Anna correva sull’autostrada stringendo le cinghie dello zaino che le rimbalzava sulla schiena. Ogni tanto girava la testa.

I cani erano ancora lí. Uno dietro l’altro in fila indiana. Sei, sette. Un paio piú malconci si erano persi per strada, ma quello grosso, davanti, si avvicinava.

Due ore prima li aveva scorti in fondo a un campo bruciato apparire e sparire tra le rocce scure e i tronchi anneriti degli ulivi, ma non ci aveva dato peso.

Le era già capitato di essere seguita da branchi di cani selvatici, ti venivano dietro per un po’, poi si stancavano e se ne andavano per i fatti loro.

Ma quando non li aveva visti piú aveva tirato un sospiro. Si era fermata a bere l’acqua che le restava e aveva ripreso a camminare.

Marciando le piaceva contare. Contava quanti passi ci volevano per fare un chilometro, contava le macchine blu e quelle rosse, contava i cavalcavia.

Poi i cani erano riapparsi.

Erano creature disperate, alla deriva in un mare di cenere. Ne aveva incontrati tanti, con i buchi nel pelo, i grappoli di zecche che gli pendevano dalle orecchie, le costole di fuori. Si sbranavano per i resti di un coniglio. Gli incendi dell’estate avevano bruciato la pianura e c’era rimasto poco o niente da mangiare.

Superò una fila di automobili con i vetri sfondati. Erbacce e grano crescevano intorno alle carcasse coperte da uno strato di cenere.

Lo scirocco aveva spinto le fiamme fino al mare e aveva lasciato dietro di sé un deserto. La striscia di asfalto dell’A29, che univa Palermo a Mazara del Vallo, tagliava in due una distesa morta da cui si sollevavano gli spunzoni anneriti delle palme e qualche pennacchio di fumo. A sinistra, oltre i resti di Castellammare del Golfo, uno spicchio di mare grigio si impastava con il cielo. A destra una fila di colline basse e scure galleggiavano sulla pianura come isole lontane.

La carreggiata era ostruita da un camion rovesciato. Il rimorchio aveva disintegrato lo spartitraffico e lavandini, bidè, gabinetti e schegge di ceramica bianca erano sparsi per decine di metri. La ragazzina ci passò in mezzo.

La caviglia destra le faceva male. Ad Alcamo aveva aperto a pedate la porta di un alimentari.

E pensare che fino ai cani era andato tutto per il verso giusto.

Era partita che era ancora buio. Ogni volta era costretta ad allontanarsi di piú per cercare da mangiare. Prima era facile, bastava andare a Castellammare e trovavi quello che volevi, ma gli incendi avevano complicato tutto. Aveva marciato per tre ore sotto il sole che montava in un cielo slavato e senza nuvole. L’estate era finita da un pezzo, ma il caldo non mollava. Il vento, dopo aver attizzato il fuoco, era sparito come se quella parte di creato non gli interessasse piú.

In un vivaio, accanto a un cratere lasciato da una pompa di benzina esplosa, aveva trovato uno scatolone pieno di cibo sotto dei teloni impolverati.

Nello zaino aveva sei barattoli di fagioli Cirio, quattro di pelati Graziella, una bottiglia di Amaro Lucano, un grosso tubetto di latte condensato Nestlé, un pacco di fette biscottate rotte ma ancora buone da sciogliere nell’acqua e una confezione da mezzo chilo di pancetta sottovuoto. Non aveva resistito, la pancetta se l’era mangiata subito, in silenzio, accovacciata sopra i sacchi di terriccio impilati sul pavimento coperto di escrementi di topo. Era dura come cuoio e cosí salata che le aveva arso la bocca.

Il cane nero guadagnava terreno.

Anna accelerò, il cuore che pompava a ritmo con i passi. Non avrebbe retto tanto. Doveva fermarsi e affrontarli. Se almeno avesse avuto un coltello. Ne portava sempre uno con sé, ma quella mattina lo aveva dimenticato. Era uscita con lo zaino vuoto, una bottiglia d’acqua.

Il sole era a quattro dita dall’orizzonte. Una palla arancione invischiata in una bava viola. Questione di poco e la pianura se lo sarebbe inghiottito. Dall’altra parte la luna era sottile come un’unghia.

Si girò.

Il cane era ancora lí. Gli altri, uno dopo l’altro, avevano mollato, lui no. Nell’ultimo chilometro non si era avvicinato, ma lei correva, lui trotterellava.

Forse stava aspettando il buio per attaccare, però le sembrava improbabile, i cani non ragionano. E in ogni caso lei non avrebbe retto fino al buio. La caviglia le pulsava e il dolore le aveva indurito il polpaccio.

Superò un cartello verde. Cinque chilometri a Castellammare. Per correre dritta seguiva la striscia tratteggiata in mezzo alla strada. Se non fosse stata assordata dal proprio respiro e dai piedi che battevano sull’asfalto avrebbe sentito il silenzio. Non c’era un filo di vento, né uccelli, né grilli, né cicale.

Quando passava accanto a un’automobile la stanchezza le sussurrava di entrarci, ma il cervello le suggeriva di non farlo. Poteva provare a lanciargli le fette biscottate, oppure scavalcare la rete di recinzione, solo che aveva le maglie strette e non aveva visto buchi da cui passare.

Sullo spartitraffico gli oleandri sopravvissuti al fuoco erano carichi di fiori rosa e i rami ricadevano pesanti. Il profumo dolciastro si mischiava a quello di bruciato.

La barriera era alta.

Ma tu sei il canguro, si disse.

A scuola la Pini, l’insegnante di ginnastica, la chiamava il canguro perché saltava piú dei maschi. Ad Anna non piaceva quel soprannome, i canguri hanno le orecchie a sventola. Avrebbe preferito il leopardo, che sa saltare ed è molto piú bello.

Si sfilò lo zaino e lo lanciò oltre le piante. Prese la rincorsa, poggiò un piede sul cordolo di cemento, passò tra i rami e si ritrovò nell’altra corsia.

Raccolse lo zaino e ansimando contò fino a dieci. Sollevò un pugno e sorrise. Aveva un bel sorriso pieno di denti bianchi che raramente mostrava.

Si incamminò zoppicando. Adesso non le restava che superare la rete ed era salva.

Dall’altra parte una scarpata finiva su una stradina che correva parallela all’autostrada. Non era il punto migliore per scavalcare con la caviglia ridotta cosí. Posò lo zaino e si voltò.

Vide il cane sbucare dagli oleandri e galoppare verso di lei.

Non era nero, ma bianco, il mantello era ricoperto di cenere e aveva un orecchio mozzo. Era il cane piú grande che avesse visto in vita sua.

E se non ti muovi ti mangia.

Si aggrappò con le mani alle maglie della recinzione ma le braccia erano paralizzate dalla paura. Si girò e scivolò a terra.

L’animale falcò gli ultimi metri di autostrada e con un balzo superò il guardrail e il canale di scolo. La sagoma scura offuscò la luce del crepuscolo arrivandole addosso con i suoi quaranta chili di fetore rognoso.

Anna sollevò un gomito e lo affondò tra le costole del cane, che si sgonfiò e le stramazzò accanto. Si tirò su.

La bestia era stesa sull’erba. Uno stupore quasi umano gli attraversava le pupille nere come carbone.

La ragazzina afferrò lo zaino da terra e urlando lo colpí. Una, due, tre volte. Prima in testa, poi sul collo, e di nuovo in testa. Quello guaiva sbalordito, tentando di rialzarsi. Anna ruotò su se stessa come un lanciatore del peso che prende lo slancio, compiendo un cerchio perfetto, ma la cinghia si strappò e perse l’equilibrio. Puntò la gamba, la caviglia dolorante non la sostenne. Cadde.

I due, uno accanto all’altro, si fissarono, poi il cane, ringhiando, si contrasse e le si avventò contro a fauci spalancate.

Anna sollevò il piede sano e gli affondò il tallone nello sterno spedendolo di schiena contro il guardrail.

L’animale atterrò su un fianco. Ansimava, la lunga lingua che gli si arricciava sotto il naso e gli occhi ridotti a fessure buie.

Mentre il cane tentava di rialzarsi Anna cercò qualcosa con cui finirlo. Una pietra, un bastone, ma non c’era nulla, solo immondizia bruciata, buste di plastica, lattine accartocciate.

– Che cosa vuoi da me? Lasciami in pace! – gli urlò. – Che ti ho fatto di male?

La bestia la fissava con gli occhi carichi d’odio, sollevando le labbra nere e mostrando le zanne giallastre e le bolle di bava tra i molari. Un ringhio basso e minaccioso gli vibrava nel petto.

La ragazzina si allontanò sbandando a destra e a sinistra, inciampando nei lacci delle scarpe. Gli oleandri, il cielo scuro, lo scheletro annerito di un casolare senza tetto sfocavano e riapparivano a ogni passo. Si fermò e guardò indietro.

Il cane la seguiva.

Anna zoppicò fino a una station-wagon blu con il muso accartocciato. La portiera davanti era spalancata e mancava il vetro al lunotto posteriore. Con le ultime forze ci si infilò dentro e tirò la porta, ma era bloccata. Provò con entrambe le mani. Lo sportello cigolò sui cardini arrugginiti e rimbalzò contro la serratura ossidata. Ci riprovò, niente. Alla fine la chiuse annodando intorno alla maniglia la cintura di sicurezza. Poggiò la testa contro il volante e rimase a occhi chiusi a gonfiarsi e sgonfiarsi dell’aria satura di escrementi di uccello. I vetri coperti di cenere e polvere rendevano l’abitacolo scuro.

Sul sedile del passeggero le faceva compagnia uno scheletro ricoperto di guano bianco. I resti incartapecoriti del piumino Moncler si erano fusi con la tappezzeria della poltrona, e dagli squarci nel tessuto spuntavano piume e costole gialle. Il cranio penzolava sul petto tenuto dai tendini rinsecchiti. Ai piedi portava degli stivali scamosciati con i tacchi alti.

Anna passò sul divano posteriore, lo scavalcò, si allungò nel bagagliaio e si avvicinò al lunotto sfondato. Non aveva il coraggio di affacciarsi, ma il cane sembrava scomparso.

Si accoccolò accanto a due trolley svuotati. Incrociò le braccia sul petto infilando le mani sotto le ascelle sudate. Aveva consumato l’adrenalina e faticava a tenere gli occhi aperti. Le sarebbero bastati cinque minuti di sonno. Afferrò le valigie e cercò di incastrarle nel riquadro nella finestra. Una era troppo piccola, l’altra riuscí a farcela stare spingendo con i piedi.

Si carezzò le labbra. Lo sguardo le finí su una pagina di quaderno sporca. Sopra c’era scritto in stampatello: AIUTO PER L’AMORE DI DIO!

Doveva essere stata quella davanti.

Diceva che si chiamava Giovanna Improta, che stava morendo e che aveva due bambini a Palermo, Ettore e Francesca, all’ultimo piano di via Re Federico 36. Avevano solo quattro e cinque anni e sarebbero morti di fame se qualcuno non andava a salvarli. Nel cassetto del comò dell’ingresso c’erano cinquecento euro.

Anna gettò via il foglio, poggiò la nuca contro il finestrino e chiuse gli occhi.

Si risvegliò di colpo immersa nell’oscurità e nel silenzio. Ci mise qualche secondo a ricordarsi dov’era. Per un attimo le balenò l’idea di uscire a fare pipí, ma ci ripensò. Non c’era la luna. Sarebbe stata cieca e indifesa.

Aveva una regola. Trovare sempre un rifugio prima che il sole calasse. Un paio di volte era stata sorpresa dal buio, e si era dovuta nascondere nella prima casa che capitava.

Meglio farla nel bagagliaio e spostarsi sul sedile posteriore. Si sbottonò i pantaloncini. Mentre li abbassava un rumore improvviso, come un ramo che si spezza, le strozzò il respiro. Un rumore di cani che annusano.

Si tappò la bocca e cadde con il sedere nudo sulla moquette, cercando di non respirare, di non tremare, di non muovere nemmeno la lingua.

Le unghie dei cani grattavano contro la lamiera facendo sussultare la macchina.

La vescica si rilassò e un calore bagnato le scivolò tra le cosce. La moquette sotto le chiappe si inzuppò e ci fu un attimo di puro piacere in cui schiuse le labbra.

Cominciò a pregare. Una disperata richiesta di aiuto che non si rivolgeva a nessuno.

I cani si azzuffavano tra loro. Si aggiravano intorno all’automobile. Le unghie ticchettavano sull’asfalto.

Immaginò che fossero migliaia. La macchina era circondata da un tappeto di cani che arrivava fino al mare e alle montagne e avvolgeva di pelo il pianeta.

Si premette le mani sulle orecchie.

Pensa ai gelati.

Dolci e freddi come palline di grandine, di tutti i gusti. Potevi scegliere quello che ti piaceva di piú da dentro le vaschette colorate e te lo mettevano su un cono di biscotto. Si ricordò di una volta che era al chiosco dello stabilimento Le sirene. Si era appiccicata al vetro del frigorifero: «Lo voglio di cioccolato e limone».

La mamma aveva fatto una faccia disgustata. «Che schifo…»

«Perché?»

«Sono gusti che non vanno d’accordo».

«Posso averli lo stesso?»

«Però poi lo mangi».

E cosí, con il suo cono in mano, era andata in spiaggia e si era seduta sul bagnasciuga. I gabbiani camminavano uno dietro l’altro con quegli stecchetti che avevano al posto delle zampe.

Prima dell’incendio i dolci si trovavano ancora. I Mars, le barrette di cereali, i Bounty e i cioccolatini. Erano rinsecchiti, coperti di muffa o smozzicati dai topi, ma a volte, se eri fortunato, ne trovavi ancora di buoni. Mai come i gelati, però. Le cose fredde erano andate via con i Grandi.

Si tolse le mani dalle orecchie.

I cani non c’erano piú.

Era quel momento dell’alba in cui la notte e il giorno hanno lo stesso peso e le cose sembrano piú grandi di quello che sono. Una striscia lattiginosa segnava il fondo della pianura e il vento frusciava tra le macchie di grano risparmiate dal fuoco.

Anna uscí dalla macchina e si sgranchí la schiena. La caviglia era indolenzita ma, dopo il riposo, le faceva meno male.

L’autostrada si srotolava come un filo di liquirizia. Intorno all’automobile l’asfalto era coperto di impronte di zampe. A una cinquantina di metri, sopra la striscia tratteggiata, c’era qualcosa.

Sulle prime le sembrò il suo zaino, poi un copertone, poi un mucchio di stracci. Poi gli stracci si sollevarono trasformandosi in un cane.

IL CANE CON TRE NOMI

Il cane era nato in uno sfasciacarrozze alla periferia di Trapani, sotto la carcassa di una Alfa Romeo. La madre, un pastore maremmano chiamato Lisa, lo aveva allattato per un paio di mesi insieme ai cinque fratelli. Nella dura lotta per i capezzoli, il piú gracile non ce l’aveva fatta. Gli altri, appena svezzati, erano stati dati via per pochi spicci e solo lui, il piú vorace e sveglio, aveva avuto il privilegio di restare.

Daniele Oddo, il padrone dello sfascio, era un uomo attento ai soldi. E siccome il 13 ottobre era il compleanno di sua moglie ebbe una pensata, perché non regalarle il cuccioletto con un bel fiocco rosso al collo?

La signora Rosita, che si aspettava la nuova asciugabiancheria Ariston, non fu entusiasta di quel batuffolo di pelo bianco. Era un demonio scatenato che cagava e pisciava sui tappeti e rosicchiava i piedi della credenza del salotto.

La donna, senza sforzarsi troppo, gli trovò un nome: Salame.

Ma in casa c’era chi si seccò ancora di piú della nuova presenza. Colonnello, un vecchio bassotto a pelo ruvido, scorbutico e mordace, che aveva come habitat naturale il letto, sul quale saliva grazie a una scaletta fatta apposta per lui, e una borsa di Vuitton da cui ringhiava a qualsiasi organismo dotato di quattro zampe.

Tra le sue doti Colonnello non possedeva la misericordia. Azzannava il cucciolo appena si spostava dall’angolo in cui lo aveva segregato.

La signora Rosita decise di chiudere Salame sul terrazzino della cucina. Ma quello era cocciuto, piangeva e grattava la porta e i vicini cominciarono a lamentarsi. Il suo precario destino di cane d’appartamento cambiò il giorno in cui riuscí a intrufolarsi dentro e, inseguito dalla padrona, scivolò sul parquet cerato e s’attorcigliò nel filo di una lampada che esplose sopra la collezione di panda di ceramica allineata sul mobile bar.

Salame se ne tornò per direttissima allo sfasciacarrozze, e ancora con i denti da latte e la voglia di giocare gli fu messa una catena al collo. Lisa, la madre, dall’altra parte dello spiazzo, oltre due muri di carcasse, abbaiava a ogni macchina che entrava dal cancello.

La dieta del cucciolo passò da scatolette di bocconcini di cervo alla cucina cinese. Involtini primavera, pollo al bambú e maiale in agrodolce, i resti del China Garden, un fetido ristorante lí di fronte.

Allo sfascio ci lavorava Christian, il figlio del signor Oddo. Forse lavorare non è la parola giusta, bivaccava di fronte al computer guardando video porno dentro un container trasformato in ufficio. Era un ragazzetto smilzo e nervoso, con la testa piena di capelli e un mento appuntito che enfatizzava con una barbetta caprina. Aveva anche un secondo lavoro, spacciava pillole svaporate davanti ai licei. Il suo sogno però era diventare un rapper. Amava come si vestivano, come gesticolavano, le donne che avevano e i loro cani assassini. Ma non era facile rappare con la r moscia.

Osservando Salame da dietro gli occhiali da sole grandi come schermi televisivi intuí che quel cane, che cresceva veloce e robusto, nascondeva delle potenzialità.

Una sera, chiuso in macchina davanti a un centro commerciale, confidò a Samuel, il suo migliore amico, che avrebbe reso Salame «una maledetta macchina di morte».

– Certo con quel nome, Salame… – Samuel, che studiava da stilista, non lo trovava adatto per una macchina di morte.

– E come lo chiamo?

– Che ne so… Bob, – azzardò l’amico.

– Bob? Che razza di nome è? Meglio Manson.

– Come Marilyn?

– Ma che minchia? Charles Manson! Il piú grande assassino di tutti i tempi.

Christian sperava che un extracomunitario o qualche zingaro entrasse di notte nello sfascio per rubare e si trovasse di fronte Manson.

– Te lo immagini il negro che cerca di scappare scavalcando la rete con le budella che gli colano fuori e Manson che intanto gli azzanna le chiappe? – sghignazzava dando grandi pacche a Samuel.

Per rendere il maremmano piú infame Christian si studiò su internet i siti di cani da combattimento. Si procurò un taser, uno di quegli aggeggi che ti sparano addosso una scarica elettrica ad alta tensione e ti lasciano tramortito, e con quell’affare e un bastone ricoperto di gommapiuma cominciò il training per trasformarlo in una macchina di morte. Non contento, in inverno, gli buttava addosso secchiate di acqua gelida per renderlo piú resistente agli agenti atmosferici.

Dopo nemmeno un anno, Manson era cosí aggressivo che per nutrirlo erano costretti a gettargli la roba da lontano e a riempirgli la ciotola dell’acqua con lo schizzo della pompa. Un ottimo lavoro, visto che la notte non potevi nemmeno liberarlo perché rischiavi di perderci una mano.

Come per migliaia di altri cani il destino di Manson sembrava quello di passare la vita alla catena.

Il virus cambiò tutto.

L’epidemia si portò via in pochi mesi la famiglia Oddo e il cane rimase solo e legato. Resistette bevendo l’acqua piovana che si raccoglieva tra le lamiere delle automobili e leccando da terra i resti secchi del cibo. Ogni tanto qualcuno passava sulla strada, ma nessuno si fermava a sfamarlo e lui ululava disperato, sollevando il muso verso il cielo. La madre per qualche tempo rispose ai suoi richiami, poi si zittí, e anche Manson, stremato dal digiuno, perse la voce. Nelle narici gli arrivava il lezzo dei cadaveri delle fosse comuni di Trapani.

A un certo punto l’istinto gli suggerí che i suoi padroni non gli avrebbero portato piú nulla e che lí ci sarebbe morto.

La catena che aveva al collo, lunga una decina di metri, finiva con un paletto puntato nel terreno. Cominciò a tirare, facendo forza con le zampe posteriori e puntellandosi con quelle davanti. Il collare, adesso che era smagrito, gli andava largo, e alla fine riuscí a sfilarselo.

Era mal ridotto, coperto di piaghe, le pulci lo avevano dissanguato e faticava a camminare. Passò accanto ai resti della madre, le diede una breve annusata e incerto sulle zampe uscí dal cancello principale.

Non conosceva niente del mondo e non si chiese perché alcuni uomini erano diventati cibo e altri, piú piccoli, erano ancora vivi, ma quando lo incrociavano si mettevano a correre.

Impiegò poco a tornare in forma. Si nutriva di immondizia, entrava nelle case spazzando tutto quello che trovava e spesso riusciva a cacciare i corvi che banchettavano sui cadaveri. Vagando per le strade incrociò un branco di randagi e ci si uní.

Quando si avventò per primo sulla carcassa di una pecora gli altri gli ringhiarono mostrando le zanne. Scoprí sulla sua pelle che nel gruppo regnava una gerarchia e che lui doveva stare lontano dalle femmine in calore e aspettare il suo turno per mangiare.

Un giorno, in un campo abbandonato dietro un magazzino di pneumatici, gli sbucò davanti una lepre.

La lepre è un animale difficile da prendere, è veloce e compie scarti improvvisi che destabilizzano l’inseguitore. Ha solo un limite, si stanca presto. Il corpo di Manson, invece, era una massa di muscoli resistenti. Dopo una corsa estenuante riuscí ad afferrarla, la strattonò rompendole la colonna vertebrale e cominciò a divorarla.

Un bracco dinoccolato, un gregario appena piú importante di lui, con le orecchie pendule e un gran tartufo in fondo al muso, gli si parò davanti. Manson si spostò, la coda bassa, ma nel momento in cui l’altro iniziò a mangiare gli saltò addosso e con un morso gli strappò un orecchio. Il poveretto, sorpreso e terrorizzato, si girò zampillando sangue e affondò i denti nel mantello spesso del maremmano. Manson fece un balzo indietro e uno in avanti, gli si avventò alla gola e gli portò via in un colpo solo la giugulare, la trachea e l’esofago, lasciandolo a dibattersi in una pozza di sangue.

I combattimenti tra i cani e tra i lupi non sono quasi mai letali, servono a definire la gerarchia del branco, a distinguere i gregari dai capi, però Manson era un lottatore che non rispettava le regole e non si fermava fino a quando l’avversario non giaceva senza vita. Christian Oddo ci aveva visto giusto. Quell’animale era una macchina di morte e tutte le sofferenze e le torture che aveva subito lo avevano reso insensibile alle ferite e implacabile con i vinti.

Il sangue lo eccitava, gli dava energia, gli portava il rispetto dei gregari e il favore delle cagne in calore. Quel mondo gli piaceva, non c’erano catene, non c’erano uomini crudeli e bastava usare le zanne per farsi rispettare. In poche settimane, senza nemmeno doversi battere con il capo, che si buttò a terra spalancando le zampe, diventò il cane alfa, quello che mangiava per primo e ingravidava le femmine.

Tre anni dopo, quando l’esplosione di un deposito di metano sorprese il branco mentre accerchiava un cavallo nel parcheggio del centro commerciale I Girasoli, non aveva ancora perso il suo grado. Cosa ci facesse un cavallo in quel parcheggio era un mistero che non interessava a nessuno. L’animale, magro e piagato, era incastrato con uno zoccolo in un carrello della spesa e se ne stava immobile, in una nuvola di mosche, accanto alle casse automatiche. Il testone bruno gli ciondolava tra le zampe. Si trovava in quella condizione di placida rassegnazione che prende a volte gli erbivori quando avvertono che la morte li ha abbrancati e non resta loro che aspettare. I cani gli si stringevano intorno senza fretta, quasi svogliati, con la consapevolezza che prima o poi avrebbero avuto carne fresca.

Manson, per rimarcare il suo status, fu il primo ad avvicinarsi al ronzino, che sentendo le zanne affondare in un garretto scalciò appena. Ma il fronte dell’incendio, alimentato dal vento, avvolse la scena in una coltre di fumo acre e arroventato. Accerchiati dalle fiamme, spaventati dalle esplosioni delle pompe di benzina, i cani si rifugiarono dentro un magazzino d’elettronica. Rimasero lí per giorni, mezzo asfissiati, sotto una volta di fuoco, e quando tutto fu consumato e uscirono fuori il mondo era una distesa di cenere senza cibo e acqua.

Anna si tirò indietro i capelli.

Il maremmano strisciò in avanti e si fermò, l’orecchio ritto e gli occhi fissi sulla preda.

La ragazzina guardò la rete di recinzione. Troppo alta. Non voleva tornare in macchina, ce l’avrebbe fatta morire, là dentro.

Spalancò le braccia: – Vieni qui! Che aspetti?

La bestia sembrava indecisa.

– Dài, forza! – Prese a saltare. – Facciamola finita.

Il cane si acquattò sull’asfalto. Un corvo passò in alto gracchiando.

– Allora? Hai paura?

L’animale scattò.

La ragazzina partí di corsa verso la macchina e ci arrivò contro cosí veloce che sbatté l’anca su una fiancata. Cacciando un lamento s’infilò nella portiera e se la chiuse dietro.

L’automobile, con un tonfo, vacillò.

Anna afferrò la cintura di sicurezza, la girò nella maniglia e la legò alle razze del volante. Attraverso il vetro opaco vedeva la sagoma scura dell’animale sbattere contro il finestrino.

Si buttò dietro e si rannicchiò nel bagagliaio, ma il cane le arrivò addosso insieme al trolley incastrato nel lunotto. Lo respinse facendosi scudo con la valigia e nel panico cercò qualcosa con cui difendersi. Sotto il sedile c’era un ombrello. Lo impugnò con tutte e due le mani, reggendolo davanti a sé come una picca.

Annunciato da un ringhio il cane balzò nell’abitacolo.

Anna gli affondò il puntale nel collo e un fiotto di sangue le imbrattò la faccia.

La bestia guaí, ma non arretrò. Si allungò oltre il sedile strusciando la groppa lurida contro il tetto della macchina.

– Io sono piú forte di te! – La ragazzina lo colpí sul costato aprendogli una bocca rossa. Cercò di tirare fuori l’ombrello, ma il manico le rimase in mano.

Il mostro, con l’asta piantata fra le costole, le si avventò contro. I denti si chiusero con uno stoc a pochi centimetri dal naso di Anna, che fu investita da un fiato caldo e marcio. Riparandosi con i gomiti lo ricacciò indietro e arretrò sul sedile anteriore finendo tra le ossa della donna.

Il cane non si mosse. Il pelo imbrattato di sangue e cenere, la bocca grondante bava rossastra, la guardò negli occhi, piegò il collo come se volesse capirla meglio, ondeggiò appena e crollò.

Anna canticchiava una canzone che si era inventata: – E arriva Nello con le scarpe di corallo e i baffi color cammello.

Nello era un amico di suo papà, guidava un furgone bianco e ogni tanto arrivava da Palermo portando i libri che servivano alla mamma. Anna l’aveva visto poche volte, eppure lo ricordava bene, era simpatico. Pensava spesso ai suoi baffoni.

Il sole si era sollevato tra nuvole bianche che striavano il cielo. Non faceva caldo ed era piacevole sentire i raggi sulla pelle infreddolita dalla notte.

La ragazzina si aggiustò lo zaino sulla spalla. I cani ci si erano accaniti ma non erano riusciti ad aprirlo. Anche la bottiglia di amaro si era salvata.

Prima di ripartire aveva dato un’ultima occhiata al mostro. Tenendosi a distanza, aveva sbirciato attraverso la portiera spalancata. Un pezzo di mantello sporco si sollevava e si abbassava con un ansimo sfiatato. Si era chiesta se doveva finirlo, ma non si fidava ad avvicinarsi. Meglio lasciarlo a morire per conto suo.

Percorse una strada che correva accanto alla A29 per poi curvare verso il mare, passando attraverso una zona commerciale. Del discount in cui un tempo facevano la spesa erano rimasti solo i pilastri e i tralicci di ferro del tetto. La Casa del mobile, dove avevano comprato a rate il divano e il letto a castello, era stata divorata dalle fiamme. La cenere formava uno strato compatto sulla scalinata di pietra bianca. I bei vasi con le teste dei mori non c’erano piú. Rimanevano gli scheletri dei canapè e di un pianoforte.

Anna attraversò il parcheggio di un concessionario Ford con le file ordinate di automobili bruciate e tagliò attraverso i campi. Delle vigne restavano solo i sostegni dei filari accanto a mozziconi di ulivi e a muretti di pietra. Una mietitrebbia, accanto al rudere di una cascina, somigliava a un insetto con la bocca piena di denti. Un aratro infilava il muso aguzzo nella terra come un formichiere. Ogni tanto tra le zolle nere spuntavano i getti dei fichi e sui tronchi abbrustoliti degli alberi gemme chiare.

L’edificio basso e moderno della scuola elementare De Roberto galleggiava su un mare nero tra vampate di calore che piegavano l’orizzonte. Il campo di basket alle spalle della costruzione era invaso dall’erba. Il fuoco aveva sciolto i tabelloni dei canestri. Attraverso le finestre senza vetri si scorgevano i banchi, le sedie, il linoleum coperto di terra. Sul muro della sua classe, la III C, era ancora appeso il disegno di una giraffa e di un leone che aveva fatto Daniela Sperno. La cattedra era sulla pedana, accanto alla lavagna. Tempo prima, dentro il cassetto, aveva trovato il registro e lo specchietto con cui la maestra Rigoni si controllava i peli sul mento e il rossetto. Di solito Anna entrava e si sedeva al suo banco per un po’, ma questa volta tirò dritto.

In lontananza apparvero i resti del villaggio residenziale Torre Normanna. Due strade lunghe come piste d’atterraggio e cinte da villette formavano una croce in mezzo alla piana alle spalle di Castellammare.

C’era pure un circolo sportivo con due campi da tennis e la piscina, un ristorante e un piccolo supermercato. Gran parte dei suoi compagni di scuola aveva vissuto lí.

Ora, dopo i saccheggi e gli incendi, delle graziose casette in stile mediterraneo rimanevano i pilastri di cemento, cumuli di tegole, calcinacci e cancelli arrugginiti. Quelle risparmiate dal fuoco avevano le porte divelte, i vetri in frantumi e i muri pieni di scritte. I cubetti di cristallo esplosi dai finestrini delle auto coprivano le strade. L’asfalto della piazzetta dei Venti si era sciolto e addensato formando gobbe e bolle, ma le altalene, lo scivolo e la grande insegna con un’aragosta viola del ristorante Il gusto di Afrodite erano intatti.

La ragazzina attraversò il villaggio a passo veloce. Quel posto non le piaceva. La mamma diceva che ci stavano gli stronzi arricchiti che inquinavano la terra con le loro fogne abusive. Aveva pure scritto a un giornale per denunciarli. Adesso gli stronzi arricchiti non c’erano piú, ma i loro fantasmi la spiavano dalle finestre sussurrando: – Guarda! Guarda! È la figlia di quella che ci chiamava stronzi arricchiti.

Superate le case prese una stradina che seguiva il letto di un torrente secco, snodandosi ai piedi di colline tonde e brulle trafitte come puntaspilli dai tutori delle vigne. Ai margini della carreggiata le canne crescevano compatte, con i pennacchi che svettavano nel cielo azzurro.

Dopo un centinaio di metri la ragazzina s’immerse nell’ombra fresca di un bosco di querce. Secondo Anna quel bosco era magico, l’incendio non era riuscito a bruciarlo, era arrivato al limitare, lo aveva assaggiato e aveva lasciato perdere. Tra i tronchi fitti il sole chiazzava di macchie dorate il manto d’edera e le rose canine che avviluppavano una recinzione fatiscente. Dietro un cancello il sentiero affogava tra cespugli di bosso che nessuno aveva piú potato.

Su un pilastro di cemento si riconosceva appena una scritta: «Podere del gelso».