un sorriso troppo candido e perfetto che si muoveva per conto suo rispetto alle labbra.

Una vocina assennata implorò Anna di tacere, ma lei la ignorò. – Pure la dentiera era di nonno Paolo?

L’altro cambiò tono e cominciò a sputacchiare. – Ridammelo. Sennò…

– Sennò cosa? – Anna si accorse che il torpore che si era portata appresso tutto il giorno era scomparso. L’adrenalina l’infiammò e si sentí viva, litigiosa. – Va bene. Eccolo –. Con un urlo gli si scaraventò addosso centrandolo con la testa nel pancione gonfio. Fu come colpire lo sportello di un frigorifero. Ci rimbalzò contro e si ritrovò a terra fra un capannello di spettatori che puntavano le torce pregustando lo spettacolo.

Mutandone, mani sui fianchi, la guardava indeciso. – Che volevi fare?

Anna si rialzò, scrollò la testa e caricò di nuovo, ma una mano larga come una pala per la pizza l’aspettava per stamparle un ceffone.

Roteò su un piede come una ballerina sgraziata e cadde picchiando con la clavicola contro lo spigolo del muretto che delimitava la stradina. Una fitta le attraversò la spalla.

Quelli intorno si sgolavano incitando Mutandone, che spalancò le braccia e strinse i pugni. – Me lo ridai o no?

Anna osservò il cielo. Le stelle erano forellini tremolanti da cui filtrava la luce di un immenso sole nascosto sotto la tela della notte. Sui denti sentiva il sapore metallico del sangue.

Questo ti ammazza. Dagli il golf e finiscila, le consigliò la vocina assennata.

Ma il pubblico la spingeva a combattere e non poteva deluderlo. Quello era solo uno scimmione, parente dell’altro che gli aveva portato via il fratello.

Sputò uno schizzo di sangue. – Ho capito chi sei. Tu sei il Picciriddune.

Mutandone non si divertí e con due morse le strinse il braccio e il polpaccio e la sollevò in aria come un bambolotto di pezza. Anna chiuse le dita e con un pugno preciso lo colpí sul naso a ciabatta. Gli occhi del bestione esplosero, sputò la dentiera e si portò le mani al volto, lasciandola cadere.

Il pubblico, traditore, cominciò a fare il tifo per lei. Due spettatori si contendevano la protesi come fosse una pallina finita tra gli spalti del Roland-Garros.

Anna si rialzò, fece due saltelli e gli mollò un calcio cercando di centrargli i coglioni. Lo prese nell’interno coscia.

Quello si piegò su se stesso, frignando. Anna tirò su le braccia aizzando il pubblico e dimenticando l’unica vera regola che conta quando fai a botte: non perdere mai di vista il tuo avversario.

Mutandone le si gettò addosso a braccia larghe e la colpí su un fianco, facendola finire di schiena tra calcinacci e spazzatura. La botta le strappò l’aria dai polmoni. L’orco scavalcò il muretto e le calò un pugno gigantesco su una spalla.

La schiena di Anna si inarcò, la sua testa si sollevò. Cacciò un urlo sfiatato e ricadde giú assordata dai propri rantoli. Facce, braccia, fiamme si diluivano e si addensavano in sprazzi di luce giallastra. Vedeva il suo avversario, imponente come una montagna, che stringeva tra le mani un bastone e la folla che ondeggiava al rallentatore come palline tra le onde del mare.

Fra tutte le morti possibili quella era la piú stupida: ammazzata da uno che rivoleva il golf di nonno Paolo.

Anna si coprí la testa con le braccia e strizzò le palpebre.

Un’esplosione fece vibrare la collina.

Riaprí gli occhi.

Sulla volta stellata del cielo un’ortensia vermiglia proiettò delle parabole gialle che si spensero oltre i muri dell’albergo. Fu seguita da una sfera verde che sprizzò aculei bianchi e da scoppi meno luminosi, ma piú sonori, che rimbalzarono nella vallata.

Mutandone, gli occhietti che brillavano di luci colorate, lasciò cadere il bastone e si mise ad applaudire con le mani tozze. Tutti guardavano in alto e spalancavano la bocca meravigliati.

Qualcuno urlò: – La festa del Fuoco è iniziata.

Come un organismo pluricellulare, la massa che bivaccava intorno all’hotel allungò le sue propaggini umane sui costoni della collina, intasò sentieri e stradine, superò le distese di spazzatura, attraversò i boschetti, scalò i cumuli di calcinacci e si diresse urlando verso la cava.

La rete che sbarrava la strada era stata rimossa. Un fiume di ragazzini si riversò sulla sterrata guidato dai fuochi appiccati in fondo alla valle. Alcuni, nel buio, precipitavano sulle rocce e scivolavano nei ghiaioni, altri furono schiacciati.

Dall’anfiteatro convergevano verso il piazzale anche gruppi di febbricitanti, sciancati e pustolosi. C’era chi si trascinava reggendosi sulle stampelle, chi si sosteneva a un compagno e chi si arrendeva e si lasciava travolgere dalla corrente.

Anna, mezza acciaccata, si ritrovò a combattere contro centinaia di braccia, di spalle, di volti terrorizzati, di corpi ammassati uno contro l’altro. Un’onda la pressava e la spingeva in avanti.

Si voltò e vide un cammello. Il testone ondeggiava snodato a destra e a sinistra. Sulla groppa, avvinghiati, tre ragazzini con delle fiaccole in mano. Lanciando bramiti disperati l’animale falciava chiunque intralciasse la sua corsa. La lingua gli pendeva dalla bocca come una enorme lumaca livida. Anna scartò di lato e si gettò a terra lasciando che la superasse. Quando si rialzò e riprese a correre vide il culo spelacchiato del quadrupede oramai lontano, immerso tra due ali di folla. Un paio di disperati si erano attaccati alla coda e si facevano trascinare cercando di rimanere in piedi.

Anna arrivò in fondo alla strada e si trovò di fronte una distesa oscura di teste che fluttuava coprendo il piazzale, spingendosi fin sulle collinette di sabbia e sui ghiaioni. La valletta era divisa in due da una lunga striscia di spazzatura che bruciava sollevando lingue di fuoco. Da una parte era compresso il pubblico, dall’altra, velata da un sipario di fumo denso, c’erano la gru con lo scheletro, i mucchi di ossa e l’autocisterna su cui si era nascosta con Pietro il giorno prima. Provò a fendere la calca ma, fatti pochi metri, rinunciò. Il profilo del capannone emergeva nella ressa come un’isola di lamiera. Nei bagliori rossastri figure piccole come formiche si arrampicavano sui tralicci che sostenevano la struttura.

Bordeggiò la folla e si fece largo tra quelli che tentavano la scalata. Sui piloni si era formata una colonna umana e alcuni, non trovando dove afferrarsi, ricadevano su chi stava sotto.

Anna si aggrappò alle traversine arrugginite, a spalle, a braccia, poggiò i piedi sopra teste e arrivò sul tetto di ondulato. Sotto il peso di centinaia di ragazzini la lamiera si fletteva. Riuscí a trovare uno spazietto proprio sulla falda e si sedette.

La barriera di fuoco divorava crepitando pneumatici e plastica, offuscando le stelle e la luna. Ora regnava uno strano silenzio, interrotto solo dal rombo di un motore a scoppio che sferragliava da qualche parte nel buio.

– Adesso che succede? – le chiese una ragazzina che le stava accanto. Aveva un braccio fasciato con delle bende sporche e una mano con tre dita.

– Non lo so, – rispose Anna.

Passò un po’ di tempo e la folla tornò a rumoreggiare.

All’improvviso si sentí una musica forte e la voce di una donna amplificata e distorta cantò. «Se vuoi andare ti capisco… Sí… Ancora… Di pigliarmi ancora… Sensuale sul mio cuore… Perché ti amo ancora…»2

Si levò un boato.

Sul tetto qualcuno gridò che era la Picciridduna a cantare.

Uno dopo l’altro si accesero tre fari elettrici e trasformarono il fumo in una cappa iridescente che si rifletteva su migliaia di volti attoniti.

Il pubblico prese un unico sospiro e rispose con un «ohhh» meravigliato.

– Che c’è lí? – La ragazzina con tre dita indicò qualcosa sopra la cortina di fuoco. – Guarda.

Una sagoma scura, immensa, si condensava nella nebbia. Un refolo di vento soffiò nella valle e apparve il grande scheletro che galleggiava in aria appeso per la testa.

Si muoveva lento e dinoccolato. Sollevava un braccio e abbassava l’altro, piegava una gamba e stendeva l’altra, pareva un astronauta nello spazio. Squadre di piccoli diavoli blu, appesi a funi fissate ai polsi, ai gomiti, alle ginocchia e alle caviglie della marionetta, venivano trascinati in aria e tornavano giú bilanciando il peso degli arti.

Il gigante sembrava sul punto di scavalcare la cortina di fuoco. Sotto i riflettori le ossa con cui era decorato fremevano come una pelliccia.

La massa eccitata si spintonava, schiacciandosi contro le fiamme, ma il calore la respingeva indietro.

Poi fu un uomo a cantare: «L’ascolteranno gli americani che proprio ieri sono andati via e con le loro camicie a fiori colorano le nostre vie e i nostri giorni di primavera… E dei tuoi occhi cosí belli…»3

Di fronte a quello spettacolo di musica e luci elettriche tutti quelli sul tetto si alzarono in piedi e si abbracciarono con gli occhi lucidi.

Solo i Grandi possono fare una cosa del genere, pensò Anna, mentre la vicina le stringeva la mano ripetendo: – Non è vero… Non è vero.

Un proiettore si abbassò e scivolò sopra le migliaia di teste dipingendole di luce e facendole saltare eccitate. Il fascio si spostò abbagliando quelli accampati sul tetto che cominciarono a battere i piedi trasformando il capannone in un tamburo.

All’interno della costruzione un motore si accese e partí una sirena.

Anna, accecata, si aggrappò alla falda. In basso centinaia di ragazzini picchiavano i pugni contro le pareti.

Il motore salí di giri e le porte si spalancarono, spingendoli indietro. Il muso verde di un camion fece capolino.

Anna lo vide incunearsi nella folla come una nave rompighiaccio, puntando verso lo scheletro. La massa si apriva per farlo passare e subito si richiudeva. Il lungo pianale di carico aveva le sponde abbassate. Sopra, decine di bambini blu impugnavano bastoni e fiaccole come fossero su un carro di carnevale.

Al centro, nei viluppi di fumo nero, su una pedana, tra Rosario e Angelica che incitavano la folla, era incatenato uno strano essere alto e rinsecchito. Aveva la pelle cosí bianca che non doveva mai essere stato al sole. Le braccia ricadevano lunghe e dritte. Una fila di cunette puntute gli percorrevano la schiena. Il cranio calvo e allungato era troppo grande per le orecchie piccole e carnose. Una barba stenta, venata da striature grigie, gli scendeva come un bavaglio e si posava su un seno femminile che cascava floscio sulle costole scavate.

– La Picciridduna! – urlarono quelli sul tetto, e si sporsero in avanti per vederla meglio.

Cinque, sei, spinti da quelli dietro, precipitarono sulla folla, che li inghiottí.

Anna faticava a mantenere l’equilibrio ma non riusciva a smettere di guardare lo strano essere.

Aveva la fronte bassa, tonda e senza sopracciglia. Un sorriso ebete gli abitava la bocca sdentata da cui un rivo di bava colava sulla barba brizzolata. Gli occhietti scuri come onice erano impauriti. Scuoteva il testone come se volesse scacciare uno sciame di vespe.

In quello sguardo Anna riconobbe l’idiozia.

Le tornò in mente Ignazio, il figlio della donna che veniva una volta a settimana al podere a fare le pulizie. Al poveretto, quando era nato, era mancata l’aria, ed era rimasto scemo. Si rotolava a terra sbavando, con il capo contratto su una spalla, e mangiava tutto quello che trovava, cacca compresa.

Anna si chiese perché la Rossa avesse risparmiato la Picciridduna. Forse perché era mezzo uomo e mezza donna. Di sicuro non era un vero Grande.

Non salverà nessuno. Nemmeno se stessa.

Un sorriso amaro si formò sulle labbra della ragazzina mentre tutti, impazziti, si lanciavano sul carro cercando di toccare l’essere deforme, ma i blu li respingevano a bastonate.

Suo fratello era in fondo al camion, e come gli altri combatteva contro orde di mani che tentavano di tirarlo giú.

Anna lo chiamò con tutto il fiato che aveva ma la sua voce si perse tra le urla, la sirena e il crepitio del fuoco.

Guardò in basso. Per un secondo fu tentata di saltare, poi si diresse a quattro zampe verso il traliccio da cui era salita. Al centro il tetto si era sfondato e un intrico di corpi si agitava all’interno della rimessa.

Lottò con gli altri per scendere afferrandosi a capelli e magliette. A metà non ce la fece piú e si lasciò cadere tra la folla, che l’accolse. Insieme ad altre centinaia di ragazzini si lanciò dietro il camion.

Fu sospinta prima avanti poi indietro da correnti umane che si scontravano urlando.

Lontano, il camion strombazzava dirigendosi verso lo scheletro, mentre grappoli di ragazzini isterici si aggrappavano alle sponde e alla cabina. Entrò nel fuoco con tutto il suo seguito.

Quello che successe dopo Anna non lo vide, era troppo distante, ma con una vampata la marionetta prese fuoco, arse in pochi secondi fino alla testa trasformandosi in una torcia che mise a giorno la cava. Un braccio infuocato si staccò dal busto e un rogo si allargò avvolgendo l’autocisterna.

Il piazzale era un formicaio impazzito, tutti scappavano in ogni direzione, e Anna, immobile, fissava l’inferno in cui si era diretto suo fratello.

Il mondo esplose.

L’autocisterna, con un boato, divenne una palla rossa. Si sollevò nella notte e si gonfiò, schizzando meteore che lasciavano dietro scie luminose e finivano fischiando tra la folla e sulle colline di sabbia, e incendiavano i pini sui costoni. L’onda d’urto, come uno schiaffo arroventato, respinse indietro Anna e le bruciò la faccia, il collo, le ciglia, le entrò in bocca fino in fondo ai polmoni.

La sfera implose sprigionando una cappa nera e spessa che calò sulla valletta. Nella nebbia perlacea emergevano vortici di fuoco e figure nere apparivano e sparivano risucchiate dai fumi.

Anna si rialzò e cominciò ad avanzare. Strizzava le palpebre cercando di ripulire gli occhi dalle lacrime. Tossiva, intossicata dalle esalazioni acri della benzina. Una bambina le venne addosso a testa bassa e si ritrovò in terra. Si rimise in piedi e riprese a camminare verso l’incendio. Suo fratello era lí. Il calore le scottava le gambe e si chiese se le stessero avvampando i capelli.

Qualcuno, da dietro, l’afferrò per una spalla. – Anna.

Lei scosse il capo e non si girò.

– Anna.

Questa volta le prese il polso.

Pietro, nero di fuliggine, la maglietta strappata, stringeva in braccio un bambino che poggiava la testa sulla sua spalla.

La ragazzina si avvicinò portandosi le mani al viso.

Il bambino sollevò appena il capo, la guardò e allungò un braccio. – Anna.

2 Versi tratti dalla canzone di Mina Ancora ancora ancora (C. Malgioglio / G. Felisatti).

3 Versi tratti dalla canzone di Amedeo Minghi 1950 (G. Chiocchio / A. Minghi).