9 - Il grande gioco dell'amore

Sesso in cucina

E un gradevolissimo odore di carne che cuoce assieme a delle spezie a guidare Lucius. La cucina è in fondo al breve corridoio nella zona servile della casa; lo si capisce perché non ci sono mosaici o affreschi: il pavimento è ricoperto con mattoni messi a spina di pesce e sulle pareti, accanto a rami secchi di piante da usare in cucina, si vedono macchie d'unto e graffiti con delle frasi incise nell'intonaco e delle righe messe in fila, simili ai giorni contati da una crocetta. Sono dei "numerali", cioè conteggi di sacchi consegnati, giorni di lavoro, chissà…

Appena entra in cucina, Lucius viene accarezzato dall’abbraccio profumato degli aromi che fluttuano invisibili nell'aria, ma viene investito anche da un esplosione di colori: il rame delle casseruole appese al muro, il verde dei legumi tagliati sul tavolo di legno, il bianco del latte in una scodella, il rosso della carne fatta a cubetti, pronta per essere messa nella casseruola, il giallo del fuoco. E, al centro, c’è lei, Photis, la serva che prepara la cena ai padroni. È di schiena e Lucius osserva i suoi movimenti mentre si dà da fare ai fornelli: sembra un serpente che ondeggia o un filo d’acqua di una fontanella che oscilla. Il va e vieni dei suoi reni evoca in Lucius la classica posizione sessuale della "yen che dondola" (Venus pendula), con la donna che si muove, seduta a gambe larghe sull'uomo sdraiato. È quello che i due faranno in seguito… Anche su di lei i colori colpiscono il giovane. Come la fascia-reggiseno color rosso vivo o le sue chiarissime palme delle mani che contrastano con la pelle scura. Lucius non vuole accontentare solo i suoi occhi, vuole premiare anche tutti gli altri sensi, e si avvicina alla serva. Ma nell'avanzare, urta una pentola e fa rumore. La ragazza si volta di scatto e fissa il ragazzo. La vista di Lucius ha un effetto dirompente sulla giovane donna, che rimane immobile, si arrende e socchiude gli occhi e le labbra. Il loro primo contatto avviene con la bocca, e Lucius sente il profumo del respiro alla cannella di Photis, poi accarezza la lingua che la ragazza gli offre, ormai prigioniera del suo desiderio, infine assapora il nettare che le labbra della ragazza distillano goccia a goccia…

Lucius chiede a Photis di sciogliersi i capelli, e di lasciarli liberi. Ma lei va ben oltre, sciogliendosi ciò che porta addosso. Rimane nuda, tranne per uno strano ciondolo metallico al collo dal quale non si separa mai. Davanti a Lucius appare finalmente quel corpo che ondeggiava come una fiamma. E un corpo sensuale, che i suoi occhi pennellano con i colori del desiderio: prima i seni, voluminosi e prominenti, poi i fianchi ampi in quel corpo magro, e infine il sesso, completamente depilato, che la ragazza pudicamente copre con una mano (forse più per calcolo malizioso che per vero pudore). Photis in quella posizione appare come Venere che esce dal mare. E Lucius la chiama "mia Venere, mia dolce Venere nera".

Sono poi solo dei fotogrammi che ci descrivono quello che segue. Come il lampo dello sguardo o di un sorriso. Ma c'è anche il profumo di un seno, il sapore della saliva, la morbidezza delle ombre del suo corpo… E una Venere che si arrende sul tavolaccio da cucina, tra verdure tagliate, briciole di pane con le tazze colme di spezie che vengono rovesciate dall'ardore della passione… Tutto mentre la cena dei padroni aspetta sul fuoco, ribollendo la sua impazienza.

Questa descrizione di sesso in cucina, liberamente ispirata a un'opera famosa, Le metamorfosi di Lucio Apuleio, scritta nel II secolo d.C, permette di intuire quanto anche nelle opere i romani dessero un gran peso all'erotismo, visto che il sesso "spiccio" era comunque molto disponibile. Ma sia uno sia l'altro, paradossalmente, erano fuori dalla vita coniugale. Una scena di sesso in cucina come abbiamo visto o anche le rappresentazioni di amplessi passionali che si vedono sulle pareti di Pompei, non facevano parte della vita di marito e moglie. La libertà dell'amore e le gioie del sesso erano per altre donne (concubine, prostitute, schiave) e per altri uomini (amanti, schiavi). Ecco quindi spiegato perché entrambi cercavano l'adulterio, cioè il sesso fuori dal letto coniugale. A noi del Ventunesimo secolo, abituati al matrimonio per amore, può sembrare un'assurdità. Ma se non capiamo questo meccanismo della cultura romana, non capiremo il vero senso dell'amore e del sesso nell'antica Roma.

Come lo fa la moglie…

Quello che fa la differenza nel sesso degli antichi romani è con chi si è a letto: se con un coniuge o con l'amante. Nel primo caso, l'obiettivo principale del sesso è la riproduzione; nel secondo, il piacere. Nel primo caso, quindi, una donna deve obbligatoriamente essere fedele, nel secondo è libera di cambiare partner quanto vuole. Ma ci sono altre conseguenze sorprendenti, e riguardano i movimenti e le posizioni. Perché a letto tutto cambia.

Nel suo ruolo di moglie, una matrona romana non deve conoscere le gioie del sesso. Mentre fa l'amore, non deve muoversi, né gemere. Niente abbracci sensuali, niente movimenti per facilitare l'amplesso del marito: sarebbe una tragedia. Dal momento che è arrivata vergine al matrimonio e che le nozioni di sesso le ha apprese facendolo con il marito, se fa qualcos'altro vuol dire che lo ha imparato facendo sesso con un altro uomo… Quindi deve rimanere immobile durante tutto l'atto sessuale e aspettare. Ma in quale posizione? In quella cosiddetta "del missionario" (cioè stando sdraiata sulla schiena), che facilita il concepimento, oppure, secondo Lucrezio, nella posizione "degli animali quadrupedi", sempre per lo stesso motivo.

Marziale, in un suo scritto dal sapore umoristico, ci svela la vera atmosfera che si respirava nella camera di un marito e di una moglie in una notte di sesso. Senza di lui, non avremmo forse conosciuto dettagli illuminanti su una situazione che doveva essere molto diffusa nelle case delle coppie romane. Attraverso Marziale, infatti, scopriamo un marito che si lamenta con la propria moglie della sua eccessiva rigidità a letto e desidererebbe tanto che, quando fanno l'amore, accendessero una lucerna, che lei si togliesse il "reggiseno", le sue tuniche e i suoi "mantelli" scuri, che proferisse parola e facesse qualche gesto, e che non lo abbracciasse come lei fa di solito ogni mattina con sua nonna… Insomma, marito e moglie facevano l'amore al buio, vestiti e in silenzio, senza abbracci focosi.

La mancanza di coinvolgimento nel sesso tra marito e moglie romani era davvero agghiacciante.

…e come lo fa l'amante: il piacere di dominare il maschio romano

Tutt'altra atmosfera si respira invece nella camera da letto di due amanti. Magari la stessa matrona che di sera è rigida come un pezzo di legno con il marito, muta e vestita come il manichino di un negozio, la mattina seguente con l'amante si trasforma in una tigre. Molte donne dell'alta società, infatti, rifiutano di obbedire ai rigidi principi di moralità e si lanciano nella sessualità più sfrenata con vari amanti. Alcune addirittura pubblicamente. Celebre è il caso della figlia di Augusto, Giulia, che scandalizzerà il padre a tal punto che la farà esiliare a Ventotene (chiamata dai romani Pandataria), impedendole per sempre di tornare a Roma e di essere sepolta nel mausoleo di famiglia.

Ma, senza arrivare a tanto, una folla di matrone si lancia alla scoperta dell'amore, vissuto come passione travolgente soprattutto a letto, dove si trasformano in vere e proprie cortigiane. Anche per il sottile piacere di… dominare l'uomo.

In effetti, all'improvviso i ruoli s'invertono: è l'uomo a dover obbedire alla donna, ai suoi capricci, alle sue decisioni. Per una donna abituata a essere figura di secondo piano in famiglia e in generale in una società maschilista, sempre agli ordini di un uomo, l'adulterio non solo rappresenta una fuga verso l'amore e la passione mai conosciuti prima, ma vuol dire anche spezzare le catene, prendendosi una rivincita sull'uomo che ora viene dominato. Così come nell'amore coniugale è l'uomo a decidere, in quello extraconiugale è il contrario: diventa un semplice "oggetto", in concorrenza con gli altri, e supplica i favori della donna. Il dominio è completo anche fisicamente. In effetti, una delle posizioni più utilizzate dagli amanti è la Venus pendula che abbiamo citato prima, o la mulier equitans, cioè la "donna che cavalca", in cui la donna è a cavalcioni dell'uomo sdraiato sul letto. È una posizione tipica dell'amante, della cortigiana o della prostituta, perché è la donna che, muovendosi, dà piacere all'uomo. Ma al tempo stesso, in quel momento comanda lei, dirige l'amore e domina l'uomo diventando la sua padrona.

Le donne romane fingevano a letto?

La risposta è sì: "Fingi gioia con parola bugiarda … offri credibilità con il movimento e con gli occhi: mostrino il piacere sia le parole sia il respiro affannoso…".

Così scriveva duemila anni fa Ovidio, incoraggiando la donna a fingere l'orgasmo! Già in età romana, insomma, e chissà quanto prima, le donne fingevano a letto al fine di compiacere il proprio partner, come accade ancora oggi, oppure per accelerare i tempi in modo che tutto finisca più rapidamente (una tipica situazione coniugale in cui la moglie non prova più piacere con il marito).

Bisognava stare attenti però a non esagerare e a non tradirsi con una sceneggiata palesemente falsa, dice Ovidio. Così facendo, infatti, una donna perde di credibilità e un uomo non la cerca più perché sente presa in giro la sua virilità.

Già in epoca romana ci si è posti tante domande sull'orgasmo femminile, così "misterioso"… Perché a volte c'è e a volte no, mentre nell'uomo c'è sempre? È utile per il concepimento? Queste erano le domande che si ponevano.

Esistevano due scuole di pensiero: alcuni ritenevano che una donna non potesse, fisiologicamente, raggiungere l'orgasmo, altri invece sì. E tra questi ultimi c'era Galeno, che abbiamo già incontrato sulla questione dello schiavo che si finse malato per rimanere con la sua donna. Galeno riteneva che anche la donna avesse l'orgasmo, e che producesse persino dello sperma nel momento più intenso dell'amplesso. In realtà lo "sperma" evocato da Galeno non era altro che il liquido lubrificante emesso dalla donna durante l'eccitazione. Galeno riteneva che entrambi gli spermi, maschile e femminile, "facilitassero i rapporti amorosi, facendo nascere il piacere", e che quindi aiutassero il concepimento.

Su un fatto i medici romani erano d'accordo: che fosse necessario un minimo di piacere da parte della donna per generare un bambino.

Raggiungere il piacere insieme

Ovidio andava oltre: uomo e donna dovevano raggiungere insieme l'orgasmo. Il suo consiglio era quello di "accendere" la donna, durante i preliminari, con sapienti movimenti delle dita della mano sinistra e, una volta scoperti i punti che la donna desiderava fossero toccati, non bisognava fermarsi: "Vedrai i suoi occhi brillare di tremulo splendore come il Sole spesso viene riflesso dall'acqua trasparente … si raggiungerà un tenero mormorio, dolci gemiti e parole adatte al gioco d'amore".

A quel punto l'atto sessuale deve prendere la via maestra, stando attenti che il piacere di entrambi avanzi parallelamente fino a… "raggiungere contemporaneamente la meta". Solo quando l'uomo e la donna giacciono vinti ed esausti il piacere è completo.

Il Kamasutra dei romani

Quello che è poco noto è che circolavano veri e propri "manuali per fare l'amore", che enumeravano e descrivevano le varie posizioni con il modo migliore, più piacevole (per sé o per il partner) o più creativo, per fare sesso. Questi manuali erano disponibili ben prima che Roma diventasse la superpotenza del Mediterraneo.

In effetti, fin dall'epoca di Alessandro Magno sono comparse opere che spiegavano le tecniche di seduzione, la sessualità e anche le varie posizioni. A sentire i greci, questo genere di manuali aveva un'origine antichissima; l'autrice del primo sarebbe stata addirittura Astyanassa, una delle ancelle della mitica Elena di Troia, che descrisse tutti i modi per fare l'amore. Da quel momento in poi queste opere di letteratura erotico-pornografica ebbero molto successo. Erano reperibili soprattutto ad Alessandria d'Egitto; poi, con l'espansione romana, si diffusero un po' ovunque.

Per avere un maggiore appeal, circolavano spesso con dei nomi femminili, quelli delle escort più famose, che svelavano così i loro segreti (una vera astuzia di vendita, incredibilmente moderna, per garantirne il successo): Betrys, Philaenis, Nike di Samos, Callistrata di Lesbos, queste erano le donne esperte di sesso che stuzzicavano la curiosità del lettore maschile. Fanno caso a sé due donne. Una è Pamphila di Epidauro, un'egizia che visse in Grecia sotto Nerone. Fu una donna di incredibile prolificità letteraria: scrisse 33 libri sulla storia della Grecia, ma anche volumi su altri temi, compresa un'opera intitolata Sul sesso.

L'altra donna è Elefantide, una poetessa del I secolo a.C. amante del sesso ed esperta nel realizzare ricette abortive. A lei viene attribuito il Kamasutra romano forse più famoso: De figuris coitus, probabilmente un libro-atlante illustrato delle varie posizioni, con tanto di spiegazioni. Sono questi libri ad aver ispirato i quadretti erotici che arredavano le ville degli antichi romani. Molti sospettano, però, che a parte poche eccezioni come quelle appena citate, dietro a questi libri sull'erotismo si nascondessero in realtà autori maschili…

Sebbene si trattasse di best seller assoluti per l'antichità, in vetta alle preferenze (o alle vendite, come diremmo oggi), di queste opere non ci è giunta neanche una pagina. Abbiamo solo pochissime informazioni da alcuni autori antichi. E la cosa è un po' strana. Come mai ci sono giunte tantissime opere del passato, dei più diversi generi letterari, ma non queste? Possibile che i monaci medievali non ne abbiano riscritta neanche una copia? Forse, in realtà, qualche cosa c'è, da qualche parte in qualche biblioteca, magari con un titolo sbagliato, o rilegata assieme a un'altra oscura opera antica. Oppure, salterà fuori in qualche sito archeologico, per esempio a Ercolano, dove, nella Villa dei Papiri, sono riemerse opere letterarie delicatissime ancora intatte, conservate dall'eruzione: fino a oggi è tornata alla luce la stanza con la biblioteca di opere in greco della corrente epicurea. Manca quella con opere latine: chissà se un giorno verrà ritrovata. E chissà se salterà fuori uno di questi bestseller di età romana…

Le posizioni per fare l'amore

Quali posizioni dell'amore amavano gli antichi romani? Ne preferivano alcune in particolare? Ovviamente, sotto le lenzuola ognuno aveva le sue preferenze e non ci vuole molta immaginazione per capirlo. Tuttavia, per piacere di più o per nascondere le parti meno belle del corpo, alcune posizioni erano "consigliate" alle donne:

"- Una ragazza di bell'aspetto faccia l'amore sdraiata sulla schiena guardando in faccia il suo amante, per mostrare bene il suo viso.

"- Se è di statura piccola, lo 'cavalchi', in modo da mascherare la differenza di statura.

"- Se ha delle belle spalle, assuma una posizione che mostri le spalle. Se ha delle belle gambe, 'faccia come Milanione, che portava sulle spalle le gambe di Atalanta'. Questa è la posizione più efficace.

"- Se una donna ha delle belle gambe giovanili e un bel seno, si metta in diagonale sul letto mentre l'uomo sta in piedi.

"- Se invece una donna vuole mostrare la linea lunga dei fianchi, si metta in ginocchio sul letto e reclini la testa all'indietro (per dare più curve 'slanciate' alla sua figura).

"- Se ha la pancia con le rughe, si metta a cavallo del suo partner mostrandogli la schiena.

"- La posizione più semplice e meno faticosa è quella nella quale lei si sdraia di fianco sul letto, con l'amante che l'abbraccia da dietro…".

Questi sono i suggerimenti di Ovidio nel terzo libro del suo Ars amatoria, il quale però dà anche un ulteriore consiglio per poter "assaporare" con il massimo del piacere le varie posizioni del sesso: apprezzare le donne mature. Perché hanno un grande vantaggio: l'esperienza. Come sottolinea il poeta, "è l'esperienza che fa l'artista", e aggiunge: "… In una donna già matura l'esperienza è maggiore … Con cure esperte, sa compensare i danni dell'età, in tal modo che non ti appare affatto vecchia, e in mille pose sa cogliere il piacere così come tu vuoi… senza irritanti, vani eccitamenti".

Bisogna però sottolineare che duemila anni fa il concetto di "vecchia" era diverso dal nostro… Per un romano, una quarantenne, oggi comunemente apprezzata come donna giovanile, affascinante e al massimo della propria sensualità, era invece considerata molto in là con gli anni, quasi una vecchia, appunto, essendo l'età del matrimonio intorno ai 14 anni e la speranza di vita femminile di circa 29 anni…

Molte di queste posizioni citate da Ovidio sono rappresentate sulle famose pitture di Pompei. Ma al di là delle motivazioni "estetiche" sul modo di fare l'amore, ci sono anche le posizioni più pratiche del gioco del sesso, quelle che danno più piacere al corpo o alla mente. Quante sono? Molte più di quante possiate pensare…

Gli acrobati del piacere

Agli inizi dell'Ottocento, il filosofo tedesco Friedrich-Karl Forberg pubblicò uno studio sul comportamento sessuale basato sui testi antichi (greci e romani, essenzialmente): De figuris Veneris. Il manuale fece molto scandalo all'epoca, e questo ha fatto la sua fortuna, perché è stato ripubblicato più volte nei secoli successivi. Al termine delle sue osservazioni, Forberg fa un elenco delle possibili posizioni che gli antichi assumevano facendo sesso. Arriva addirittura a 85 posizioni dell'amore!

Si giunge a un numero così alto combinando, per così dire, "azioni" erotiche sul partner, con posizioni ogni volta diverse.

In verità Forberg arriva a descrivere novanta posizioni, coinvolgendo però situazioni "estreme" come il sesso tra cinque persone, oppure il rapporto con animali ecc.

Il fatto sorprendente è che queste posizioni si trovano tutte quante nei testi antichi, sparse nelle varie opere di ogni tipo giunte fino a noi… Insomma, Forberg le ha solo elencate, nulla di più. In altre parole, greci e soprattutto romani avevano una grande "fantasia" a letto…

Ma adottavano davvero tutte queste posizioni? Non possiamo saperlo, ovviamente. In fondo erano come noi, creativi e passionali, ma non certo depravati come si crede. Erano solo amanti dei piaceri della vita, e il sesso, come abbiamo detto, era vissuto senza quel senso di peccato e di colpa oggi così diffuso. Lo si viveva pienamente, come gioco e come piacere.

Tuttavia, un modo per scoprire quali posizioni adottassero gli antichi romani c'è… Ed è sotto gli occhi di tutti. Basta consultare (sui libri, nei musei o su Internet) gli affreschi "erotici" di età romana, le statuette o le lucerne che raffigurano amplessi, o anche i graffiti sui muri di duemila anni fa. Ecco allora riemergere tutto il mondo "proibito" dell'epoca antica, quasi fosse un reportage a luci rosse. E un mondo che noi ora tenteremo di scoprire e descrivere brevemente, con tutta la discrezione, il distacco del caso, ovviamente. Ma anche con tutta la curiosità che noi, che viviamo in un'epoca che concede ampie libertà, possiamo avere nei confronti di un mondo antico, così lontano, che è sempre apparso chiuso ma anche, secondo un cliché tanto diffuso quanto sbagliato, depravato. Allora, come stanno le cose?

Fotogrammi' a luci rosse

Negli affreschi, le posizioni più classiche sono quella del missionario (donna sotto e uomo sopra), quella della "leonessa" (con la donna a quattro zampe e l'uomo dietro) e la già citata Venus penduta (o penduìa conversa), cioè la donna che cavalca l'uomo in ginocchio o seduta a gambe larghe. La stessa posizione con la donna girata, che mostra la schiena e il "lato B" al suo amante, doveva piacere a molti uomini, visto che è rappresentata non di rado {penduta aversa o equis aversis).

Quello che colpisce negli affreschi sono i dettagli laterali alla scena: l'amplesso è quasi sempre rappresentato su un letto con una testiera alta, su cui la donna o l'uomo a volte si appoggiano con la mano. C'è poi sempre uno spesso materasso con delle coperte a righe, di quelle che da noi si usano al mare in estate. Era evidentemente una costante nelle camere da letto dei romani.

I due partner rappresentati sono sempre belli e giovani (non c'è mai un uomo calvo o una donna grassa): un po' come oggi nelle foto delle riviste glamour. Insomma, quelli erano le modelle o i modelli di allora. All'occhio dell'osservatore non sfuggono alcuni curiosi dettagli della donna, che dovevano essere molto alla moda allora, ma che oggi non lo sono più.

I capelli, per esempio. Sono sempre raccolti con spille, riuniti in chignon o in trecce avvolte attorno alla testa. Nessuna donna romana ha l'abitudine di sciogliersi i capelli per fare sesso, cosa che oggi è vista come un gesto molto sensuale. Lo stesso Ovidio, però, se ne rende conto ed esorta le donne a lasciare fluttuare i capelli nei preliminari. La nuca della donna, insomma, era una vista abituale per l'occhio dell'uomo romano mentre oggi non lo è più.

Molte ragazze sono rappresentate mentre fanno sesso con il reggiseno (la fascia) allacciato, mentre oggi scioglierlo è uno dei momenti più carichi di erotismo dei preliminari. Si potrebbe quasi concludere che i seni non fossero considerati un "oggetto del desiderio" per gli uomini, cosa ovviamente non vera. Era forse solo una diffusa abitudine da camera da letto il tenerlo indossato e, forse, anche molto eccitante, come oggi la lingerie.

È anche vero che le coppie rappresentate negli affreschi non sono marito e moglie, perché, come abbiamo visto, il sesso coniugale è quanto di più piatto, buio e "immobile" si possa concepire in un amplesso. Quelle ragazze dipinte, tranne rarissimi casi, sono quindi delle concubine, delle schiave, delle escort venute in casa dell'uomo, o delle prostitute nei bordelli. Ecco perché sono sempre giovani e in posizioni "acrobatiche": nelle relazioni extraconiugali si cerca solo il piacere dei sensi. E probabilmente, vista l'essenzialità del rapporto in un lupanare, era pratico tenere i capelli sempre tirati su per non doverli ogni volta rimettere in ordine tra un cliente e l'altro; la fascia-reggiseno forse era tenuta per concentrare l'attenzione e la vista del cliente sull'obiettivo primario del rapporto, in modo che i tempi fossero più rapidi… Tutto questo faceva parte delle abitudini del sesso a pagamento.

Quando è possibile, si nota chiaramente sugli affreschi che le donne si depilavano completamente anche nell'intimità: a differenza di oggi, si trattava di un'abitudine costante nell'antichità. Nel caso dell'uomo, invece, la depilazione dei genitali non era considerata segno di virilità ed era quindi scarsamente praticata.

Le donne, però, non sono mai veramente nude: spesso al braccio e alla caviglia hanno dei lacci colorati, o più probabilmente dei bracciali. E non mancano le collane. L'oro o i gioielli impreziosivano quei corpi carichi di passione. Naturalmente quello che manca negli affreschi, nelle statuette o nelle lucerne, oltre al movimento, sono i profumi che dovevano riempire le stanze.

Proseguendo il nostro viaggio nelle posizioni dell'amore, scopriamo le varianti a quelle classiche, come l'uomo in piedi e la donna appoggiata su un tavolo o un letto, con le gambe in alto posate sulle spalle del suo partner.

Oppure entrambi sdraiati su un fianco, con l'uomo che da dietro penetra la donna sollevandole delicatamente una gamba, mentre lei gira il viso e lo bacia accarezzandogli dolcemente la testa.

La donna che soddisfa un uomo oralmente (fellatio) è un'altra posizione comune negli affreschi e sulle lucerne. Il contrario, invece, cioè l'uomo che soddisfa oralmente una donna (cunnilingus), è rarissimo; pensate, ne conosciamo un solo caso in tutto l'Impero. È in un affresco di Pompei, che molti ritengono sia in realtà una rappresentazione volutamente provocatoria per fare sorridere chi la guardava, dal momento che quell'atto sessuale era considerato il più grosso tabù sessuale per i maschi romani. È probabile che fosse una delle pratiche sessuali meno diffuse in camera da letto.

Anche se proibito dalla morale, erano comunque in molti ad avere un rapporto orale con una donna, al riparo dalle occhiate tra le mura domestiche. Come dimostra una lucerna emersa a Cipro, sulla quale è rappresentato un classico "69", nel quale entrambi i partner si danno piacere, e in contemporanea, nella pratica orale. Quasi a sottolineare lo status di parità tra uomo e donna, se non nella vita, almeno nei piaceri del sesso.

Negli affreschi pompeiani emergono poi anche posizioni omosessuali, come due donne sdraiate su un letto che si baciano con passione o altre due che fanno sesso in una posizione che di solito solo un uomo e una donna assumono: una delle due è sdraiata sul letto, l'altra è in piedi e la solleva per le gambe, penetrandola con ogni probabilità con un finto pene di cuoio, legato al suo corpo con delle cinghie. Scopriremo più avanti l'esistenza di veri sex toys in età romana.

Tra le rappresentazioni che hanno colpito di più gli archeologi ce n'è una che rappresenta un amplesso a tre, in un vero e proprio "trenino" in cui la donna a quattro zampe fa l'amore da dietro con un uomo che, a sua volta, è penetrato da un altro uomo (su una coppa riemersa a Bregenz, in Austria, si arriva addirittura a tre uomini in fila…). L'"uomo di mezzo", il cinaedus (l'uomo passivo), era una figura molto disprezzata socialmente: al pari di prostitute, attori e gladiatori godeva di pochissimi diritti civili, ma la sua figura era apprezzata a letto, pare, soprattutto dalle donne.

Il sesso di gruppo (di solito a tre: due uomini e una donna) era chiamato symplegmata ("intrecci"), e il fatto che venisse rappresentato con una certa frequenza starebbe a indicare che questa pratica fosse una delle fantasie erotiche più amate tra i romani.

Su una lucerna ritrovata a Creta, una donna fa sesso in piedi con un uomo avvinghiandolo con le sue gambe, mentre un altro uomo la penetra da dietro. È una doppia penetrazione. Va detto a questo riguardo che negli affreschi e nei testi è raro che si veda o si parli di una donna sodomizzata dal partner, tranne in casi particolari come questo. Di solito è una pratica che avviene tra uomini. E Marziale in questo è molto chiaro (Epigrammi, Libro XI, 22): "La natura ha dato al maschio due zone ben distinte: una è stata creata per le fanciulle e una per gli uomini. Fa' uso della zona che ti compete".

Le donne romane, se possono scegliere, vi arrivano come ultima risorsa a letto e come "regalo" al proprio partner. Nelle Metamorfosi di Apuleio, la serva Photis accorda a Lucius un piacere "extra" proprio con un rapporto di questo tipo. E lo stesso Marziale racconta di un'amante che egli ha posseduto per tutta la notte in mille modi diversi. Alla fine è lui a chiederle quest'ultimo passo, al quale lei, sfinita ma ancora vogliosa, acconsente.

Tra le posizioni più "estreme", ce n'è una in una scena di sesso di gruppo in cui una donna soddisfa oralmente un uomo che viene penetrato da un altro uomo, mentre la donna subisce le attenzioni orali di un'altra donna…

Il sesso di gruppo non doveva essere affatto raro, se esistono persino dei graffiti a Pompei molto chiari a proposito. Come il seguente: "Il giorno 21 novembre Epafra, Acuto e Aucto si portarono in casa una donna pagando ciascuno 5 assi per un totale di 15. Erano allora consoli Marco Messalla e Lucio Lentulo".

Più che una scritta su un muro, ricorda quasi una ricevuta fiscale con tanto di data (e consoli in carica). Ma ci testimonia anche i servizi che una escort romana era disposta a offrire.

E non è finita. La letteratura antica e i reperti archeologici ci informano di pratiche sessuali anche con… animali.

Se il rapporto tra un uomo e un animale d'allevamento è una pratica non nuova nel mondo rurale, i testi antichi citano anche rapporti tra donne e animali. Erodoto e, in seguito, Strabone raccontano di una cittadina in Egitto, Mendès, dove, in occasione di alcuni culti misterici, un caprone sacro montava una donna.

Di altro tono è Apuleio: nelle sue Metamorfosi, racconta di Lucius trasformato in un asino che viene addirittura sedotto dalla sua padrona e ha un rapporto sessuale completo, malgrado le sue stesse perplessità. Curiosamente, una scena di questo tipo è proprio rappresentata su una lucerna rinvenuta a Treviri, in Germania. Forse si riferisce all'opera di Apuleio: l'asino è in piedi su due zampe come un uomo e la donna ha una gamba alzata, addirittura legata al ramo di un albero per migliorare il rapporto.

Naturalmente bisogna sempre prendere con il dovuto distacco e la dovuta prudenza racconti e notizie riportate da epoche così lontane, spesso frutto di esagerazioni per schernire o mettere in cattiva luce nemici o avversari. L'unico rapporto certo che conosciamo tra una donna e un animale è l'amplesso tra una ragazza e un toro nel Colosseo: ma si trattava di una sentenza capitale… Come spesso facevano i romani, l'uccisione di un condannato avveniva con la riproposizione di un mito. In questo caso quello di Pasifae: figlia del re Minosse, a Creta, s'innamorò di un toro e per potersi accoppiare chiese a Dedalo di costruirle una statua di legno a forma di vacca nella quale entrare. Il toro montando la finta vacca fecondò Pasifae che diede alla luce il Minotauro, metà uomo metà toro.

L’autoerotismo era proibito?

La risposta è no. Anzi, la masturbazione era accettata come un fatto naturale e non veniva vista come una perversione da condannare, al contrario della morale religiosa (e familiare) che ha intriso la nostra società per secoli, "falciando" generazioni di giovani ragazzi e ragazze con esagerati sensi di colpa, divieti, penitenze e paternali (o "maternali"…).

Il termine "masturbare" viene dal latino masturbari, che a sua volta deriva dal greco mezea ("genitali") e dal latino turbare, cioè, letteralmente, "scuotere, eccitare i genitali", ma esistono altre teorie, non tutte accettate.

Nell'antichità, era una pratica vista con indifferenza, se non addirittura con occhio positivo: persino gli dèi lo facevano, e con esiti a volte spettacolari. Gli egizi, per esempio, credevano che il dio Atum avesse creato l'universo con il proprio sperma, semplicemente masturbandosi.

Anche il pensiero medico di greci e romani (da Ippocra-te a Galeno) vedeva la masturbazione comunque di buon occhio, inquadrandola nella teoria che gli umori del corpo andassero trattenuti o liberati a seconda delle circostanze. Certo, i romani non arrivavano agli eccessi del filosofo greco Diogene di Sinope, il quale, ritenendo che un uomo di cultura doveva essere autosufficiente in tutto, arrivò a masturbarsi in pubblico…

Tuttavia, secondo alcuni studiosi a noi contemporanei, come il professor Umberto Galimberti, la mitologia greca aveva addirittura "divinizzato" la masturbazione mettendola sotto la protezione di Pan. Questo essere mitologico, metà umano e metà capra, a causa del suo aspetto raccapricciante non riusciva a trovare facilmente qualcuno con cui accoppiarsi. Così ricorreva all'aggressione e allo stupro, oppure al sesso con altri animali, o alla masturbazione. Anzi, sarebbe stato proprio Pan a insegnarla ai pastori.

Per i greci l'autoerotismo di un uomo o di una donna era talmente accettato da essere un argomento ricorrente a teatro, a volte con siparietti comici. Persino il commediografo greco Aristofane (vissuto cinque secoli prima della Roma che stiamo esplorando) ne parlò più volte, in modo ironico, nelle commedie Cavalieri, Pace, Donne all'assemblea e Lisistrata.

In epoca romana, l'atteggiamento rimase lo stesso, improntato cioè all'indifferenza. E anche quando la religione cristiana diventò quella ufficiale dell'Impero (IV secolo), non si hanno notizie di condanne per questa pratica: sebbene fosse contraria ai principi religiosi, come nel caso del concubinato, c'era tolleranza da parte del potere ecclesiastico, al solo scopo di radicare profondamente la religione all'interno della società.

Soltanto più tardi, con la caduta dell'Impero, quando, in un vero day after di civiltà, con una popolazione analfabeta, sfilacciata, "stordita" anche dalla scomparsa di un riferimento culturale solido come l'Impero e le sue istituzioni, la Chiesa, rimasta l'unica "rete" sociale estesa sulle rovine, diede un giro di vite condannando duramente tutte le pratiche autoerotiche, masturbazione in testa. È con l'alto Medioevo, infatti, che appare la prima condanna ufficiale della Chiesa nei confronti della masturbazione.

Nella Roma che stiamo esplorando, però, tutto questo è ancora ben lontano. C'è, tuttavia, una precisazione da fare: a essere tollerata è la masturbazione maschile, mentre quella femminile viene molto criticata in quanto non all'altezza dello status di una matrona, e soprattutto perché fa sfuggire all'uomo il controllo del piacere sessuale di una donna… Ne parlano sia Marziale sia Giovenale. E ogni volta ci svelano anche delle curiosità sulla vita quotidiana.

Giovenale, criticando come suo solito le donne, nella sua Satira VI (Contro le donne) descrive un'astuzia escogitata dalle mogli per tradire i mariti, e cioè fingersi malate e stare a letto. L'amante, nel frattempo, nascosto nella sua stanza (esattamente come oggi, l'uomo si nasconde nell'armadio), impaziente di potersi unire alla donna, si masturba: "… intanto l'amante, ben nascosto nella stanza, resta zitto zitto in attesa e, impaziente, manovra il prepuzio".

Marziale, invece, nei suoi Epigrammi, svela un'abitudine dei romani riferendosi con ironia al suo amico Pontico: "O Pontico, tu non fotti mai, ma hai come amante la tua affezionata mano sinistra, che diviene così ministra di Venere".

Scopriamo quindi che i romani usavano solitamente la mano sinistra per masturbarsi, la mano "sporca". A confermarlo, ci sono molti altri testi antichi, compreso persino un graffito di Pompei: "… quando le preoccupazioni opprimono il mio corpo, con la mia mano sinistra mi libero dai liquidi repressi".

Naturalmente la masturbazione poteva essere di due tipi, attiva o passiva, cioè fatta da sé o praticata da un partner. E questi a volte potevano essere bravi, a volte scadenti. Come scopriamo, sempre nelle opere di questi due autori latini, in situazioni molto… particolari.

Prima il partner scadente. Marziale ne parla in un epigramma, a proposito di una sua relazione: "O Fillide, quando cominci a maneggiare il mio membro cadente con la tua vecchia mano, il tuo pollice mi uccide: quando infatti mi chiami topolino, luce dei tuoi occhi, penso che non basteranno dieci ore per rimettermi a posto. Tu non sai affatto blandire. Dimmi: Ti darò centomila sesterzi, ti darò un fondo ben coltivato in quel di Sezze; accetta in dono vini, una casa, schiavi, auree stoviglie, tavoli da mensa'. Non c'è nessun bisogno di dita: accarezzamelo così, o Fillide".

Giovenale invece cita il caso di una donna che ha trovato un modo creativo di farsi masturbare da un partner molto bravo: il proprio massaggiatore privato, oggi diremmo il proprio personal trainer: "È di notte che ella va al bagno; in piena notte mette tutto in moto, vasca e arnesi; tra grande schiamazzo le piace di sudare, dopo aver fiaccate le braccia con gravi pesi, mentre il furbo massaggiatore le preme le dita sul sesso e le fa risuonare la parte alta delle cosce".

Ma le matrone romane, rispetto agli uomini, avevano una marcia in più nel campo dell'autoerotismo. Potevano usare un fallo finto. L'antenato del vibratore.

Il sex toy preferito dalle donne

Si chiamava olisbos o baubon ed era un fallo artificiale. La parola olisbos deriva al verbo greco olisbein, che letteralmente vuol dire "infilarsi o scivolare dentro".

L'olisbos era un fallo artificiale realizzato con un'anima in legno e rivestito di cuoio imbottito. Le dimensioni variavano, ma solitamente si aggirava sui 15 centimetri, e al momento dell'uso veniva probabilmente cosparso con del lubrificante, per esempio olio. Delle cinghie di cuoio o dei lacci di tessuto permettevano all'olisbos di trasformarsi da sex toy di uso personale a oggetto erotico da utilizzare in due nei rapporti omosessuali tra donne, in cui una di loro, "indossandolo", assumeva il ruolo di "uomo". Cosa che accade tutt'oggi con i cosiddetti "strap-on dildo" o "dildo indossabili".

Visti i materiali deperibili con i quali erano fatti questi falli artificiali, non se n'è conservato neanche uno dall'antichità, tranne, forse, in un caso spettacolare.

In una mostra sul sesso presso il Rheinisches Landes-museum di Treviri, in Germania, è stata esposta quella che a tutti gli effetti sembra una matrice in terracotta per realizzare falli artificiali… in serie. Bastava colarci dentro forse della resina (che avrebbe garantito caratteristiche simili all'attuale plastica) o qualche altro tipo di materiale. Quello che sorprende sono le dimensioni del fallo artificiale: intorno ai 40 centimetri! Ma colpisce anche il suo aspetto. Osservando la matrice nei dettagli, si notano tanti buchi e scanalature. In altre parole, sul fallo artificiale sarebbero state riprodotte non solo delle nervature a imitare le ramificazioni di grossi vasi sanguigni, ma anche piccole protuberanze, alte pochi millimetri, e disposte ad anello per tutta la lunghezza dell'oggetto. Un fallo artificiale come questo, pur essendo stato realizzato tra il 300 e il 350 d.C, avrebbe davvero potuto trovare posto in un qualsiasi sexy shop attuale.

Non è ben chiaro, però, se questo sex toy fosse destinato unicamente alle donne o anche agli uomini, da usare in ambito omosessuale o nei giochi erotici tra uomo e donna (come nella pratica sessuale oggi chiamata pegging, nella quale una donna che indossa un fallo artificiale penetra un uomo), oppure negli amplessi di gruppo ecc.

In realtà, l'oggetto esposto in Germania poteva benissimo avere un uso completamente diverso, per esempio "sfornare" organi maschili in serie da appendere durante eventi particolari, come cerimonie e feste in onore di Priapo, e su cui infilare ghirlande di fiori. Non lo sapremo mai. Ma il suo uso in un contesto sessuale, soprattutto per via delle lievi protuberanze, rimane quello più probabile. D'altra parte, il fallo artificiale non è un'invenzione solo europea: in Cina è stato rivenuto un fallo di giada usato probabilmente come dildo risalente a 8000 anni fa circa e oggi esposto al Chinese Sexual Culture Museum di Shanghai.

Perché i falli artificiali erano così diffusi anche nell'antichità? Per il piacere femminile, ovviamente, ma non solo quello legato al desiderio. Probabilmente fin da allora si era diffusa l'idea che l'orgasmo fosse molto utile per una donna anche dal punto di vista medico. La nascita del vibratore moderno, infatti, è avvenuta proprio come strumento per curare le donne colpite da… isteria (come abbiamo già avuto modo di accennare in un precedente volume, Impero).

In effetti, avete mai notato che la parola "isteria" si trova anche in termini medici utilizzati per operazioni o esami medici a carico dell'utero, come isterografia o isterectomia ecc.? Il motivo è che "isteria" deriva da una parola greca che indica l'utero. I medici dell'antichità erano infatti convinti che le donne isteriche in realtà non facessero altro che scaricare violentemente dell'energia sessuale che si era andata accumulando nel loro corpo a causa di un lungo periodo senza rapporti sessuali e orgasmi. Le donne a rischio d'isteria erano quindi le vedove, le zitelle e tutte quelle che, per vari motivi, non avevano un uomo con cui fare l'amore. Quindi, bisognava indurre l'orgasmo. Già nel I secolo d.C. per curare l'isteria si prescriveva… quello clitorideo! Era il medico che, con la dovuta "professionalità", provocava un orgasmo alla paziente con le dita.

Se pensate si tratti di una pratica legata all'antichità, sappiate che fu usata dai medici fino alla fine dell'Ottocento, e ha portato alla nascita dei vibratori moderni. Sebbene oggi siano considerati i sex toys per eccellenza, in realtà sono nati come uno strumento medico.

Come erano fatti questi sex toys? Ce lo dicono gli antichi.

Sappiamo che nell'antichità i falli artificiali avevano una diffusione molto ampia. Molti autori greci, come Aristofane, Saffo e Callimaco, ne parlano diffusamente. Ma in mancanza di industrie, chi li costruiva? Di solito i calzolai e tutti quelli che lavoravano il cuoio. Se in Grecia la loro vendita avveniva con discrezione, sottobanco, magari andando direttamente a casa della cliente, nella Roma imperiale, visto il grande uso e successo di falli eretti esposti un po' ovunque, nelle vie, sulle case, nei banchetti e persino portati al collo, era abbastanza facile procurarsene uno.

Se volete vedere come erano fatti i primi olisboi usati in grande quantità, basta osservare vasi e piatti usati nell'antica Grecia.

In alcuni di essi si vedono donne masturbarsi reciprocamente con questi falli finti. In altri vasi si vedono scene di sesso di gruppo, con donne che indossano questi peni artificiali, veri e propri dildo ante litteram. Al Museo Archeologico Regionale di Siracusa è esposto un vaso risalente al V secolo a.C. che raffigura una donna nuda che utilizza due olisboi contemporaneamente. Sono quasi sempre rappresentazioni da interpretare in chiave umoristica.

Se invece volete leggere opere classiche in cui si parla di questi sex toys, allora dovete cercare quelle dei commediografi dell'antichità. Nella Lisistrata, Aristofane fa dire alla sua protagonista che da quando è scoppiata la guerra sono spariti sia i mariti a casa sia quei "trastulli di cuoio da otto dita" (cioè degli olisboi da 15 centimetri) dal mercato…

Saffo, poi, usa un'immagine molto bella per citare il fallo artificiale e i suoi benefici sulla donna: "Le corde della lira danno il benvenuto al plettro… come le donne che usano ì'olisbos".

Un altro modo di chiamare questi sex toys fu baubon, un termine comparso per la prima volta nelle opere del greco Sofrone di Siracusa, che li descrive anche fisicamente in un suo mimo: "… così / lunghi rotondi … cannelli dalla carne dolce, ghiottoneria delle donne vedove".

Ma forse la citazione antica più interessante di questo genere di sex toy è quella di un altro mimografo greco, Eroda, vissuto successivamente, nel III secolo a.C, sull'isola egea di Kos. Grazie a lui possiamo scoprire il parere delle donne sul fallo finto.

Per il realismo dei suoi mimi Eroda è stato definito anche il "Petronio greco". Descrive la vita quotidiana del ceto medio dell'epoca con ironia e a volte scabrosità. Per questo le sue opere hanno avuto uno straordinario successo anche al di fuori della Grecia. Persino in epoca imperiale, a Roma. Non è improbabile che potesse essere proprio il mimo in scena quando ci siamo trovati nel Teatro di Pompeo qualche capitolo fa.

In una delle sue opere, appunto, è proprio un fallo di cuoio, un baubon, a essere il vero protagonista: due donne, due matrone greche, ne parlano scambiandosi confidenze e impressioni: quest'opera ha più di 2200 anni, ma sembra moderna. Si tratta del mimo VI, dal titolo Le amiche a colloquio (o Le donne "impegnate"). Per una volta invece di descrivere noi una scena realistica del passato, lasciamo a Eroda questo compito…

Due donne parlano di un fallo artificiale da usare per il piacere

Allora immaginate di trovarvi a Efeso, nota per la libertà di costumi e le raffinatezze erotiche. A sentire gli autori antichi sembra che sia questa città sia Mileto, per questa loro disinvoltura sessuale, fossero importanti centri di produzione di falli finti. Siamo a casa di Coritto, una donna che ha appena acquistato un fallo finto rosso scarlatto. Attraverso i suoi dialoghi con l'amica Metro, scopriamo come erano fatti i falli finti di ventidue secoli fa (cuoio morbido) e chi li realizzava: dei calzolai scaltri, in questo caso uno di nome Cerdone. Quest'opera diventò così famosa che persino Marziale, in uno dei suoi epigrammi, cita Cerdone per denigrare un calzolaio arricchito. Il breve testo del mimo che leggerete ha il merito di proiettarci non solo nella quotidianità di un'epoca scomparsa, ma anche di scoprire quanto le donne di allora fossero disinibite nel rivendicare il proprio diritto al piacere sessuale e a viverlo senza particolari blocchi, come la cosa più naturale al mondo. In effetti, tenendo comunque presente che si tratta di un'opera concepita per fare ridere gli spettatori con intuibili eccessi, quello che colpisce è l'approccio molto emancipato delle donne di classe media dell'antichità rispetto a un argomento che mette in imbarazzo non poche donne ancora oggi.

METRO - Ti prego non ingannarmi, cara Coritto, chi è mai stato a cucirti il baubone scarlatto?

CORITTO - E tu Metro, dove l'hai visto?

METRO - L'aveva Nosside, la figlia di Eurinna, l'altro giorno. Oh, un bel regalo!

CORITTO - Nosside? E dove l'aveva preso?

METRO - Mi metterai in cattiva luce se te lo dico.

CORITTO - Lo giuro su questi dolci occhi, cara Metro: dalla bocca di Coritto nessuno ascolterà quanto tu dirai.

METRO - Eubule [è un nome di donna] glielo dette e sì raccomandò di non farne parola con nessuno.

CORITTO - (Visibilmente adirata) Donne! Questa donna un giorno o l'altro mi farà morire. Io ebbi pietà per lei che mi supplicava e glielo detti [il baubone], prima di servirmene io stessa! E quella, come se fosse roba di poco valore, l'afferra in gran fretta e lo dona anche a chi non deve. Tanti saluti ad un'amica del genere … Per conto mio - sto per dirne una più grossa di quanto si convenga ad una donna, ma possa non essere ascoltata, oh Adrastea [divinità che punisce gli eccessi] - ne avessi mille, uno, anche se rugoso, non glielo darei!

METRO- Non ti far saltare subito la mosca al naso … Ma per tornare a quanto ti ho per la precisione ricordato, chi è che l'ha cucito? Se mi vuoi bene, dimmelo. Perché mi guardi e sorridi? Cosa sono queste maniere delicate? Sembra che tu non mi conosca, quasi che ci fossimo incontrate per la prima volta. Ti supplico Coritto, non mi ingannare di nuovo… dimmi chi l'ha cucito.

CORITTO - Oh, perché mi supplichi? Cerdone l'ha cucito.

METRO - Quale Cerdone?

CORITTO - Il Cerdone che dico io è un tale venuto da Chio … calvo e bassino [nel teatro questi erano simbolicamente i tipici caratteri di un uomo vile e avido di denaro] … Lavora a casa vendendo sotto banco, come ben saprai infatti di questi tempi per gli esattori ogni porta trema [è una scusa ironica, in realtà la vendita di bauboni era illegale e probabilmente era merce fuorilegge]. I suoi lavori, però, che lavori sono! Di Atena stessa crederesti di vedere le mani, non di Cerdone! Venne da me portandone due Metro, e io, lo devo ammettere - giacché siamo tra noi -, quando li vidi per la voglia strabuzzai gli occhi: gli uomini non ce li hanno così eretti! E poi non sai quanto sono morbidi… hanno la morbidezza del sonno! E i lacci son di lana, non corde di cuoio [quelle, cioè, da far passare attorno alla vita e tra le gambe per "fissare"a sé il fallo finto e fare sesso, come se si fosse un uomo, con un'altra donna]. Un altro calzolaio più ben disposto verso una donna cercalo: non lo troverai!

METRO- Come mai allora lasciasti scappare l'altro?

CORITTO - Che cosa, Metro, non ho fatto! Quale argomento di persuasione non ho usato con lui? Baciandolo, accarezzandogli la testa pelata, versandogli da bere del vino, vezzeggiandolo… Soltanto il mio corpo non gli ho offerto da godere.

METRO - Ma se ti avesse chiesto anche questo, bisognava darglielo.

CORITTO - Bisognava certo, ma essere intempestivi non conviene…

METRO - E come ha fatto Cerdone a trovare la strada per venire da te? Ma bada, cara Coritto, non mi ingannare nemmeno questa volta!

CORITTO - Lo mandò Artemide, la moglie di Candati, il con-ciapelli, dopo avergli dato l'indirizzo della mia casa [Artemide evidentemente aiuta il calzolaio a individuare e trovare clienti per i falli di cuoio].

METRO - Le tue parole significano che ora io devo andare da Artemide e farmi dire dove posso trovare Cerdone. Stammi bene Corittina, è tempo di andar via, mi è proprio venuta una gran fame [ovviamente fame erotica, e sul palcoscenico probabilmente l'attrice indicava con la mano la propria area genitale].

Altre testimonianze sull'uso dei falli artificiali nella Roma imperiale

Esattamente come in Grecia, anche nella Roma imperiale si usavano falli di cuoio per i giochi erotici. Ma a parte un affresco erotico di Pompei che ne suggerisce l'uso di uno tra due donne che fanno sesso (senza che lo si veda, chiaramente), non esistono rappresentazioni chiare di questi sex toys. Le fonti letterarie, però, li descrivono esplicitamente: Petronio lo chiama fascinum nel suo Satyricon, e forse era il nome che veniva abitualmente usato allora. Quello che è interessante, è il rito al quale deve sottoporsi il protagonista (Encolpio) per ritrovare la propria virilità perduta a causa del dio Priapo che lo aveva reso impotente. Questo rito, celebrato da una maga, è una via di mezzo tra una tortura e una "pratica sadomaso", nella quale spicca il fallo di cuoio: "Enotea tira fuori un fallo di cuoio e dopo averlo cosparso di olio, pepe in polvere e seme pesto di ortica comincia ad inserirmelo pian piano nel didietro. Subito dopo la crudelissima vecchia mi spalma quell'intruglio sui genitali, mescola succo di nasturzio con abrotano e dopo avermi lavato i genitali con questa miscela prende un fascio di ortiche verdi e comincia a darmi lente frustate dall'ombelico in giù".

Sappiamo che presso le donne romane i falli artificiali erano molto apprezzati e anche molto diffusi. Ce lo suggeriscono diverse fonti letterarie, in una delle quali Marziale critica l'amore lesbico di una donna di nome Bassa. E non lesina le parole: "Poiché, o Bassa, io non ti vedevo mai in compagnia di maschi e nessun pettegolezzo ti assegnava un amante e una schiera di persone del tuo sesso eseguiva intorno a te tutti i servizi, senza che un uom si avvicinasse, mi sembravi - lo confesso - Lucrezia! Ma tu, o Bassa, - che vergogna! -fottevi quelle donne. Osi accoppiare tra loro due vagine, e la tua stravagante lussuria compie con frode le funzioni del maschio. Hai inventato un prodigio che può stare alla pari con l'enigma tebano, che cioè ci sia adulterio là dove non c'è l'uomo". L'invenzione prodigiosa di cui parla il poeta altro non è che un fallo di cuoio legato intorno alla vita.

In un altro epigramma, Marziale prende di mira una certa Filenide, accusandola di perversioni di ogni tipo, anche di usare falli finti legati con lacci di cuoio alla vita, con ragazzi e ragazze: "La scostumata Filenide fa la sodomita con dei ragazzi, e più accesa di libidine di un uomo scortica undici ragazze al giorno".

L'importanza delle "dimensioni"

Una delle preoccupazioni degli uomini dell'età moderna in campo sessuale (e nei confronti con gli altri uomini) sono le… dimensioni. Potremmo definirla "sindrome da spogliatoio". Anche nell'antichità era così? Dipende dall'epoca che considerate. Per i greci, per esempio, le dimensioni del pene non erano un problema. Sebbene nelle processioni trasportassero falli enormi, nella vita quotidiana preferivano falli di dimensioni piccole, quasi adolescenziali. Basta osservare statue e affreschi. I genitali maschili hanno sempre dimensioni decisamente modeste, a volte in modo sorprendente.

Un esempio sono i famosi Bronzi di Riace, che rappresentano uomini nel fiore della loro virilità, eppure le loro "piccole dimensioni" hanno generato decenni di dibattiti e polemiche. In realtà, c'è un motivo. Gli uomini greci non sono certo fisicamente diversi dagli altri, ma nella loro testa ci sono degli "ideali" di lunghezza: per i greci un pene grosso e lungo è sinonimo di rozzezza, volgarità e bassa estrazione sociale. Ecco perché gli stranieri, i barbari e gli schiavi vengono raffigurati con attributi enormi. Invece un greco di alta estrazione, leader carismatico o eroe che fosse, deve necessariamente rappresentare l'ideale greco di bellezza, incarnato dal corpo del giovane adolescente che si esercitava nel ginnasio: un corpo che doveva essere ben proporzionato, anche per quanto riguarda i genitali.

Aristotele dà una spiegazione "scientifica" a questa preferenza. La sua teoria si basa sul calore vitale del liquido seminale, cioè sul fatto che più lo sperma è caldo, più un concepimento sarà facile e darà ottimi risultati. Un pene lungo, invece, farebbe raffreddare velocemente lo sperma durante il suo passaggio al momento dell'amplesso, facendogli perdere vitalità e fertilità. Un fallo di piccole dimensioni, secondo Aristotele, sarebbe perfetto.

E per i romani? Anche per loro i personaggi reali o mitologici rappresentati negli affreschi o scolpiti nel marmo devono avere peni piccoli, mentre i barbari e le figure rozze devono averlo sproporzionato. Ma nella vita reale, al contrario dei greci, le dimensioni del pene contano, eccome. Per un romano l'organo sessuale maschile rappresenta forza e potenza, e inoltre è associato alla fortuna.

Si dice che oggi, negli spogliatoi delle palestre, chi è ben dotato solitamente circola nudo, contrariamente a chi è molto meno dotato, che si copre con l'asciugamano. Naturalmente, anche il pudore e l'educazione sono altri validi motivi. Curiosamente, anche nelle terme dei romani, dove si circolava nudi, era così. E in una società in cui il fallo era un simbolo, chi era ben dotato suscitava ammirazione… Lo sappiamo dagli autori latini, che non lesinano complimenti ai superdotati dell'epoca. Come ci conferma Marziale: "O Fiacco, se sentirai alle terme un applauso, sappi che è apparso lo smisurato membro di Marone".

In quest'altro epigramma parla dell'amante di un suo amico: "Natta chiama uccellino il membro del suo drudo, al cui confronto Priapo è un eunuco".

Mentre in un altro epigramma prende in giro una ragazza che è triste perché ha perduto il suo giovane amante superdotato: "È capitata una tremenda disgrazia, o Aulo, alla mia ragazza. Ha perduto il suo spasso e il suo godimento; ma non quello che pianse Lesbia, l'amica delicata di Catullo, privata delle prepotenze del suo passero, né quello che pianse Iantide, cantata dal mio Stella, la cui colomba vola ora avvolta di caligine nei regni Elisii. Il mio amore è immune da tali sciocchezze e da tali usanze; il cuore della mia signora non si lascia vincere da siffatte disgrazie. Ha perduto lo schiavo che contava dodici anni, il cui fallo non misurava ancora un piede e mezzo".

I romani amavano l'esibizionismo

La cosa che sorprende di più nel mondo romano, rispetto a oggi (e a tutte le altre epoche), è l'esigenza di far conoscere a tutti le proprie capacità sessuali. La professoressa Cantarella parla addirittura di "etica del vanto" nel mondo romano. E ha ragione. A Pompei, per esempio, buona parte dei graffiti è stata scritta da uomini (ma anche da donne) che vantavano i propri exploit amatori oppure sottolineavano la bravura o la scarsa qualità del partner con il quale (o la quale) avevano appena fatto l'amore. Due studiosi esperti, Luca Canali e Antonio Varone, hanno studiato e tradotto questi graffiti facendo riemergere un mondo sorprendente, anche per la loro volgarità in certi passaggi…

Famose sono alcune scritte nel lupanare più visitato di Pompei. In un graffito, un cliente molto soddisfatto ha sottolineato l'abilità di una prostituta di nome Mirtide: "Mirtide, lo sai succhiare proprio bene" (Myrtis, benefelas).

Al contrario di un altro cliente, che invece è rimasto molto deluso: "Qui ho appena fottuto una formosa fanciulla lodata da molti, ma dentro era fangosa" (Hinc ego mine futili formosam puellam laudatam a multis, sed lutus intus erat).

In tutta la città, ci sono echi scritti di questo spirito esibizionista: nel Corridoio dei Teatri, per esempio, si può leggere: "Rufa, possa tu star sempre bene, per quanto bene lo succhi" (Rufa ita vale quare benefellas). Un altro uomo, per la stessa pratica sessuale, ha lasciato un messaggio di ben altro tono, nella casa delle Nozze d'Argento: "Sabina, sì, lo succhi, ma non sai proprio farlo bene" (Sabina fe[l]las, no[n] belle facis). Evidentemente Sabina non aveva letto il consiglio alle donne lasciato da un uomo anonimo nelle Terme Stabiane di Pompei con un graffito al carbone, che svelava i segreti di una fellatio perfetta: "Scendi giù con la bocca lungo il fallo, leccandolo, poi ancora leccando ritraila fin su… ah, ecco, vengo!" (Oblige mentulam, mentlam elinges… Destillatio me tenet).

Tutto questo, al di là della volgarità dei messaggi, dà anche un volto alla quotidianità di Pompei, mostrando un mondo vivo, con pregi e difetti dei suoi abitanti molto umani.

Non mancano gli uomini che si vantano delle proprie "performance", come Floronio, soldato della VII legione: "Solo poche donne hanno saputo che io, Floronio, gran chiavatore, soldato della VII legione, ero qui: e me ne farò solo sei" {Floronius binetas miles legionis VII hic fuit, neque mulieres scierunt, nisi paucae, et ses, erunt).

Gli fa eco un altro uomo che fa addirittura un piccolo elenco delle sue "conquiste" sia femminili sia… maschili: "Ninfa, fottuta; Amono, fottuta; Perenne, fottuto" (Nymvhe fututa, Amomus fututa, Perennis fututus).

Più imbarazzante è un graffito lasciato nella Villa dei Misteri: la sua volgarità fa a pugni con il suo stile, perché è stato scritto in distici elegiaci: "Qui ho trafitto di brutto la signora, slargandone il didietro, ma turpe è stato scrivere quésti versi" ([H]ic ego cum domina resoluto clune. [P]er[e]gi. [Tales se]d versus scrìbere [turpjefuit).

Se i graffiti vi appaiono volgari solo perché sono stati scritti da uomini, non mancano quelli lasciati da donne romane, non meno… diretti. Una donna ha scritto: "Sì, qui sono stata scopata!" (Fututa sum hic). Un'altra donna, a Pompei, ammette di non poter fare a meno del fallo del suo uomo: "Il tuo cazzo lo ordina: si ami!" (Mentula tua iubet, amatur). Abbandonando ogni pudore, un'altra donna confida: "Ogni giorno mi slinguo Piramo" (Piramo cottidie linguo).

Oggi queste scritte sono soprattutto confinate sulle pareti o le porte dei bagni di bar, autogrill e luoghi pubblici. In epoca romana era diverso. Erano molto più frequenti e diffuse. Colpisce soprattutto la libertà e la voglia di uomini e donne di far conoscere dettagli della loro sessualità esibendoli in pubblico. Abbiamo fin qui trattato le scritte, arrivate fino a noi perché incise sui muri; mancano però altre parole e altre frasi che non conosceremo mai perché non hanno lasciato traccia. Sono quelle delle voci delle persone. Dicevano agli amici e alle amiche le stesse cose che scrivevano sui muri? Con la stessa mania esibizionista? Non lo sapremo mai, ma è probabile che fossero assai più franchi e diretti di noi. Anche questo era un tratto particolare della società romana.

La sorprendente ritrosia delle romane a mostrarsi interamente nude

Lo abbiamo visto tutti, visitando un sito romano o sfogliando un libro di archeologia: nei gabinetti pubblici mancava la privacy, ci si sedeva uno accanto all'altro. Inoltre, alle terme si andava nudi. Ma non esisteva un po' di pudore? La risposta è sì. Per quanto fosse una società più "libera" della nostra nel vivere la sessualità e nel mostrare i corpi, esisteva comunque una forma di comune senso del pudore, paradossalmente proprio a letto. Quando una donna faceva l'amore non doveva mostrarsi completamente nuda al proprio partner.

Per questo una donna preferiva consumare il sesso al buio o con pochissima luce, lasciandosi addosso qualcosa, il reggiseno o altro (negli affreschi, a parte quelli molto "spinti", in effetti è raro il nudo integrale). Naturalmente ciò non valeva per le schiave o le prostitute. Questo è davvero sorprendente: perché c'era questa ritrosia? Colpisce che in un clima di grande naturalezza e libertà, almeno rispetto ai nostri standard, le donne di allora fossero più "timide" nel mostrare il corpo rispetto a quelle attuali.

Un istintivo senso del pudore della donna, la convinzione (tipicamente femminile) di avere qualche difetto nel corpo e infine la paura di essere considerata "una poco di buono" sono le spiegazioni più immediate. Inoltre, mentre l'uomo è molto "visivo" nel sesso, la donna invece predilige le sensazioni, gli odori, le carezze: una luce diretta, anche oggi, la mette a disagio, come se fosse su un palcoscenico sotto gli occhi di tutti.

Secondo diversi studiosi, però, questa naturale ritrosia della donna romana alla fine si collocherebbe bene nell'idea di erotismo in voga a quei tempi. Il "vedo non vedo", la possibilità di scoprire gradualmente o non completamente il corpo della donna, magari alla debole luce di una lucerna, avrebbe aumentato la carica erotica degli incontri. Così si spiegherebbero anche le lucerne accese o i candelabri, che spesso si vedono rappresentati in affreschi o su oggetti, che illuminano debolmente le scene di sesso. In altre parole, la naturale ritrosia della donna faceva parte del rituale d'amore di duemila anni fa, come il fatto di voler essere corteggiata e di non concedersi troppo. E le cose non sembrano essere cambiate molto…

L'uso degli specchi durante il sesso

Superate le ritrosie femminili o anche in presenza di amanti, cortigiane e schiave, la fantasia sessuale dei romani raggiungeva livelli molto "sofisticati", come l'uso degli specchi. In effetti, tra le pratiche più sorprendenti, testimoniata da varie fonti, c'era appunto quella di piazzare nella camera da letto degli specchi per potersi vedere mentre si faceva l'amore…

Insomma, lo specchio diventava un sex toy, in un certo senso, anche se non sappiamo se arrivassero al punto di posizionarli persino sul soffitto sopra il letto. Del resto, gli specchi erano molto costosi, soprattutto quelli di vetro, quindi questa pratica era diffusa solo tra chi poteva permetterseli. I romani chiamavano la stanza con specchi speculatum cubiculum, e sembra che molti vip e personaggi famosi fossero amanti di questa pratica. Tra essi il poeta Orazio. Sve-tonio ammette che Orazio "… amasse sin troppo indulgere ai piaceri di Venere. Infatti aveva ricoperto di specchi una camera da letto, e disponeva le sue prostitute in modo tale che da qualunque parte volgesse lo sguardo gli ritornasse sempre l'immagine dell'amplesso che stava conducendo".

C'era poi chi esagerava e coltivava una vera ossessione per gli specchi, arrivando a eccessi morbosi. È il caso di un uomo ricchissimo vissuto sotto Augusto. Si chiamava Hostius Quadra, e aveva una passione per gli specchi.,. deformanti! Seneca, nella sua opera Naturales quaestiones, dipinge un ritratto agghiacciante della perversione di quest'uomo, ucciso poi dai suoi stessi schiavi, i quali però non furono processati perché Augusto giudicò Hostius Quadra troppo pervertito: "Quest'uomo non era dissoluto con uno solo dei due sessi, ma fu avido tanto di maschi quanto di femmine, e si fece costruire degli specchi con queste caratteristiche di cui ho già parlato, che riflettono immagini molto più grandi del vero, nei quali un dito supera in lunghezza e in grandezza un braccio. E li collocava in modo tale che, quando era lui a offrirsi a un maschio, potesse vedere in uno specchio tutti i movimenti del suo stallone, pur essendo voltato di spalle, e poi godeva dell'artificiosa grandezza del membro come se fosse vera. Egli effettuava il reclutamento girando tutti i bagni pubblici e sceglieva gli uomini conoscendo esattamente le loro misure, ma ciò nonostante si dilettava a stimolare con immagini illusorie le sue voglie sfrenate … contemplava gli uomini che si congiungevano a lui contemporaneamente in ogni maniera; talvolta, diviso fra un maschio e una femmina e con l'intero corpo abbandonato agli stupri, contemplava la scena abominevole … 'Mi offro contemporaneamente' diceva 'a un maschio e a una femmina; ciò nonostante, mi do da fare anche con quella parte del corpo rimasta libera oltraggiando un altro maschio: tutte le membra sono impegnate in stupri: anche gli occhi partecipino al piacere sfrenato e ne siano testimoni e sorveglianti; con artifici possa io osservare anche ciò che la posizione del nostro corpo sottrae alla vista, perché nessuno pensi che io non sappia quello che sto facendo … Disporrò attorno a me quel genere di specchi che riflettono le immagini incredibilmente ingrandite. Se ne avessi la possibilità farei diventare reali queste dimensioni: poiché non è possibile, mi pascerò di un'illusione' … Che cosa sconcia e indecente! Costui forse fu ucciso rapidamente e prima che potesse vedere la scena: lo si sarebbe dovuto immolare davanti al suo specchio".

Sebbene Hostius Quadra abbia mostruosamente e morbosamente esagerato nell'uso degli specchi, questa pratica era comunque piuttosto diffusa nel mondo romano. Lo sappiamo anche da diversi medaglioni (datati II-III secolo d.C.) ritrovati nella valle del Rodano. In uno di questi si vede una donna che "cavalca" un uomo, dandogli la schiena (posizione della equis aversis). La donna ha in mano uno specchio da toeletta attraverso il quale l'uomo può vederle il viso, i seni e, più in basso, i movimenti pelvici…

Questo semplice oggetto aumentava la carica erotica dell'uomo (e quindi il piacere) a tal punto che la figura maschile ritratta nel medaglione dice alla donna: "Possa tu star bene! Così sì che mi piace!" (Valeas /ita /decet me).

In un altro medaglione, anch'esso proveniente dalla valle del Rodano, con un'identica situazione, l'uomo cerca di appoggiare sulla testa della donna una corona della vittoria, dicendole: "Tu sola mi vinci" (Tu sola /nica).

Anche se può sembrare una frase banale, sia la posizione sia le parole ci dicono una cosa straordinaria: la donna domina e vince sull'uomo. Per la mentalità romana di solo poche generazioni prima questo concetto sarebbe stato semplicemente impensabile. È la conferma, come abbiamo già avuto modo di dire, che la società romana, profondamente maschilista, permette comunque alla donna di raggiungere un'emancipazione e una "parità" con l'uomo mai viste prima, e mai più raggiunte fino ai nostri giorni. Ma è soprattutto con l'amore e con il sesso che la donna romana riesce a dominare l'uomo, sia pure con tutte le limitazioni dell'epoca, riuscendo là dove nessun'altra donna di antiche civiltà è mai riuscita ad arrivare.

Voyeurismo

Già i romani conoscevano il concetto di voyeurismo, cioè dell'eccitarsi nel guardare di nascosto altre persone nude che fanno sesso. Non esisteva un nome specifico per questa pratica, se non, perlomeno nei testi, quello di indicare con il termine di lascivus, ovvero "guardone", chi la esercita.

Duemila anni fa il luogo preferito dai guardoni era ovviamente il lupanare. Sappiamo che, spesso, le tendine che chiudevano le stanze dove avvenivano gli amplessi avevano fori che permettevano di vedere tutto. E così le pareti avevano piccolissimi pertugi praticati dai guardoni. È Marziale a confermarlo, in un epigramma in cui prende in giro un certo Cantaro per il suo esagerato pudore: "Ogniqualvolta oltrepassi la soglia di una camera su cui c'è il cartellino [con il nome della ragazza o del ragazzo], accolto dal sorriso di un fanciullo o di una fanciulla, non ti accontenti di una porta, di una tenda o di un catenaccio, ma pretendi un segreto più grande: fai chiudere ogni minima fessura, e ogni forellino fatto dall'ago di persona lasciva. Un pudore così delicato e timoroso non lo trovi, o Cantaro, in nessun uomo che faccia l'amore con un fanciullo o una fanciulla".

Oltre al lupanare, c'erano anche le Terme, dove era possibile guardare di nascosto o meno un corpo nudo, di uomo o di donna. Ma è nelle case private che avvenivano particolari giochi di raffinato erotismo, a metà strada tra esibizionismo e voyeurismo. Ogni famiglia ricca aveva uno stuolo di schiavi in casa (minimo una dozzina per le case di dimensioni medie, come quelle di Pompei). E la privacy, tra padroni e schiavi, era molto ridotta. Soprattutto nei confronti del cubicularius, il "maggiordomo da camera" dei padroni (ancora oggi "cubicolario", o "cameriere segreto", è il nome dell'addetto al servizio personale del papa).

Questo schiavo fidatissimo dormiva per terra, sdraiato davanti alla porta della camera dei padroni, come un cane. E li assisteva in tutto. Vegliava sul loro riposo e, oltre a soddisfarli in tutte le loro richieste (portando acqua e cibo, aiutandoli a vestirsi, o a svegliarsi), è assai verosimile che li assistesse quando facevano sesso, conoscendo i loro segreti più intimi.

La cosa più sconcertante, per la nostra mentalità, è la presenza di schiavi in camera da letto durante i rapporti sessuali tra moglie e marito o tra un uomo o una donna e il suo partner… Lo si vede anche in molti affreschi: a Pompei, nella casa del ricco banchiere Lucio Cecilio Giocondo, è stato rinvenuto un affresco nel quale una donna nuda che sta a letto con il suo partner si sta alzando e si rivolge al suo cubicularius, il quale si avvicina pronto a eseguire i suoi ordini. Non sappiamo, a dir la verità, se questi servi fossero presenti durante il rapporto stesso, o appena fuori dalla porta in attesa di essere chiamati per soddisfare le esigenze dei loro padroni. Ma il fatto che, nei dipinti, sono spesso intenti a versare da bere o a tenere una lucerna farebbe pensare che spesso assistessero al rapporto. E questo potèva aggiungere un ulteriore motivo di eccitazione alla coppia, che si sentiva osservata con desiderio… e che, volendo, poteva coinvolgerli nei suoi giochi erotici.

Il rapporto tra schiavi e padroni in camera da letto era decisamente particolare, come ha osservato il professor Antonio Varone: "La figura degli schiavi… si prestava perfettamente a giochi di carattere erotico-esibizionistico. Il padrone o la padrona, così come poteva liberamente disporre di essi anche a scopo sessuale, poteva anche permettersi formalmente di considerarli alla stregua di animali domestici nei confronti dei quali era lecito non provare il benché minimo sentimento di pudore. Era chiaro, comunque, che essi animali non erano e in quanto persone erano soggetto di normali pulsioni. Ciò faceva sì che si potesse instaurare con essi un intreccio estremamente erotico, dovuto da un lato al fatto che lo schiavo poteva sbirciare o contemplare nell'intimità l'oggetto dei suoi irrealizzabili desideri amorosi, dall'altro alla consapevolezza da parte dei signori dell'eccitazione suscitata negli schiavi, che si poteva formalmente ignorare, ma che di fatto si rivelava come elemento di ulteriore libido, soprattutto quando essi erano impegnati in attività sessuali con un altro partner".

I libri erotici, le riviste "porno" e i film "a luci rosse" dei romani

Sappiamo che i romani disponevano di libri erotici molto spinti. In effetti, con la trasformazione della società nel I secolo a.C. e l'ampliamento delle frontiere di Roma, nasce una nuova generazione di poeti che rompe con il passato. Sono i cosiddetti poetae novi o neòteroi come Catullo, Furio Bibaculo, Publio Terenzio Varrone Atacino, Elvio Cinna, Licinio Calvo.

Curiosamente, non è la gente del popolino che li legge, sebbene adori gli spogliarelli e i mimi sconci. Le loro opere hanno invece uno straordinario successo nell'elite aristocratica, nella classe dominante. Perché? Perché è proprio da essa (dall'alto, diremmo noi) che sta cambiando il modo di pensare dei romani e in generale la cultura di Roma, abbandonando gradualmente i valori tradizionali della famiglia patriarcale. È un processo inarrestabile che vede poi arrivare Ovidio, Marziale, Petronio, Tibullo, Properzio, che inondano la nobiltà romana di opere estremamente erotiche.

La richiesta da parte degli aristocratici è incessante e alimenta una letteratura erotica latina che va in ordine sparso, senza unità stilistica: si va dall'elegia all'epigramma, cioè componimenti con metrica varia, ma che hanno in comune una caratteristica: la centralità di temi quali il sesso e l'amore. E sempre vissuti in modo soggettivo; a volte si è espliciti nel raccontare il sesso, altre lo si fa con allusioni poetiche, ma la carica erotica è sempre diretta e profonda.

Accanto ai libri erotici, esistono quelle che potremmo paragonare alle "riviste pornografiche": sono le famose opere del Kamasutra romano, con tutte le posizioni erotiche illustrate, numerate e descritte.

Queste illustrazioni molto spinte hanno dato vita a quelli che potremmo definire l'equivalente, per l'epoca, dei film porno.

In effetti, quando si osservano delle scene erotiche dipinte sulle pareti, o scolpite sul dorso di specchi di bronzo, ci si accorge che oltre alla coppia che fa l'amore ci sono spesso dettagli della camera dove si trovano i due amanti. Si vede il letto, delle lucerne, a volte una brocca o un cagnolino, e non di rado un quadretto appeso al muro con una scena erotica. Questo quadretto ha delle ante di legno, come quelle di una finestra, segno che può essere richiuso. A cosa serviva? E perché si poteva richiudere? Per non fare vedere la scena "osé" ai bambini di casa? No: c'erano tante altre rappresentazioni erotiche in giro per casa, come abbiamo visto. Lo si rinchiudeva per la polvere, o per proteggerlo? Non ha senso, allora si sarebbero dovute coprire tutte le opere di casa di un certo pregio (statue, affreschi, mobilio ecc.); invece bisognava esibirle per impressionare gli ospiti. Insomma, a cosa servivano?

Archeologi e studiosi si sono a lungo chiesti lo scopo di questi quadretti con sportellini, e perché stessero nei cubicula dei romani.

Su un medaglione di terracotta rinvenuto nella valle del Rodano c'è un indizio per noi. Si vede una coppia intenta a fare l'amore, con lei che "cavalca" il suo uomo. Sullo sfondo, uno di questi quadretti aperti con una quadriga al galoppo. La donna dice al suo uomo: "Salute! Tu ti accorgi di come mi stai aprendo bene" (Valeas. Vides / quam be/ne àia/ las). Sembrerebbe esserci quindi un riferimento tra la posizione della donna e la quadriga al galoppo…

Il professor Varone, nei suoi studi sul sito di Pompei, ha proposto un'ipotesi davvero sorprendente e suggestiva per questi quadretti con sportellini. Si tratterebbe di un gioco erotico molto sofisticato ideato dalle famiglie più ricche.

Esaminando una delle domus più importanti di Pompei, la Casa del Centenario, situata sul Decumano superiore, Varone ha notato una stanza molto spaziosa, un cubiculum, preceduta da un'anticamera. Nella stanza, accanto alla porta d'entrata, oltre a due pitture con scene amorose, si trova una strana, piccola apertura che la mette in comunicazione con l'anticamera. Non è grande, ma attraversa da parte a parte il muro. Dal momento che si trova a 1,66 metri d'altezza, è troppo alta per essere un passavivande o per vedere da una camera all'altra. E non serviva neanche come fonte di luce, visto che c'è già un'ampia finestra sopra la porta… A cosa poteva servire? Guardando da più vicino, Varone si è accorto di alcuni piccoli fori attorno all'apertura, verosimilmente lasciati da chiodi che dovevano servire a reggere una struttura di legno con delle ante, ora scomparsa: una finestrella di legno per chiudere il passaggio.

E allora ecco l'ipotesi del professor Varone. Quando il proprietario si sdraiava a letto con la sua amante e iniziavano i preliminari, le finestrelle erano chiuse. Uno schiavo, forse proprio il cubicularius, si trovava nell'anticamera e inseriva nell'apertura un quadretto erotico (tabulae con figurae Veneris). Era facile, perché l'apertura sul lato dell'anticamera era più grande e andava restringendosi verso la stanza da letto. Quindi lo schiavo, dopo averlo inserito, incastrava il quadretto in fondo al passaggio, proprio a ridosso delle finestrelle chiuse. A un comando del padrone, lo schiavo apriva le finestrelle, e di colpo appariva la scena erotica, suscitando, immaginiamo, le risate della coppia e la sorpresa della donna. Il quadretto suggeriva la posizione erotica da assumere e così, in un gioco sessuale, cominciava il rapporto. A un segnale, lo schiavo chiudeva le finestrelle forse con delle cordicelle, e inseriva un altro quadretto erotico. Seguiva poi una nuova apertura, con una nuova posizione erotica, nuovo stupore e così via… Ne doveva avere una bella pila a disposizione. Probabilmente esisteva un florido mercato di queste opere, ma, visto il materiale deperibile con il quale erano fatte, non si sono conservate fino a noi.

Possiamo anche immaginare una sequenza di immagini decisa dal padrone (o proprio dal suo schiavo fidato) in una specie di copione-sceneggiatura che si adattava alle sue preferenze sessuali e creava un crescendo erotico caricando di desiderio l'atmosfera. Secondo Varone, i punti di forza di questo gioco erotico erano appunto la varietà e la sorpresa.

Noi aggiungeremmo che questo sistema delle finestrelle con i quadri erotici era l'equivalente di un film porno di età romana: oltre ad "accendere" la coppia, rendeva il sesso più stimolante e imprevedibile. Come quando appariva un quadretto che mostrava tre persone in un amplesso di gruppo e contemporaneamente dalla porta faceva la sua comparsa un terzo partecipante ai giochi erotici.

Naturalmente si tratta solo di un'ipotesi, ma è molto convincente. In effetti, c'è un affresco in un lupanare che sembrerebbe confermare questa spiegazione: si vedono un uomo nudo su un letto e una donna vestita; chiaramente, siamo ancora ai preliminari dell'incontro amoroso. Sulla parete davanti a loro c'è un quadretto erotico, e l'uomo lo sta indicando con il braccio teso, mostrando alla donna quale sarà la posizione sessuale con la quale cominceranno a fare l'amore…

I sogni erotici e la loro interpretazione

I medici, dopo un'iniziale indifferenza, con il passare delle generazioni cominciarono a non vedere di buon occhio le immagini erotiche a causa del timore che provocassero delle "deviazioni" alla morale romana, dal momento che la passione erotica può diventare incontrollabile. Ma come considerare i sogni erotici? In pratica dei "quadretti erotici" che la mente dipinge durante la notte? Come fa notare la professoressa Antonietta Dosi, i medici romani ritengono che siano degli "sfoghi" della mente causati dalla morale che soffoca desideri sessuali che l'uomo deve soddisfare, altrimenti c'è il pericolo che si generino comportamenti sessuali "mostruosi", come il desiderio di fare sesso con animali (zoofilia), cadaveri (necrofilia) o statue (agalmatofilia). Il rimedio, secondo Galeno, è per l'uomo di liberare lo sperma accumulato. Sicuramente, la pratica dell'orgasmo indotto dal medico a una donna che non ha rapporti sessuali da tempo (come trattato in precedenza) ricade anch'essa in questi casi.

Ma nell'antichità l'interpretazione dei sogni era una pratica molto diffusa e importante. Soprattutto nei santuari, dove si radunavano, un po' come oggi a Lourdes, malati o persone affette da menomazioni. Passavano la notte a dormire nei cortili interni e il giorno dopo raccontavano il sogno che avevano fatto a un sacerdote, il quale dava loro l'interpretazione divina in chiave "medica", che corrispondeva a una prescrizione: in altre parole, il sogno suggeriva un comportamento da seguire, come se questa fosse la terapia giusta per guarire o lenire il dolore. I sogni erano fondamentali anche per i viaggi; si cercavano segni premonitori buoni o cattivi, per esempio, per capire se salire su una nave e attraversare il Mediterraneo oppure no. E lo stesso accadeva per qualunque altra attività. E con i sogni erotici, cosa bisognava fare?

Artemidoro di Daldi, studioso ed esperto di astrologia, vissuto all'incirca nell'epoca che stiamo esplorando, scrisse proprio un "libro dei sogni", intitolato Onirocritica, con le varie interpretazioni. Suddivide i sogni in tre categorie: conformi alla natura, alla morale e alla legge, contro la natura, e contro la legge. Si scopre così che tutti i rapporti sessuali "normali" con moglie, concubine e schiave e partner legittimi hanno un'interpretazione positiva e appartengono al primo gruppo.

Sognare prostitute, secondo Artemidoro, è di buon augurio. Ma sognare di avere un rapporto con una prostituta in un bordello non lo è affatto: preannuncia una perdita economica… Ancora peggio è sognare un lupanare: è davvero un pessimo auspicio, portatore di disgrazie, come sognare un cimitero.

Sognare rapporti omosessuali in generale è un buon segno, ma solo se si ha un ruolo attivo. Per esempio, è ben augurale avere un rapporto con uno schiavo, solo però se lo si "possiede"; nel caso contrario è un segno nefasto. C'è però un'eccezione: se si è posseduti da un uomo ricco e maturo, questo è visto come un ottimo auspicio (il contrario se a possedervi è un ragazzo povero). Un rapporto omosessuale tra donne è visto comunque male ed è di pessimo auspicio, come i rapporti con animali e, curiosamente, qualsiasi genere di rapporto orale. In una società così libera dal punto di vista sessuale i sogni erotici dovevano essere ricorrenti, e influenzavano i comportamenti del giorno dopo. Non bisogna scordare, infatti, che i romani erano molto superstiziosi.

Anticoncezionali romani

Con la grande libertà sessuale che avevano i romani e una popolazione con un'età media assai più giovane della nostra, era inevitabile che le gravidanze fossero molto comuni. Ma come evitare quelle indesiderate, per esempio nel caso di adulteri o di rapporti con prostitute?

È stata avanzata l'ipotesi che siano stati proprio i romani a inventare il preservativo. La tesi deriverebbe da una versione della leggenda di Minosse e Pasifae. Avrebbero utilizzato le vesciche delle capre. Ma, come sottolinea la studiosa Reay Tannatali, che ha citato questo riferimento, anche se è possibile che i romani li usassero davvero, non si capisce perché poi non si senta più parlare di preservativi fino al XVI secolo, data in cui la loro presenza comincia a essere attestata (probabilmente in risposta alla sifilide riportata dai primi viaggi nelle Americhe).

Insomma, non abbiamo né notizie né dati che confermino che i romani usassero i preservativi. Ma se lo facevano non doveva essere una pratica molto diffusa, perché nessun autore ne fa riferimento. Neppure lo stesso Ovidio. Né esiste un termine per definirli, o un affresco o un disegno che li rappresenti…

In realtà, i romani non avevano necessità del preservativo perché andava contro la loro mentalità maschilista e, soprattutto, contro la virilità dell'uomo romano, compresa la forza vitale dello sperma. L'uomo non si preoccupava affatto delle conseguenze del rapporto sessuale, che erano a carico unicamente della donna. Quindi anche un sistema come il coitus interruptus, per esempio, non rientrava nel modo di fare l'amore del maschio romano. Un altro metodo "efficace" per evitare gravidanze, il rapporto anale, usato soprattutto dalle etere greche, come si vede dai dipinti presenti su molti vasi, non conobbe fortuna nell'antica Roma. Questa, come abbiamo visto, era una pratica usata dal maschio romano più con altri uomini che con le donne… Semplicemente, per la mentalità romana era la donna che doveva preoccuparsi di non rimanere incinta. Ma come?

È proprio in questo senso che i romani avevano sviluppato tecniche e prodotti anticoncezionali. La lista è davvero sorprendente e non manca, ai nostri occhi, di aspetti umoristici.

In primo luogo, si consigliavano lavande vaginali dopo il rapporto (ecco perché nei lupanari esisteva sempre un luogo dove le prostitute si lavavano al termine di ogni amplesso: al di là della pulizia in vista del prossimo cliente, c'era anche la necessità di non rimanere incinte).

Sappiamo che si suggeriva alla donna, qualche ora prima del rapporto, di spalmare sui genitali, e internamente, delle sostanze che avrebbero creato un ambiente sfavorevole allo sperma, come olio di oliva rancido, miele, resina di cedro, olio di mirto, cerussa (un prodotto pericoloso in quanto contenente piombo, anzi carbonato basico di piombo, per l'esattezza), galbano mescolato a vino ecc.

Alcune di queste sostanze, anche se i romani non lo sapevano, avevano proprietà spermicide. Come l'olio estratto da bacche di ginepro, suggerito dal medico Dioscoride, vissuto nel I secolo d.C. Esami di laboratorio hanno evidenziato che possiede effettivamente capacità spermicide. I medici di epoca romana, come Sorano di Efeso, suggerivano anche l'uso di particolari "supposte" da inserire nella vagina nei giorni precedenti il rapporto sessuale. Ne consiglia una: "con due parti di buccia di melograno, una noce di galla, macinate e confezionate a forma di piccole ghiande".

Il professor John M. Riddle della North Carolina State University, uno dei maggiori esperti nel campo delle erbe medicinali utilizzate come abortivi in età antica e medievale, ha realizzato uno studio basato sui risultati ottenuti da diversi laboratori sulle sostanze indicate nelle ricette e i loro effetti su animali da laboratorio come topi e scimmie. I dati raccolti hanno evidenziato un calo della capacità fecondativa del 70 per cento, per poi tornare normale quattro giorni dopo la somministrazione di questo anticoncezionale romano.

E forse è proprio quello che faceva la bella fanciulla citata nel graffito del lupanare di Pompei da un cliente poco soddisfatto. Ne abbiamo parlato nel capitolo dedicato all'esibizionismo dei romani. Quell'uomo ha scritto: "Qui ho appena fottuto una formosa fanciulla lodata da molti, ma dentro era fangosa".

Questo graffito, solitamente interpretato come la "prova" della scarsa igiene delle prostitute, in realtà con ogni probabilità ci rivela una pratica anticoncezionale, peraltro del tutto logica in un lupanare. Sappiamo che fin dai tempi degli egizi, nei papiri, vengono citati metodi anticoncezionali. Ma un conto è un papiro o un testo medico dell'antichità, un altro è un riscontro nella vita di tutti i giorni, una "prova" diretta. Quel graffito di Pompei potrebbe essere la più antica testimonianza "diretta" dell'uso di un anticoncezionale da parte di una donna.

Continuiamo con la lista di metodi anticoncezionali. Come vedrete, sono sempre a carico della donna, e mai dell'uomo. Sorano di Efeso, che aveva studiato ad Alessandria d'Egitto prima di esercitare la sua professione medica a Roma, raccomandava l'uso di pessari, cioè i "diaframmi dell'antichità". Erano dei tamponi di lana da inserire internamente prima del rapporto e impregnati di quelle sostanze che abbiamo elencato poco fa, oppure di sostanze gommose (per frenare lo sperma) o, ancora, sostanze astringenti per provocare delle contrazioni in modo da far aderire le pareti interne al tampone e bloccare così il passaggio, impedendo allo sperma di raggiungere l'utero. Sappiamo anche dell'uso di tamponi vaginali imbevuti di aceto o di succo di limone, in modo da neutralizzare "chimicamente" lo sperma. E questo ci prova la conoscenza e la coltivazione di limoni già in età romana, ben prima dell'espansione degli arabi nel Mediterraneo, ai quali viene attribuita la diffusione di questo agrume.

Tra le tecniche anticoncezionali, alcune erano davvero curiose. Sempre Sorano consiglia alla donna, nel momento in cui l'uomo eiacula, di trattenere il respiro, di ritirarsi un po' con il corpo in modo che il seme non giunga all'utero e vi penetri; in seguito, di alzarsi immediatamente per "sedersi" con le gambe aperte e provocare degli starnuti. Infine, bisognava ricorrere a delle lavande vaginali.

L'idea che gli starnuti fossero un buon metodo anticoncezionale era diffusa a tal punto che, come sottolinea la Tannahill, Dioscoride, vissuto all'epoca della distruzione di Pompei, suggeriva alle donne di inserire del pepe nel collo dell'utero dopo un rapporto sessuale. La strategia era semplice: se lo starnuto aiuta a eliminare il liquido seminale, perché non metterlo direttamente là dove è più cruciale che avvengano le contrazioni? Si trattava ovviamente di sistemi empirici, la cui efficacia era quasi nulla. Ben più semplice e astuto (anche se non sicuro) era un altro sistema che sempre Sorano consigliava. E cioè di fare l'amore solo nei cinque giorni dopo la fine delle mestruazioni, in quei giorni in cui una donna, in teoria (ma solo in teoria), ha meno probabilità di concepire. Questa tecnica, chiamata in tempi moderni anche "roulette vaticana", era certamente più efficace delle altre, ma si sposava male con le occasioni di una notte di sesso, che capitavano invece senza tenere conto del calendario…

Plinio il Vecchio andava alla fonte del problema: impedire che una donna rimanesse incinta scoraggiando gli amplessi. I suoi metodi erano molto convincenti ma agghiaccianti; "Escrementi di topo applicati sotto forma di linimento", oppure bere escrementi di piccione o di lumaca mescolati a vino e olio, o ancora mettere sotto al letto i testicoli e il sangue di un gallo… Anche strofinare i fianchi della donna con del sangue di toro nero selvaggio sarebbe stato efficace per impedire una notte d'amore, secondo Plinio.

Per finire, ecco il sistema anticoncezionale più curioso. Lucrezio consigliava a una donna di far ondeggiare i fianchi durante il rapporto. Oltre a dare più piacere all'amante, dirottava lo sperma verso un'area meno propizia al concepimento…

La pillola dei romani

Dopo questa carrellata di metodi, tecniche e prodotti sorprendenti, si potrebbe giungere alla conclusione che, viste le scarse conoscenze in materia, non esistessero anticoncezionali efficaci. Ma non è così: i romani avevano in realtà messo a punto un anticoncezionale molto efficace (per l'epoca). Era un composto preparato amalgamando vari ingredienti fino a ottenere una pasticca, una vera e propria "pillola", diremmo oggi. Sorano di Efeso ci fornisce due ricette, che vanno prese quotidianamente per alcuni giorni prima del rapporto.

RICETTA N. 1: "Dalla fine delle mestruazioni, bere ogni giorno due bicchieri d'acqua nei quali è stata prima sciolta una dose di estratto (o succo) di silphium pari alla grandezza di un cece".

RICETTA N. 2: è una vera e propria pillola da inghiottire: "Mescolare insieme: della mirra dolce (opopanax), estratto (o succo) di silphium, semi di ruta per due oboli e cera. Ingerire insieme a un bicchiere di vino vecchio o sciogliere il tutto in un bicchiere di vino vecchio".

Alcuni ricercatori, come il già citato professor Riddle, hanno provato a riprodurre il composto e a usarlo in esperimenti su topi di laboratorio, con risultati che hanno lasciato sbigottiti per l'efficacia. Questa pillola aveva come ingrediente principale il silfio (silphium), una pianta oggi scomparsa che gli antichi hanno sempre considerato una vera panacea per tantissimi mali: il succo della sua radice, chiamato laserpicium o lacrima Cyrenaica, curava dai mal di testa ai morsi di serpente… Cresceva unicamente in una zona del Nordafrica come la Cirenaica, e la sua raccolta eccessiva ne provocò la totale estinzione già in epoca romana. Di conseguenza, i ricercatori hanno dovuto utilizzare una pianta affine. Il silfio, infatti, apparteneva quasi certamente al genere Ferula communis (chiamata in Italia anche "finocchiaccio" o "feria"), di cui esistono ancora parecchie specie nel Mediterraneo. E dal momento che in botanica specie affini hanno di norma un'analoga composizione chimica, si è scoperto come una sostanza, il ferujol, presente nella resina della pianta Ferula assa-foetida, sia con ogni probabilità il principio attivo della pillola dei romani: il cento per cento delle cavie trattate con il ferujol ha mostrato incapacità riproduttiva fino a tre giorni dopo il coito. E questo lascia pensare che la resina del silfio fosse il vero segreto della pillola anticoncezionale di allora.

Il preparato funzionava sia da pillola anticoncezionale sia da "pillola del giorno dopo". In effetti, studiando anche altre due ricette di Sorano, si è scoperto che delle dieci piante citate dal medico, otto hanno realmente effetti contraccettivi e abortivi.

L'unico problema per questa pillola erano i costi. Essendo il silfio raro, e quindi costoso, solo le donne di famiglie ricche e nobili potevano permettersela, ma non le donne del popolino o le prostitute, per le quali valevano solo gli altri sistemi tradizionali, assai meno efficaci. Di conseguenza, più che agli anticoncezionali, si ricorreva soprattutto ai metodi abortivi. Con tutti i rischi che ciò comportava.

L'aborto

L'aborto era già praticato in epoca romana, soprattutto nel caso di gravidanze frutto di relazioni adulterine. Naturalmente anche i romani si chiedevano se l'aborto fosse da considerarsi un omicidio. La legge in questo senso era chiara: diceva che l'aborto, in sé, non era un reato, perché la legislazione romana non considerava il feto un essere animato. Il problema, semmai, era nelle mani dei medici (quasi sempre greci).

Innanzitutto perché il giuramento di Ippocrate diceva esplicitamente che non dovevano praticare aborti: "… Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali né commetterò mai cose di questo genere. Per lo stesso motivo mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire, ma serberò casta e pura da ogni delitto sia la vita sia la mia arte".

… E questo divideva i medici di allora in due gruppi: gli antiabortisti integralisti, che erano assolutamente contrari, e i sostenitori dell'aborto terapeutico, che lo ammettevano, ma solo in determinate situazioni, come nel caso di pericolo di vita della madre. A differenza di oggi, insomma, non c'erano motivi religiosi, ma solo di etica professionale.

Il secondo motivo che metteva in difficoltà i medici era la legge romana: se nel praticare un aborto avessero accidentalmente provocato anche la morte della donna, avrebbero potuto essere accusati di omicidio. O trascinati in tribunale dal padre, per avergli negato la possibile discendenza.

In effetti, sotto Traiano, un medico che somministrava farmaci abortivi affrontava un bel rischio. Se la donna moriva per averli ingeriti, il medico poteva essere accusato di avvelenamento e processato secondo la Lex Cornelia de sicariis et veneficis, una legge che si occupava di disciplinare il reato di omicidio, tra cui i casi di omicidio per avvelenamento. Tra le cause di avvelenamento previste dalla legge rientravano sia le sostanze abortive sia le pozioni magiche. Se invece avesse provocato l'aborto chirurgicamente, ma con esiti fatali per la donna, l'imputazione diventava ancora più grave: omicidio, esattamente come se l'avesse accoltellata a morte. La morte del feto, lo ripetiamo, non interessava alla legge. Quello che diventava fondamentale era la tutela giuridica della madre.

Per tutti questi motivi, i medici preferivano evitare di praticare aborti, e così la donna doveva fare da sé, rivolgendosi alle nutrici, ai parenti, alle amiche, che spesso le portavano dalle "mammane" di allora. Le tecniche per abortire erano diverse. Potevano essere chirurgiche, con l'introduzione di ferri e strumenti che provocavano spesso emorragie e infezioni. Oppure si ricorreva a erbe e preparati che venivano applicati direttamente dentro l'utero. O, ancora, a sostanze da ingerire o da spalmarsi addosso. Molti di questi rimedi e preparati, però, erano perlopiù frutto di credenze e superstizioni: quindi non solo non erano efficaci, ma se introdotti nell'utero potevano creare infezioni pericolosissime per la donna. Ecco alcuni di questi rimedi:

- vipera calpestata;

- le pelli e in generale le spoglie di serpenti (si credeva che la loro ingestione inducesse l'aborto);

- uova di corvo;

- unghia di asino bruciata;

- castoreo (è un liquido che veniva estratto dalle ghiandole del castoro europeo);

- radice di cavolo carbonizzata (o di mirto, o tamarisco): il carbone doveva poi essere spento nel sangue mestruale;

- colpire morbidamente l'addome della donna gravida con una radice di biancospino: il liquido che ne esce doveva poi essere spalmato sul ventre della donna.

A questa lista bisogna poi aggiungere il prezzemolo, la ruta, la Saponaria ojficinalis, il ciclamino ecc. Persino una particolare varietà di vino, ottenuto da una vite coltivata assieme all'elleboro e al cocomero selvatico, si pensava avesse effetti abortivi. Per non parlare della limonella (dittamo o frassinella): era creduta talmente abortiva da sconsigliare persino la sua presenza in una stanza dove c'era una donna incinta.

A questi rimedi "popolari" si aggiungevano terapie d'urto di tipo fisico, come quelle consigliate da Sorano di Efeso, ginecologo di età traianea i cui testi furono letti e seguiti per tutto il Medioevo. Tra i rimedi che consigliava c'erano esercizi fisici violenti, bagni, purghe, diuretici, massaggi, salassi, ma anche ovuli vaginali somministrati in progressione di intensità e in quantità crescenti, facendo però attenzione a non provocare scompensi nell'organismo della donna.