Anna Salemi decise di andare a cercare i bambini blu. Se avesse trovato loro, avrebbe trovato anche suo fratello. L’idea che fosse morto non la sfiorò nemmeno.

Lasciò il Podere del gelso il 30 ottobre 2020 per non farci piú ritorno. Nello zaino aveva una torcia elettrica, un accendino, il quaderno delle Cose Importanti avvolto in una felpa verde, un coltello da cucina e il femore destro di sua madre.

Gli alberi vibravano del cinguettio dei passeri, tra i cespugli frusciavano le volpi, le cornacchie gridavano sgraziate. Fuori dal bosco si trovò sotto un tappeto di nuvole dense e bluastre che premeva come un mare in tempesta al rovescio. Sbuffi di aria calda che arrivavano dalla costa la spingevano in avanti scompigliandole i capelli. In fondo alla pianura un temporale si addensava sopra le montagne in un fulgore di luce sabbiosa. Un tuono potente come una cannonata diede il la e la pioggia si rovesciò rabbiosa sui campi assetati, che l’assorbirono in silenzio esalando un fiato umido di terra bruciata.

Ancora prima di arrivare a Torre Normanna Anna si ritrovò zuppa, i piedi che le sguazzavano negli scarponcini, i capelli incollati alla fronte, la striscia di stoffa che le pendeva intorno alla mano ferita.

Da mesi aspettava la pioggia e quella arrivava adesso, cattiva e sbagliata, a peggiorare tutto. Però forse avrebbe fermato i blu. Potevano essersi riparati a Torre Normanna.

Il villaggio era avvolto in una nube d’acqua che traboccava dalle grondaie intasate inondando le strade. La piazzetta dei Venti era scomparsa sotto un lago che ribolliva sferzato dal temporale.

L’acquazzone prese fiato prima di scatenare la grandine.

Anna si rifugiò sotto il portico del Gusto di Afrodite. Il tetto di ondulato della veranda vibrava sotto raffiche di palline ghiacciate grosse come ciliegie. Tirò fuori dallo zaino il quaderno. La felpa lo aveva salvato, solo gli angoli della copertina si erano bagnati.

La porta del ristorante era stata sfondata. Dentro il locale, nella grande sala circolare, i tavoli e le sedie erano accatastati in un angolo come se ce li avesse spinti una ruspa. Sui muri resisteva una lavagna su cui era scritto a mano: «Specialità del giorno, trancio di tonno alla messinese, 18 euro». Una lampada d’ottone era appesa al soffitto tutta storta come se l’avessero presa a bastonate.

Anna si diresse verso la cucina in un fuggi fuggi di topi. Sulle pareti erano rimaste poche mattonelle, le altre erano sparse sul pavimento in mucchi di cocci bianchi. Il grosso frigorifero era rovesciato, con le ante spalancate.

Anna si inginocchiò, aprí un cassetto e ci sistemò il femore e il quaderno. Chiuse lo sportello e tornò fuori.

La grandine era finita, sostituita da una pioggerella sottile.

Stava perdendo tempo. Lí non c’era nessuno. Forse si erano diretti all’autostrada. Forse a Castellammare. Mollò un calcio a una sedia di plastica bianca.

Calma.

Afferrò le cinghie dello zaino e si incamminò verso l’uscita del villaggio. Dopo pochi passi si fermò.

Una bicicletta arancione era poggiata contro il cancello di una villetta.

L’uscio era sbarrato dall’interno. Poco a destra, però, una porta finestra era spalancata sul soggiorno. Anche qui era tutto distrutto. Mobili sfondati, scritte sui muri, ceneri di un falò dove avevano bruciato delle sedie.

Salí le scale coperte di calcinacci. Entrò nella prima stanza. Sopra un armadio a specchio una coppia di civette sgranò quattro biglie dorate e volò via. Su un materasso matrimoniale, avvolto in una trapunta sporca, dormiva Pietro. Dal rotolo di stracci spuntavano ciocche di capelli arruffati, uno spicchio di fronte e un sopracciglio.

Anna gli diede una spinta sul sedere con la pianta del piede. – Svegliati!

Il ragazzino spalancò la bocca e cacciò un rantolo strozzato. Provò a tirarsi su, ma, intrappolato nella coperta come in una camicia di forza, scivolò dal materasso. – Cosa? Cosa? Chi è? – Afferrò il coltello che stava accanto alla sua borsa e lo puntò contro l’aggressore.

– Hai visto dei bambini blu?

Pietro strizzò gli occhi e riconobbe Anna. – Tu sei pazza –. Lasciò cadere il coltello e si portò una mano al petto. – Per poco non sono morto di spavento.

– Hai visto dei bambini blu?

Pietro si trascinò fino al muro e ci si poggiò di schiena, stropicciandosi un occhio. – I bambini blu…

Anna dovette ingoiare un groppo per riuscire a mormorare: – Hanno preso mio fratello.

Pietro fissò la ragazzina che gli stava di fronte, zuppa e gocciolante. – Quando?

– Ieri mattina, credo –. Si affacciò alla finestra. – Non dovrebbero essere lontani. Li hai incontrati?

– No. Ma li conosco, – rispose lui con uno sbadiglio.

Nel viso di Anna affiorò una speranza. – Chi sono?

– Vivono all’hotel. I piú grandi li prendono nelle campagne e li fanno schiavi.

– Perché?

Pietro si sgranchí la schiena. Indossava un paio di mutande sbrindellate a righine gialle e verdi e una canottiera troppo stretta. – Per preparare la festa del Fuoco. Ne hanno tanti lassú.

Anna chiuse gli occhi e li riaprí. Le sembrò che intorno la stanza si sbriciolasse e si ricomponesse veloce: il materasso, il mobile, il ragazzino in mutande. Il petto le si gonfiò e respirò di nuovo. Astor era vivo. Deglutí. – Come si va all’hotel?

– Un attimo –. Pietro si massaggiò una guancia. – Io la mattina faccio fatica a ragionare.

Anna attese tre secondi. – Come si va all’hotel?

Pietro piegò la testa. Si strinse la base del naso. – Passi sotto l’autostrada e alla rotonda prosegui per le montagne. A un certo punto trovi un grande cartello con scritto «Grand Hotel Terme Elise». Continua dritta e ci arrivi. Guarda che c’è da camminare.

Anna fece un passo e con uno scatto lo abbracciò.

Pietro rimase rigido e, impacciato, raccolse un barattolo di marmellata da terra, ci immerse l’indice e se lo mise in bocca. – Stai attenta, però. Quello non è un bel posto.

Anna sollevò le spalle. – Devo riprendermi mio fratello.

Pietro diede una sorsata da una bottiglietta d’acqua mezza vuota. – Perché?

– Che razza di domanda. È mio fratello.

Fuori continuava a piovere, ma la coltre di nuvole si era squarciata su una macchia di cielo azzurro.

Mentre scendeva le scale Pietro la chiamò. – Aspetta, mettiti questo. È asciutto –. Le lanciò un golf.

Lei lo afferrò al volo e disse: – Grazie.

Per un po’ Anna si girò a guardare indietro, sperando di vedere apparire il ragazzino in bicicletta. Le sarebbe piaciuto avere accanto qualcuno con cui dividere l’ansia che sentiva crescere a ogni passo.

La pioggia aveva ripulito le montagne dalla foschia che le aveva avvolte durante l’estate. Adesso erano piú vicine. Tutto era nitido, le macchie verdi degli alberi, i morsi delle cave e i canaloni di pietra bianca che le spaccavano come pomodori maturi.

Da qualche parte, lassú, c’era Astor.

Anna marciava a ritmo regolare, le braccia che si alternavano alle gambe. I pensieri si sfilacciavano lenti da una matassa aggrovigliata perdendosi per strada. Non si aggrappava piú a esercizi inutili come sommare i numeri delle targhe delle macchine o indovinare i passi che ci vogliono da qui a là.

Il sottopassaggio dell’autostrada era allagato. Lo attraversò inzuppandosi le scarpe, arrivò alla rotonda e prese la strada che portava alle montagne.

Nella zona gli incendi erano stati particolarmente violenti, alimentati da una serie di stabilimenti industriali e di depositi di carburante. Tutto quello che non era di pietra o di metallo era ridotto in cenere. Le carcasse delle automobili sembravano scarafaggi abbrustoliti e occupavano un parcheggio su cui si affacciava un edificio basso. Sul tetto era rimasto lo scheletro di una grande scritta.

– Pi… zza… rium, – decifrò la ragazzina. – Pizzarium.

Stava svenendo dalla fame e sul tallone sinistro le si era formata una vescica.

Oltre una lunga cancellata si vedevano i resti di una fabbrica. Dei capannoni restava poco o niente, ma gli enormi serbatoi bianchi si erano salvati. Tutto intorno si incrociava una rete di condotte arrugginite e coperte di muschio. Dalle giunture dei tubi colava acqua che aveva allagato lo spiazzo asfaltato, trasformandolo in un acquitrino in cui galleggiavano grossi pezzi di polistirolo.

Trovò un buco tra le sbarre e avanzò facendosi largo in un intrico di piante palustri. Libellule rosse e zanzare dalle gambe lunghe le sciamavano intorno mentre le rane le saltavano tra i piedi.

Si allungò sul cofano di una 500, si tolse lo zaino e le scarpe.

Le dita dei piedi erano gommose e bianche come se le avesse immerse nella varechina. Con l’unghia del pollice si bucò la vescica, poi si tolse la benda dalla mano. Il taglio tra le nocche era profondo, ma non sanguinava piú. Si massaggiò i polpacci e si allungò sul parabrezza sotto il sole tiepido.

Le rane, una dopo l’altra, ripresero a gracidare.

Che posto meraviglioso doveva essere stato il Pizzarium. Entravi con i soldi e uscivi con un pezzo di pizza calda, avvolta nella carta bianca, la mozzarella fusa che colava da sotto, il rosso dei pomodori che ti bruciava il palato. E se non ti piaceva la margherita potevi prenderla con funghi, patate, zucchine e alici.

Persa nel mondo della pizza ci mise un po’ ad accorgersi che le rane si erano ammutolite. Spalancò gli occhi e si trovò davanti, a pochi metri, il cane dell’autostrada.

Se ne stava fermo, le zampe nell’acqua, il collo stirato. Dove Anna lo aveva ferito il pelo formava delle palle di croste nere da cui trasudava un liquido denso e rossastro, il resto del mantello era bianco e gonfio. Se possibile, sembrava ancora piú grosso.

La ragazzina trattenne il respiro, il maremmano ansimava con la lingua arricciata davanti al naso nero.

Anna appoggiò una mano sullo zaino. Dentro c’era il coltello. Non riusciva a staccare lo sguardo da quegli occhi neri come lapilli che la ipnotizzavano.

Come faceva a essere lí, di fronte a lei, vivo?

L’animale piegò il capo e diede due lappate d’acqua continuando a guardarla.

Anna inspirò aspettando non sapeva nemmeno lei cosa, forse solo che sparisse, poi si alzò in piedi sul cofano e, pugno in aria, gli ringhiò: – Che vuoi? Lasciami in pace! Non ti è bastato quello che ti ho fatto?

Quello si adagiò nel fango, ci si rigirò inarcando la schiena e allungando una zampa come per salutarla, poi sollevò una coscia mostrando la pancia rosata e macchiata di nero e cacciò un verso di piacere.

Anna era sconcertata.

Quel demonio l’aveva intrappolata in una macchina e per poco non se l’era mangiata viva, e ora somigliava ai cagnetti che le signore portavano al guinzaglio e che appena li carezzavi si trasformavano in uno strofinaccio.

Saltò giú dalla macchina. – Vattene! Sciò!

Il cane schizzò in piedi e, coda fra le zampe, sparí nelle canne.

Come aveva fatto a trovarla? E perché invece di aggredirla era scappato via?

A questo pensava Anna mentre arrancava sulla salita che si snodava tra lembi di terra bruciati. Ogni tanto si girava, sicura che fosse dietro di lei, ma non c’era.

Con la fatica un’altra preoccupazione le occupò i pensieri. Non aveva ancora incontrato il cartello dell’hotel, magari aveva sbagliato strada. Lo zaino pesava come fosse pieno di pietre. – Altri mille passi e se non lo trovo torno indietro, – si disse.

Fatte un paio di curve, sul ciglio della strada, quasi lo avesse invocato, le si parò davanti un grande tabellone. Dietro la fuliggine si distingueva: «Grand Hotel Terme Elise. Exclusive Relais & Golf Club».

Strinse il pugno. – Allora è vero! Bravo Pietro!

Lo zaino era di nuovo leggero e il passo veloce.

Proseguendo, la carreggiata si restrinse. Intorno non aveva piú case e le macchie nere lasciavano spazio al verde. Gli eucalipti erano ricoperti di foglie, gli oleandri si allargavano carichi di fiori e i fichi d’India formavano barriere di spine. Una mucca le passò davanti placida, senza degnarla di uno sguardo. Il vento non portava piú l’odore di bruciato, ma quello buono dell’erba.

Su un poggio i filari delle vigne erano carichi d’uva appassita su cui si posavano le api. Corse a mangiarla, era cosí zuccherosa che le vennero i brividi sulla schiena. Ne mise due grappoli nello zaino e ripartí.

Si sentiva meglio, per la prima volta quel giorno riuscí a non pensare al fratello. Godeva della natura, del sole che tingeva d’argento le chiome dei pini agitate dalla brezza.

Alla fine della salita le si spalancò davanti un altipiano di colline coperte di grano giallo e cespugli di ginestre su cui un gigante aveva appuntato, come girandole, decine di pale eoliche.

Le era già capitato di osservarle dalla pianura, piccole piccole, impossibili da raggiungere. Non immaginava che fossero cosí imponenti.

Da là sopra, forse, poteva vedere l’hotel.

La prima non sembrava tanto distante, doveva solo attraversare un campo che digradava in una valletta stretta e risaliva su un crinale. Rimase sul ciglio della strada, indecisa, poi infilò i pollici sotto le cinghie dello zaino e si avviò.

Dopo pochi passi era immersa fino al petto nelle spighe, che le graffiavano le braccia e le gambe. I grilli le schizzavano intorno. Un fagiano si sollevò dal tappeto dorato lanciando le sue grida sgraziate e ricadde piú in là. Ci mise piú di quanto avesse immaginato, ma alla fine arrivò su un basamento squadrato che, come un’isola di cemento, emergeva dal giallo.

Da sotto, la torre era cosí alta che non riusciva a vederne la cima. Una passerella di alluminio conduceva a una porticina che qualcuno aveva divelto dai cardini e pendeva tutta storta. Dall’interno usciva un odore poco invitante.

Anna tirò fuori la torcia e illuminò una scala a chiocciola stretta stretta, che si avvitava come un cavatappi all’interno della struttura. Sopra il primo gradino le formiche si stavano spolpando i resti di una volpe.

Scavalcò la carogna e si avventurò per le scale. Andò su spedita illuminando gli scalini che si succedevano alti e senza sosta in una spirale afosa. Dopo un po’ era tutta sudata e cominciò a mancarle il fiato. Si sedette e poggiò la testa contro la parete. Il metallo, scaldato dal sole, era tiepido.

In vita sua non era mai stata cosí stanca, cosí incerta e preoccupata. Tutta l’uva che si era mangiata le fermentava nello stomaco.

Spense la torcia e il buio l’avvolse, rassicurandola.

Da tempo aveva imparato a non averne piú paura.

La regola era semplice. Due film a settimana: il sabato lo decideva lei, la domenica la mamma, per il resto il televisore era coperto da una pezza colorata, quasi si vergognassero di averlo in casa. Ma quando dal Belgio il virus si spostò come una nuvola radioattiva in Olanda, in Francia e nel resto del mondo rimase sempre acceso sul notiziario.

Dopo che la mamma era morta Anna ci trascorreva davanti tutto il giorno. Sul quaderno delle Cose Importanti non si parlava della tv e la bambina l’aveva inteso come un permesso. Solo che i canali, uno dopo l’altro, erano spariti, lasciando al loro posto degli schermi blu. Resisteva Rai Uno, su cui passavano solo delle scritte. Dicevano che era proibito uscire di casa, che vigeva la legge marziale e che in caso di grave emergenza bisognava chiamare il numero verde della protezione civile. Non le restava che vedere a ciclo continuo i dvd che tenevano nella libreria.

Quando la centrale idroelettrica di Guadalami, l’ultima ancora in funzione nell’isola, si fermò lasciando per sempre senza energia il Podere del gelso e tutta la Sicilia del nord, Anna era stesa sul divano e guardava Ufficiale e gentiluomo, l’unico film bello della collezione di sua madre. Astor le dormiva accanto come un bambolotto.

Era il momento che le piaceva di piú, quando il soldato con il cappello e l’uniforme candida andava nella fabbrica a riprendersi la fidanzata tra gli applausi delle operaie. La televisione si era spenta e i numeri blu del lettore erano scomparsi. Anna era rimasta a fissare lo schermo nero senza impensierirsi troppo. Nelle ultime settimane succedeva spesso che ci fossero delle interruzioni di corrente.

Quella volta non tornò. Il tempo della luce, come lo avrebbe chiamato in seguito, terminò in quel preciso momento, mentre Richard Gere portava in braccio Debra Winger.

Il giorno finí, il sole se ne andò e l’abat-jour a forma di fiore accanto al divano non si illuminò di quel giallo tanto rassicurante. Il succo di frutta dentro il frigo divenne caldo. Anna, con Astor appeso addosso, accese la torcia e cercò nel quaderno delle Cose Importanti la soluzione al problema. Sul quaderno c’era scritto:

ELETTRICITÀ

L’elettricità presto finirà e non ci sarà piú luce, piú televisione, piú il computer, piú la musica, piú il telefono, piú il frigorifero. Ma non dovete avere paura. Vi abituerete presto. Gli uomini sono vissuti per tanto tempo senza l’elettricità. Gli bastava accendere un fuoco. Vivrete durante il giorno e dormirete appena fa buio, proprio come gli animali del bosco. All’alba saluterete il sole insieme agli uccelli. Sarà bello. Quando non avrete nulla da fare leggerete i libri. E la musica la farete cantando. La notte chiudetevi in casa e non uscite mai, per nessuna ragione. Usate le candele. Le pile solo in caso d’emergenza. Ma se ci riuscite provate a stare al buio.

Tutto qua.

Senza elettricità il tempo si allungò. Le ore si impigliavano una nell’altra in giorni che si trascinavano con una lentezza esasperante. Tutti i rumori erano spariti. Il tocco preciso delle campane della chiesa del paese. Gli squilli del cellulare. Il rombo degli aerei. Gli sbuffi del camion della spazzatura. Il silenzio, quando Astor dormiva, era cosí opprimente che quasi la intontiva.

Anna imparò ad ascoltare il vento che faceva fremere le finestre e frusciare le foglie, i borbottii del suo stomaco, le voci degli uccelli. In quella quiete appiccicosa anche i tarli che scavavano nelle travi del soffitto le tenevano compagnia.

Anna era sempre stata una bambina chiacchierona. Adesso la bocca le si riempiva di parole di cui non sapeva che farsene. Mentre apriva gli scatoloni con dentro le lattine di lenticchie parlava da sola. – Ecco qui. Tutto pronto. Un bel pranzetto.

Anche i capricci di Astor che prima la esasperavano adesso la facevano sentire meno sola.

E imparò a conoscere il buio.

Era cresciuta sapendo che le luci di casa lo tenevano fuori dalle finestre finché la mamma spegneva, si andava a dormire e lui poteva allungare le sue dita nere su ogni cosa.

A quei tempi il buio lo trovava in cucina se la notte scendeva di nascosto a prendere i biscotti, ma l’orologio del forno con i numeri rossi e la spia verde della caffettiera le dicevano di stare tranquilla. Lo squarciavano i fari della macchina quando la sera uscivano a mangiare la pizza, e lo ammazzavi per un attimo con il flash del telefonino. Lo si faceva per portare la torta con le candeline, però era divertente. Era rinchiuso nel capanno degli attrezzi, e lí sí che faceva paura. In quelle tenebre, che puzzavano di benzina e di vernice, il decespugliatore, il vecchio aspirapolvere, una sedia sfondata, l’appendiabiti diventavano mostri pronti a sbranarti. Solo i topi in quel nero si sentivano piú spavaldi.

Ma adesso il buio la soffocava, le premeva addosso, e in combutta con il silenzio la tramortiva. Ottuso e compatto, penetrava in ogni angolo, in ogni interstizio, in bocca, nei buchi del naso, nei pori della pelle. A volte calava cosí veloce che non avevi neanche il tempo di organizzarti, altre arrivava piano, si mischiava con la luce, insanguinava il sole e lo condannava a scomparire in fondo alla pianura. Le candele non servivano a niente. La palla crepitante che spandevano non bastava a vincere la tenebra anzi, rendeva tutto piú sinistro e minaccioso.

Anna con il tempo imparò a non averne paura, ci si immergeva certa che ne sarebbe riemersa. Se ne stava sotto una coperta stretta a suo fratello. Quando le scappava la pipí la faceva in una bacinella accanto al materasso, e a un certo punto il sonno se la prendeva e la restituiva al giorno.

Nuvole o pioggia, freddo o caldo, il buio, prima o poi, perdeva la sua quotidiana battaglia con la luce.

Come se le avessero gettato addosso una secchiata d’acqua, Anna riemerse dal sonno spalancando le braccia, sbatté con un gomito contro la parete e schizzò in piedi. La torcia le scivolò dalle ginocchia. La bloccò con la suola della scarpa e l’accese disegnando ovali luminosi sulla superficie del cilindro.

Quanto aveva dormito?

Si accarezzò la mano ferita aspettando che il cuore si placasse. Decise di fare altri cento scalini. Se non fosse arrivata in cima, avrebbe rinunciato.

A quarantasei la luce inquadrò una porticina spalancata e un minuscolo stanzino pieno di pulsanti. Qualcuno doveva averci passato la notte, sul pavimento erano sparse bottiglie di vino vuote e una coperta. A un lato una scaletta verticale conduceva a una botola chiusa da una specie di volante metallico. Era duro, ma forzando con tutte e due le mani riuscí a sbloccarlo. Spinse su lo sportello aiutandosi con la testa.

Fu accecata dal sole, aspettò che le pupille si adattassero e a quattro zampe uscí fuori. Il vento soffiava scompigliandole i capelli, le fischiava nelle orecchie e le entrava in bocca. Emozionata e impaurita si aggrappò al corrimano che circondava il tetto della turbina e guardò.

Oltre le colline i resti carbonizzati dei paesi formavano incrostazioni sulla pianura che si stendeva come una tavola nera fino alla costa. L’autostrada la tagliava come un segno di matita grigia. Il mare sembrava un foglio di carta stagnola su cui erano posate un’isola scura e tonda come un bacio Perugina e una piú lontana e piccola. In fondo le parve di scorgere una strisciolina piú opaca, magari solo un effetto ottico o un’illusione.

Il continente.

Forse oltre lo Stretto il mondo era tornato come prima, i Grandi facevano figli e andavano in macchina, i negozi erano aperti e non si moriva a quattordici anni. Forse la Sicilia era stata dimenticata insieme a tutti i suoi orfani. Di tante leggende e ipotesi assurde che aveva ascoltato, questa le sembrava l’unica plausibile, l’unica a cui fosse possibile credere, l’unica per cui valesse la pena muoversi e andare a vedere.

Sollevò il mento, chiuse gli occhi provando a deglutire la scheggia che le straziava la gola. Il vento le portava via le lacrime. Strinse il corrimano e sussurrò: – Giuro che se riesco a riprendere Astor attraverso il mare e scopro se i Grandi sono ancora vivi –. E colpí con la fronte la lastra di acciaio su cui era stesa.

Si girò a guardare verso l’interno dell’isola. Le colline evaporavano una nell’altra, passando dal blu all’azzurro all’indaco. Una strada seguiva le pieghe del terreno fino a raggiungere, accanto a una gru gialla, una grande costruzione isolata.

L’hotel.

Corse giú dalla turbina nel buio, urlando e tirando manate contro le pareti. Quando arrivò in fondo le girava la testa. Attraversò il campo di grano con il cielo che dondolava e tornò sull’asfalto. Tirò fuori la felpa e riprese la marcia.

Dopo una breve discesa la strada proseguiva in piano stirandosi come una fettuccia.

Il paesaggio cambiò all’improvviso, quasi a dipingerlo fosse stato un altro pittore, e il giallo del grano s’impastò con il grigio dei sassi. La carreggiata era coperta da uno strato di sabbia sottile. Intorno crescevano solo cespugli, agavi e qualche chiazza spelacchiata di erba secca. Asini scheletrici brucavano su un crinale scosceso, e in cielo, fermi come aquiloni, i falchi ad ali spiegate puntavano le loro prede. Nella luce morente del giorno le colline pietrose parevano gusci di tartarughe morte.

Colta da un presentimento, Anna si girò.

Il cane era lí. La seguiva tenendosi a distanza.

Andarono avanti cosí per un po’, poi la ragazzina, esasperata, prese un sasso e glielo tirò. – Vai via!

Il maremmano lo schivò con uno zompetto aggraziato e la fissò, sembrava avere qualcosa di importante da dirle.

Lei gli corse contro, pestando i piedi e sollevando le braccia. – Lasciami in pace!

Il cane girò su se stesso e scappò senza fretta, come se gli pesasse il culo, sparendo tra i cespugli.

La ragazzina riprese la marcia, ma un attimo dopo se lo ritrovò dietro. – Senti, se vuoi, seguimi pure. Non ho niente da darti, però –. E accelerò il passo senza piú voltarsi.

In un piazzale polveroso galleggiava nella luce incerta del crepuscolo la carcassa di una corriera blu. Non aveva piú i vetri ed era ricoperta di scritte e graffiti. Dentro i sedili erano sventrati e il pavimento era nascosto da uno strato di spazzatura.

Anna salí sul tetto e si sedette a gambe incrociate sulla lamiera.

Il cane la osservò per un po’ piegando la testa, e sparí sotto il pullman.

L’uva nello zaino era schiacciata, ma Anna la mangiò lo stesso, fissando il cielo che stingeva le bave arancioni del tramonto in un grigio perlaceo, e piú su scuriva fino a trasformarsi in una notte stellata.

Appena fu buio il vento si quietò.

La fame non le era passata e là si sentiva un po’ esposta. Mise lo zaino sotto la testa, si girò su un fianco e infilò le mani tra le cosce.

Cercò di immaginare che cosa avrebbe fatto arrivata all’albergo.

Smettila.

Cominciò a dondolarsi e piano piano le paure furono sopraffatte dalla stanchezza.

Il sole si sollevò tra due speroni di roccia e insinuò i raggi tra le alture spelacchiate e i miseri boschetti di pini, sommergendo di luce un versante della valle.

Anna trascinava i piedi al centro della strada faticando a tenere gli occhi aperti. Il sonno sul tetto della corriera era stato poco, freddo e agitato da incubi. Il maremmano era sempre dietro di lei, a testa bassa.

All’improvviso prese ad abbaiare.

La ragazzina si girò.

Una nuvola di polvere si alzava in fondo alla strada e si muoveva verso di lei.

Un’automobile.

I latrati del cane rimbalzavano contro le rocce moltiplicandosi in un frastuono che non le faceva sentire niente.

– Zitto! Zitto! Stai zitto! – gli urlò.

L’animale, con i peli irti sulla groppa, si ammutolí, le diede un’occhiata di traverso e scattò con la coda dritta verso il polverone.

Adesso al centro della nube dorata si intravedeva qualcosa di piú denso, una massa scura, come un pianeta avvolto dal pulviscolo.

Anna uscí dalla strada e si nascose tra le agavi che crescevano esauste tra le pietre.

Avvicinandosi, la massa scura si allungò trasformandosi in due sagome sottili e distinte che avanzavano parallele.

Cavalli.

Il terreno prese a vibrare. Attraverso la vegetazione Anna vide sfilare otto zoccoli fiacchi che sbattevano sull’asfalto e quattro ruote che sostenevano un rimorchio con le sponde di legno tinte di giallo, su cui era dipinta la scritta «La granita di Assuntina». Un maschio e due femmine erano seduti a cassetta. Il ragazzino, piccolo e secco, reggeva delle corde che usava come redini. Alle sue spalle il pianale era coperto da una montagna di ossa giallastre. Il cane correva al lato del carro abbaiando. Dopo essersela presa con le ruote passò ai cavalli che, costretti dal giogo, nitrivano e scalciavano. Lui, per nulla intimidito, si lanciava tra le loro zampe come se volesse farli a pezzi, cancellarli dalla terra. Quelli provavano a galoppare, ma il trabiccolo sbandava a destra e a sinistra, ondeggiando e lasciandosi dietro una scia di ossa.

Il cocchiere, in mutande e camicia, urlava cercando di trattenere i ronzini. Esasperato, mollò le redini, afferrò un bastone che aveva accanto ai piedi e come il cavaliere di un torneo medievale si allungò in avanti, tutto teso, mentre le ragazzine lo reggevano per la camicia. Riuscí a dare una legnata sulla schiena del cane, ma questo, invece di placarsi, si attizzò ancora di piú e schiumando bava si lanciò sulle chiappe di uno dei cavalli. Un calcio sul costato lo sollevò in aria come se fosse di paglia e lo spedí contro il carro. Un istante dopo scomparve sotto le ruote.

I tre ragazzini esultarono.

Non sanno con chi hanno a che fare, si disse Anna rientrando sulla strada.

Il maremmano apparve dietro al rimorchio, si scrollò la polvere di dosso e si lanciò di nuovo verso i suoi nemici, schivando femori e tibie che volavano un po’ dappertutto. Azzannò il quarto posteriore del sauro di destra, che s’impennò e si rovesciò con un nitrito affogato sulla schiena dell’altro. I due franarono a terra in un groviglio di zampe, code e corde. Il carro si sollevò in equilibrio su due ruote e ripiombò giú, ribaltandosi in un fragore di legno e ferro. Ossa e ragazzini volarono in aria come se li avesse gettati via un gigante capriccioso. Le bestie, libere dal giogo, scomparvero al galoppo tra le colline, inseguite dal cane.

Il carro era capovolto al centro della strada. I tre ragazzini stesi nella polvere non si muovevano.

Anna aveva le mani nei capelli.

Quel cane è pazzo.

La stessa rabbia che l’aveva spinto a inseguirla sull’autostrada lo aveva lanciato contro i cavalli. Lo vide tornare indietro trotterellando, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Le si sedette di fronte, spazzando la strada con la coda.

Lei fece finta di non conoscerlo e si avvicinò al cocchiere allungato con la faccia contro l’asfalto. Addosso gli rimanevano brandelli di camicia e aveva perso una scarpa. Si era scorticato gomiti e ginocchia e si lamentava.

Anna gli si accucciò accanto, ma il ragazzino l’allontanò mostrandole i denti neri. – Lasciami stare!

Ricordava un ratto, di quelli grossi che stavano a Castellammare. La faccia era composta da una serie di triangoli. Gli zigomi, le orecchie a sventola e il mento appuntito. Portava tutti i segni della Rossa: le crosticine sulle labbra e sulle narici, le macchie paonazze sotto le ascelle, i lividi sulle braccia.

Lei prese dallo zaino la bottiglia e gliela porse. – Sono solo sbucciature. Tieni, mettici un po’ d’acqua.

Ma quello la colpí con un manrovescio.

Anna si carezzò la guancia senza dire una parola, strinse i pugni e si allontanò.

Il ragazzino afferrò un femore da terra. – Fermati! – La rincorse e le sbarrò la strada con il petto. – Dove credi di andare? Guarda che hai combinato! – sbraitò indicando il carro con l’osso. Aveva gli occhietti neri e lucidi e una stalattite di moccio giallo gli dondolava da una narice.

Anna lo spinse indietro. – Io? Io che c’entro?

Il ratto tossí, scatarrò un grumo giallo e le si avvicinò. Aveva l’alito che puzzava di carne marcia. – Il tuo cane ha distrutto il carro. Per poco quel bastardo non ci ha ammazzato a tutti –. Infuriato, tentò di colpirla con il femore.

Anna gli si gettò al collo, stringendolo forte. – Adesso hai rotto. Posa quell’osso! Posalo subito.

Il ragazzino, tignoso, boccheggiava e sputacchiava, ma non lo mollava.

– Ti spezzo il collo, – urlò lei, e gli piantò un pestone sull’alluce. Quello cacciò uno strillo e prese a saltellare su un piede.

– Io non c’entro niente con quel cane, – disse Anna.

Intanto le due femmine si erano rialzate e la fissavano. Una era secca e alta, l’altra bassa e tracagnotta. La secca indossava un vestito lungo a fiorellini, senza maniche, da cui spuntavano degli stecchetti che finivano in mani troppo grandi. La tracagnotta aveva le gambe corte e tornite che sorreggevano il sederone strizzato in una minigonna viola. Una maglietta a righe verdi e blu le insaccava tre rotoli di ciccia e un paio di tettone. Insieme sembravano due pupazzi dei cartoni animati.

– Che avete da guardare voi due? – chiese Anna.

Non le risposero, ma bisbigliarono tra loro.

Il ratto indicò il cane che, steso nella polvere, si godeva il sole. – Se non è tuo, ammazzalo.

– A quello lí? – Anna scoppiò a ridere. – Ammazzalo tu, io ci ho provato e non ci sono riuscita. Mi ha quasi sbranato, giú all’autostrada. E se non mi credi, chi se ne frega.

Il maremmano fece uno sbadiglio rumoroso, curvò la schiena e stirò le zampe.

– Scommetto che è stata lei a dirgli di attaccare i cavalli –. La seccagnona si rivolse al ragazzino. – Anche mio padre aveva un cane, si chiamava Annibale. E odiava le pecore.

La grassona sollevò gli occhi al cielo. – Fiammetta, ti prego, non ricominciare con la storia di Annibale.

– Il lavoro di giorni buttato –. Il ratto era affranto. – E adesso come si fa? Come glielo diciamo all’Orso che abbiamo perso le ossa e pure i cavalli?

– Quello si arrabbia tantissimo. Ha un carattere… – aggiunse Fiammetta.

– Scordiamoci le collane –. La chiatta scosse la testa. – Siamo fregati –. E abbracciò l’amica.

La secca scoppiò in un pianto che assomigliava a un belato. – Aveva detto che ci faceva stare con lui…

Il ratto sollevò le spalle. – A me la dà lo stesso la collana… A voi due no. A voi non vi sopporta nessuno.

Fiammetta non capiva. – Perché?

La grassona scosse la testa. – Lo sai perché? Perché lui già ce l’ha la collana. E non ce l’ha detto.

– È vero, Katio?

– Sí. È vero –. Il ragazzino fece un sorrisetto infido. – Me l’ha data Angelica.

– Maledetto –. La chiatta lo caricò a testa bassa, lo afferrò per i capelli e cominciò a tirarlo.

– Lasciami, bastarda, – urlava Katio prendendola a calci negli stinchi, ma la cicciona non cedeva.

– Fiammetta, aiutami.

– Eccomi, Chiara –. La secca fece tre passi con i suoi trampoli e come un pipistrello si attaccò anche lei ai capelli di Katio. I tre cominciarono uno strano girotondo urlando e spingendosi.

Anna era a bocca aperta.

Una voce alle loro spalle interruppe la lotta. – Scusate… – In mezzo alla strada, un ragazzino con un’enorme anguria poggiata tra scapole e collo li chiamava. – Un’informazione…

Indossava un lungo cappotto beige che si trascinava dietro come un mantello. Sotto era nudo e ai piedi aveva un paio di scarpe di cuoio lavorato, con i lacci, che un tempo dovevano essere state eleganti. – È questa la strada per l’hotel? – Il cranio sembrava essere finito sotto una pressa che gli aveva mischiato i connotati. Gli occhi non erano allineati, uno era piú basso, semichiuso, nascosto dallo zigomo, e sopra la fronte alta e bitorzoluta crescevano ciuffi di peli biondastri che parevano appiccicati con la colla.

I tre avevano smesso di lottare e lo osservavano increduli. L’anguria doveva pesare minimo venti chili. Chiara fu la prima a riprendersi: – Che ci fai con quello?

Il tipo si prese qualche secondo, come se cercasse la risposta migliore, poi posò il frutto a terra. – È un dono per la Picciridduna. Dicono che se porti dei regali speciali ti cura –. Tirò fuori dalla tasca del cappotto uno straccio e cominciò a lucidare la buccia striata. – Mi manca poco.

– E la faccia? – domandò Fiammetta.

– Quella rimane cosí –. Sollevò le spalle. – Quando ero appena nato mio padre mi ha chiuso la testa in un cassetto.

Katio si avvicinò al ragazzino. – E il cocomero? Dove l’hai trovato?

– Non è un cocomero, è un mellone d’acqua. Non ne esistono altri cosí grandi e dolci in tutto il mondo –. Si batté il petto tutto fiero. – L’ho fatto crescere io. Gli ho dato il concime.

Fiammetta allungò il collo da avvoltoio, esaminandolo. – Proprio enorme…

– Anche voi ci andate? Possiamo fare la strada insieme.

Il ratto sfiorò il frutto con la punta delle dita, come se volesse accertarsi che non era di plastica. – Perché non ce lo fai assaggiare?

– Non posso, è per la Picciridduna.

– Dài, solo un pezzettino.

– No! – Il ragazzino abbracciò il proprio tesoro. – Devo portarlo all’hotel.

Katio gli diede una pacca sulle spalle troppo forte per essere amichevole. – E tu credi che basti un mellone per salvarsi? Sei pazzo –. Improvvisamente divenne serio. – Ma se me lo fai mangiare ci parlo io con l’Orso…

Ad Anna sembrava di vedere i pensieri che scorrevano nella testa del disgraziato col cappotto. Dritti, uno dietro l’altro, come i vagoni di un treno lento e rumoroso. Alcuni avevano il punto interrogativo, altri solo il punto. E non sapeva trattenerli. Infatti domandò: – E chi è l’Orso?

Katio schiuse un sorriso sui denti guasti. – Allora non sai proprio niente? Rosario Barletta, detto l’Orso, è il capo all’hotel. È un amico mio, è lui che organizza la festa e che comanda i bambini blu. Se ci dài il mellone ci parlo io, cosí potrai mangiare la cenere e salvarti –. Si baciò gli indici. – Promesso.

Il ragazzino si accovacciò sopra il mellone come se dovesse covarlo.

– Allora non lo vuoi dividere con noi? – fece Katio.

Il poveretto guardò Anna e Fiammetta, implorando aiuto con gli occhi.

– Pensa se è marcio –. Il ratto insisteva. – Pensa se Rosario lo apre e scopre che è marcio. Quello ti butta giú dal tetto dell’hotel.

Il ragazzino aveva la voce rotta. – Non è marcio… – Poi, con una smorfia di dolore, capitolò. – Va bene, prenditelo.

Katio sollevò un pugno come se avesse fatto goal.

Anna parlò senza accorgersene. – Lascialo. Vuole portare il suo mellone? Faglielo portare.

Il ratto le lanciò un’occhiata perfida, poi si rivolse tutto gentile al ragazzino. – Scusami, ha ragione lei –. Indicò la strada. – Vai pure –. Ed esplodendo un grido di gioia piantò il tallone nell’anguria, che si aprí rovesciando la polpa rossa e i semi neri sull’asfalto.

Il poveretto cacciò un singulto strozzato e si stese sui resti succosi del suo unico bene. Anche Chiara e Fiammetta ci si gettarono sopra, come due indemoniate, raccattandone pezzi e cacciandoseli in bocca.

– Figlio di puttana –. Anna si avventò su Katio, che le osservava soddisfatto ingozzarsi, e gli mollò un ceffone su un orecchio.

Il ragazzino vibrò e i suoi occhi schizzarono fuori dalle orbite come quelli di una raganella. Spalancò le labbra in un urlo muto, si sfregò il padiglione e crollò sulle ginocchia piangendo.

Le sue amiche, troppo prese ad abbuffarsi, non lo degnarono di uno sguardo. Anna puntò il culo di Chiara e con la suola della scarpa la spinse in avanti. La cicciona si grattugiò il grugno sull’asfalto. La secca, con la faccia imbrattata di succo rosso, schizzò indietro come un trampoliere e si allontanò sgambettando.

– Dài, andiamo. Lascia perdere –. Anna afferrò il meschino per un polso. Quello però non si muoveva. Singhiozzava dondolando il cranio deforme. – Fai come vuoi –. Si girò verso il cane che era steso nella polvere. Provò a fischiare, ma le uscí fuori una pernacchia sfiatata.

Il maremmano sollevò la testa, le gettò un’occhiata disinteressata e si ributtò giú.

– Vaffanculo pure tu!