La sagoma del Grand Hotel Terme Elise era visibile già da un paio di chilometri di distanza, si allungava sull’orizzonte come una nave da crociera arenata su una collina. Colonne di fumo si sollevavano dal tetto.

Anna passò sotto un arco di pietre nere che sormontava la strada. Femori slavati dalla pioggia, appesi a degli spaghi, tintinnavano come campane cinesi. Su un pilastro erano incastonate delle grandi lettere dorate: «HO ME ELI». Le altre erano cadute. Ai lati della stradina qualcuno aveva piantato degli ulivi secolari, ora mezzi morti. Mulinelli di polvere danzavano tra le rocce scure e i fichi d’India. Il vento portava odore di zolfo e plastica bruciata.

Si sedette, nella trachea contratta l’aria entrava appena. L’ansia era montata piano. Ogni metro che l’aveva avvicinata all’hotel era stato piú faticoso e adesso che lo aveva davanti non era sicura di farcela.

E se lo hanno ucciso?

A un centinaio di metri da lei dei ragazzini si muovevano tra gli arbusti. Sembravano raccogliere qualcosa da terra.

Lasciò la strada passando tra massi scuri che come sentinelle circondavano l’albergo, si nascose tra due rocce e poggiò il mento sulle ginocchia. Aveva la fronte bollente ed era scossa dai brividi. Rimase a fissare la distesa desolata che nella luce del tramonto si tingeva di rosso.

Forse poteva aspettare il giorno dopo.

Sua madre si fece largo tra i cespugli. Portava i jeans a vita bassa con la cinta nera, i sandali di cuoio e la maglietta bianca di cotone spesso. La vide sedersi di fronte a lei incrociando le gambe. Il filtrino della sigaretta tra le labbra, la cartina con il tabacco tra le dita.

Che hai?

Ho la febbre.

La madre prese il filtro e lo sistemò in fondo alla cartina. La punta della lingua scivolò sulla colla. Un rapido movimento di pollici e indici creò la sigaretta. L’accese.

E tuo fratello? Lo lasci lí?

No, ci vado domani. Adesso dormo un po’.

La carta sfrigolò avvolgendo il viso di Maria Grazia nel fumo. Tra le ciocche bionde emersero gli occhi lucidi, cerchiati, quelli degli ultimi giorni.

Lo sapevo che non potevo fidarmi…

Eccola di nuovo nella sua stanza, stesa tra le lenzuola stropicciate in una pozza di sudore.

Sei fatta della stessa pasta moscia di tuo padre.

Anna strinse i pugni e si asciugò con il polso gli occhi velati dalle lacrime.

Tra i rovi apparve il cane. La osservava con gli occhi malinconici e la lingua fuori dalla bocca.

Anna allungò la mano. – Sei tornato.

Il maremmano fece due passi, piegò il collo, le annusò i polpastrelli con il naso screpolato e le diede un paio di leccatine gentili.

– Io e te siamo amici, – gli disse lei, ingoiando un groviglio di spine.

Il cane si abbandonò accanto alla sua padrona, allungò il testone tra le zampe e si addormentò.

Anna restò immobile, con il pelo sporco e puzzolente che le strisciava sulla coscia. Poi, timorosa, cominciò a carezzarlo. Al contatto con le dita i muscoli dell’animale vibravano. Una zampa posteriore ebbe uno spasmo di piacere.

– Come ti chiami?

Quello inarcò la schiena e stirò la bocca.

– Sei proprio un coccolone –. Sorrise. – Ecco come ti chiamerò, Coccolone.

Fu cosí che, dopo Salame e Manson, il cane prese il nome di Coccolone.

Anna accese la torcia, il fascio di luce si riempí di nugoli di moscerini. Gli occhi del cane brillavano di un blu elettrico.

– Stai qua buono –. Gli carezzò la fronte. – Torno presto –. L’animale la guardò attento e non si mosse.

L’hotel era avvolto da nuvole di fumo che si tingevano dei bagliori rossastri di fuochi. Un frastuono ritmico di percussioni metalliche rimbombava lontano. Anna sfilò accanto a un gruppetto che andava nella sua stessa direzione, figure scure che ridevano e chiacchieravano fra loro. Alle orecchie le arrivarono folate di parole incomprensibili, rantoli e colpi di tosse.

A mano a mano che procedeva gli assembramenti aumentavano. Molti riposavano seduti sui muretti o coricati per terra in bivacchi improvvisati.

Sgusciò veloce nella folla fino a quando il flusso si trasformò in una coda disordinata che avanzava a ondate. I lampi dei falò lontani tingevano volti coperti di macchie e bocche senza denti. Era una processione di storpi, gobbi, piagati. Quasi tutti avevano borse, buste piene di roba o trascinavano trolley gonfi.

Due se ne stavano in disparte a fumare.

– Io ho tre scatole di carne. Tu che hai portato? – diceva uno.

– Questo… – rispose una voce femminile. La fiammella di un accendino tremolò nell’oscurità e si riflesse sul vetro di una bottiglia con l’etichetta rossa.

– Cos’è?

– Vino.

– Non basta, mica ti fanno entrare.

– E perché?

L’altro scoppiò a ridere. – Perché questa me la bevo io.

I due cominciarono a litigare senza troppa convinzione, da amici.

Per entrare bisogna dare qualcosa.

Che aveva nello zaino? Una bottiglia vuota. Un accendino. Un coltello. L’unica cosa di valore era la torcia, ma non voleva darla via. Era un’ottima lampada, potente, e non si era mai rotta. Anche le pile erano ancora buone.

Nella fila che proseguiva sotto i muri dell’hotel scoppiavano liti che finivano in urla e spintoni.

Era la prima volta dopo l’epidemia che Anna si trovava circondata da tanti esseri umani, e con tutta quella gente che le premeva addosso, la toccava e la spingeva le mancava il respiro. Aveva voglia di scappare, ma strinse i denti e si obbligò a rimanere in coda.

Mezz’ora dopo arrivò davanti ai cancelli.

Su una schiera di barili si scioglievano centinaia di candele e tre ragazzini dietro le sbarre controllavano chi entrava. A tutti e tre pendevano sul petto delle collane fatte di falangi umane.

– Che hai da offrire alla Picciridduna? – le chiese uno smilzo che aveva i capelli impastati con della poltiglia verde.

Anna gli passò la torcia.

Il ragazzino controllò che funzionasse e la consegnò a quello che gli stava vicino. – Va bene…

Il secondo, un piccoletto biondino, la buttò dentro uno scatolone insieme alle altre offerte, le osservò il seno e la fece passare mentre il resto della fila si accalcava contro le sbarre.

Attraversò un passaggio coperto, buio e ventoso, che portava ai giardini. I muri erano imbrattati di disegni e scritte. Ai lati del pavimento di pietra erano ammassati cocci, plastica, scatolette e lattine ammaccate.

Sbucò su un basamento che si affacciava sopra un anfiteatro. I gradoni di cemento grezzo digradavano fino a una vasca piena di spazzatura e acqua piovana alle cui spalle, dietro sei colonne corinzie, si vedevano ancora le recinzioni di un cantiere. Da cinque pire di pneumatici guizzavano fiamme alte che avvolgevano il teatro in un fumo acre e nero. Tutto era distrutto, cadente. Una serie di canali infestati di erbacce, da cui spuntavano come serpenti arancioni i corrugati dei cavi elettrici, percorreva l’emiciclo e scendeva verso la piscina.

La gente si accalcava ovunque. Quelli assiepati sulle scalinate sembravano dormire, molti si muovevano lungo le rampe. Sopra un terrapieno una banda di straccioni picchiava su dei barili un ritmo lento e monotono.

In alto incombeva l’albergo, sormontato al centro da una cupola di vetro. Un’ala era uno scheletro di pilastri di cemento, mentre nell’altra i lavori erano andati piú avanti e c’erano addirittura gli infissi e le tapparelle.

Anna si avventurò incerta per le scale ma non riusciva a procedere. Si fermò su un gradone ricoperto di barattoli vuoti di tonno, fagioli e ceci. Ne raccolse un paio, trovò un angolino libero e con due dita raschiò i fondi. Con la fame che aveva anche i ceci, che non aveva mai sopportato, le sembravano gustosi.

Non distante, su uno spalto, una ragazzina con un cappuccio nero e la collana di ossa stringeva tra le mani un cesto pieno di bottiglie di plastica. Tutti si accapigliavano per averne una. E chi riusciva a prenderla doveva difenderla dagli altri.

Dopo poco chi aveva bevuto cominciava a ondeggiare, con la testa sul petto e le braccia ciondoloni, cullato dal suono dei tamburi. Uno, avanzando a occhi chiusi, non si accorse che il gradone era finito, rimase per un istante con una gamba tesa nel vuoto e cadde di sotto tra scoppi di risate.

Anna si guardò intorno.

La tensione che si percepiva fuori dai cancelli pareva svanita. Tra le folate di fumo apparivano figure scomposte che si agitavano come a una festa o a un concerto, ma non c’era nessuno dell’età di Astor.

Accanto a lei scorse una schiena femminile, le scapole che si allargavano come ali di pollo e le gambe smagrite.

– Scusa –. Le toccò una spalla. – Lo sai dove tengono i bambini?

Non ebbe risposta.

Tirò la ragazzina per un braccio e quella le ricadde addosso. Aveva le guance incavate, come se un parassita l’avesse risucchiata dall’interno, gli occhi vitrei e la bocca contratta in un urlo muto.

Un colpo di vento spazzò l’anfiteatro. Sotto la luce baluginante dei fuochi si contorceva una distesa di corpi.

Anna si sollevò di scatto, si sfregò le braccia cercando di scacciar via, come fosse uno sciame di mosche, la morte che le si era appiccicata alla pelle e inciampò nella caviglia di un ragazzino. Un odore acido di urina le riempí le narici. Il poveretto tremava scosso dai brividi. La faccia, il collo e il petto erano ricoperti di piaghe, le braccia rigide e i pugni stretti come se stesse combattendo.

È una sala d’attesa.

Le chiamavano cosí. Si diceva che a Palermo una fosse allo stadio e un’altra a Mondello. Ci si trascinavano i finiti, i mezzi morti, per crepare insieme.

– Io… Io non ce l’ho la Rossa, – balbettò. Fece un paio di passi e fu avvolta da una nuvola di gas che le riempí i polmoni.

Risalí le scale di corsa, tossendo. Sotto lo scheletro di un alberello da cui pendevano stracci e buste vide una impastatrice per il cemento. Ci si nascose dietro e si rannicchiò su un fianco, la testa contro lo zaino.

Se non guardava, se non ascoltava, quel buio era lo stesso del Podere del gelso.

In pochi secondi le palpebre si fecero pesanti e crollò addormentata.

Il giorno l’accecò.

Anna si coprí il volto con le mani e sbirciò tra le dita il cielo lattiginoso. Il sole, appena sopra l’orizzonte, somigliava a una macchia di sugo su una tovaglia bianca.

Alla luce l’anfiteatro appariva piú piccolo. Dai cumuli di cenere i resti degli pneumatici esalavano fili neri e dritti. Il terrapieno dei tamburi era deserto. Sugli spalti rimanevano pochi malati.

Si tirò sui gomiti, sbadigliando.

Di fronte a lei una figura in controluce si compose in un volto familiare. – Tu che ci fai qui?

Pietro era a gambe incrociate. – Sono venuto a cercarti, – rispose. Raccolse da terra una bottiglia che sul fondo aveva ancora due dita di liquido nero e se la portò al naso. – Hai bevuto questa roba?

Anna si sgranchí la schiena. – No, cos’è?

– La distribuiscono la sera. Dentro c’è di tutto, alcol, pillole, sonniferi… La chiamano «le Lacrime della Picciridduna». Io una volta me ne sono fatta fuori mezza bottiglia e dopo ho sfondato di testa una vetrata. Guarda –. Le mostrò una cicatrice scura e carnosa dietro l’orecchio sinistro. – Neanche me lo ricordavo. Me lo hanno raccontato.

La ragazzina si aggiustò la maglia. – Ma non c’erano dei morti?

– Li portano via appena spunta la luce e li trascinano in una fossa.

Anna lo osservò. Sembrava stanco, con il viso stropicciato e i capelli arruffati, ma gli occhi liquidi e grandi erano belli. – Tu non dovevi andare a cercare le scarpe?

Lui prese una scatoletta di tonno vuota e se la girò tra le mani. – Senza di me non lo troverai mai tuo fratello.

Anna si passò le dita tra i capelli e piegò la testa di lato.

È venuto per me.

Pietro pulí con l’indice i rimasugli di pesce e se li mise in bocca. – È giú alla cava. Ma se ti beccano finisci nella cisterna. Solo i guardiani, quelli con la collana, possono andarci, però io conosco una strada. Ti ci porto, se vuoi.

Anna rimase un attimo zitta. – Com’è che sai tante cose, tu?

Lui le diede le spalle. – Ce l’avevo anch’io la collana. Poi ho avuto un problema ed è meglio che non mi vedono troppo in giro –. Lanciò la scatoletta verso la piscina, sbagliando clamorosamente la mira. Colpí in testa un ragazzino steso un paio di gradoni piú in basso.

Quello si tirò su e lo indicò. – Ma che minchia… – E cominciò a tossire.

Pietro sollevò una mano. – Scusami.

Anna applaudí. – E meno male che non volevi farti notare –. Si allacciò una scarpa. – Andiamo.

I due aggirarono la vasca passando tra gruppi di ragazzini che dormivano ammassati come criceti nella paglia. Alcuni si erano avvolti dentro teli di cellophane.

Risalirono una scala di cemento e raggiunsero uno spiazzo dove un capannello di guardiani scaldava sul fuoco una latta argentata. Fissavano il cibo in silenzio, sbadigliando, come se dovessero cuocerlo con gli occhi.

– Non li guardare, – le sussurrò Pietro. – Da qua in poi devi avere la collana per muoverti.

Attraversarono una macchia di ginestre e quando ne uscirono davanti a loro si aprí la pianura soffocata sotto una nebbia lattescente, da cui sbucavano le cime sbiadite delle colline. Proseguirono su una stradina che dopo un centinaio di metri era interrotta da una barriera di tavole inchiodate. Lí vicino doveva esserci una latrina, perché arrivavano zaffate di urina e di escrementi.

Scivolarono sedere a terra per un costone coperto di piante dalle foglie larghe e dai frutti spinosi e si ritrovarono su un pendio coperto di grano. Pietro si apriva la strada tra le spighe con le mani e ogni tanto si voltava a controllare che Anna lo seguisse.

Si acquattarono dietro dei cassoni pieni di calcinacci ai margini di un piazzale sterrato su cui, accanto a delle baracche prefabbricate, erano abbandonati un camion e una ruspa.

– Lí c’è la strada che va alla cava.

Anna si sporse a guardare.

– Dobbiamo correre veloci, sennò dall’albergo ci vedono, – continuò Pietro. – E se ci portano da Angelica io sono fregato.

– Chi è Angelica?

Pietro si morse un labbro. – Qui decide tutto lei, insieme all’Orso.

Anna si ricordò dell’Orso, ne aveva parlato Katio, quello del carro. – E dove sta?

– A quest’ora sarà a dormire.

La ragazzina piegò la testa e lo guardò da sotto in su.

Pietro dondolò un po’ il bacino. – Si era innamorata di me, non mi lasciava in pace. Mi voleva.

Anna scoppiò in una risata fragorosa.

Lui le tappò la bocca con una mano e urlò sottovoce: – Zitta! Ci sentono…

Anna si asciugò le lacrime con un polso.

Com’è che la mamma chiamava papà quando si vantava che era capace di tuffarsi di testa dallo scoglio del prete? – Sei tale e quale a mio padre, un minchionaccio.

– È vero, te lo giuro –. Pietro si baciò gli indici. – Per questo me ne sono fuggito. Quella è pazza. Diceva che se andavo con lei mi faceva vedere la Picciridduna, ma era tutta una scusa. E per favore, possiamo parlarne dopo? – Cercò un tono adulto. – Adesso ascoltami: al mio via corriamo senza fermarci fino alla ruspa e ci nascondiamo.

– E com’è? Bella?

– No. È troppo secca, tipo strega.

– Perché? A te come ti piacciono? Tutte… – Anna disegnò delle curve nell’aria.

Pietro giunse le mani. – Ti prego…

La ragazzina tentò di farsi seria, ma gli occhi continuavano a ridere. – Quindi se ci beccano ti tocca Angelica?

– Non ci beccano.

– E perché?

Pietro la guardò dritta negli occhi. – Io e te siamo invisibili.

– Lo vedi che sei un minchionaccio.

Forse non erano invisibili, ma nessuno li vide quando attraversarono il piazzale di corsa.

Anna inchiodò accanto a un cingolo dello scavatore. Un secondo dopo le scivolò accanto Pietro, che le fece segno di aspettare. Aveva il fiatone. – Hanno chiuso la strada.

La sterrata che con una serie di tornanti scompariva nella valletta sottostante era sbarrata da una rete metallica. Dove i contrafforti la puntellavano era ancora in buono stato, il resto era scomparso sotto le frane.

– Dobbiamo passare per il bosco, – disse il ragazzino.

Anna ebbe un dubbio. E se la stava prendendo in giro? Come faceva a fidarsi di un minchionaccio, uno che raccontava che una certa Angelica lo voleva e girava in cerca di un paio di scarpe?

Ma questo ho.

Gli alberi si aggrappavano uno all’altro come se fossero terrorizzati di precipitare a valle. L’edera strizzava le querce, ricadeva in grappoli e trasformava il terreno, cosparso di buche e rocce, in un intrico verde e insidioso. Il sole si era alzato e con lui nugoli di moscerini che mordevano caviglie e braccia.

Anna seguiva Pietro giú per il costone, preoccupata. – Sei sicuro che di qua è giusto?

– No, – confessò Pietro.

– Se hai sbagliato ce la dobbiamo rifare in sali… – Non riuscí a finire la frase perché inciampò su una radice e si ritrovò a scivolare di schiena. Provò ad afferrarsi all’edera, ma se la portò via. Di culo, strillando, affrontò una gobba che la sbalzò in aria. Rami e foglie le frustarono il volto e le braccia.

Il bosco la sputò fuori.

Con una serie di capriole atterrò su un ghiaione ripido. Cercò di frenare l’abbrivo con mani e piedi, ma scendeva sempre piú veloce, sollevando onde di sassolini, finché tutto il pendio si trasformò in una frana. Una macchiolina verde, che all’inizio sembrava solo un cespuglio, cominciò a ingrandirsi senza che lei potesse rallentare. S’impigliò, come un pesce in una rete, tra i rami di un fico selvatico aggrappato sul ciglio di un burrone che scendeva dritto fino alla base della cava. Il cuore non si era accorto di essere salvo e le pompava sangue nelle tempie. Piegò le dita imbiancate e si passò la lingua contro i denti impastati di polvere.

Poco dopo, annunciato da un urlo, le arrivò accanto Pietro, spruzzandola di sabbia.

I due, stesi sotto la volta di foglie, si guardarono stupiti di essere ancora vivi. Erano tutti bianchi. Scoppiarono a ridere.

Anna tirò su col naso. – Ti posso chiedere una cosa? Non ti offendere però… – Si schiarí la voce. – Perché sei fissato con quelle scarpe?

Pietro si strofinò le palpebre, prese un respirone e si lasciò andare indietro con la nuca sul braccio. – È inutile che te lo racconto, tanto non mi credi.

– Provaci.

Lui tossí. – Avevo questo amico, Pierpaolo Saverioni. Era piú grande di me di due anni. Gli è arrivata la Rossa, forte. Era tutto coperto di macchie, respirava appena e non si alzava piú dal letto. Gli mancava poco. Una mattina mi dà una pagina di giornale, quella che ti ho fatto vedere, e mi dice che quelle scarpe sono magiche, che potevano salvarlo e mi chiede di andare a cercarle. Era sicuro. Che gli rispondevo? Era un mio amico, mi aveva tenuto in casa sua e mi aveva dato da mangiare. Sono andato al centro commerciale e le ho trovate. Le Adidas Hamburg. Ce n’erano decine di scatole –. Scacciò una mosca che gli ronzava intorno. – Pensavo fosse una stronzata e ne ho preso un paio solo, un 42. Lui se l’è messe, anzi gliele ho messe io, perché non ce la faceva, e me ne sono andato a letto –. Rimase qualche secondo muto. – Il giorno dopo era scomparso. Sul letto aveva lasciato la pagina delle scarpe. L’ho cercato ovunque. Era impossibile che se ne fosse andato con i suoi piedi, era ridotto una larva, non si muoveva piú. Ho pure guardato che non si fosse buttato dalla finestra.

La ragazzina si grattò una guancia. – E dov’era?

– Dall’altra parte. Nell’universo in cui tutto è come prima, dove non c’è mai stata la Rossa e le cose vanno avanti nel modo giusto. Io non lo so perché quelle scarpe funzionano cosí, ma Pierpaolo mi ha spiegato che indossandole prendi una strada, una via che ti porta in questo altro mondo –. Sollevò le spalle. – Sono corso al centro commerciale e non ce n’erano piú. Tutte scomparse –. Si girò verso Anna.

Lei lo fissò. – E se le trovi e non funzionano?

Pietro abbassò gli occhi. – Tu non credi che c’è un modo per salvarsi? Siamo proprio destinati a morire cosí?

Lo sguardo di Anna finí su un ragno marrone che fremeva al centro della tela scossa dal vento. – Io non credo a niente. Io devo trovare mio fratello, ho promesso a mia madre che non l’avrei abbandonato.

– E dopo? Che cambia? Tra un po’ tu muori e lui resta solo.

– Ma prima lo porto nel continente.

Il ragazzino si sfregò la punta del naso. – In Calabria?

– Magari lí dei Grandi si sono salvati e hanno il vaccino.

– Lo vedi che anche tu credi in qualcosa.

Anna chiuse gli occhi.

Le dita di Pietro cercarono le sue. Lei gliele strinse.

Rimasero fermi, mano nella mano, rigidi come due salami, e ci sarebbero restati chissà quanto se non ci fosse stato quello strano tintinnio.

Anna drizzò la testa. – Lo senti?

Pietro sembrava non volersi muovere. – Cosa?

– Questo rumore. Lo senti? – La ragazzina si fece largo tra i rami e aprí uno squarcio nella cortina di foglie. Nel cielo azzurro galleggiavano nuvolette bianche e dense. Sotto, appeso con un cavo d’acciaio a una gru, dondolava un fantoccio con le sembianze di uno scheletro umano. Anna non era brava a calcolare le grandezze, ma quel coso era piú alto del palazzo della banca in piazza Matteotti.

Era costruito con assi di legno unite da articolazioni di corde. La cassa toracica somigliava allo scafo di una barca e il bacino aveva il buco al centro. Tranne mezza gamba sinistra e il braccio destro, ancora da finire, era interamente rivestito di ossa. Dagli omeri pendevano omeri, femori dai femori, clavicole dalle clavicole. Ma la cosa piú stupefacente era il cranio, composto da teschi disposti in spirali. La spina dorsale era un mosaico di vertebre. Le ossa, libere di muoversi, sbattevano tra loro mosse dal vento.

Pietro si affacciò a vedere. – Alla fine lo hanno fatto.

Anna era ammirata. – È bellissimo.

– Serve per la festa della Picciridduna.

In basso, intorno alla gru, c’erano tanti mucchi d’ossa. Piú lontano, accanto a un lungo capannone di lamiera, un’autocisterna, montagne di pneumatici e cataste di legno.

Anna e Pietro seguirono a quattro zampe il ciglio sabbioso del precipizio e scesero nella cava. La marionetta li guardava con le sue orbite nere fatte con ruote di trattore.

Il vento correva tra i cumuli di sabbia, sbuffava sul piazzale sollevando mulinelli di polvere e facendo sbattere la porta del capannone. L’autocisterna era in buone condizioni e si vedevano ancora le impronte degli pneumatici che aveva lasciato dietro di sé.

I mucchi di ossa piú piccoli erano divisi a seconda del tipo. Tibie, costole, radii e cosí via. Quelli piú grandi erano ancora misti.

Anna poggiò le mani sui fianchi, sconsolata. – Qui non c’è nessuno, torniamo su.

Pietro si lasciò cadere a terra. – Eppure…

Anna lo zittí. – Cos’è quello? – In fondo alla valle un polverone si stemperava nel cielo terso.

L’autista dell’autocisterna doveva essere stato un credente. Il cruscotto era tappezzato di santini di padre Pio e di papa Wojtyła. Su tutto svettava una targa dorata con impresso in stampatello: LA MISURA DELL’AMORE È AMARE SENZA MISURA.

Pietro e Anna, accucciati sulla poltrona del guidatore, spiavano attraverso il finestrino la nuvola di polvere che, ingrandendosi, si scompose in tre carretti tirati da coppie di cavalli simili a quello guidato da Katio. Ma questi, invece che ossa, trasportavano bambini. La carovana si fermò sotto la marionetta e tutti saltarono giú urlando.

Anna si ricordò di quando il pulmino giallo della scuola la lasciava davanti ai cancelli delle elementari e insieme a un mucchio di compagni scalmanati correva nel cortile. La differenza era che questi qui erano nudi e magri come lucertole.

Gli occhi della ragazzina rimbalzavano da uno all’altro cercando Astor, ma da lí erano tutti uguali. Si era immaginata che li tenessero legati come gli schiavi dell’Egitto, invece erano liberi e parevano pure contenti. Sei piú grandi li inseguivano come maestre, faticando a tenerli in riga. Ne acchiappavano uno e un altro sfuggiva. Alla fine riuscirono a condurli accanto a una fila di barili.

Pietro si diede un pugno sulla fronte e indicò una ragazzina alta, mezza nuda e dipinta di bianco. – Quella è Angelica –. Accanto a lei un tipo grosso, con le spalle cadenti e i fianchi sformati, prendeva da un bidone manciate di polvere blu e le gettava addosso ai bambini, che scomparivano in una nube color cobalto. – E quello è l’Orso, Rosario.

Anna gli strinse un polso. – Io quei due li ho già visti, sono quelli che hanno ammazzato Michelini.

Appena l’operazione di trucco fu conclusa una ragazzina sciancata portò una scatola di cartone e distribuí a tutti bottigliette di Coca-Cola.

Dopo la merenda Angelica soffiò in un fischietto e i blu si divisero in gruppi. C’era chi prendeva delle tibie e se le infilava dentro una sacca appesa al fianco e chi lavorava sui mucchi. Le operazioni avvenivano in modo rapido, segno che non era la prima volta. Quelli con le sacche si attaccarono a ganci che pendevano dalla gru e furono issati su a braccia da altri che reggevano le corde. Come scimmie, si arrampicavano sullo scheletro e dondolando si lanciavano da una parte all’altra, fissando le ossa a dei chiodi con il fil di ferro. I grandi, da sotto, li dirigevano urlando.

Anna si appiccicò al finestrino. – Eccolo. È lui.

– Quale?

– Quello là –. Puntò il dito verso un bambino in piedi su una catasta di ossa. – Vado a prenderlo.

– Aspetta… Aspetta… – Pietro fece per fermarla, ma lei si buttò giú dal camion e cominciò a correre.

Il bambino le dava le spalle. Tra le mani teneva un bacino come fosse un volante. Anna si gettò tra ulne e vertebre che le franarono sotto i piedi, allungò un braccio e riuscí ad afferrarlo per una caviglia. Il piccolo, cacciando uno strillo, le rovinò addosso.

La ragazzina si rialzò e vide sotto la pittura blu gli occhi azzurri di sua mamma, il naso di suo papà, i denti storti di Astor. Aveva le sopracciglia rasate. Gli sorrise. – Astor.

Lui la fissò perso, come se non la riconoscesse, poi deglutí un groppo e balbettò: – Anna… Anna… – E scoppiò in un pianto dirotto.

Anna gli tese la mano. – Andiamo.

L’altro scuoteva la testa con il volto deformato dai singhiozzi.

– Astor, andiamo.

Il fratello si pulí con il braccio il moccio che gli colava sulle labbra, ma non si mosse.

– Andiamo, – ripeté ancora Anna.

Ma il bambino fece tre passi indietro, come un gambero, affondando di schiena tra le ossa. – No. Non voglio…

Provò a sorridergli. – Dài, su.

Si era immaginata di tutto durante il viaggio, tranne che suo fratello non volesse venire con lei. Presa in contropiede riusciva solo a stiracchiare le labbra. – Torniamo dalle lucertole capellone.

Astor abbassò gli occhi. – Tu sei cattiva. Mi hai detto che erano morti tutti. Non ci sono i mostri, non esiste il Fuori –. Ricominciò a piangere.

Anna sentí crescere un ronzio nelle orecchie. La cava, le ossa, il burattino roteavano intorno a lei come una giostra sbilenca. Un nodo le chiudeva la trachea. Soffocando, disse: – L’ho fatto per te, per non farti vedere le cose brutte. Andiamo, ti prego, andiamo.

Il bambino, con il trucco blu impastato alle lacrime e al moccio, ingoiò aria e sospirò: – Non voglio. Qui ci sono i bambini, come me.

Con uno scatto Anna gli saltò addosso. – Adesso basta! – Lo afferrò per un braccio. – Sono tua sorella, capito? Decido io –. E lo trascinò nella polvere. – Ubbidisci, cazzo!

Il vento le portò un fischio acuto. Con la coda dell’occhio vide i blu che le galoppavano contro.

Astor si liberò con uno strattone e a quattro zampe risalí sul mucchio d’ossa.

I blu la tiravano per i capelli e la maglietta, le si attaccavano alle gambe. Anna finí a terra menando pugni e calci, ma appena uno si staccava un altro si aggrappava. Con uno sforzo impossibile riuscí a mettersi in ginocchio e ad alzarsi. Aveva un grappolo di bambini appesi addosso. Fece un paio di passi cercando di scrollarseli, ma quelli non mollavano e con un gemito ricadde nella polvere come un Cristo ansante.

La immobilizzarono a terra, tenendola per i polsi e le caviglie, mentre il sole, allo zenit, l’accecava.

Una sagoma smilza, in controluce, le chiese con una vocina afona: – Che vuoi da Mandolino? Lascialo in pace.

– Mandolino? Di che cazzo parli? – Anna strizzò gli occhi e distinse l’ombra di Angelica. Era tutta dipinta di bianco e cosí scheletrica che sembrava uscita da una bara. Una collana di ossa che aveva come medaglione un cranio di uccello le pendeva sui seni piccoli. Indossava un gilè viola aperto e un paio di pantaloni mimetici sdruciti le ricadevano sui piedi nudi. Degli occhiali da sole di metallo dorato le poggiavano sul naso aquilino, attraversato da una striscia nera che proseguiva sugli zigomi alti. I capelli divisi in tortiglioni le cadevano stopposi sulle spalle. Si avvicinò ad Astor che, accucciato sopra le ossa, fissava l’orizzonte con il pollice in bocca. Lo accarezzò in testa, come si farebbe con un cane. – Parlo di lui.

Anna cercò di sollevarsi, ma fu subito bloccata da tante manine: – Non si chiama Mandolino. Si chiama Astor. È mio fratello.

– Quanti anni hai?

Anna si girò e vide l’Orso. La testa cubica poggiava su un collo corto. La faccia dipinta di bianco era piatta come il palmo di una mano e sulla fronte traspariva una costellazione di ponfi. Una barbetta sporca di polvere blu si univa attraverso dei basettoni selvaggi al casco di capelli ricci. Addosso aveva una maglietta sbrindellata con su scritto «Vado al massimo, vado in Messico». Un paio di bermuda a scacchi verdi e neri, retti con uno spago, gli calavano fino ai polpacci, grossi come pagnotte.

Anna gli sputò sui piedi.

Angelica le si accucciò accanto con una sigaretta appesa alle labbra e la osservò. Fece un tiro, le sbuffò una nuvola di fumo in faccia e le infilò una mano nei pantaloncini.

La ragazzina cacciò un urlo cercando di divincolarsi dalla presa dei blu. – Lasciami stare, stronza.

L’altra le afferrò i peli del pube e tirò. Tra le dita le rimase una ciocca che osservò con attenzione. – Tredici, forse quattordici.

Anna ringhiò: – Voi vi coprite di bianco per nascondere la Rossa.

Si beccò un ceffone. Strizzò la bocca e s’impedí di piangere.

– Lasciatela, – ordinò Rosario, ma i bambini non si mossero, lo guardavano senza capire. – Ho detto di lasciarla –. Con una pedata ne spinse via uno e a quel punto tutti mollarono la presa.

L’Orso si grattò la barbetta. – Dici che è tuo fratello?

Anna si mise in piedi. – Sí.

– Qui non conta se sei fratello, cugino o amico –. Indicò i bambini con un gesto del braccio. – Loro appartengono alla Picciridduna. Pure Mandolino.

Anna inspirò con il naso. – Non chiamarlo Mandolino. Si chiama Astor.

– Tu! Come ti chiami? – domandò l’Orso ad Astor.

Lui borbottò qualcosa di incomprensibile.

Il ragazzino si toccò l’orecchio. – Non ho sentito. Come ti chiami?

Astor guardò la sorella, esitò e rispose: – Mandolino.

Negli ultimi quattro anni di vita Anna aveva sofferto e superato dolori immensi, folgoranti come l’esplosione di un deposito di metano e che le stagnavano ancora nel cuore. Dopo la morte dei suoi genitori era precipitata in una solitudine cosí sconfinata e ottusa da lasciarla idiota per mesi, ma nemmeno una volta, nemmeno per un secondo l’idea di farla finita l’aveva sfiorata, perché avvertiva che la vita è piú forte di tutto. La vita non ci appartiene, ci attraversa. La sua vita era la medesima che spinge uno scarafaggio a zoppicare su due zampe quando è stato calpestato, la stessa che fa fuggire una serpe sotto i colpi della zappa tirandosi dietro le budella. Anna, nella sua inconsapevolezza, intuiva che tutti gli esseri di questo pianeta, dalle lumache alle rondini, uomini compresi, devono vivere. Questo è il nostro compito, questo è stato scritto nella nostra carne. Bisogna andare avanti, senza guardarsi indietro, perché l’energia che ci pervade non possiamo controllarla, e anche disperati, menomati, ciechi continuiamo a nutrirci, a dormire, a nuotare contrastando il gorgo che ci tira giú. Eppure, lí nella cava, questa certezza vacillò. Quel «Mandolino» pronunciato a voce bassa le spalancò nuovi e piú limpidi orizzonti di dolore. Ebbe la sensazione che il cuore le si seccasse nel petto come un fiore in una fornace, mentre il sangue che le riempiva le vene si riduceva in polvere.

L’Orso sorrise soddisfatto. Angelica, tutta storta, ghignò. I bambini, come scimmie ammaestrate, cominciarono a ridere imitando i loro padroni.

Anna piegò il capo e se ne andò.

ASTOR CONTRO I MOSTRI DI FUMO

Tre giorni prima Astor era ancora il re del Podere del gelso. Un re con qualche linea di febbre e le afte sul palato, ma abbastanza in forma per giocare. Durante la notte la temperatura gli era calata e alle prime luci dell’alba si era risvegliato in una palla di lenzuola sudate.

Dalla finestra spirava un venticello fresco che era piacevole sentire sul collo e le spalle dopo aver sofferto tanto caldo.

Si stropicciò gli occhi, cacciò uno sbadiglio e ciondolò fino al terrazzino. Il sole era nel bosco, che tirava l’ultima boccata di aria fresca prima di immergersi nella calura, e sopra le cime degli alberi il cielo era chiaro, quasi bianco, ma salendo si scuriva, trattenendo rimasugli della notte.

Durante l’estate calda e infinita Astor aveva scoperto che quello era il suo momento preferito e gli piaceva goderselo in santa pace. Era anche il momento preferito dagli uccelli, che facevano le gare di canto. Ci partecipavano i passeri, i picchi, i pettirossi, gli storni e le cornacchie stonate. Quelli che avevano fatto notte, i barbagianni e i gufi, preferivano sonnecchiare nei loro nidi o come Peppe 1 e Peppe 2, una coppia di civette, tra le travi della soffitta.

Astor si attaccò a una sbarra della ringhiera e fece pipí: con il getto centrò una latta d’olio tra le erbacce.

La mamma aveva scritto nel quaderno che i bisogni andavano fatti nel bosco, lontano da casa, e se cacavi prima dovevi scavare un buco con la pala e dopo ricoprirlo. Però sua sorella non c’era e alcune cose, come appunto pisciare dal terrazzino, se le poteva permettere, bastava non dirlo. La cacca no, non l’aveva mai fatta da lí. Uno perché il culo non passava tra le sbarre, due perché gli faceva un po’ schifo.

Scese di sotto e trovò su uno scatolone il cibo che gli aveva lasciato Anna. Divorò un barattolo di lenticchie finendole con un rutto soddisfatto. Raccolse da terra un cellulare e se lo portò all’orecchio. – Anna! Anna! Dove sei? Quando torni?

– Ammazzo un mostro e torno, – si rispose con una vocina nasale che doveva assomigliare a quella di sua sorella. – Ho trovato del cioccolato, lo vuoi?

– Certo. Pure le patatine –. Poi telefonò alle lucertole capellone. – Ciao! Sono sveglio! Ci vediamo nel bosco. Tra un po’ arrivo –. Buttò il cellulare e tornò su.

Entrò in bagno, salí su uno sgabello e si osservò allo specchio.

Ogni volta scopriva qualcosa di interessante nelle narici in cui infilava il manico dello spazzolino, nel rosa delle gengive che diventava bianco se lo premevi, nelle orecchie che se le piegavi tornavano a posto con uno schiocco. Si batteva la pancia come fosse un tamburo, si prendeva in mano il pisello e si abbassava la pelle della punta. Ne usciva fuori, a seconda della luce, la testa umidiccia di un girino rosa, di un serpente cieco o l’uovo di un passero.

Quel giorno la sua attenzione si concentrò sulle sopracciglia. A che diavolo servivano? Perché aveva quei due boschetti uguali che il deserto della fronte separava dalla grande foresta dei capelli?

Aprí il mobiletto di formica bianca, prese tra i barattoli un rasoio Bic e se le rasò. – Ecco, cosí è meglio –. Adesso al posto delle sopracciglia aveva due macchie piú chiare che lo facevano somigliare a una lucertola.

In una scatoletta di aspirine teneva una chiave segreta. Sua sorella non lo sapeva, ma ne aveva trovata una che apriva la serratura della camera di mamma. La girò nella toppa e spalancò la porta. C’era buio. Scostò una tenda e una striscia di luce si dipinse sul muro.

Il segreto per non farsi scoprire era rimettere tutto nello stesso posto stando attento a non togliere la polvere. Lo scheletro di mamma però non lo aveva mai toccato. Tutti i gioielli che lo decoravano li aveva disposti Anna, lui aveva dato solo dei consigli.

Tirò fuori dalla libreria Il grande libro dei dinosauri. Si sedette in terra, sotto la luce, e cominciò a sfogliarlo. Lo conosceva a memoria, ma ogni volta notava dei particolari nuovi: un artiglio strano, una coda spinosa, il colore di una piuma.

Sua sorella gli raccontava di vederne tanti di quei dinosauri durante i suoi viaggi nel Fuori. I mostri di fumo ti avvelenavano con la puzza, ma questi qui potevano mangiarti tutto intero. Anche lui ne scorgeva qualcuno quando si appollaiava su un albero ai margini del bosco. Il suo preferito era l’eterodontosauro, un piccoletto poco piú grande di un gatto, tutto viola, con il muso a becco e una bella coda appuntita. Dal disegno non sembrava cattivo.

Con l’indice seguí le righe scritte e, sforzandosi, lesse ad alta voce: – L’eterodontosauro aveva tre tipi di denti. Quelli anteriori, piccoli, servivano a strappare le foglie, quelli posteriori, piú piatti, servivano per masticare. E i maschi avevano due denti lunghi ai lati della mascella –. Su un angolo della pagina, in un quadratino giallo c’era una domanda: – E tu quanti tipi diversi di denti hai?

Si toccò i denti e biascicò: – Io ho quelli normali e quelli che mi fanno male.

Lo sguardo gli cadde sull’armadio. L’anta era socchiusa. Dentro erano appesi i vestiti della mamma. Uno piú lungo degli altri era dello stesso viola dell’eterodontosauro. Si avvicinò e si grattò il collo. Se sua sorella avesse scoperto che era entrato nella stanza e aveva toccato i vestiti si sarebbe preso un sacco di botte. Doveva stare molto attento.

Salí sopra una sedia e aspirò l’odore che veniva dall’interno del mobile. Somigliava a quello delle caramelle verdi che quando le mastichi ti pizzica il naso. Era l’odore della mamma.

Si allungò e tolse il vestito dalla gruccia. Saltò giú e lo confrontò con il disegno. Uguale.

Lo indossò e si guardò allo specchio. Perfetto, il fondo formava la coda e lo scollo a V gli arrivava fino all’ombelico. Sul ripiano basso dell’armadio erano disposte in ordine le scarpe.

Ne tirò fuori un paio rosse, alte, con il cinturino. Se le mise ai piedi, erano scomodissime, ma con quel tacco lungo e appuntito poteva ammazzare i serpenti.

Ci fece un giretto a braccia spalancate, come se fosse in equilibrio su una trave. Poi si tirò il vestito sulla testa coprendosi il viso. – Arrr… Arrr… – grugní imitando un eterodontosauro. – Adesso vi prendo tutti…

Cosí, mezzo cieco, ciabattando sui tacchi a spillo, chiuse la porta, rimise la chiave a posto e scese le scale. Attraversò il salotto inciampando e uscí sulla veranda. Muoveva le dita come artigli affilati. – Eccomi. State atte…

Cos’era?

Attraverso il tessuto elastico che gli velava la vista gli sembrò di scorgere qualcosa, una sagoma nera che si muoveva lontano.

– Anna! Sei tornata… Lo rimetto subito a posto –. Si scoprí la faccia. – Non l’ho rovinato…

Al centro del vialetto oppresso dai cespugli di bosso c’erano delle figure umane.

Astor chiuse gli occhi, li riaprí, la mascella gli cadde e i muscoli della faccia si contrassero in una smorfia di terrore.

Due ragazzini piú grandi dipinti di bianco, di cui uno spingeva una carriola, e dei bambini tutti blu avanzavano verso di lui.

La paura gli addensò la carne. I centomila miliardi di cellule che lo componevano si strinsero una all’altra come una nidiata di pulcini. Lo stomaco si strizzò, i polmoni si accartocciarono come sacchetti del pane stretti in un pugno, il cuore perse qualche battito e la vescica si rilassò.

Astor abbassò il capo. Un getto caldo gli colava lungo le gambe. Aveva bagnato il vestito della mamma.

Le figure adesso erano piú vicine.

Decise di chiudere gli occhi e contare fino a sei. Era bravo a contare fino a sei.

Uno, due, tre, quattro, cinque e sei.

Li riaprí.

Erano ancora piú vicini. I piú piccoli non erano proprio blu, sembravano coperti di colore ed emettevano strani suoni.

Fantasmi.

Dei fantasmi che per qualche ragione a lui ignota erano riusciti a entrare nel bosco magico. Anna gli aveva raccontato che erano inoffensivi, fatti di aria, di niente. Pulviscolo di vite passate. Cos’altro potevano essere? Nel mondo c’erano solo lui, sua sorella e gli animali del bosco. Quindi per forza erano fantasmi. Decise di ignorarli e tornarsene in casa, ma si accorse di essere paralizzato. Non riusciva a muovere nulla, solo a contrarre il buco del culo. Un fremito gli percorse il cuoio capelluto. I capelli dritti vibravano come antenne.

I due fantasmi grandi, un maschio e una femmina, lo indicavano.

Mi hanno visto.

Le gambe non ressero e Astor cadde in avanti, rigido come un manichino, lasciando dietro di sé le scarpe rosse e sbattendo la fronte sul cemento. Rimase cosí, sul bordo delle scale, braccia in avanti, come un fedele prostrato di fronte alle sue divinità.

Piedi sporchi, unghie nere, scarpe rotte, caviglie graffiate gli sfilarono accanto, scavalcandolo tra risa, spintoni e strilli. Un paio, nella foga di entrare in casa, gli passarono sopra come fosse uno zerbino. Nessuno lo degnò di uno sguardo, di una parola.

E se il fantasma fossi io?

Fu un’illuminazione che si spense subito, soffocata dal rombo del sangue nei timpani. Non si mosse nemmeno quando sentí le voci rimbombare nel salotto e capí che i fantasmi parlavano come lui.

– Guarda quanta roba, – diceva uno.

– Vado su, – diceva un altro.

Il segreto era lasciarli fare, non disturbarli, starsene lí buono. Cosí come erano apparsi, sarebbero spariti. Ma piú si ripeteva che non doveva muoversi, piú desiderava vederli. Nella sua anima paura e curiosità lottavano, e alla fine la paura capitolò.

Astor si mise in piedi e con passi goffi, il bordo del vestito stretto nelle mani come una damigella dell’Ottocento, si avvicinò all’uscio. La testa gli dondolava a destra e a sinistra, sembrava un pupazzo con la molla al posto del collo.

I piccoletti, quelli blu, gli piacevano molto, gli ricordavano i topi quando, di notte, fanno come gli pare. Si lanciavano le cose, si arrampicavano sulle librerie, saltavano sui mucchi di immondizia. Uno si era infilato dentro la sua macchina a pedali e un altro lo spingeva contro il muro. Uno raccattava le cose e le metteva dentro una busta gialla che teneva sottobraccio.

Astor osservava incantato il saccheggio quasi non fosse casa sua. Le pupille gli si riempivano di bocche, nasi, occhi, mani, di curiose espressioni facciali, di piselli, di chiappe colorate, di movimenti e versi che non capiva. Appoggiato allo stipite della porta, si toccava distrattamente l’uccello e assisteva in silenzio al piú straordinario spettacolo della sua vita.

A un certo punto uno di quei furetti blu, uscendo con il suo grosso cane di peluche, gli diede una spinta facendolo cadere a terra. E lui lí rimase, sorridendo.

Quello grosso tutto dipinto di bianco, con una collana di ossa sul petto, era seduto su una sedia e teneva tra le mani il mandolino di Anna. – Questa è casa tua?

Era parecchio brutto. Aveva le gambe grosse come tronchi, la pancia gonfia, tantissimi capelli e pure dei peli lunghi che gli crescevano sul mento.

– Capisci quello che ti dico?

Astor lo fissava in silenzio.

Il fantasma urlò verso le scale. – Ne abbiamo trovato un altro che non sa parlare.

Da sopra gli rispose la fantasma. – Vieni a vedere che hanno fatto. È bellissimo.

Doveva essere entrata nella stanza della mamma. Certo che era bello, c’era lo scheletro decorato.

Una crepa sottile come un capello si insinuò tra le sue certezze, si allungò seguendo un complicato ma corretto percorso mentale e in un attimo tutto venne giú. Astor capí che non erano fantasmi. Erano vivi quanto lui, sua sorella e gli animali del bosco.

Non erano trasparenti come gli spettri, puzzavano, tenevano le cose in mano, bevevano, parlavano, spaccavano la sua macchinina. Questa intuizione lo rese felice e una sensazione nuova gli scaldò il cuore. Esistevano altri esseri umani vivi. Scampati ai mostri di fumo, ai dinosauri, ai gas mortali. Gli dispiaceva solo che non ci fosse Anna per poterglieli mostrare.

Deglutí e sibilò una s: – Sss… – Prese un respiro e finí la frase: – Sssiete vivi?

Il ragazzino grosso scoppiò in una risata cavernosa. – Ancora per un po’. Non tanto –. Si rivolse a quella sopra: – Angelica, mi sono sbagliato, sa parlare –. Poi gli fece segno di avvicinarsi. – Vieni qua.

E Astor, come se quell’ordine glielo avesse impartito un dio, ubbidí.

Il ragazzino grosso gli sorrise e si batté sulle cosce. – Qui.

Astor sgranò gli occhi scuri mentre un’espressione timorosa gli deformava il volto.

– Non avere paura –. Il dio allungò la mano.

Il bambino la osservò, era tozza, larga, e le unghie erano spesse e gialle. Con il dito medio la toccò, esitante, come se potesse rimanere fulminato.

– Visto? Sono di carne e ossa.

Astor guardò la maglietta con la scritta: «Vado al massimo, vado in Messico».

– Messico… – balbettò.

Il tipo scosse la testa incredulo. – Nooo… Sai pure leggere? Bravo! – Afferrò Astor per i fianchi e se lo issò in grembo.

Il bambino stava svenendo. La testa gli pesava come se fosse di piombo, ma i pensieri, all’interno, erano leggeri come gas e si mischiavano uno nell’altro. Si guardò intorno. I blu stavano litigando per una sciarpa. Studiò quello che lo teneva sulle ginocchia, i peli sul mento e la pasta bianca che gli copriva le guance. – Siete buoni? – gli domandò.

Lui lo strinse forte come se stesse valutando quanto pesava. – Chi ti ha insegnato a leggere?

– Anna.

– Brava Anna. È la prima volta che trovo uno piccolo che sa leggere. Io mi chiamo Rosario. Tu come ti chiami?

– Astor.

– Che minchia di nome –. Gli mostrò il mandolino. – Suoni?

Il bambino lo prese e pizzicò l’unica corda sopravvissuta.

Rosario disse: – Sai come si chiama?

– Chitarra.

– No, non è una chitarra, è un mandolino –. Lo squadrò piegando la testa. – Ecco… Ti chiamerò Mandolino, mi piace di piú –. Lo mise a terra e urlò con voce da tenore. – Angelica, dobbiamo andare, è tardi –. Si infilò una mano in tasca e ne tirò fuori un Mars, lo scartò e lo addentò, guardandosi intorno come se cercasse qualcosa da prendere.

Angelica scese giú dalle scale coperta di gioielli come la Madonna di Trapani. In mano aveva il cranio di Maria Grazia Zanchetta.

E tutti quanti, grandi e piccoli, uscirono di casa carichi di roba.

Astor, come un anatroccolo, si ritrovò a seguirli. Non si chiedeva nulla, camminava in mezzo agli altri, a piedi nudi, trascinandosi dietro il vestito. Si era scordato tutto: Anna, la casa, chi era.

I blu corsero avanti, ma lui restò accanto a Rosario, che spingeva la carriola piena di cibo fumandosi una sigaretta. Angelica si fermò, esaminò il cranio e con un’alzata di spalle lo gettò tra le erbacce.

Astor corse a raccoglierlo e glielo riportò. – È mia mamma.

– Buttalo.

I blu avevano superato il cancello. Angelica lasciò passare Rosario e guardò Astor che, fermo in mezzo al viale, con il teschio tra le mani, somigliava a un giocatore di basket pronto per un tiro libero.

– Muoviti, – gli ordinò.

Astor rimase imbambolato a fissarla.

Oltre quel limite c’era il Fuori, lui non poteva superarlo, sarebbe morto soffocato.

– Muoviti, – ripeté la ragazzina.

Lui fece segno di no con la testa.

Angelica si rivolse a Rosario. – Non vuole venire.

Quello si fermò, poggiò la carriola e dopo un ultimo tiro gettò la sigaretta. – Mandolino? Allora? Che fai, non vieni?

Astor non si mosse.

La ragazzina tornò indietro sollevando gli occhi al cielo e lo afferrò per un polso.

Il bambino fece due passi poi piantò i piedi a terra con un lamento di protesta.

Angelica gli diede uno strattone. Il teschio rotolò nell’erba. – Idiota. Vieni! – gli ringhiò, mostrandogli i denti divisi e appuntiti che sporgevano dalle gengive scure. Lo prese per il collo, ma Astor le affondò gli incisivi nel braccio.

La ragazzina urlò e con l’altra mano gli diede un manrovescio facendolo volare a terra. – Adesso ti faccio vedere io…

Astor non capiva. Non poteva superare il cancello. Volevano che morisse? Sentí il pianto raggrumarsi in gola. Sollevò le mani per difendersi e Angelica gli tirò un calcio nel culo.

Il bambino tentò di alzarsi, incespicò, fece qualche metro a quattro zampe, poi si rimise su. Mulinando gambe e braccia scavalcò un cespuglio di rose canine e cominciò a scappare.

Il bosco lo accolse.

Dietro sentiva fischi, urla, la voce di Rosario. – Prendetelo! Prendetelo!

Astor filava tra i cespugli di pungitopo che gli afferravano il vestito, infilava i piedi nell’intrico di rami caduti, saltava sui sassi coperti di muschio, affondava con i piedi nel fango.

Non potevano prenderlo. Era nel suo regno, lí era nato, quei quattro ettari di terra li aveva esplorati centimetro per centimetro, trovando buche, tane, alberi su cui arrampicarsi. Quelli potevano pure essere creature speciali, ma nessuno di loro conosceva il bosco meglio di lui. Se solo non avesse avuto quel maledetto vestito che s’impigliava ovunque. Se lo strappò di dosso sgusciandone fuori come un serpente dalla pelle e, nudo, riprese a galoppare piú veloce lí dove era piú fitto.

Il sole penetrava la volta verde macchiando il sottobosco di pozze di luce dorata, palle di moscerini ronzavano fra i tronchi. Astor ci passò in mezzo, a bocca aperta, ritrovandoseli sul palato.

Si voltò.

Bravo. Li hai fregati, gli sussurrarono le lucertole capellone da sopra un ramo.

Rintronato dal suo fiato e dal cuore che gli sbatteva sotto lo sterno si sedette su un masso e si tolse una spina dal tallone.

Nella sua corsa affannata si era spinto lontano da casa, in una zona piú aperta, vicino al Fuori. Il fuoco si era mangiato gli alberi piú giovani, c’erano solo tronchi abbrustoliti, spunzoni e la rete metallica della recinzione, tutta contorta. Una grande quercia bruna e bitorzoluta aveva resistito alle fiamme e si sporgeva oltre il confine dove il fuoco le aveva bruciato le dita.

Quando il turbine di pensieri si calmò Astor controllò le ferite. Strisce rosse gli segnavano le cosce, i polpacci, la pelle tenera della pancia. Non facevano ancora male, ma presto le avrebbe sentite.

Era certo di averli seminati, ma si sbagliava.

Si accorse di loro perché il blu spiccava in quell’impasto di marroni e verdi.

Non c’era un buco dove nascondersi.

Sull’albero.

Si gettò sul tronco e con un salto agile si aggrappò al primo ramo, e da quello a un altro e a un altro ancora. Si fermò solo quando pensò di essere imprendibile.

Da terra i blu lo indicavano.

Un paio di loro si arrampicarono sulla quercia esattamente come aveva fatto lui.

Astor cercò di salire piú in alto, ma la biforcazione successiva era troppo lontana. Spinto dalla disperazione si incamminò a braccia spalancate su un ramo che presto diventò troppo esile per sostenerlo. Si accucciò afferrandosi alle fronde secche e digrignando i denti.

Sotto erano arrivati anche Angelica e Rosario.

– Mandolino, che fai? Non vuoi venire con noi? – gli disse il ragazzino grosso. – Ti portiamo dalla Picciridduna.

I due inseguitori si avviarono a quattro zampe, agili come bertucce, verso di lui.

Astor indietreggiò, con il legno che gli oscillava tra le chiappe, poi, senza valutare l’altezza, il male che si sarebbe fatto e che sarebbe finito proprio in bocca ai suoi nemici, si buttò. In aria fece una mezza capriola scomposta e finí di fianco su un tappeto d’erba abbastanza soffice da impedirgli di spaccarsi la schiena.

La testa gli pulsava come se gli avessero messo il cuore al posto del cervello, scariche di luci gialle gli impressionavano le pupille. Il sapore acido delle lenticchie gli impastava la lingua. Riuscí a mettersi in piedi.

Il mondo, intorno, ondeggiava. Il sole tra le foglie ingiallite della quercia. Il bosco. Rosario. Angelica. I bambini blu. I campi bruciati. I resti dello steccato.

Era nel Fuori.

Spalancò la bocca in un urlo muto, si portò le mani al collo e crollò sulle ginocchia.

L’aria tossica, il gas invisibile, gli penetrava nei pori, nei buchi delle orecchie, del naso e del culo. Non riusciva a respirare. Stava morendo. Boccheggiava inspirando il veleno. In lontananza, con passi pesanti che scuotevano la terra, avanzavano i mostri di fumo, grandi come montagne e densi come la paura che lo soffocava. Tump. Tump. Tump. Arrivavano. Presto, molto presto, sarebbe morto. Avrebbe raggiunto le formiche, le cavallette e i ramarri che aveva ucciso. Sarebbe andato dalla mamma, ovunque fosse.

Rosario era di fronte a lui. Gli parlava, mani sui fianchi, scuotendo la testa. Perché rideva? Non c’era niente da ridere.

Astor era frastornato dal ronzio di un milione di api, eppure una folata di parole lo raggiunse.

– Mandolino, stai morendo, per caso?

Lui sgranò gli occhi e fece di sí con il capo.

– Sicuro?

Il bambino sollevò un braccio verso il sole. – Stanno arrivando…

– Chi?

– I mostri… – E si lasciò andare a terra stirando braccia e gambe, digrignando i denti ed emettendo versi gutturali.

– Che sta facendo? – chiese Angelica.

– Non ne ho idea –. Rosario si voltò verso i bambini che si erano radunati intorno ad Astor. – Prendetelo che è tardi.