XVII
Ah, già, me n’ero dimenticata! A casa mia avevo dato il numero telefonico della locanda di Kasayamachi dicendo che era l’abitazione della mantenuta del padre di Mitsuko. «Perché non dici che è una succursale di Senba?» mi aveva consigliato Mitsuko, ma era strano che stessimo in un negozio; avevo quasi deciso di raccontare che era stata ricoverata in una clinica, tuttavia, prima o poi, avrei dovuto farla dimettere; inoltre, se mio marito, di ritorno dall’ufficio, fosse passato a prendermi, avrebbe immediatamente capito. Un giorno in cui mi stavo scervellando per trovare un intestatario plausibile, Ume ebbe un’idea. Naturalmente bisognava fingere che Mitsuko fosse ancora incinta, che il farmaco non fosse stato efficace, che il dottore non l’avesse voluta operare, che, infine, divenendo sempre più manifesta la grossezza del suo ventre, si fosse decisa a confessare tutto alla madre, e fosse stata affidata alla mantenuta del padre fino alla nascita del bambino. Bastava dire che la mantenuta abitava nella locanda Izutsu di Kasayamachi: così, se mio marito avesse controllato nell’elenco telefonico, avrebbe visto che il numero corrispondeva veramente a quel nome, e se fosse venuto a prendermi tutto sarebbe stato regolare.
«Allora quando ti farò visita dovrò imbottirmi di cotone per fingere d’avere il pancione, vero sorella maggiore?» commentò Mitsuko e ridemmo di gusto. Avevamo deciso così perché questo era il sistema più sicuro. «Ah sì? Mitsuko è incinta?» commentò mio marito convinto che fosse vero, con espressione di sincero rincrescimento. «Tu mi hai raccomandato di non aiutarla in quella cosa disdicevole, perciò, per quanto mi abbia supplicato, non le ho insegnato niente. Prima della nascita del bambino non potrà fare neanche un passo fuori di casa. Le hanno ingiunto di starsene ritirata, è quasi una reclusa e, siccome s’annoia a morte, m’invita ad andarla a trovare tutti i giorni. Che devo fare? Forse nutre rancore verso di me: se la trascurerò mi rimorderà la coscienza.» «Sì, è vero. Ma potrebbe crearti dei problemi e comprometterti.» «Già, già. Sono d’accordo, ma questa volta è davvero molto cambiata, forse perché ha tanto sofferto. Dice che ormai non le rimane altro che andare a stare con Watanuki; si è molto calmata, e anche i suoi, in fondo, sembrano propensi a permetterglielo. Ma adesso nessuno va a trovarla: ‘Sei il mio unico sostegno’ mi dice. Per quanto si meriti il castigo mi fa pena. Anche l’ultima volta mi ha ripetuto: ‘Ascoltami, sorella maggiore, quando avrò un bambino non sarai per caso coinvolta anche tu in spiacevoli equivoci? Ho intenzione di andare con Watanuki a porgere le mie scuse a tuo marito, perciò che ne diresti se d’ora in poi ci comportassimo come autentiche sorelle?’» Nonostante questi argomenti mio marito non sembrava del tutto persuaso. «È meglio che tu stia più attenta che puoi» mi raccomandò, ma poi si mostrò tollerante. Dopo di allora da Kasayamachi incominciarono a telefonarmi disinvoltamente a casa domandando «C’è la signora?» e anch’io potevo chiamare loro senza riguardi. A volte, quando rimanevo là a divertirmi fino all’ora di cena, mio marito mi telefonava: «Ti decidi a tornare?» Davvero Ume aveva escogitato un abile stratagemma.
Quanto a quel Watanuki, poiché c’eravamo scrutati con diffidenza, senza riuscire ad avere fiducia l’una nell’altro, nonostante gli sforzi di Mitsuko che aveva voluto farci incontrare, non ci vedemmo più, e nessuno dei due propose un nuovo incontro; persino Mitsuko pareva essersi rassegnata all’impossibilità di migliorare i nostri rapporti. A ogni modo, circa un mese dopo il giorno in cui ci recammo tutti e tre allo Shōchiku, una sera in cui ci eravamo divertite fino alle cinque e mezzo, Mitsuko mi disse: «Sorella maggiore, non te ne andresti prima di me? Ho ancora una faccenda da sistemare». Pareva quasi che volesse mandarmi via, ma mi ero ormai abituata e non mi arrabbiai. «Allora vado» e uscii nel vicolo: qui mi sentii chiamare a bassa voce «Sorella maggiore»; mi volsi e vidi Watanuki. «Sorella maggiore, se ne sta andando?» «Sì. Si sbrighi che Mitsu la sta aspettando» gli dissi con un tono volutamente sarcastico e continuai a camminare fino a Sōuemon, con l’intenzione di prendere un taxi. «Un momento... un momento...» mi disse dopo avermi raggiunto «avrei alcune domande da rivolgerle. Se permette, potremmo passeggiare per un’ora da queste parti.» «Va bene, ascolterò ciò che ha da dirmi, ma sappia che la sta aspettando.» «Allora le telefono» disse; andammo al «Giardino dei Susini» e ordinammo una crema di fagioli; mentre mangiavo Watanuki andò a telefonare, poi c’incamminammo verso nord per il viale del ponte Tazaemon. «Le ho detto per telefono che forse tarderò un’ora a causa di un impegno urgente: le dispiace tenere segreto il nostro incontro? Se non me lo giura non potrò confidarmi con lei.» «Se mi si raccomanda di non parlare, qualsiasi cosa accada, non parlo. Ma a volte, mantenendo onestamente la promessa, finisco con l’assecondare i piani altrui: un’esperienza veramente stupida...» ribattei, ma lui: «Ah, sorella maggiore, pensa dunque che sia stato io a istigare Mitchan a comportarsi in quel modo, che io la manovri come una marionetta, vero? Ma certo, capisco che abbia motivi per supporlo» e chinò il capo sospirando. «È proprio di questo che desidero parlarle. Chi pensa che Mitsuko ami di più, lei o me? Lei, sorella maggiore, penserà d’essere presa in giro e usata da noi, ma anch’io ho la stessa impressione. Sono veramente geloso. Oh, certo, a sentire Mitsuko è meglio che lei, sorella maggiore, ci sia, perché ci servirebbe per ingannare i suoi familiari, e Mitsuko la starebbe usando come un oggetto: ma che bisogno c’è ormai di continuare a usarla? Non è invece un impiccio la sua presenza tra noi? Se Mitsuko mi amasse davvero non mi avrebbe forse già sposato dopo tutto questo tempo?» Lo ascoltavo con estrema attenzione: il suo atteggiamento era molto serio, e ciò che diceva per lo più ragionevole. «Ma forse Mitsuko non può sposarla perché la famiglia si oppone, non le pare? A me dice sempre che vorrebbe sposarsi presto.» «Lo vuole solo a parole. È senza dubbio vero che la sua famiglia non approva. Ma non è che non ci sia il sistema di persuadere i suoi genitori, se solamente lei fosse seriamente decisa a sposarmi. Soprattutto adesso, nelle sue condizioni fisiche, chi altri potrebbe sposare?» «Ah, ma allora Mitsuko è davvero incinta! Che strano» pensai, e continuai ad ascoltare. «Secondo Mitsuko i suoi genitori dicono: ‘Possiamo concedere nostra figlia solo a chi possieda un patrimonio di più di un milione di yen, è impensabile darla a uno straccione senza un soldo. Quando nascerà il bambino lo affideremo a qualcuno’. Suo padre sarebbe furioso. Non le sembra assurdo? Anzitutto mi fa pena il bambino! È questione d’umanità, non le pare? Che ne pensa, sorella maggiore?» «Più che altro sono meravigliata per la notizia della gravidanza di Mitsuko. Come ve ne siete accorti?» «Come? Non lo sapeva?» e il suo sguardo profondamente dubbioso scrutò il mio volto, quasi lo volesse attraversare. «Sì, non lo sapevo, Mitchan non me l’ha mai confessato.» «Davvero? Ma non è andata da lei a chiederle come abortire?» «Già, ma non è stato un semplice pretesto per avvicinarmi di nuovo? Credevo che la storia della gravidanza fosse inventata di sana pianta. È vero però che a casa mia ho detto che Mitsuko è incinta e che perciò devo andare spesso a trovarla.» Watanuki si limitò a commentare: «Ah sì?» ma aveva gli occhi iniettati di sangue e anche le labbra avevano mutato colore.
XVIII
«Ma perché Mitsuko si ostina a nascondere la gravidanza? Soprattutto con lei, non potrebbe non mentire? Davvero non lo sapeva, sorella maggiore?» Pareva ancora dubbioso e continuava a pormi la stessa domanda, ma io ero davvero all’oscuro di tutto. Affermò che Mitsuko era inequivocabilmente al terzo mese, e che era anche andata dal medico. Allora quando aveva inscenato quell’emorragia era già incinta! A ogni modo una persona inesperta non può accorgersi di una gravidanza di soli tre mesi. E poi Mitsuko mi aveva, senza possibilità di dubbio, confidato: «Non è possibile che io rimanga incinta». Credevo che quanto era accaduto quel giorno fosse solo una commedia, ma, se Watanuki diceva la verità, Mitsuko aveva finito con il mentire per riguardo verso di me. «Perché ha detto che per lei non era possibile concepire? Mette in pratica i metodi di quel libro? Oppure la colpa è della sua costituzione fisica?» mi chiedeva insistentemente Watanuki. Ma io di fronte a Mitsuko avevo sempre cercato in tutti i modi di non parlare di lui, non le avevo mai domandato nulla di particolare... e poi lei aveva persino riso dicendo: «Allora quando ti farò visita a casa tua dovrò imbottirmi di cotone per fingere d’avere il pancione, vero sorella maggiore?» Non potevo immaginare che fosse davvero incinta e glielo dissi; lui mi rispose che Mitsuko non pensava seriamente al matrimonio, e che, siccome la scoperta della sua gravidanza l’avrebbe costretta a sposarsi, cercava di tenerla nascosta il più a lungo possibile. «Ecco quel che ne penso io» concluse.
Secondo Watanuki Mitsuko preferiva all’amore di un uomo un rapporto sentimentale con una persona del suo sesso, amava me più di lui e perciò non desiderava sposarsi. Pensava che, sposandosi e avendo dei figli, forse mi avrebbe persa e rimandava quindi di giorno in giorno la decisione, chiedendosi se le convenisse sbarazzarsi del bambino o portare l’uomo all’esasperazione. Forse a causa dei miei complessi, non riuscivo a immaginare di poter essere tanto amata, ma lui insisteva: «No, è così. È senza dubbio così. Lei è fortunata, sorella maggiore. Ahimè, con che infelice destino, invece, sono nato io!» diceva modulando la sua voce come se recitasse, con l’espressione di chi sta per piangere. Fin dal primo incontro m’era sembrato un uomo effeminato; mentre parlavamo, poi, aveva un’espressione e un modo di parlare lezioso, torbidamente femminile, era fastidiosamente insistente e aveva l’abitudine di scrutare le persone con sguardi obliqui, carichi di diffidenza. Mi pareva naturale che a Mitsuko non potesse piacere eccessivamente. Secondo Watanuki, quando a Kasayamachi essi erano stati derubati delle loro vesti, lui non avrebbe voluto che io fossi chiamata. Le aveva spiegato che ormai non le restava che farsi coraggio e tornare a casa con indosso un kimono preso in prestito dalla cameriera della locanda, che se avesse confessato ai suoi: «Per questo e questo motivo mi sono solennemente promessa a un uomo» essi si sarebbero rassegnati al fatto compiuto e loro due avrebbero potuto in breve tempo sposarsi. Oppure sarebbe bastato che si fossero decisi a fuggire insieme, che tanto non c’era nulla da temere. Chiamare la sorella maggiore, ignara di tutto, in un momento simile... Come poteva Mitsuko essere così impertinente? E poi era naturale che, anche se chiamata, non avrebbe voluto venire. Ma Mitsuko ripeteva: «Se non ho il kimono stanotte non posso tornare a casa» e non ascoltava ragione. «Allora perché non fuggiamo insieme?» le aveva domandato lui, ma Mitsuko: «Se facessimo una cosa simile, la situazione peggiorerebbe. Troverò un’abile scusa e ti mostrerò che sono capace di fare arrivare la sorella maggiore. Se glielo chiedo io non dirà di no. Anche se si arrabbierà un po’, riuscirò comunque a ingannarla» ed era andata a telefonare. «Ma c’era qualcuno vicino all’apparecchio che le suggeriva sottovoce» gli dissi. «Ma certo, le stavo vicino perché ero preoccupato.»
Mentre discorrevamo, senza neppure accorgercene, avevamo attraversato il ponte di Sankyū ed eravamo arrivati fino a Honmachi. Insieme oltrepassammo la strada ferrata diretti verso Kitahama. Fino ad allora mi ero limitata a immaginare la situazione dal punto di vista di Mitsuko, e qualsiasi cosa accadesse pensavo fosse esclusivamente colpa dell’uomo, ma, a giudicare da quanto avevo sentito e visto in quell’occasione, non era bugiardo come pensavo, e forse anche la sua effeminatezza e la tendenza al sospetto non dipendevano solo dalla sua natura, potevano anche essere state causate dall’atteggiamento di Mitsuko... Io stessa, d’altronde, soffrivo di complessi proprio per essere stata troppo ingannata da lei... Più meditavo e più Watanuki mi sembrava ragionevole, mi pareva che cercasse sinceramente, anche se con un po’ di diffidenza, la mia comprensione. Ma naturalmente non potevo assolutamente credere che Mitsuko mi amasse più di lui: «Si sbaglia, Watanuki, lei è troppo geloso» gli dissi per consolarlo, ma lui: «Oh, no! Mi piacerebbe pensarlo ma non è affatto così. Lei, sorella maggiore, non conosce ancora il vero carattere di Mitchan». Mi spiegò che Mitsuko si divertiva a lasciar credere a me che amava Watanuki e a Watanuki che amava me. Ma che, in fondo, amava più me di lui, perché, se così non fosse stato, non avrebbe fatto il nome della clinica per potermi incontrare di nuovo, quando già c’eravamo lasciate. «Che cosa le ha detto quella volta Mitchan? Come ha fatto a rinsaldare la vostra amicizia? Me ne ha parlato in seguito, ma non so niente di preciso» mi disse e io gli raccontai tutto dell’incidente dell’emorragia. «Cosa, cosa?» commentava meravigliato a ogni parola. «Neppure in sogno avrei immaginato che avrebbe creato tutto quel subbuglio. Era vero che aspettava un bambino. Ma io ero del parere che fosse meglio tenerlo, le avevo consigliato di non bere farmaci e di non usare metodi contro natura, e mi ero persino arrabbiato sapendo che era andata da lei a chiedere consiglio. Può darsi che abbia preso di nascosto un farmaco, ma quei dolori e l’emorragia sono senz’altro una finzione. Chissà che cos’era quel sangue.» Sosteneva che Mitsuko non avrebbe potuto agire in quel modo e osare tanto per poter tornare in buoni rapporti con me se non mi avesse amata. Sì, poteva essere vero, ma perché allora continuava a vedere lui? Se davvero mi avesse voluto bene, non sarebbe stato naturale per lei abbandonare Watanuki? Gli esposi questi dubbi ed egli mi spiegò che Mitsuko, per quanto pensasse «Ah, come mi piace!» di qualcuno, non avrebbe mai mostrato la sua debolezza, ma solo escogitato il modo per fare innamorare di sé quella persona. Lei si credeva la donna più bella del mondo, era superba e si sentiva triste se non c’era qualcuno a adorarla. Pensava di svilirsi abbassandosi a iniziare lei il corteggiamento. Perciò, per farmi ingelosire e per mantenere la sua posizione privilegiata e la sua supremazia, si era servita di Watanuki. «Un altro motivo è il suo terrore che io faccia qualcosa d’irreparabile se mi lascerà. Ormai il nostro rapporto è tale che non oserà più provarci, ma se tentasse mi vendicherei a costo di sacrificare onore e vita» e così dicendo mi fissò con intensità, con uno sguardo da serpente.
XIX
«Possiamo continuare ancora un poco, sorella maggiore?» «Sì, sì, per me va bene.» «Che ne direbbe se tornassimo indietro?» e da Kitahama ripercorremmo in senso inverso la medesima strada. «In ultima analisi ci sta aizzando l’uno contro l’altra come rivali, e io sono destinato a perdere» disse, al che io replicai: «Non mi sembra. Per quanto ci amiamo appassionatamente, Mitchan e io tradiamo la natura; se qualcuno sarà abbandonato, quello sarò proprio io. Persino i familiari di Mitchan finiranno con il capirla, Watanuki, ma non c’è nessuno che sia disposto a comprendere me». «Io invece penso che il vostro rapporto abbia un gusto tanto piccante proprio perché è innaturale. Infatti di partner di sesso diverso dal suo ne può trovare quanti ne vuole oltre a me, ma credo che non ci sia nessuna con cui possa sostituire lei, sorella maggiore. Perciò io posso essere abbandonato da un giorno all’altro, mentre lei no.» Non solo, aggiunse anche che, qualsiasi uomo lei avesse sposato, avrebbe potuto continuare la sua relazione omosessuale. Le sarebbe stato possibile cambiare tutti i mariti che avesse voluto senza che ciò influenzasse, neppur minimamente, il nostro rapporto: l’amore che univa Mitchan e me era eterno, più ancora di un legame coniugale. «Ah, come sono infelice!» gemette e recitò di nuovo quella scena. Quindi, dopo aver meditato: «Senta, sorella maggiore, desidero che mi dica la verità, chi preferirebbe come marito di Mitsuko, me o un altro?» Era naturale che, se proprio doveva sposarsi, il marito più adatto sarebbe stato Watanuki, già al corrente della situazione. Glielo dissi. «Allora non v’è motivo di considerarci nemici, non le pare?» Mi disse anche che da allora in poi avremmo dovuto allearci, smettere d’essere gelosi, e aiutarci vicendevolmente per evitare stupide e spiacevoli esperienze. Infatti Mitsuko ci aveva manovrato a suo piacimento proprio perché eravamo divisi. Non pensavo, dunque, che fosse opportuno trovare il modo di incontrarci più spesso? Naturalmente per far ciò avremmo dovuto essere completamente d’accordo e riconoscere le nostre rispettive posizioni. Senza voler imitare una frase di Mitsuko, non c’era alcuna ragione di essere gelosi, essendo la natura dell’amore omosessuale assolutamente diversa da quella dell’amore eterosessuale. Era un errore pensare di amare da soli una creatura così bella. Sarebbe stato naturale che si fosse in cinque o anche in dieci a adorarla: possederla in due era una fortuna immeritata. Lui come unico uomo e io come unica donna: chi a questo mondo era più beato di noi? E proprio perché ne eravamo convinti, avremmo dovuto cercare di tenerla in pugno e di non lasciarcela rubare da estranei. «Che ne dice, sorella maggiore? Basta che lei sia d’accordo e io manterrò la promessa» e aggiunse: «Se non avesse accondisceso a diventare mia alleata avrei subito resa pubblica la nostra storia, così mi sarei rovinato, ma avrei rovinato anche lei, sorella maggiore. È un vero sollievo sentire che è d’accordo. Lei per Mitsuko è come una sorella maggiore, e di conseguenza lo è anche per me. Non avendo io sorelle avrò cura di lei come se fosse della mia famiglia. La prego di considerarmi suo fratello minore e, se qualche pensiero l’opprimesse, non esiti a confidarmelo. Io so essere un avversario terribile, capace di tutto, ma come alleato mi prodigherò per lei, sorella maggiore, pronto a sacrificarle anche la vita. Se, grazie a lei, potrò sposare Mitchan, servirò i suoi interessi anche a costo di rimandare i piaceri coniugali». «Davvero, davvero lo farebbe?» «Immancabilmente. Io sono un uomo. Le sarò riconoscente per tutta la vita.» Avevamo finito con il tornare davanti al «Giardino dei Susini». Ci lasciammo dopo esserci stretti con vigore la mano, e aver promesso che, quando ne avessimo avuto bisogno, ci saremmo sempre dati appuntamento al «Giardino dei Susini».
Al ritorno, mentre camminavo per la strada, mi sentivo il cuore in tumulto per la gioia. «Dunque Mitsuko mi amava così tanto! Mi amava più di Watanuki! Ah, e se fosse stato un sogno?» Fino al giorno precedente avevo avuto la convinzione che quei due mi usassero come un oggetto, ma ora la situazione era diversa e mi sentivo completamente disorientata. Meditando a lungo su ciò che mi aveva raccontato Watanuki, mi accorsi che non c’era davvero altra ragione per creare tutto quel subbuglio all’infuori del suo amore per me, perché diversamente, avendo lei già una persona che le voleva bene, non ci sarebbe stato motivo al suo desiderio d’incontrarmi. A poco a poco tornai indietro nel tempo, al principio della nostra relazione. Quando si erano diffuse quelle noiose voci sulla vera modella della Kannon, Mitsuko probabilmente aveva notato il mio atteggiamento e, quando c’incrociavamo per strada, aveva pensato: «Dev’essere infatuata di me» e aveva atteso l’occasione propizia per conquistarmi. A pensarci bene, fui io a rivolgerle la parola la prima volta, ma lei, di solito indifferente, mi aveva guardato con un sorriso radioso e io, conquistata, avevo finito con il parlarle; anche quando la contemplai nuda fui io a chiederle di mostrarsi così, ma era stata lei a propormelo e a incitarmi: per quanto adorassi Mitsuko, non riuscivo a capire come avessi potuto giungere a un simile rapporto. Certamente ero insoddisfatta di mio marito, i pettegolezzi che circolavano nella scuola avevano agito in senso opposto a quello voluto, e lei, avendo intuito in me una possibilità di conquista, aveva influenzato la mia volontà senza che me ne rendessi conto. Forse la proposta di matrimonio di M. non era anch’essa che un pretesto. Avevo l’impressione che, pur attirandomi nella trappola da lei disposta, volesse sempre farmi apparire come l’adescatrice. Certo, non era possibile fidarsi completamente di Watanuki: non era stato forse lui a dirigere Mitsuko la notte in cui erano stati rubati i kimono? E quella telefonata dalla clinica S. K., quella voce d’uomo a chi altri apparteneva se non a Watanuki, l’unico a cui avrebbe potuto chiedere una cosa simile? A esaminare la vicenda con un certo distacco trovavo dei particolari che non mi convincevano: anzitutto, perché mi aveva nascosto di aspettare un bambino? Comportarsi così crudelmente dopo avermi tenuta tanto in ansia significava che in effetti non le importava niente di me. Può darsi che Watanuki mi avesse confidato quel segreto per raffreddare i miei rapporti con Mitsuko. O forse aveva intenzione di trasformarmi momentaneamente in alleata in modo che non l’ostacolassi e, una volta sposatosi, allontanarmi? Più meditavo e più i miei dubbi prendevano corpo. Trascorsi quattro o cinque giorni, lo trovai di nuovo ad aspettarmi nel vicolo. «Senta, un momento... desidererei parlarle, non verrebbe con me al ‘Giardino dei Susini’?» Lo seguii; salimmo al piano superiore dove, in una camera, mi disse: «Finora ci siamo scambiati una promessa verbale, ma così lei non ha un motivo sufficientemente valido per credere in me, e anch’io non sono del tutto tranquillo. Che ne direbbe di scambiarci un giuramento scritto per mettere a tacere i nostri dubbi? In verità ne avrei già pronto il testo» e mi mostrò una specie di documento in duplice copia. «... Ah, ecco, lo guardi, per favore, è questo.» (Nota dell’autore: sento la necessità di presentare il contenuto del giuramento scritto non solo per una esigenza di ordine narrativo, ma anche perché lascia trapelare chiaramente il carattere dell’uomo che l’ha redatto. Perciò mi sono assunto l’onere di pubblicarlo integralmente.)
ATTO DI GIURAMENTO
Kakiuchi Sonoko – Nata l’8 maggio del XXVII anno Meiji19 – Residente al X.X. di Kōroen, Nishinomiya, prefettura di Hyōgo – Coniugata con Kakiuchi Kōtarō, avvocato.
Watanuki Eijirō – Nato il 21 ottobre del XXIV anno di Meiji – Residente al X.X. V isolato di Awaji, quartiere di Higashi, Osaka – Secondogenito dell’impiegato Watanuki Chōsaburō.
I suddetti Kakiuchi Sonoko e Watanuki Eijirō, in considerazione degli intimi interessi che legano entrambi a Tokumitsu Mitsuko, da oggi, 18 luglio... anno Shōwa, giurano di instaurare un rapporto di fratellanza, non dissimile da quello imposto dalla consanguineità, alle seguenti condizioni:
I Kakiuchi Sonoko sarà considerata sorella maggiore e Watanuki Eijirō fratello minore in quanto, benché maggiore d’età, destinato a diventare il marito della sorella minore di Sonoko.
II La sorella maggiore confermerà la posizione di fidanzato di Tokumitsu Mitsuko acquisita dal fratello minore, il quale confermerà l’amore da sorelle esistente tra la sorella maggiore e Tokumitsu Mitsuko.
III La sorella maggiore e il fratello minore saranno costantemente alleati per difendersi acciocché l’amore di Tokumitsu Mitsuko non si trasferisca su una terza persona, la sorella maggiore collaborerà al fine di favorire un matrimonio ufficiale tra il fratello minore e Mitsuko, e il fratello minore, anche dopo il matrimonio, s’impegnerà a non opporsi in alcun modo alla già esistente relazione tra la sorella maggiore e Mitsuko.
IV Se uno dei due contraenti sarà abbandonato da Mitsuko anche l’altro ne condividerà la sorte, ossia, se il fratello minore sarà abbandonato la sorella maggiore romperà la sua relazione con Mitsuko, se la sorella maggiore sarà abbandonata il fratello minore romperà il fidanzamento con Mitsuko o, se sposato, si dividerà dalla consorte.
V Entrambi s’impegnano a non fuggire arbitrariamente con Mitsuko, senza il consenso reciproco, a non rendersi irreperibili e a non suicidarsi con lei.
VI Entrambi, consci che tale giuramento potrà provocare l’ostilità di Mitsuko, manterranno su di esso il più rigoroso silenzio, fino a che non si presenti la necessità di renderlo pubblico. Se uno dei contraenti desidererà mostrarlo a Mitsuko, o ad altra persona, dovrà preventivamente consultarsi con l’altra parte.
VII Qualora una delle parti contraenti violasse il giuramento sarà tenuta ad assoggettarsi a ogni genere di persecuzioni imposte dall’altra parte.
VIII Il presente giuramento rimarrà valido finché una delle parti non rinunci volontariamente alla sua relazione con Tokumitsu Mitsuko.
18 luglio... anno Shōwa
Sorella maggiore Kakiuchi Sonoko (sigillo)
Fratello minore Watanuki Eijirō (sigillo)
(Questo testo era scritto su due fogli di carta giapponese adattata alla riforma dell’ortografia, rilegati con strisce di carta attorcigliate, vergati con il pennello, con una grafia minuta ed estremamente accurata, una meticolosa disposizione di ideogrammi, di cui non un solo punto o tratto cancellato. Più di un quarto del foglio era stato lasciato in bianco: non aveva avuto quindi bisogno di scrivere così minutamente e senza dubbio il tracciare ideogrammi scrupolosamente minuti era una sua abitudine. La grafia, per un giovane moderno non uso al pennello, era tutt’altro che brutta, tuttavia mostrava una certa praticità volgare da commesso di negozio. Solo le loro firme in fondo al foglio erano state aggiunte con la penna stilografica al primo piano del «Giardino dei Susini», e la firma della signora Kakiuchi spiccava per la contrastante grossezza dei suoi ideogrammi. Ma il particolare più sinistro erano le macchie color marrone sotto le firme, come piccoli petali impressi sulla carta: due di esse trasparivano come gocce vicino al punto d’unione dei fogli, dove avrebbero dovuto imprimere i sigilli. Fu la vedova stessa a spiegare cosa fossero.)
«Che gliene pare, sorella maggiore? Queste condizioni basteranno? Se è d’accordo, le dispiace porre qui la sua firma e il suo sigillo? Se invece pensa che non siano sufficienti, la prego di farmelo sapere senza esitazioni» mi disse. Io allora gli risposi: «È tutto stabilito con esattezza, mi sembra soddisfacente, ma, se nascesse un bambino, sia lei che Mitchan non penserete solo alla famiglia? Vorrei che considerasse un po’ anche questa ipotesi». «Ma come può constatare dal terzo comma ‘il fratello minore, anche dopo il matrimonio, s’impegnerà a non opporsi in alcun modo alla già esistente relazione tra la sorella maggiore e Mitsuko’, lei non verrà assolutamente sacrificata agli interessi della famiglia. Se teme tanto la nascita di un bambino, aggiungerò a questo scritto ciò che mi suggerirà, perché possa essere soddisfatta. Che cosa devo scrivere?» «Pazienza per il bambino che Mitchan sta aspettando, tanto più che è indispensabile alla realizzazione del matrimonio, ma vorrei che da sposati non ne aveste più.» Meditò un po’, quindi dichiarò: «Va bene, faremo così. Come devo scrivere? Potrebbero presentarsi tutte queste eventualità» e mi enumerò diverse ipotesi a cui io non avevo neppure pensato. Guardai il rovescio dei fogli, l’aggiunta scritta a penna in quell’occasione. (Nota dell’autore: nell’ultima facciata del foglio su cui era scritto il giuramento, sotto l’intestazione «clausole aggiunte» apparivano le seguenti postille: «Il fratello minore, dopo il matrimonio con Tokumitsu Mitsuko, avrà costantemente cura di non causare gravidanze; qualora se ne presenti anche il minimo sintomo, si uniformerà alle istruzioni della sorella maggiore sulle misure da prendersi» e quindi, quasi fosse balenata una nuova idea, erano state stabilite altre due clausole: «Nel caso di una gravidanza iniziata prima del matrimonio, se, dopo il matrimonio stesso, sarà ancora possibile intervenire, si dovrà ricorrere a ogni mezzo atto a ottenere il suddetto scopo». «Se il fratello minore non potrà garantire di eseguire fedelmente con la collaborazione della moglie ciò che è prescritto nelle clausole aggiunte, non potrà sposare Mitsuko.» E anche lì si notavano macchie color marrone impresse qua e là.) Dopo aver aggiunto quelle frasi dichiarò: «Ora che abbiamo stabilito tutto ciò sono tranquillo. Rileggendolo mi sono accorto che è molto più vantaggioso per lei, sorella maggiore, che per me. Spero che abbia compreso la mia buona fede». E aggiunse: «Su, firmi». «Se vuole posso firmare, ma non ho con me il sigillo.»20 «Per firmare un giuramento di fratellanza il sigillo normale non serve. Mi dispiace ma dovrà sopportare un attimo di dolore» e con un sorriso leggermente beffardo tolse qualcosa dalla manica.
XX
«Per favore si scopra un attimo qui: sentirà male solo per un istante.» Mentre parlava mi afferrò saldamente la mano: pensavo che volesse trafiggermi un dito, invece mi sollevò la manica fino alla spalla e mi legò strettamente il braccio in alto e in basso con dei fazzoletti. «Ma non si potrebbe imprimere il sigillo senza ricorrere a questi mezzi?» domandai. «Non si tratta solo d’imprimere un marchio, dobbiamo scambiarci un giuramento di sangue» e si rimboccò anch’egli la manica; quindi, avvicinando il suo braccio al mio: «È pronta, sorella maggiore? Non deve gridare... Chiuda gli occhi e in un attimo sarà finito». Se mi fossi rifiutata chissà cosa mi sarebbe capitato, avrei voluto fuggire ma mi teneva stretta per il polso: vidi brillare qualcosa e mi sentii svenire. «Mentre tengo gli occhi chiusi non mi squarcerà la gola?» mi domandavo angosciata e mi pareva d’essere già morta. Cercai di rassegnarmi dicendomi: «Se deve uccidermi mi uccida pure» e sentii una cosa aguzza scivolarmi sopra il gomito, trasalii per lo spavento rischiando un colpo apoplettico. «Coraggio, coraggio» mi confortò, e tendendo verso di me il suo braccio disse: «Su, beva prima lei» e poi: «Imprima il suo marchio qui, qui e qui» e, afferratomi un dito, lo premette con forza sul foglio.
Ero profondamente spaventata da quell’uomo: riposi con cura il giuramento nel cassetto del canterano e lo chiusi a chiave; avevo intenzione di mantenere le promesse e cercavo di non lasciare trapelare nulla dal mio atteggiamento, benché mi dispiacesse per Mitsuko. Ma forse quando si nasconde qualcosa non si riesce a vincere completamente la paura e a impedirle di manifestarsi, perché il giorno seguente Mitsuko, fissandomi con meraviglia il viso mi domandò: «Con che cosa ti sei ferita, sorella maggiore?» «Ah, chissà come ho fatto. Forse ieri sera mi hanno punto troppe zanzare e mi sono grattata furiosamente.» «Che strano! Anche Eichan ne ha una uguale nello stesso posto.» «Ah, non si può proprio commettere un peccato senza essere scoperti» pensai e subito cambiai colore. «Sorella maggiore, non è che mi nascondi qualche cosa? Come hai fatto a procurartela, dimmi la verità.» E poi ancora: «È inutile che tu mantenga il segreto: hai scambiato di nascosto a me un giuramento con Eichan, vero?» Mitsuko era proprio abilissima nel cogliere immediatamente gli indizi sospetti, aveva indovinato e non potevo fingere di non sapere niente. Rimasi in silenzio con un volto cadaverico. «È proprio così, vero? Perché non me lo dici?» insisteva. A poco a poco venni a sapere che la sera precedente Watanuki era tornato a trovare Mitsuko, che lei aveva intravisto la ferita sul braccio e da allora aveva continuato a pensare che avesse un qualche significato. Mi disse che non era possibile che ci fossimo feriti per caso nello stesso punto. «Sorella maggiore, preferisci me o Eichan?» e poi: «Se me lo nascondi significa che c’è qualcosa che non devo sapere» e infine, come se ci fosse stato un rapporto ambiguo tra me e Watanuki, mi disse: «Se non parli non ti lascio andare». In quel momento Mitsuko aveva gli occhi colmi di lacrime, ma cercava di dominarsi e si limitava a fissarmi con risentimento. Era uno sguardo seducente, così indicibilmente ricco di fascino che se avesse continuato a guardarmi in quel modo e con voce suadente mi avesse detto: «Su, sorella maggiore» non avrei potuto oppormi al suo incanto. Ormai se n’era accorta, era certo che avrebbe fatto la solita scena, più avessi mantenuto il segreto e più avrebbe dubitato, ma non potevo confessarglielo prima di essermi consultata con Watanuki. «Ti prego, aspetta fino a domani» le dissi, ma lei replicò che non capiva perché non potessi dirle quel giorno stesso ciò che le avrei detto l’indomani, che se prima dovevo concertarmi con qualcuno preferiva non sapere niente, che se glielo avessi rivelato di nascosto avrebbe fatto in modo di non crearmi fastidi, e non voleva sentire ragioni. Allora le dissi: «Ma anche tu, Mitchan, mi stai nascondendo qualcosa». «E che ti nascondo? Domandami pure quello che vuoi, ti risponderò sinceramente.» «Davvero non mi nascondi niente?» «Davvero. Forse ho dimenticato di raccontarti qualche cosa, ma senza l’intenzione di nascondertelo.» «Non mi hai forse nascosto quali sono le tue reali condizioni fisiche?» «Di che parli sorella maggiore?» «Ricordi di quando sei stata male a casa mia? Aspettavi davvero un bambino?» «Ah, quella volta?» Come avevo immaginato era arrossita per l’imbarazzo. «È stata una messa in scena perché desideravo rivederti...» «Non ti sto chiedendo questo. Voglio sapere se eri incinta o no.» «Ebbene, non lo ero.» «E adesso lo sei?» «Naturalmente no. Perché tutti questi dubbi?» «Non saprei spiegartelo ma un motivo c’è.» «Ah, sorella maggiore» sospirò Mitsuko con un’espressione seria, come se dicesse: «Ho capito». «Sorella maggiore, è stato senza dubbio Eichan a dire che sono incinta, vero? Lui se ne vanta, ma in realtà è incapace di generare.» S’interruppe e strinse con forza i denti, mentre le lacrime le scendevano ormai sulle guance.
«Che dici, Mitchan?» le domandai meravigliata, non credendo alle mie orecchie. Mi confessò singhiozzando che fino ad allora non mi aveva mai nascosto nulla, tranne quello, che era un segreto su cui aveva promesso di mantenere il silenzio, che se si fosse risaputo sarebbe stata una vergogna anche per lei, e che le sarebbe dispiaciuto per Watanuki. Ma se quell’uomo, di nascosto, la calunniava di fronte alla sorella maggiore, non le faceva più pena: in fondo era colpa di lui se si era cacciata in quella situazione, la sua infelicità era tutta opera di quell’uomo. Dopo essere stata di nuovo colta da una crisi di pianto mi raccontò con abbondanza di particolari il suo primo incontro con Watanuki. Un’estate, due anni prima, mentre si trovava in vacanza nella sua villa di Hamadera, si erano incontrati e avevano incominciato a parlarsi; una sera egli l’aveva invitata a passeggiare e l’aveva condotta dietro a una barca da pesca sulla spiaggia. Finita l’estate, siccome abitavano a Osaka in case vicine, avevano continuato a darsi appuntamenti e a frequentarsi. Un giorno Mitsuko aveva saputo da una sua vecchia compagna di scuola una strana storia su Watanuki. L’amica li aveva veduti camminare insieme per le strade di Takarazuka e una sera, avendo per caso incontrato Mitsuko che passeggiava da sola sul giardino pensile del palazzo dell’Asahi, in cui si stava proiettando un film: «Mitsuko!» l’aveva chiamata e, battendole una mano sulla spalla: «T’ho vista passeggiare con Watanuki». Mitsuko le aveva domandato: «Conosci Watanuki?» «Non lo conosco di persona, ma so che suscita l’entusiasmo di tutte, dicono che sia una vera bellezza. Proprio l’ideale per passeggiare con una ragazza meravigliosa come te» le aveva risposto sorridendo maliziosamente. Mitsuko le aveva spiegato che non si trattava di una vera relazione, che avevano soltanto camminato insieme, e l’altra le aveva detto: «Non c’è bisogno che ti scusi. Nessuno potrebbe dubitare di lui. Conosci il suo soprannome?» «Non lo conosco» aveva risposto Mitsuko. L’amica allora l’aveva informata ridacchiando: «Stick-boy sicuro al cento per cento». Mitsuko non aveva assolutamente capito cosa intedesse dirle e aveva insistito finché l’altra le aveva raccontato che Watanuki era impotente, correva voce che fosse asessuato, e vi era chi poteva testimoniarlo.
XXI
In ogni caso era venuta a saperlo perché una conoscente della sua amica si era innamorata di Watanuki e, sembrandole di essere ricambiata, aveva pregato un intermediario di chiedere alla famiglia di lui il beneplacito al loro matrimonio, ma i genitori del ragazzo avevano risposto evasivamente, senza dire nulla di definitivo. L’intermediario aveva insistito, ricordando loro che gli interessati desideravano sinceramente il matrimonio e pregandoli di accordare il loro consenso. Allora avevano dichiarato che, per un particolare motivo, non avrebbero mai permesso al figlio di sposarsi. In seguito a laboriose investigazioni la ragazza aveva saputo che si era ammalato di orchite dopo aver avuto gli orecchioni da bambino. «Non so bene di che si tratti» mi disse Mitsuko, «ma un medico mi ha spiegato che una parotite epidemica può causare un’orchite. Forse non era che una scusa per nascondere le conseguenze di qualche brutta malattia, frutto di una vita dissipata. A ogni modo da allora quella ragazza l’ha odiato; a pensarci bene fa anche pena, ma potrebbe evitare di legarsi alle ragazze e di spedire loro lettere impudenti, invece non fa che adularle con frasi del tipo: ‘Tu saresti la moglie ideale’ e accompagnarle a passeggiare in luoghi bui. Adesso capisco che, data la sua condizione, queste erano le uniche soddisfazioni che potesse permettersi; insomma, giocava con le ragazze dopo aver indossato la maschera dell’amore sentimentale. Watanuki in quei momenti era solito dire: ‘Per me è un peccato avere relazioni carnali prima del matrimonio’ così poi le ragazze si irritavano ancora di più, avendolo ammirato e reputato un uomo serio e risoluto. Perciò quella ragazza, nonostante lui l’avesse implorata di mantenere il segreto, raccontava la verità a tutte per dispetto, e così facendo si era accorta che tante avevano avuto la sua stessa esperienza. Infatti Watanuki, sapendo d’essere un bel ragazzo e di piacere all’altro sesso, frequentava sfrontatamente i luoghi in cui di solito si radunavano le ragazze e chiunque, per una volta, avrebbe potuto cadere nella trappola. In genere però lo consideravano un ragazzo virtuoso, o meglio l’adoravano perché affermava che il suo era un amore platonico e che, per quanto appassionatamente fosse stato amato, si sarebbe mantenuto puro. Così le ragazze si lasciavano convincere, e una volta giunte al momento culminante, venivano immancabilmente piantate, all’improvviso. ‘Oh, è capitato anche a te?’ ‘Eh, sì, anche a me.’ Ormai erano in tante, e tutte, se interrogate, rispondevano allo stesso modo: che, arrivate a un certo punto, se ne fuggiva via stranamente di nascosto, che, a pensarci bene, era sempre stato un po’ strano, perché i baci erano in contraddizione con il suo conclamato amore platonico, ma per quelli non faceva questione di purezza. Nessuna si accorgeva d’essere ingannata, ma prima o poi giungeva il momento della verità; erano concordi nel dire che aveva un sistema stereotipato per abbandonare le ragazze: ‘Dopo aver proposto il matrimonio si è dileguato velocemente’ dicevano. Ve n’erano anche alcune che lo compativano, ma l’interessato non immaginava che tante persone fossero a conoscenza del suo segreto, e continuava a divertirsi con le ragazze illibate, passando da una all’altra. Chi non lo conosceva cadeva ancora facilmente nella trappola, mentre chi sapeva si divertiva alle sue spalle commentando: ‘Il bastone da passeggio ne ha pescata un’altra...’ ‘Nessuna la invidia per quello stick-boy’.»
L’amica di Mitsuko le aveva detto: «Pensavo che tu, Tokumitsu, non sapessi ancora niente e desideravo dirtelo. Se pensi che ti stia mentendo, domandalo alla tale e alla talaltra». «Oh, è dunque un tipo così strano?! Non mi ha ancora baciata ma, se è così, lo farà presto, vero?» Mitsuko aveva finto di non sapere e, per quella volta la questione fu lasciata perdere. Ma tornata a casa Mitsuko aveva domandato a Ume: «Oggi una compagna mi ha raccontato questo e quello. Pensi che sia vero?» «E lei signorina non sa se è vero o se è falso?» aveva ribattuto Ume. Evidentemente Ume aveva pensato che Mitsuko non potesse ignorare una cosa simile; invece, essendo stata la sua prima esperienza con un appartenente all’altro sesso e avendole Watanuki detto che bisognava fare attenzione a non avere bambini, non s’era particolarmente insospettita e, nonostante il racconto dell’amica, aveva sostenuto di non sapere se fosse la verità o una menzogna. Ume in principio si era meravigliata e aveva commentato: «Ma non sarà una maldicenza per raffreddare i vostri rapporti perché state troppo bene insieme, come hina.21 Non si potrebbe incaricare qualcuno d’indagare?» Poi si erano rivolte a un investigatore privato e avevano appurato che in effetti Watanuki era afflitto da un’imperfezione sessuale. Non era stato possibile sapere se fosse una conseguenza degli orecchioni, ma pareva che la sua origine risalisse all’infanzia. L’investigatore era riuscito ad avere queste notizie perché aveva scoperto che Watanuki, prima della relazione con Mitsuko, si era segretamente divertito nella zona meridionale. Aveva indagato in quella direzione: persino le «professioniste» si lasciavano incantare da Watanuki e, in genere, se ne innamoravano follemente. Per quanto fosse un bel ragazzo, ciò era troppo strano e, per un certo tempo, la cosa aveva suscitato grande scalpore: la gente pensava che avesse qualche segreto. Le donne che avevano avuto una relazione con lui però, si rifiutavano assolutamente di confessarlo: così la sua fama continuava a crescere. L’investigatore, adoperando diversi nuovi metodi d’indagine, era riuscito a scoprire che all’inizio Watanuki aveva cercato di nascondere il suo difetto, ma che una di quelle donne aveva fiutato il segreto e, siccome aveva tendenze omosessuali, aveva insegnato a Watanuki come anche un uomo non virile può farsi amare da una donna. Dopo di che avevano incominciato a chiamarlo «l’uomo-donna» o anche «la donna-uomo», e da allora aveva smesso improvvisamente di frequentare quei luoghi e non era stato più visto in alcuna Casa da Tè. In seguito mi fu mostrato quel rapporto: vi si descrivevano con abbondanza e minuzia i particolari dell’indagine. Mentre si divertiva di nascosto doveva aver pensato: «Non c’è ragione per cui io mi debba disperare» e, acquistata fiducia in se stesso, aveva incominciato a cercare una ragazza seria: proprio allora Mitsuko era caduta nella rete. Queste erano supposizioni di Mitsuko, ma credo che fossero ben fondate. Sentendosi un giocattolo di carne, non desiderava più continuare a vivere: in quei momenti aveva veramente pensato di morire, ma prima di vendicarsi di lui suicidandosi aveva deciso di rivelargli il suo rancore. Allora propose a Watanuki: «Perché non ci sposiamo, se tu sei d’accordo? Io ho già ottenuto il consenso dei miei genitori». Voleva vedere come avrebbe reagito. «Anch’io lo desidero, ma per il momento non è possibile» aveva detto, tentando di barare con proposte come: «Ci sposeremo fra un anno o due». Allora Mitsuko: «In realtà tu non potrai sposarti mai». Subito aveva mutato colore e aveva balbettato: «Perché?» «Il perché non lo so, ma si dice questo di te» gli aveva risposto Mitsuko e aveva aggiunto che ormai non avrebbe potuto lasciarla, che sarebbe dovuto morire con lei. Lui però insisteva a dire che erano tutte menzogne, perciò Mitsuko gli aveva mostrato il rapporto dell’investigatore. Watanuki, con un’espressione indescrivibile, aveva dichiarato: «Ho agito male, perdonami». E quindi: «Voglio morire con te». Ma non si erano uccisi perché Mitsuko, dopo aver sfogato il suo risentimento, si era di nuovo impietosita e aveva finito con l’accettare, pur con qualche esitazione, di frequentarlo ancora. Certamente nel profondo del suo cuore continuava a pensare a Watanuki e a desiderare di rimanere con lui il più a lungo possibile; Watanuki se n’era accorto: fino ad allora aveva pensato che anche la ragazza più innamorata sarebbe fuggita se avesse conosciuto il suo segreto, ma poiché lei continuava ad amarlo pur conoscendo il suo difetto, per quale motivo avrebbe dovuto continuare a nasconderlo? Le aveva detto che gli dispiaceva di essere costretto a vivere in quella infelice condizione fisica, ma che tuttavia non lo considerava un difetto così grave e se qualcuno pensava che egli non avesse le qualità di un uomo doveva spiegargli dove risiedesse il vero valore di un uomo. Essere un uomo significava soltanto averne l’apparenza esteriore? Se così era, non gli importava nulla di non essere uomo. Ma quel Santo di Fukakusa no Motomasa non aveva forse bruciato con la moxa il simbolo della sua virilità dicendo che avrebbe potuto essergli d’impiccio? Gli uomini che avevano compiuto le opere più illustri e più spirituali, Sākyamuni e Cristo, non erano forse vissuti come asessuati? Perciò egli si considerava un uomo ideale; inoltre che cosa esprimeva la scultura greca se non una bellezza ermafrodita, né maschile né femminile? Ed essa rifulgeva anche nell’immagine della Kannon, nella rappresentazione del Bosatsu Seishi.22 A ben pensarci, si comprendeva come la forma asessuata fosse la più nobile espressione umana. Egli aveva nascosto la sua vera natura solo perché temeva di essere abbandonato dalla donna che amava; in realtà il generare figli era una caratteristica dell’amore animale, non aveva alcuna importanza per chi godeva delle gioie dell’amore spirituale...
XXII
... Davvero, quando Watanuki incominciava a discutere, sapeva chiacchierare all’infinito, allineando uno dopo l’altro magnifici argomenti. Aveva continuato il discorso dicendo che se Mitsuko avesse voluto suicidarsi anch’egli non avrebbe esitato a morire con lei; non trovava però un motivo valido che lo costringesse a uccidersi: gli dispiaceva dare alla gente l’occasione di commentare: «Quell’uomo s’è ammazzato per la disperazione di essere un menomato». Non era tanto codardo da uccidersi per una simile inezia, sarebbe vissuto finché avesse voluto, avrebbe compiuto opere grandiose, avrebbe mostrato di essere un superuomo, molto più degno di considerazione della gente comune. Quanto a Mitsuko, se aveva il coraggio di morire, perché non aveva invece il coraggio di sposarlo? Come aveva già detto, considerare una vergogna il matrimonio con un uomo come lui era sbagliato, doveva considerarlo un matrimonio spirituale, molto più nobile degli altri... Era vero però che certa gente non voleva sentire ragioni, e li avrebbe ostacolati: per questo sarebbe stato meglio non andare in giro a sbandierare a tutti i costi che tipo d’uomo era lui; ma che una o due persone facessero pettegolezzi non importava, tanto nessuno ne aveva la prova. Se fosse stata interrogata al riguardo, avrebbe dovuto dire che era un uomo completo. A pensarci bene, quei suoi discorsi si contraddicevano nel modo più assoluto: se pensava di non doversi affatto disperare e di essere un superuomo, perché tutti quei segreti? Avrebbe potuto camminare a testa alta. Diceva che dovevano anzitutto pensare a sposarsi in santa pace, prima che qualcuno lo impedisse: quello era il loro primo obiettivo e, per raggiungerlo, sarebbe stato necessario ingannare la gente: non v’era nulla di difficile, purché si fosse intimamente convinti di non essere inferiori a nessuno. Mitsuko aveva replicato che avrebbero forse potuto ingannare la gente, ma non sarebbe stato facile imbrogliare i genitori. Le aveva risposto che i suoi sarebbero stati felicissimi di accogliere una nuora che avesse accettato consapevolmente un simile matrimonio, ma che sarebbero stati i genitori di Mitsuko a opporsi: era evidente che, se avessero rivelato loro la situazione, non avrebbero acconsentito; bisognava mantenere il segreto e, se Mitsuko era d’accordo, non era affatto un’impresa impossibile. «E quando finiranno per accorgersene?» aveva domandato Mitsuko. «Quando se ne accorgeranno, vedremo cosa ci converrà fare. Potremo orgogliosamente spiegare loro che il nostro atteggiamento è legittimo, potresti dire che non sposerai nessun altro e se nonostante ciò non vorranno accordarti il loro consenso, allora potremmo sparire o ucciderci insieme.» Naturalmente Watanuki non immaginava che il suo segreto fosse risaputo da tanta gente e che gli avessero persino dato un soprannome, credeva che, a parte le «professioniste», nessuna ragazza se ne fosse accorta e sperava di poter continuare a nasconderlo. In realtà sarebbe stato piuttosto difficile continuare a ingannare comodamente i genitori e poter giungere al matrimonio. Watanuki non aveva che la madre e uno zio che si occupava di loro; se Mitsuko li avesse incontrati e avesse detto loro: «Per questa ragione un giorno o l’altro verranno i miei familiari a proporvi ufficialmente il matrimonio. Vi pregherei di acconsentire senza commentare» la madre avrebbe compreso e anche lo zio avrebbe evitato di rivelare il difetto del nipote causando la rottura del loro fidanzamento. Mitsuko aveva pensato che i suoi, prima di decidere le nozze, avrebbero senz’altro chiesto informazioni e, qualsiasi cosa avessero tentato, non sarebbe stato possibile continuare a mantenere il segreto; piuttosto di provocare guai inutili, non sarebbe stato meglio incontrarsi in segreto ancora per molto tempo? Watanuki non aveva alcuna necessità particolare di sposarsi e sapeva che, data la sua condizione fisica, sarebbe stato pretendere troppo, ma era preoccupato perché si rendeva conto che Mitsuko non avrebbe continuato a rimanere sola per sempre e prima o poi gli sarebbe sfuggita. Inoltre ciò che diceva contrastava con i suoi reali sentimenti. Non solo desiderava vivere con una moglie come un uomo normale ma, non contento d’ingannare il mondo, ingannava persino se stesso considerandosi uguale agli altri. Aveva addirittura la velleità di stupire la gente con una sposa come Mitsuko, molto più bella delle altre; perciò era impaziente e le diceva con sarcasmo: «Ricorri ai pretesti perché se ti proporranno un buon matrimonio hai intenzione d’accettare». Mitsuko gli rispondeva che, qualsiasi cosa dicessero i suoi genitori, non avrebbe potuto sposare un altro uomo, che per il momento non aveva ricevuto alcuna richiesta pressante, che quando avesse compiuto anche lei i venticinque anni e le fosse stato possibile sposarsi secondo la sua volontà, avrebbero senza dubbio trovato l’occasione opportuna, ma bisognava pazientare ancora un po’... altrimenti non ci sarebbe stata per loro altra via d’uscita se non la morte; e alla fine riusciva a persuaderlo.
Mitsuko affermava di non sapere neanche lei quali fossero i suoi reali sentimenti in quel periodo, ma è certo che in principio l’aveva tenuto a bada con il segreto desiderio d’abbandonarlo a ogni costo. Si pentiva sempre di averlo incontrato, dopo i loro appuntamenti, e pensava: «Ah, come sono disgraziata! Una ragazza con un aspetto come il mio, invidiata da tutte le sue coetanee, essere scelta da un uomo simile. Voglio troncare tutto!» ma, stranamente, dopo due o tre giorni era lei a cercarlo. Non perché ne fosse tanto innamorata: Watanuki, spiritualmente, non aveva una sola qualità, Mitsuko provava nausea solo a vederlo, e nel profondo del suo animo lo considerava un individuo volgare, il colmo dell’abiezione, e lo disprezzava terribilmente. Così, pur incontrandolo tutti i giorni, i loro spiriti non erano quasi mai in sintonia, litigavano continuamente e lui ripeteva il solito ritornello: «Avrai raccontato il mio segreto» e «fino a quando intendi farmi aspettare?» Creava problemi per delle stupidaggini e nel discutere aveva un tono sospettoso e viscido... Mitsuko, poi, non avrebbe confessato a nessuno, senza una reale necessità, una cosa tanto detestabile, che non avrebbe umiliato solo Watanuki: egli avrebbe potuto evitare simili rimproveri; si era confidata solo con Ume, con la quale non le sarebbe stato comunque possibile tacere. «Ma perché raccontarlo a una cameriera?» aveva commentato Watanuki: ed era scoppiata una terribile lite. Mitsuko, per nulla intimidita, gli aveva gridato quello che pensava: «Sei un ipocrita, un bugiardo che non fa mai quello che dice. Non c’è la minima traccia di un amore autentico nel tuo comportamento». Alla fine egli, non trovando più parole con cui resisterle, rosso di collera, aveva mormorato: «Ti uccido». «Uccidimi pure: è tanto che sono rassegnata a morire» ed era rimasta immobile a occhi chiusi. Allora Watanuki, intimidito, le aveva detto: «Ho sbagliato, scusami» e lei: «Io non sono spudorata come te, se la gente conoscesse quel segreto io sarei molto più turbata di te. E basta con questa eterna discussione». Così era riuscita a indurlo a chiedere perdono. Watanuki non era stato più in grado di tenerle testa, ma da allora era diventato ancora più perfido e sospettoso.
Proprio in quel periodo era pervenuta la proposta di matrimonio dalla famiglia M. Mitsuko aveva incominciato a frequentare l’istituto tecnico femminile per potersi creare le occasioni d’incontro con Watanuki, ed era stata lei, e nessun altro, a diffondere la diceria di una relazione omosessuale tra me e lei, denunciandola con cartoline anonime. E tutto perché Watanuki, tremendamente geloso per la proposta di matrimonio, la minacciava di divulgare la loro relazione alla stampa, oppure di passarla alla famiglia del consigliere municipale, che era in competizione con la sua, e di esporre tutti i difetti di Mitsuko, in modo che i progetti di matrimonio sfumassero. A lei non interessava entrare nella famiglia M., e quindi non le dispiaceva perdere la gara, ma più di tutto era atterrita dall’ipotesi che il segreto rapporto che la legava a Watanuki venisse scoperto e rapidamente divulgato. Incapace di trovare una soluzione, si era creata una fama di lesbica, purché la verità non trapelasse. Insomma, si era servita di me per ingannare la gente. Dal punto di vista di Mitsuko era preferibile sentirsi chiamare lesbica piuttosto che essere conosciuta come innamorata di un individuo soprannominato «bastone da passeggio» e «uomo-donna»: avrebbe così evitato di essere additata e derisa. In principio, dunque, le era balenata quell’idea perché aveva sentito che dipingevo un viso somigliante al suo e perché, quando c’incontravamo per strada, avevo un atteggiamento particolare. Siccome però io ero fin troppo sincera e appassionata, il desiderio di sfruttarmi si era gradualmente mutato in amore. Non che io fossi totalmente innocente, ma la spiritualità del mio sentimento non si poteva certo paragonare a quella di Watanuki, e Mitsuko, inconsciamente, ne era stata attratta. Inoltre c’era una notevole differenza tra diventare il trastullo di un individuo come Watanuki, che nessuna avrebbe voluto, ed essere venerata e ritratta con le sembianze della Kannon da una persona del suo sesso. Da quando aveva incominciato a frequentarmi erano rinati il suo naturale senso di superiorità e l’orgoglio e finalmente – mi confidò – il mondo le era parso rischiararsi. A Watanuki aveva lasciato credere che mi avrebbe usata per i suoi scopi, tanto più che fortunatamente si era diffusa la diceria che le ero molto comoda per poter uscire di casa. Lui non era tipo da credere ingenuamente a tutto. «Meglio così» aveva commentato, ma in fondo all’animo si era limitato ad affilare la lama della gelosia, in attesa dell’occasione propizia per separarci. A ben riflettere, anche l’incidente di Kasayamachi, il furto del kimono, era strano. Che in un’altra camera della locanda stessero giocando d’azzardo e che la polizia fosse intervenuta, erano tutte fandonie: d’accordo con quelli della locanda, aveva all’improvviso spaventato Mitsuko e, mentre fuggivano, la cameriera aveva rubato loro tutti gli indumenti: faceva parte di un piano accuratamente prestabilito. Quel giorno Mitsuko, prima d’incontrarmi, in mattinata, era andata alla Mitsukoshi per delle compere e si era imbattuta casualmente in Watanuki. Nel congedarsi da lui gli aveva raccomandato d’attenderla a Kasayamachi, dove l’avrebbe raggiunto dopo essere stata a trovare sua sorella maggiore, la signora Kakiuchi. Watanuki sapeva che indossava un kimono uguale al mio e aveva pensato che questa fosse l’occasione sperata: se le avesse fatto sparire il kimono, Mitsuko avrebbe dovuto telefonarmi e io avrei finito con l’abbandonarla. Perciò, mentre l’aspettava, aveva corrotto con il denaro quelli della locanda: Watanuki era un individuo capace di simili complotti, e poi ne aveva avuto tutto il tempo. Diversamente, non si capiva come fossero spariti i kimono, essendo piuttosto improbabile che quegli ipotetici coniugi li avessero indossati per seguire la polizia, e poi come mai nessun mandato di comparizione era giunto a casa di Mitsuko o di Watanuki? Ma allora Mitsuko non poteva immaginare d’essere vittima di un complotto e mentre era ancora sconvolta e incapace di decidere, Watanuki le aveva proposto: «Ormai non resta che telefonare alla signora Kakiuchi perché ti consegni il kimono uguale». «Che differenza con quanto mi aveva lasciato credere Watanuki!» Mitsuko era tanto trafelata che aveva persino dimenticato l’esistenza di un altro kimono uguale a quello che le era stato rubato. A quel consiglio di Watanuki aveva replicato: «Non posso permettermi di chiedere una cosa simile alla sorella maggiore» al che lui: «Allora accetti di fuggire con me? Oppure preferisci telefonare?» Era una situazione disperata; andarsene con quell’uomo era peggio che morire: incapace di ragionare era corsa istintivamente al telefono. Avrebbe potuto trovare una soluzione migliore, evitando di farmi incontrare quell’uomo, aspettandomi in un caffè o congedandolo prima che io arrivassi, ma Mitsuko aveva perso la testa e non le era venuto in mente. Era esattamente ciò a cui mirava Watanuki, che la sollecitava dicendole: «In fretta, in fretta». Intanto io ero arrivata; a Mitsuko che si vergognava lui subito aveva raccomandato: «Rimani nascosta che saprò io come parlarle» e, comportandosi come se fosse il suo innamorato, mi aveva posto diverse domande ingannandomi. «È naturale. Lui allora non ti conosceva bene, sorella maggiore» commentò Mitsuko.
XXIII
«Ah sì? Mi ha preso in giro? Non immaginavo che avesse il coraggio di prendere in giro e di schernire la gente al punto da pronunciare una frase come: ‘I sentimenti che Mitsuko nutre per lei sono assolutamente sinceri’.» «Già, te l’ha detto apposta per farti arrabbiare. Vi ascoltavo al di là dei fusuma.»23 «Che bugiardo!» ho pensato. «Era inutile che si scusasse, non sarebbe riuscito a convincerti...» Aggiunse che, quando si accorse di stare assecondando il piano di Watanuki, aveva provato una irritazione insostenibile: da quel momento, poiché non c’era più nessuna persona a dare fastidio, era diventato ancora più ossessionante. Se Mitsuko osava fargli un rimprovero rispondeva: «Tu, piuttosto, sei bugiarda, non mi hai forse abilmente ingannato con i tuoi discorsi?» dimostrando di avere ancora un risentimento ben radicato verso di me. «Di certo non vi sarete lasciate per una simile inezia. Forse continuate a vedervi da qualche parte.» Che per la sua natura gli fosse impossibile smettere di dubitare, pur sapendo di aver agito in modo che non c’incontrassimo più, o che fingesse di non essersene accorto per poter esprimere quei commenti spiacevoli? Mitsuko gli aveva risposto: «E tu non sei per niente virile. Continuare fastidiosamente a rivangare una cosa già sepolta!» «No, no, non è affatto sepolta. Sicuramente le hai confessato il mio segreto.» In realtà era quello che egli più temeva: dichiarò che se io ne fossi venuta a conoscenza, per vendicarsi, si sarebbe opposto con tutte le sue forze alla nostra relazione. E Mitsuko: «Basta con tutti questi sospetti infondati! Come avrei fatto a dirglielo se le ho persino taciuto la tua esistenza? Non l’hai capito dal suo atteggiamento quando l’hai incontrata?» «No, nel suo atteggiamento c’era qualcosa di sospetto.» Essendo abituato a ingannare la gente, era molto sospettoso; non si trattava di semplici provocazioni, Watanuki aveva motivi seri per dubitare: come lui si era accorto della mia relazione con Mitsuko, così anch’io non dovevo essere stata ignara dei rapporti di Mitsuko con lui, e se, pur sapendo, non avevo fino allora mostrato segni di gelosia, era perché mi era stato detto: «Quell’uomo è un menomato»; se no perché avrei dovuto tacere? Con questi segreti pensieri mi aveva convocata alla locanda di Kasayamachi. Intendeva mostrarmi che era solito intrattenersi in quel luogo con Mitsuko e che non aveva alcuna anomalia sessuale. Se avesse implorato sinceramente Mitsuko dicendole: «Ti prego, non incontrare più la sorella maggiore» lei non avrebbe potuto rifiutarsi; invece, oltre a sentirsi coinvolta nelle trame di un impostore, veniva anche fastidiosamente sospettata. Era naturale quindi che, per orgoglio, avesse voluto sventare i suoi piani e, avendo provato ancor più nostalgia per la nostra relazione ch’era stata guastata contro la sua volontà, aveva desiderato fare qualsiasi cosa per riallacciarla: avrebbe voluto rivedermi almeno un istante, ma pensava che non l’avrei ricevuta e poi, come avrebbe potuto scusarsi? Qualsiasi cosa mi avesse detto non sarebbe riuscita a cambiare il mio stato d’animo. Dopo aver meditato a lungo si era ricordata di quel libro... a Mitsuko non serviva davvero, l’aveva proprio imprestato alla signora Nakagawa. Quel libro le aveva suggerito, all’improvviso, un’idea, poi per diversi giorni aveva elaborato un piano: «Farò telefonare a nome della clinica S. K., poi farò così e così». Naturalmente pensava di provvedere da sola, senza consultarsi con nessuno; solamente, sarebbe stato meglio che non fosse una donna a telefonare: aveva spiegato il problema a Ume e aveva potuto incaricare della telefonata un follatore. «Da quella volta mi sono spremuta il cervello per trovare il sistema di fare la pace con te, sorella maggiore. A pensarci adesso, sono stata brava riuscendo a recitare, senza essere un’attrice, quella scena drammatica torcendo persino gli occhi» mi confidò. Certo quella volta mi aveva innegabilmente attirato in una trappola ben congegnata, mi aveva ingannata, ma dovevo capire con che animo l’aveva fatto, e poi pensava che io l’avrei giudicata con compassione, ma di sicuro non con odio.
Poco dopo, tuttavia, Watanuki si era accorto che ci eravamo riappacificate. Mitsuko desiderava inconsciamente capovolgere i suoi piani e, non solo non nascondeva la nostra rinnovata armonia, ma attendeva il momento in cui se ne sarebbe accorto per vedere che faccia avrebbe fatto. «Hai ricominciato a frequentare quella persona, vero? Non fingere perché so tutto.» «Non ho alcuna intenzione di fingere» gli aveva risposto Mitsuko con calma e aveva aggiunto: «Ho preferito incontrarla, perché anche se non l’avessi fatto mi avresti sospettata ugualmente». «E perché di nascosto da me?» «Non di nascosto. A me non interessano le tue false supposizioni: quel che decido di fare o di non fare, io lo dico.» «Ma se hai taciuto fino a oggi!» «Perché pensavo non valesse la pena dirlo. Non ho intenzione di farti un rapporto su tutto quello che faccio.» «E ti sembra di avere agito correttamente non informandomi d’una cosa tanto importante?» «Appunto per questo ti ho confermato che l’abbiamo fatto, non ti pare?» «Quel ‘abbiamo fatto’ è ambiguo. Di’ esattamente con chiarezza chi ha preso l’iniziativa della rappacificazione.» «Sono andata a trovarla io, le ho detto che mi dispiaceva e lei mi ha scusata.» «Che cosa? Che bisogno c’era di andare a chiederle scusa?» «Che bisogno? L’ho chiamata in un luogo simile a quell’ora, le ho chiesto in prestito kimono e denaro. Come potevo dimenticare? Tu saprai anche comportarti da ingrato, ma per me non è facile.» «Il giorno seguente le ho rimandato per posta ciò che ci aveva prestato. Che bisogno c’è di ringraziare ancora una donna così disgustosa?» «Ah sì? Ma se quella volta le hai detto: ‘Non m’importa di me ma, per favore, riaccompagni a casa sana e salva Mitsuko. Le sarò grato per tutta la vita’ hai chinato la testa davanti a quella donna disgustosa e l’hai supplicata a mani giunte! Come fai adesso a dire cose simili? Anzitutto non era il caso di rispedire per posta ciò che ci aveva prestato: se il pacco fosse finito tra le mani del marito chissà come sarebbe stato imbarazzante per lei! Non avrebbe potuto dire che le si erano sporcati. Quando si riceve un favore bisogna comportarsi conseguentemente: che ingrato sei! Sentendoti parlare così mi è venuto il sospetto che quanto è accaduto quella sera sia stato un tuo gioco di prestigio, di cui intuisco il trucco...» Allora Watanuki, con una faccia sgomenta: «Che significa un gioco di prestigio?» «Esattamente non lo so, ma è strano che tu abbia deciso che la nostra relazione fosse interrotta, mentre io non te l’ho mai detto. Se pensi che tutto si sia risolto come progettavi, ti sbagli.» «Ma che dici? Non capisco.» «Allora spiegami: perché la polizia non ha restituito i kimono?» «Adesso ho ben altro di cui preoccuparmi» rispose, ma si capiva che era stato colpito in un punto delicato. «Ma che stai dicendo? Oggi sembri un’esaltata. Parliamone con calma» e sorrise nervosamente nel tentativo di nascondere la sua confusione. In realtà egli non era uomo dal carattere aperto, capace di lasciarla tranquilla: due o tre giorni dopo ricominciò, ma maldestramente, cercando di adulare Mitsuko: «Quella signora doveva essere molto irritata, come hai fatto a placarla? Insegnamelo che mi servirà per l’avvenire» e inoltre: «Con quel viso gentile non si direbbe che tu sia tanto capace di prendere in giro la gente. Sei più esperta di una professionista» e ora l’adulava, ora le rivolgeva frasi ironiche. Mitsuko pensò di accontentarlo per ciò che le era possibile e gli raccontò il piano escogitato per riappacificarsi con me. «Quando hai imparato a scrivere simili farse per ingannare la gente?» «Ma sei stato tu a insegnarmi!» «Non dire sciocchezze. Adoperi spesso lo stesso sistema anche con me, vero?» «Hai ricominciato con i sospetti infondati! È la prima volta che mi comporto in un modo così indegno.» «Non riesco a capire perché tu desideri tanto essere ‘sorella’ di quella signora, al punto da fare cose simili.» «Ma tu non le hai forse detto: ‘A me non importa affatto, d’ora in poi andremo d’accordo tutti e tre’.» «Ma l’ho detto solo perché quella volta sarebbe stato imbarazzante irritarla.» «Sei un bugiardo. Non hai forse cercato d’imbrogliare la sorella maggiore? Tu non lo sai ma io mi sono accorta delle tue astuzie di quella notte.» «Non ne so niente.» «Ricordatelo bene: anche un vermiciattolo ha un’anima24 nessuno ti lascerebbe agire, se volessi tramare nell’ombra.» «E che cosa avrei tramato? Ne hai le prove? Sei tu che sospetti senza alcun fondamento.» «Se credi che siano sospetti infondati, pensalo pure. Tu però non faresti meglio a frequentare la sorella maggiore come hai promesso? Forse tu non lo credi, ma io non ho assolutamente confidato a lei quello che non volevi...» Mitsuko ne approfittò subito per raccontare che era venuta da me a farmi quel discorso proprio per nascondere completamente ciò che Watanuki non desiderava si sapesse, per convincermi che era un uomo normale, e poiché lei si era tanto prodigata per difendere il suo onore, egli avrebbe anche potuto essere un po’ più generoso, fare in modo che in futuro vi fosse tra noi tre un buon rapporto. Da un lato lo toccava nel punto dolente adulandolo e minacciandolo e gli diceva: «Dal momento che c’incontriamo qui, faremo venire anche la sorella maggiore»; dall’altro sosteneva che egli non doveva assolutamente intromettersi nella nostra relazione e, che se avesse brontolato, era decisa a lasciare lui pur di non abbandonare me. Egli finì con il sopportare in silenzio i suoi rimproveri.
XXIV
«...Vero, sorella maggiore? Per quanto si sia in intimità è imbarazzante raccontare cose simili: ho cercato a lungo di trattenermi, temendo che tu ti stancassi di me, ma oggi non ho saputo tacere. Ah, chi è più infelice di me a questo mondo?» e intanto si era sdraiata con la testa sulle mie ginocchia e piangendo a dirotto me le inondava di lacrime. Era disperata, tanto che non sapevo cosa dirle per consolarla. La Mitsuko che fino a quel giorno mi era parso di conoscere era una ragazza splendida, esuberante, dagli occhi luminosi e sempre colmi d’orgoglio: non avrei mai supposto che avesse avuto esperienze tanto penose e mi era difficile pensare che una persona come lei, altera come una regina, si sarebbe sciolta in lacrime rinunciando completamente al suo orgoglio. A sentire Mitsuko, lei era un’ostinata e si era imposta con tutte le proprie forze di non lasciare intuire agli altri le sue pene, ma se non fosse stato per sua sorella maggiore il suo animo si sarebbe ancor più intristito: grazie alla sorella maggiore le era venuto il coraggio di lottare e vincere il proprio destino; sempre, quando contemplava il volto della sorella maggiore, il suo spirito si rasserenava e riusciva a dimenticare tutto, ma quel giorno, chissà perché, si sentiva oppressa da pensieri cupi, che neppure con la sua ostinazione riusciva a sopportare, e all’improvviso si era spezzata in lei la barriera delle lacrime, a lungo trattenute. «Ah, sorella maggiore, ti prego, ti prego... sei l’unica persona di cui mi possa fidare, non stancarti di me anche se ti ho costretta ad ascoltare questi discorsi.» «Perché dovrei stancarmi? Sei riuscita a confidarmi cose difficili a dirsi. Quanto a me, non puoi immaginare che gioia provi sapendo che mi hai concesso la tua fiducia.» Allora la sua tensione si allentò e, piangendo ancor più sconsolatamente, disse che Watanuki le aveva rovinato la vita, che a lei il futuro non offriva più né speranze né luce, che non le rimaneva altro che vivere sino alla fine dei suoi giorni come un tronco sepolto nella terra, che avrebbe preferito morire piuttosto che sposare quell’uomo; m’implorava di aiutarla a liberarsi di lui, di consigliarle una buona soluzione. «Ormai posso dirti onestamente la verità: a essere sincera ho fatto un giuramento di sangue con Eichan, ci siamo persino scambiati un documento in cui è scritto questo e quello» e le raccontai tutto quanto era successo il giorno precedente. Mi rispose che aveva immaginato una cosa simile: Watanuki, costantemente preoccupato che il suo segreto potesse trapelare, aveva fatto quel discorso proprio per mettere alla prova la sorella maggiore, e aveva intenzione di trascinarla nella sua disgrazia, qualora fosse stato abbandonato... Riflettendo su quelle parole, dovetti convenire che quell’uomo aveva suscitato in me una strana impressione quando gli avevo detto di non sapere della gravidanza di Mitsuko e lui, con occhi iniettati di sangue, aveva commentato: «Cosa? Non lo sapeva?» e poi, mutando colore perfino sulle labbra mi aveva domandato: «Perché ha detto che non era possibile che concepisse? La colpa è della sua costituzione fisica?» E poi mi ricordo che aveva ripetuto due o tre volte: «Ahimè, con che infelice destino sono nato!» con voce modulata, come se stesse recitando. Allora avevo pensato che volesse semplicemente attirare la simpatia altrui con quell’affettazione, forse invece anche un uomo impudente come lui soffriva nel profondo dell’animo per la propria infelicità, e i sentimenti di tristezza e di solitudine, che non desiderava confidare alla gente, si erano spontaneamente rivelati. Poi però mi aveva saggiato abilmente con frasi come: «Ma perché Mitsuko si ostina a nascondere la gravidanza? Soprattutto con lei non potrebbe non mentire?» e «Quando nascerà il bambino lo affideremo a qualcuno», «Suo padre è furioso». Ma il colmo era che aveva detto: «Rileggendolo mi sono accorto che è molto più vantaggioso per lei, sorella maggiore, che per me. Spero che abbia compreso la mia buona fede». Non aveva di che preoccuparsi e poteva includere qualsiasi condizione. A cosa mirava nell’ingannare la mia fiducia con quelle finzioni? In che occasione si sarebbe servito di quelle promesse? Di certo le condizioni che gli stavano più a cuore erano: «La sorella maggiore collaborerà al fine di favorire un matrimonio ufficiale tra il fratello minore e Mitsuko» e «se il fratello minore sarà abbandonato, la sorella maggiore romperà la sua relazione con Mitsuko» e ancora «entrambi s’impegnano a non fuggire arbitrariamente con Mitsuko, senza il consenso reciproco, a non rendersi irreperibili e a non suicidarsi con lei». Soprattutto quest’ultima condizione era per lui essenziale: le altre le aveva aggiunte per dare importanza allo scritto. Questa era l’opinione di Mitsuko. A me pareva strano che si fosse dato tanta pena per mettere insieme tutte quelle formalità, ma sembra che l’allineare quelle frasi di sapore giuridico fosse una sua abitudine e, a ben riflettere, in quel periodo l’atteggiamento di Mitsuko verso Watanuki era diventato sempre più disperato, incominciava a mostrarsi stanca e rassegnata a tutto, perciò Watanuki aveva avuto il presentimento che presto sarebbe accaduto qualcosa d’irreparabile: si capiva che stava tramando qualche imbroglio nell’ombra. Così, quando eravamo andati tutti e tre allo Shōchiku, per opera di Mitsuko che l’aveva convinto dicendogli: «Invece di coltivare questi cupi pregiudizi perché non incontri la sorella maggiore e non consideri che tipo è e se conosce il tuo segreto oppure no? Potrai capirlo dal suo modo di parlare» sperando in questo modo di non dover più temere da lui altre stranezze, egli si era mostrato insolitamente confuso e non aveva parlato. «È stato dunque allora che ha incominciato a pensare di mostrarsi tanto falso da stringermi la mano in segreto?» «Non posso saperlo, ma era sempre in ansia perché temeva che l’avrei abbandonato per fuggire con te, sorella maggiore.» «Di certo ha intenzione di servirsi di me per sposarti e, una volta diventato tuo marito, di gettarmi via come un oggetto inutile.» «Non fa che parlare di matrimonio, ma per ingannare se stesso: in realtà non pensa di potersi sposare. Se pretenderà troppo, io non vorrò più vivere, e lui lo sa. Anche per lui è meglio che ci sia una persona come te, sorella maggiore, così non dovrà temere che io gli sia rubata da un altro uomo: desidera continuare il più a lungo possibile così...» Mitsuko attendeva Watanuki anche quel giorno, ma almeno per quella volta non avrebbe voluto assolutamente incontrarlo e mi chiedeva di trovare il sistema per mandarlo via. Sentirsi improvvisamente rifiutato l’avrebbe soltanto insospettito; le dissi quindi, per evitare il peggio, di riceverlo e di non dirgli niente di quanto c’eravamo confidate quel giorno: io avrei fatto senz’altro in modo di liberarla da lui, e sarei morta pur di salvarla. «Se sarà necessario ucciderò quell’uomo» la rincuorai, piangendo con lei. Poi ci separammo. Questo fu... già, basta guardare la data del giuramento... ecco, sì, il 18 luglio, perciò fu il giorno seguente, il 19, che Mitsuko e io ci facemmo queste confidenze. Proprio in quel periodo mio marito, sistemato finalmente il caso di cui si stava occupando, mi propose: «Perché non andiamo in vacanza da qualche parte? E se quest’anno ci fermassimo a Karuizawa?» Non ne avevo proprio voglia: gli dissi che Mitsuko trascorreva le giornate da sola, perché nelle sue condizioni non poteva andare da nessuna parte e che mi ripeteva di continuo: «Ah, t’invidio davvero!» Se proprio dovevamo andare in vacanza avrei voluto che lui mi portasse a Hakone, ma più avanti, quando avesse fatto più fresco. Senza badare minimamente all’espressione insoddisfatta di mio marito, per circa due settimane non feci altro che aspettare che lui uscisse per precipitarmi a Kasayamachi. A ogni modo, da allora Mitsuko sembrava un’altra, tanto era diventata docile: fino a poco tempo prima mi era sembrata un demone affascinante, ma adesso mi pareva una colomba presa di mira da un’aquila e mi era ancora più cara, e poi aveva sempre un’aria così preoccupata e sul suo volto non compariva mai lo splendido sorriso di un tempo. Anche se mi sembrava impossibile, temevo quel che sarebbe accaduto se, per impazienza, avesse commesso uno sproposito, e non riuscivo a stare tranquilla. «Mitchan» le dicevo, «cerca di mostrarti più allegra davanti a Eichan, se no se ne accorgerà e chissà cosa incomincerà a dire.» «Ti prometto che l’annienterò, lo ridurrò al punto di perdere completamente la faccia perciò, anche se soffri terribilmente, resisti ancora un poco» aggiungevo, ma in cuor mio mi chiedevo come avrei potuto battere Watanuki: era più abile di me nel progettare piani per ingannare la gente e farla cadere in trappola e non riuscivo a escogitare nulla di buono. Mi domandavo, mentre discorrevamo, cosa avrei potuto dirgli per scusarmi se Watanuki fosse rimasto fuori ad aspettarmi nel vicolo; non mi sentivo affatto colpevole per non aver mantenuto le clausole di quel giuramento, però mi dispiaceva un po’ di aver infranto la mia promessa. Tutte le volte che m’incamminavo nel vicolo mi sentivo tremare per la paura di essere chiamata «sorella maggiore!» con una voce possente da farmi trasalire. Ma fortunatamente non successe nulla: a quell’uomo, una volta stipulato il giuramento, non doveva importare molto del patto fraterno, e in fondo anche per me era meglio così. Intanto Mitsuko m’implorava tutti i giorni: «Sorella maggiore, perché non fai nulla? Aiutami, non resisto più neanche un giorno». Diceva che come ultima risorsa avrebbe esortato Watanuki a fuggire con lei e che, prima di andarsene, mi avrebbe detto dov’erano diretti: quando fosse scoppiato lo scandalo e i giornali ne avessero parlato, avrei dovuto andare a prenderla, così Watanuki non avrebbe più tentato di avvicinarla; era decisa ad attuare questo progetto pur sapendo che il suo onore sarebbe stato compromesso. «Mi sembra che abbia fiutato che stiamo consultandoci» disse, «bisogna agire al più presto.» «Quando se ne accorgerà verrà da me a contestarmi il giuramento. Su, conserva il tuo proposito come ultimo mezzo in caso d’emergenza.» A essere sincera in quel periodo non sapevo più cosa fare, avevo anche pensato di venire da lei, Maestro, a chiederle consiglio, ma sarei stata troppo sfacciata e non osavo. Ero ricorsa persino a Ume, ma non aveva nessuna buona idea. Al colmo della disperazione avevo pensato di chiedere aiuto a mio marito, confessandogli parzialmente le mie menzogne perché m’insegnasse se c’era qualche mezzo giuridico per scongiurare la persecuzione di Watanuki: se gli avessi parlato accortamente forse mio marito avrebbe avuto compassione di Mitsuko. Ma un giorno, all’improvviso, non gli balenò l’idea di venirmi a trovare, senza neppure avvisarmi con una telefonata, alla locanda di Kasayamachi? Arrivò di ritorno dall’ufficio, verso le quattro e mezzo. Stavo conversando al piano superiore con Mitsuko quando salì trafelata la cameriera chiamandomi «signora, signora!» e dicendo: «C’è giù suo marito. Mi ha detto che vi vuole vedere tutte e due. Che faccio?» «Chissà perché è venuto» balbettai sgomenta e guardai in viso Mitsuko. «A ogni modo gli andrò incontro io. Tu, Mitchan, rimani nascosta qui» dissi e scesi nell’entrata.
XXV
«Ah, che posto difficile da trovare» osservò mio marito fermo accanto alla porta a grata. Aveva accompagnato alla stazione del quartiere del Porto una persona che tornava a Yokkaichi, nell’Ise, e al ritorno, passeggiando per Shinsaibashi, si era ricordato che Mitsuko stava da quelle parti e, pensando che ci fossi anch’io, aveva deciso improvvisamente di venirci a trovare. «Niente d’importante, solo che tu sei sempre qui a dar fastidio: mi pareva brutto passare da queste parti e non venire a salutare. Desidererei vedere Mitsuko per sapere come sta, per ringraziarla e, se è possibile, portarvi fuori a cena. Non potrebbe uscire almeno un momento?» mi chiese con aria ingenua, ma ebbi l’impressione che nascondesse qualche cosa. «In questo periodo è molto ingrossata e non esce assolutamente per non incontrare nessuno» gli risposi, ma lui: «Allora fammela almeno incontrare». Non potevo rispondergli che era impensabile, gli dissi soltanto: «Vado a sentire quello che dirà» e, una volta di sopra: «Mitchan, ecco quello che mi ha detto». «Che facciamo? Davvero... sorella maggiore, che cosa gli hai risposto?» «Che non vuoi vedere nessuno perché ormai è evidente, ma lui insiste per incontrarti almeno un momento.» «Ci sarà un qualche motivo.» «Ho anch’io la stessa impressione.» «Se è così è meglio che l’incontri... Haru mi ha consigliato di avvolgermi gli obiage intorno al ventre e poi di indossare il kimono: farò così. È proprio il momento di imbottirmi di cotone, come dicevamo, non ti pare?» E così dicendo prese in prestito degli obiage da Haru, la cameriera della locanda, e le ordinò: «Fa’ accomodare l’ospite in una camera del pianterreno». Intanto io l’aiutavo a prepararsi. Tornò Haru ad annunciare: «Gliel’ho detto, ma mi ha risposto che la vedrà solo per un minuto o due e che preferisce restare dov’è. Non vuole salire». Allora decidemmo di fare in fretta e l’aiutammo trafelate a vestirsi. Fosse stato inverno si sarebbe potuto ingannarlo facilmente, ma lei indossava solo un kimono sfoderato di Akashi, non si riusciva a darle l’apparenza di una donna incinta. «Sorella maggiore, di quanti mesi sarei?» «Non mi ricordo cosa gli ho detto con precisione, ma dovrebbe essere già evidente, almeno al sesto o al settimo mese.» «E così posso sembrare al sesto mese?» «Dovrebbe essere più tonda e prominente» e intanto ridacchiavamo tutte e tre. «Aspettate un momento, vi porterò qualcos’altro» propose Haru e tornò con degli asciugamani. «Scendi a dirgli che la signorina non può raggiungerlo all’entrata, per timore che qualcuno possa vederla, invitalo a entrare e sistemalo nella camera più buia che ci sia.» Dopo averlo lasciato ad aspettare, tra una cosa e l’altra, per mezz’ora, finalmente riuscimmo a sistemarle una pancia di sei mesi e gli andammo incontro. «Le ho detto che non importava, ma ha voluto mettersi il kimono perché le pareva maleducato presentarsi in yukata...» così dicendo osservai mio marito: aveva posto la valigetta accanto a sé e stava seduto correttamente, con le ginocchia unite. «Mi dispiace averla disturbata, ma è tanto tempo che non la vedo. Passavo da queste parti e ho colto l’occasione per farle visita.» Fu forse una mia impressione, ma mi pareva che lanciasse sguardi indagatori al ventre di Mitsuko. Lei gli rispose: «Ma no, sono piuttosto io a dovermi scusare per la prepotenza con cui m’impossesso della sorella maggiore» e aggiunse che le dispiaceva che a causa sua avessimo deciso di non andare in vacanza, ma che grazie alla sorella maggiore riusciva ad attenuare la sua solitudine ed era profondamente grata di tutto ciò. Disse opportunamente poche parole, che parvero dignitose, e intanto si nascondeva la parte superiore dell’obi con l’uchiwa:25 Haru aveva avuto cura di farla sedere in un angolo di una camera immersa nella penombra, in cui anche di giorno si sarebbe dovuto accendere la luce; sia per la poca aria che circolava, sia perché aveva il kimono così imbottito, sudava copiosamente e ansimava: sembrava davvero una gestante. «Ma come è brava nel recitare!» pensai. Mio marito si alzò quasi subito: «Scusi il disturbo. Quando potrà di nuovo uscire venga a trovarci» e, rivolto a me: «Ormai è tardi, torniamo a casa insieme»; allora sussurrai a Mitsuko: «Ci dev’essere un motivo. Per oggi sarà meglio che me ne vada. Mi raccomando, aspettami domani» e lo seguii controvoglia; arrivati alla fermata di Yotsubashi disse: «Prendiamo l’autobus»; poi, giunti alla stazione salimmo su un treno della Hanshin che ci portò fino a casa. Mio marito, di malumore, era rimasto in silenzio, si era limitato a rispondere vagamente alle mie domande. Entrato in casa, senza neppure cambiarsi d’abito, mi disse: «Vieni un momento di sopra con me» e salì in fretta: lo seguii quasi rassegnata. Sbatté la porta della camera da letto e, indicandomi una poltrona davanti alla sua, mi disse: «Su, siediti». Rimase per un po’ in silenzio, respirando profondamente, immerso nei propri pensieri. Per rompere quell’atmosfera opprimente fui io a domandargli: «Come mai oggi sei venuto all’improvviso in quel posto?» «Uhm...» brontolò e, dopo aver riflettuto: «Voglio mostrarti una cosa» disse e tolse da una tasca una busta da ufficio, estraendone dei fogli che spiegò sul tavolino: vedendoli impallidii. Com’era riuscito ad averli? Avvicinandomi agli occhi quell’atto di giuramento mi domandò: «Questa firma è sicuramente tua, vero?» quindi aggiunse: «Ti premetto che, se solo ti comporti bene, non ho intenzione di creare complicazioni. Se vuoi sapere come mi è capitato tra le mani questo documento, te lo dirò. Ma anzitutto desidero chiarire un punto: è proprio tua questa firma o è falsa?» ... Ah, ero stata preceduta da Watanuki! Il documento in mio possesso era chiuso a chiave nel canterano, perciò non poteva che essere quello di Watanuki: aveva scritto il giuramento solo a quello scopo! A essere sincera avevo pensato già da tempo di far intervenire mio marito e che fosse meglio confessargli anche ciò che riguardava Mitsuko, ma lui ci aveva colte di sorpresa a Kasayamachi; ormai non potevo più rivelargli che era una falsa gravidanza, così avevo finito con l’aggravare la situazione con altre bugie. Se doveva finire in quel modo, come sarebbe stato meglio se allora gli avessi confessato tutto! «Su, come faccio a capirti se taci? Non è meglio che tu risponda?» e quindi, cercando d’essere paziente, con un tono di voce calmo e gentile: «Se non hai nulla da obiettare significa che riconosci di averlo firmato»; poi, a poco a poco, mi raccontò che cinque o sei giorni prima senza alcun preavviso era arrivato nell’ufficio di Imabashi un certo Watanuki e aveva chiesto di parlargli. L’aveva ricevuto nel salotto, domandandosi di che si trattasse. «Sono venuto a incontrarla perché avrei un favore da chiederle. Credo che anche lei sappia che io e la signorina Tokumitsu Mitsuko non solo abbiamo promesso di sposarci, ma che lei aspetta un figlio, mio. Sua moglie si è intromessa creando notevoli fastidi e, proprio per questo, Mitsuko in questi ultimi tempi mi tratta sempre più freddamente: ormai la situazione è tale che non so quando acconsentirà a sposarmi. A questo proposito desidererei che facesse ragionare sua moglie.» Mio marito gli aveva risposto: «Perché mia moglie dovrebbe creare fastidi? Non conosco la questione nei dettagli ma mia moglie ha detto che aveva simpatia per il vostro amore e che sperava vi sposaste il più presto possibile». Egli allora aveva replicato: «Lei ignora la verità sul rapporto esistente tra sua moglie e Mitsuko» e gli aveva lasciato intendere per allusioni che tra di noi non era cambiato nulla. Mio marito non era propenso a credere ciò che gli raccontava uno sconosciuto; inoltre era strano che una donna incinta continuasse una relazione simile con una persona del suo stesso sesso, aveva quindi pensato che quell’uomo fosse pazzo. Ma Watanuki, dicendo: «È naturale che dubiti, eccole però una prova inconfutabile» gli aveva teso quel documento. Mio marito leggendolo era stato sgradevolmente colpito dal nuovo inganno di sua moglie, ma più ancora dal fatto che lei, a sua insaputa, avesse stretto un patto di sangue con uno sconosciuto. E poi che cosa poteva pensare di un uomo che, anzitutto, non diceva una parola di scusa per aver scambiato un simile patto con la moglie di un altro, ma lo ostentava presuntuosamente davanti al marito, sorridendo ironicamente con l’aria trionfante di un poliziotto che avesse trovato la prova del delitto? Si era sentito sempre più irritato. L’uomo aveva ripreso a parlare: «Riconosce che questa firma è quella di sua moglie, vero?» «In effetti all’apparenza sembra la sua grafia. Ma prima di tutto avrei una domanda da porle: chi è l’uomo che ha firmato?» «Sono io, sono Watanuki» gli spiegò tranquillamente, come se non avesse colto l’ironia della domanda. «E che cosa sono queste macchie impresse sotto la firma?» L’uomo gli aveva allora baldanzosamente spiegato quanto era accaduto, in tutti i particolari; ma mio marito non gli aveva lasciato terminare il discorso, interrompendolo con rabbia: «Qui è dettagliatamente regolamentata la relazione tra lei, la signorina Mitsuko e mia moglie Sonoko, senza però alcuna considerazione per me che sono il marito. Non ci si preoccupa affatto di me. Dato che lei ha firmato si deve naturalmente assumere le sue responsabilità: esigo che giustifichi la sua posizione tanto più che, da quanto ha detto, mi sembra che Sonoko non abbia stipulato volontariamente questo contratto ma che vi sia stata, in parte almeno, costretta con la forza». Quell’uomo però aveva continuato a sorridere con ironia e, quasi gli fosse grato, aveva detto: «Come può constatare da questo documento, io e la signora Sonoko siamo legati tramite Tokumitsu Mitsuko, e questa relazione è, già di per sé, in contrasto con i suoi interessi di marito. Se la signora Sonoko si fosse preoccupata di lei, non avrebbe iniziato un simile rapporto con Mitsuko, né avremmo dovuto scambiare questo giuramento e, mi creda, l’avrei di gran lunga preferito; ma che poteva fare un estraneo come me per impedire alla moglie di un altro di agire come meglio credeva? Dal mio punto di vista, l’avere riconosciuto in questo documento quella relazione rappresenta già una generosissima concessione verso la signora Sonoko». Aveva capovolto la questione e lasciava intendere di non approvare la sua eccessiva fiducia verso la moglie: stringere un patto di sangue non significava per lui avere un legame illecito, e pensava perciò di non aver commesso nulla d’immorale.
XXVI
Mio marito provava disgusto solo al pensiero di toccare quei fogli, ma poiché quell’uomo pareva sprovvisto di buon senso ed era impossibile prevedere cosa ne avrebbe fatto, aveva deciso di impadronirsene a tutti i costi. «Capisco; se è come dice lei non c’è bisogno che me lo chieda: come marito ho il dovere d’intervenire. Tuttavia, essendo la prima volta che c’incontriamo e volendo essere imparziale, devo ascoltare anche ciò che dirà mia moglie. Di conseguenza le chiedo d’imprestarmi questo documento. Se glielo metterò sotto gli occhi certamente confesserà: in altro modo sarebbe impossibile perché è molto ostinata.» Watanuki, senza dirgli se glieli avrebbe prestati oppure no, a un tratto depose i fogli sulle ginocchia con aria grave e domandò: «Ma che provvedimenti prenderebbe se la signora confessasse?» «Non posso dichiarare adesso quali provvedimenti deciderò di prendere: dipenderà dalle circostanze. Non ho intenzione d’inquisire mia moglie perché lei me l’ha chiesto. Cerchi di capire che non agisco nel suo interesse ma per tutelare la mia onorabilità e la felicità della mia famiglia.» A queste parole l’uomo aveva commentato con una smorfia: «Non le sto affatto dicendo di volere che agisca per me: sono venuto semplicemente perché, per caso, ora il suo interesse coincide con il mio. Spero che lo ammetterà». Allora mio marito aveva ribattuto: «Non ho né il tempo né l’intenzione di pensare a cose simili. Scusi la franchezza, ma non desidero essere coinvolto in questo incidente come suo complice. Quanto a mia moglie la giudicherò liberamente secondo la mia volontà». «Ah, sì? Allora è inevitabile» gli aveva detto l’uomo e aveva soggiunto: «A dire il vero io non avrei niente a che fare con lei e neppure il diritto di venirle a chiedere una cosa simile, ma pensavo che non fosse gentile nei suoi riguardi tacere, pur sapendo che prima o poi la signora Sonoko e Mitsuko potrebbero fuggire insieme. Ciò non danneggerebbe solo me» e, scrutandolo attentamente in viso aveva completato il suo discorso: «Se così fosse, anche lei, che lo voglia o no, sarebbe coinvolto nell’incidente». «Ah, comprendo la sua cortesia. È stato gentile, la ringrazio» gli aveva detto mio marito, ma lui: «Non basta ringraziare. Spero che lei non commetterà la stupidaggine di lasciar fuggire la signora Sonoko, ma se per caso accadesse, cosa farebbe? Si rassegnerebbe pensando che è inutile rimanere affezionati a chi è fuggito, oppure l’inseguirebbe ovunque con l’intenzione di riportarla a casa? La prego di rispondermi chiaramente». «Non amo essere costretto o condizionato da altri per quanto riguarda il mio operato, che deciderò al momento opportuno, soprattutto per le questioni coniugali che devono essere risolte dai soli interessati.» «Ma lei, di sicuro, qualsiasi cosa succeda, non divorzierà dalla signora Sonoko, vero?» Quell’uomo aveva parlato con un’impudenza e un’insistenza tali di fatti altrui che mio marito gli aveva risposto che, divorziasse o no, non era cosa che lo riguardasse e non c’era nessun bisogno che se ne occupasse. Ma lui aveva continuato con frasi come: «Ma no, lei non può perché ha certo degli obblighi verso la famiglia della signora Sonoko» e «Per un piccolo atto sconsiderato non può certo permettersi di cacciare la signora Sonoko» – probabilmente conosceva le nostre faccende private perché Mitsuko gliele aveva raccontate – e «Lei è un perfetto gentiluomo, certamente non sarebbe capace d’agire con disonestà». Alla fine mio marito, non riuscendo più a sopportarlo aveva esclamato: «Ma che è venuto a fare? Non sono fatti che la riguardano; perché continua a blaterare? Non ho bisogno che mi dica come si deve comportare un gentiluomo! E poi sappia che non posso assicurarle che i miei interessi coincidano con i suoi». «Ah sì, e allora mi dispiace ma è impossibile che io le presti questo documento» gli aveva detto Watanuki e, presi i fogli dalle ginocchia, li aveva infilati con cura nella busta che aveva riposto all’interno della giacca. Mio marito avrebbe voluto averli, ma a questo punto non c’era più nulla da fare, l’importante era non mostrarsi deboli: «Faccia come crede, non voglio obbligarla a prestarmeli, se li porti via. Però l’avverto: dato che lei si oppone a che li mostri a mia moglie, io non sarò tenuto a credere all’autenticità di quel documento. È naturale che io sia più propenso a fidarmi di mia moglie che di uno sconosciuto come lei». Watanuki, come se parlasse tra sé, aveva bisbigliato: «Comunque i mariti troppo deboli con le mogli sono all’origine di tutti gli errori» e poi con un tono di voce normale, «Ebbene, la signora Sonoko possiede una copia di questo documento, la cerchi e vedrà che salterà fuori. Ma non ce n’è bisogno, si faccia mostrare il braccio e ne avrà la prova» e dopo quelle parole offensive aveva salutato tranquillamente con un: «Mi dispiace molto di averla disturbata» ed era uscito. Mio marito l’aveva accompagnato fino al corridoio, poi era tornato nell’ufficio pensando: «Che tipo sorprendente!» Si stava rilassando quando, dopo cinque minuti, aveva sentito bussare nuovamente: era entrato Watanuki, questa volta con un sorriso smagliante, come se in soli cinque minuti avesse cambiato natura e gli aveva detto: «Mi scusi per poco fa. Senta, le dispiace se la disturbo ancora una volta?» Mio marito l’aveva guardato con un sentimento misto di ribrezzo e di timore in silenzio: l’uomo si era avvicinato al tavolo, si era chinato e, prima ancora che mio marito lo invitasse a sedersi, si era accomodato in poltrona e: «Poco fa mi sono comportato male. Mi trovo in un momento decisivo, in cui potrei perdere la persona a cui tengo più della vita, perciò, accecato dalle mie vicende personali, non ho avuto la serenità necessaria per rispettare i suoi sentimenti. Non le ho rivolto quelle parole con cattive intenzioni, la prego di dimenticare». Allora mio marito gli aveva domandato: «Ed è venuto apposta per dirmelo?» «Sì. Appena uscito ho meditato e ho capito d’avere avuto torto, mi è dispiaciuto e ho pensato di chiederle scusa.» «È gentile da parte sua» aveva commentato mio marito. L’uomo si era limitato a dire: «Ehm...» cambiando nervosamente posizione, e poi con uno strano sorriso forzato: «In realtà prima sono venuto a chiederle quel favore e adesso a scusarmi perché mi trovo in una situazione terribile e non so più che fare. La prego, tenga presente il mio stato d’animo, intollerabile e disperato, che m’impedisce perfino di piangere. Se si degnerà di considerarlo, le presterò quel documento». «E come dovrei considerarlo?» «A essere sincero io temo più di ogni altra cosa che lei divorzi da sua moglie. Perché la signora Sonoko, disperata, ci darebbe ancor più fastidio e la mia speranza di sposare Mitsuko dileguerebbe. Non penso che lei farebbe una cosa simile, se non in un caso estremo, ma un pensiero mi colma di preoccupazione: come reagirebbe se la signora Sonoko fuggisse con Mitsuko? Le sembrerò insistente a ripetere continuamente gli stessi discorsi, ma se lei non la controllerà severamente presto senza dubbio fuggiranno. Se questo accadrà forse lei nel suo animo deciderà di perdonare sua moglie, ma per riguardo alla gente non le sarà possibile. Mi sembra che il pericolo mi sovrasti, non riesco più a dormire» e così dicendo aveva chinato la testa fino a toccare il tavolo con la fronte, implorando: «Mi aiuti, la prego». Poi aveva continuato: «Lei avrà pensato che io sia uno sfacciato, uno che pensa solo a ciò che gli fa comodo, ma la prego, consideri la situazione disperata in cui mi trovo e si assuma la responsabilità di controllare sua moglie in modo che, qualsiasi cosa succeda, non possa fuggire. Naturalmente non potrà tenerla legata e non è detto che non fugga, ma mi prometta che, in questo caso, andrà a cercarla e la farà tornare. Mi dica solo ‘Va bene’ e le affiderò questo documento» e poi: «Non sarebbe necessario sincerarsene, capisco benissimo che lei ama sua moglie e che non divorzierebbe mai, ma vorrei sentirlo dire almeno una volta da lei. Se ha compassione di me, mi dica quello che nel suo cuore ha già deciso». Mio marito ascoltandolo aveva pensato: «Che tipo strano e detestabile! Invece di parlare a sproposito e di voler scavare nell’intimità altrui, non avrebbe potuto dire sinceramente fin dal principio ciò che voleva senza urtare i sentimenti di nessuno? Arrossisce, impallidisce, cambia atteggiamento a vista d’occhio: è naturale che non piaccia alle ragazze. Forse anche Mitsuko non lo può più sopportare. Che natura disgraziata ha ricevuto in sorte quest’uomo!» Aveva davvero incominciato a suscitare in lui una certa compassione. «Allora anche lei mi giuri che in futuro non renderà pubblico questo documento, e che mi concederà di conservarlo per tutto il tempo che mi parrà necessario. Se acconsente anch’io accetterò le sue condizioni.» «Questo giuramento, come qui è scritto, non può essere mostrato senza il consenso di entrambe le parti, tuttavia, potendosi ravvisare un atto di trasgressione nel comportamento della signora Sonoko, se avessi voluto danneggiarvi, avrei potuto avvalermene in qualsiasi modo. Ma che io non sia uomo capace di simili vigliaccherie, può capirlo anche dal fatto che ho cura d’affidare a lei il documento, non le pare? Ma certo, se non si avesse fiducia a che servirebbe scrivere giuramenti? Non sarebbero che pezzi di carta; prego, se le può servire, lo prenda. A me basta che lei prometta di osservare le due clausole a cui prima le ho accennato.» «Come mai non me l’ha detto subito?» aveva pensato mio marito mentre dichiarava: «Allora lo prendo in consegna» e aveva teso la mano; ma l’uomo: «Un momento» aveva precisato, «mi dispiace moltissimo, ma, per eventuali complicazioni, non potrebbe firmarmi una ricevuta?» Aveva accondisceso e scritto: «In fede dichiaro di ricevere il seguente documento». «E adesso una piccola aggiunta, per favore.» «Che dovrei scrivere?» «Il sottoscritto, per tutto il periodo in cui disporrà dell’allegato documento, s’impegna a osservare le seguenti condizioni:
I Il sottoscritto vigilerà affinché la moglie non trascuri i doveri dello stato coniugale.
II Il sottoscritto s’impegna a rinunciare, in qualsiasi caso, a ogni tentativo di divorziare dal coniuge.
III Il sottoscritto ha l’obbligo di mostrare e di restituire il documento in custodia in qualsiasi momento, qualora ne sia sollecitato dall’avente diritto.
IV Qualora il sottoscritto smarrisca il documento custodito, fino a che non avrà fornito le garanzie richieste dall’intestatario del documento, dovrà continuare ad attenersi al I e al II comma.»
Non le aveva dettate agevolmente: dopo che mio marito ebbe scritto la prima, egli aveva meditato e poi soggiunto: «Ce ne sarebbe un’altra» e gliele aveva fatte aggiungere una a una. ‘Che idiozia’ aveva pensato mio marito, ‘parla come un leguleio’ ma l’aveva assecondato, quasi per gioco. Dopo aver finito di scrivere gli aveva detto: «E adesso aggiungiamo una clausola condizionale: ‘qualora il documento in questione si riveli basato su presupposti fittizi, ogni giuramento dovrà considerarsi invalidato’. Non le dispiace se la scrivo, vero?» Watanuki, stupefatto, era rimasto perplesso, ma mio marito, senza più curarsene, aveva aggiunto in fretta quella postilla e gli aveva teso il foglio; allora l’uomo, dopo avere esitato come se improvvisamente gli dispiacesse separarsene, gli aveva di malavoglia lasciato il documento e se n’era andato.
Dopo avermi raccontato senza mai interrompersi ciò che era successo, mi domandò: «Dimmi, è proprio vero che hai firmato questo documento? Se ne possiedi uno simile, mostramelo» e aspettava pazientemente la mia risposta. In silenzio mi alzai, aprii il cassetto chiuso a chiave, presi la copia che avevo nascosto e la deposi sul tavolino senza una parola.
XXVII
«Uhm, dunque se ne hai una copia il documento non è falso, ti pare?» Anche a questa domanda mi limitai ad assentire chinando il capo, in silenzio. Mio marito, non avendo idea di quale fosse il mio stato d’animo, mi fissava intensamente con grande incredulità: «Allora quanto è scritto in questo documento è tutto vero?» «In parte è vero, in parte è falso» gli risposi. Poco prima, mentre l’ascoltavo parlare, avevo pensato che ormai era inutile continuare con i misteri, sarebbe stato meglio che mi fossi decisa a sventare gli intrighi di Watanuki rivelando tutto, che mi convenisse o no, per poi affidarmi al corso degli eventi. Gli svelai anzitutto il segreto di Watanuki, poi che Mitsuko non era incinta e che quando l’aveva incontrato aveva esibito una finta gravidanza ottenuta imbottendo il kimono, che non dimorava in quella casa di Kasayamachi, che io ero stata obbligata con un raggiro a firmare quel documento, e minacciata da Watanuki. Infine gli raccontai di come fossi stata ingannata e di come avessi dovuto ingannarlo. Mio marito mi ascoltò fino alla fine, sospirando di tanto in tanto e borbottando qualche: «Uhm, uhm». «Mi assicuri che quanto mi hai raccontato è tutto vero? È proprio quello il segreto di Watanuki?» mi domandò e quindi: «A essere sincero, corrisponde al rapporto che mi è stato consegnato». Mio marito aveva incontrato Watanuki quattro o cinque giorni prima, ma fino ad allora aveva taciuto fingendo di non sapere nulla, perché, essendogli parso sospetto il suo atteggiamento, aveva avuto l’impressione che quell’uomo fosse spinto da motivi più oscuri e profondi e, prima di scontrarsi con me, aveva incaricato un investigatore di svolgere indagini: a Osaka non erano in molti a esercitare quel mestiere, ed egli si era casualmente rivolto alla stessa persona a cui era ricorsa Mitsuko. «Ho già svolto indagini su costui. So quasi tutto» gli aveva subito risposto. Mio marito, la sera del giorno in cui Watanuki era andato a trovarlo, aveva già scoperto la maggior parte dei suoi segreti. Era stata per lui una sorpresa tale da indurlo a pensare che si trattasse di un errore dovuto a un caso di omonimia: in realtà non era possibile dubitare perché l’investigatore conosceva persino i dettagli della relazione di Watanuki con Mitsuko. Ormai dubitava della gravidanza, della casa di Kasayamachi, della mia relazione con Mitsuko e volle che indagasse di nuovo su di lei. Il rapporto gli era stato consegnato quel mattino ma egli, diffidente, aveva pensato di controllare personalmente la situazione e, senza avvisare, si era presentato alla locanda di Kasayamachi. «Dunque ti eri accorto che era imbottita?» gli domandai in tono sincero. Mio marito non rispose alla domanda, ma disse: «Riconosco che il tuo atteggiamento di oggi è più remissivo e leale del solito. Ma dimmi chiaramente se è perché ti sei pentita delle colpe commesse. Di certo anche tu capisci quanto la tua condotta si sia allontanata dalla retta via. Non ho intenzione di rivangare su cose tanto spiacevoli, ma vorrei sapere se ti sei seriamente decisa a porre riparo ai tuoi errori. Non è affatto necessario mantenere le promesse fatte a Watanuki ma, ho giurato davanti a quell’uomo che non avrei divorziato da te. E poi, a ben riflettere, anch’io ho mancato. Non è che non ci fosse una parte di ragione nelle parole di Watanuki: come marito ho trascurato il mio dovere di sorvegliarti, tanto che, se i familiari di Mitsuko si lamenteranno, sarò io, prima ancora di te, a dovermi profondere in scuse: come coniugi condividiamo la responsabilità di quanto è successo. E se i giornali ne parlassero, come potrei giustificarmi con i tuoi genitori? Se si trattasse di un amore normale, del solito triangolo, potrei ancora parlarne ed essi ci comprenderebbero, ma chiunque leggesse ciò che è scritto in questo documento dovrebbe per forza pensare che tu sei pazza. Forse mi lascio dominare troppo dagli affetti familiari ma, ascoltandoti, mi sembra che tutto abbia avuto origine da lui, che sia l’unico colpevole. A te e a Mitsuko non sarebbe capitato nulla se non aveste avuto alcun rapporto con quell’uomo... Che penserà poi la famiglia Tokumitsu quando verrà informata? Finora non ho mai pensato che la colpa fosse di Mitsuko, non la consideravo una ragazza corrotta e capace di esercitare su di te una cattiva influenza. Ma se fossi un genitore penso che un uomo come Watanuki non mi accontenterei di farlo a pezzi. Avere una figlia tanto bella che non sfigurerebbe in nessun luogo e vedersela circuire da un individuo come quello... Sono ancora più sfortunati di me...» Mio marito, sapendo come mi infiammassi facilmente, stava attento a non contrariarmi: più ancora di appellarsi alla mia ragione, tentava di far leva sui sentimenti; si capiva benissimo che era una specie di espediente ma, sentendolo accennare ai genitori, e soprattutto parlare con tanta compassione di Mitsuko, e provando io i medesimi sentimenti, mi rattristai subito. Mentre lo ascoltavo avevo gli occhi gonfi di pianto. «Non ti pare?» mi domandò osservando le mie guance lucide di lacrime. «Come posso capire se non fai che piangere? Torna a ragionare e dimmi, una volta per tutte, con sincerità, quali sono i tuoi ultimi progetti. Se proprio desideri andartene da casa mi rassegnerò. Ma, se devo essere sincero, per me l’unica persona detestabile è quell’uomo: sia tu che Mitsuko siete state sfortunate e mi fate pena. Se, per ipotesi, dovessimo divorziare e tu continuassi a comportarti in quel modo, rimarrebbe sempre in me questo senso di pena e sarei destinato anch’io a una lunga sofferenza. D’altronde non potrai certo sposare Mitsuko, non ti pare? Anche se sarai sfuggita al mio controllo, la gente, non c’è dubbio, non tollererà per molto tempo una situazione simile, e anche tu, dopo aver angosciato tante persone, proverai vergogna: allora non avrai che due alternative: o ravvederti spontaneamente o essere costretta a interrompere la relazione.»
«Ma io... era destino... implorerò il tuo perdono morendo.» Mio marito trasalì spaventato. Allora scoppiai in singhiozzi con la testa abbandonata sul tavolo... «È naturale che io sia abbandonata da tutti... tanto, anche se vivessi, non oserei più vedere nessuno... ti prego, lasciami morire. So bene che non avrai nostalgia di un essere impuro come me...» «... Ma chi ha parlato d’abbandonarti? Credi forse che continuerei a darti consigli se avessi deciso d’abbandonarti?» «Ti sono grata per queste parole, ma chissà come soffrirebbe Mitsuko se io sola tornassi a essere giudiziosa e non mi curassi più di lei... Non hai detto anche tu che più di tutti bisognava compatire lei?» «Certo, l’ho detto; e proprio per questo sto cercando d’aiutarvi... Ascoltami, tu stai commettendo un grosso errore di valutazione. Con il tuo modo d’interpretare la situazione, per quanto amore tu le offra, non potrai certo salvarla dalle sue difficoltà. Non mi preoccupo solo per te. Considero mio dovere presentarmi ai Tokumitsu, spiegare l’accaduto e consigliare di vigilare attentamente perché quell’uomo non si avvicini mai più alla loro figlia, pretendendo che lei rinunci anche a incontrare te. Non ti sembra che ciò sia quanto di meglio potrei fare per Mitsuko?» «Se farai una cosa simile Mitsuko morirà ancor prima di me...» «Perché? Perché dovrebbe morire?» «Che importa? Morirà! Voleva già morire, e continuava a ripetermelo, ero riuscita a malapena a trattenerla... E allora mi ucciderò anch’io con lei. Moriremo per chiedere perdono alla società.» «Non dire idiozie! È questo il modo di scusarsi, far soffrire me e i suoi genitori?»
XXVIII
Senza ascoltare nulla di quanto mi diceva mio marito, ripetevo: «No, mi ucciderò, lasciami morire» e piangevo come una bambina capricciosa, con la testa abbandonata sul tavolo – in casi come quello il sistema migliore è pronunciare la frase «mi uccido», non c’è altro mezzo... – in realtà avevo un solo pensiero: «Come fare per continuare a incontrarla?» e più di tutto temevo, lo confesso, che mio marito volesse divorziare. In fondo, ormai, sapeva tutto; se solo fossi riuscita a convincerlo ad accettare la mia relazione con Mitsuko mi sarei mostrata molto premurosa con lui, ci sarebbe stata, senza dubbio, armonia anche nel nostro rapporto coniugale e, per quanti ostacoli potesse crearci Watanuki, quel documento era nelle nostre mani: nessuno avrebbe creduto alle parole di un uomo come quello; in qualsiasi luogo Mitsuko si fosse recata, chi avrebbe avuto da ridire, per quanto grande fosse la nostra intimità, di una signorina e di una signora di buona famiglia? Non solo non sarebbe cambiato nulla, ma saremmo andate ancora più d’accordo di prima; quanto sarebbe stato meglio, invece di complicare irragionevolmente la situazione! Mio marito si preoccupava soprattutto che non commettessi un atto inconsulto; sapevo bene che nel suo animo temeva il divorzio ancor più di me, e che era incline a non creare problemi. Avevo ideato, a grandi linee, un mio piano; gli avrei detto: «Se limiterai troppo la mia libertà, finirò davvero per andarmene da casa» e poi gli avrei esposto le mie richieste; ero sicura che alla fine mi avrebbe ascoltata, fosse anche dopo due o tre giorni. Qualsiasi cosa mi dicesse, rimanevo in silenzio, tranquilla, con gli occhi colmi di lacrime e la calma di chi nasconde un fermo proposito. Mio marito si impressionò ancora di più; per tutta la notte, fino all’alba, mi rimase accanto senza chiudere occhio, seguendomi persino alla toilette. Il giorno seguente non andò in ufficio e volle che ci servissero i pasti al piano di sopra. Ci fissavamo con ostilità; ogni tanto, scrutandomi con apprensione, mi diceva: «Se continui così il tuo fisico non resisterà. Dormi un po’ e lascia riposare la mente, e poi prova a riesaminare la questione con calma» e anche: «A ogni modo promettimi che rinuncerai a parlare di morire e di andartene da casa». Mi limitavo a tacere e a mostrarmi riluttante, ma dentro di me pensavo che ormai potevo stare tranquilla. La mattina del giorno successivo mio marito mi annunciò che era costretto ad allontanarsi per un’ora o due per un impegno improrogabile, e mi chiese di promettergli che durante la sua assenza non sarei uscita di casa e non avrei telefonato; altrimenti, disse, avrebbe dovuto portarmi con sé a Osaka. «Ti seguirò perché neppure io mi fido a lasciarti uscire solo» gli risposi. «Di che ti preoccupi?» mi domandò. «Se andrai a raccontare tutto, a mia insaputa, ai Tokumitsu non potrò certo continuare a vivere.» «Ma io, senza il tuo consenso e senza averti avvisata, non sarei mai capace di un simile attacco a sorpresa! Se te lo giuro, prometterai anche tu?» Allora gli dissi: «Lavora pure tranquillo, se solo mi assicuri che non mi farai nessun dispetto io, durante la tua assenza, me ne rimarrò qui ad aspettarti pazientemente. Intanto riposerò un poco». Riuscii a convincerlo ad andarsene alle nove, poi mi sdraiai un poco sul letto, ma ero stranamente eccitata e non riuscivo a addormentarmi; inoltre mio marito, appena arrivato a Osaka, mi telefonò subito e continuò a chiamarmi ogni mezz’ora. Non so perché ma non riuscivo a rilassarmi, camminavo avanti e indietro per la stanza e intanto meditavo; a un tratto mi balenò un’idea: se continueremo tutti i giorni questa gara di resistenza, non è detto che Watanuki non ci giochi qualche brutto scherzo; e che penserà Mitsuko non vedendomi più dopo quel commiato? Certamente ieri mi ha aspettata tutto il giorno. Limitarmi a ripetergli: «Mi uccido, mi uccido» non basta a intimorirlo. E se, per sistemare la questione ancora più in fretta, facendo però attenzione a non provocare troppo scalpore, fuggissimo in un luogo vicino, a Nara o a Kyōto? Potremmo incaricare Ume di precipitarsi da mio marito con aria spaventata per comunicargli: «Sua moglie e la mia signorina sono fuggite. Si affretti a raggiungerle, perché sarebbe un disastro se a casa venissero a saperlo» e di condurlo da noi appena in tempo per non lasciarci morire... Ma per far questo oggi è la nostra unica occasione... Tuttavia non potevo uscire; telefonai a Mitsuko e le dissi: «Ti racconterò tutti i particolari quando sarai qui. Vieni subito a casa mia». Mentre l’aspettavo pregai la mia cameriera di mantenere il segreto dicendole: «Guai se ne parli con il signore». Arrivò dopo circa venti minuti. Finché mio marito continuava a telefonarmi potevo essere certa che si trovava a Osaka e stare ancor più tranquilla; se invece fosse tornato all’improvviso, lei avrebbe potuto fuggire di nascosto dalla porta di servizio; perciò avevo fatto portare in giardino l’ombrellino e gli zōri di Mitsuko e avevo prudentemente deciso d’incontrarla in una sala a pianterreno. Notai, fin dal primo momento in cui la rividi, il suo viso pallido e preoccupato: era bastato un giorno di lontananza perché desse l’impressione di aver terribilmente patito. Mi ascoltò piangendo, poi disse: «E così anche a te, sorella maggiore, sono capitate cose tremende!» e raccontò che da quella sera e per tutto il giorno seguente era stata tormentata da Watanuki. Egli le aveva detto: «Dato che tu e la sorella maggiore complottavate per ingannarmi, io, che ho scoperto i vostri stratagemmi, sono andato nell’ufficio di Imabashi, e ho confidato a Kakiuchi tutto quello che so della sorella maggiore. Perciò egli è venuto qui a Kasayamachi in cerca d’indizi. Hai visto come l’ha condotta via: aspettala pure finché vuoi, non tornerà di sicuro».
XXIX
Detto questo, Watanuki aveva aggiunto: «Immagino che tu sapessi vagamente del giuramento che io e la sorella maggiore c’eravamo scambiato: ormai quel documento è solo un pezzo di carta, perciò l’ho lasciato come prova a Imabashi. Ho qui la ricevuta»; se l’era tolta da una tasca interna della giacca e gliela aveva mostrata: «Ecco, vedi bene quel che c’è scritto: ‘Il sottoscritto vigilerà affinché la moglie non trascuri i doveri inerenti allo stato coniugale’». Le aveva letto una per una le clausole, celando però con la mano quella condizionale, a lui sfavorevole, e dicendole: «Adesso che ho ottenuto questo scritto da Kakiuchi non dovremo più preoccuparci della sorella maggiore. Concedimi anche tu una promessa scritta». Aveva di nuovo tolto dalla tasca interna una specie di promemoria, secondo il quale Mitsuko e Watanuki sarebbero stati per l’eternità un solo spirito e un solo corpo, e per il quale lei avrebbe dovuto seguirlo anche nella morte; nello stesso documento erano anche elencate le punizioni che le sarebbero state inflitte se non avesse mantenuto il giuramento: tutte richieste impudenti, dettate dall’egoismo. «Se pensi che vada bene così, firma e imprimi il tuo sigillo.» Lei si era rifiutata protestando: «Non voglio. Non c’è nessuno che come te ripeta ogni momento: ‘Esigo una promessa scritta, esigo una promessa scritta’ con l’intenzione di usarla poi per ricattare» ma lui aveva insistito: «Ma come?! Non c’è ragione per cui tu debba aver paura, purché il tuo animo non muti» e, detto ciò, aveva tentato di convincerla a prendere la penna. «Non si tratta di un prestito di denaro. Pensi forse di poter legare un’anima con una promessa scritta? Il tuo scopo era un altro, vero?» «E tu, perché non vuoi firmare? Pensi che i tuoi sentimenti cambieranno, ho indovinato?» «Si ha un bel firmare ma il futuro è imprevedibile.» Allora lui: «Se ti ostini a opporti a me presto avrai dei fastidi. Anche senza un tuo giuramento scritto ho qui tutto il materiale necessario a ricattarti» e, tolta dal portafogli una piccola fotografia, gliel’aveva mostrata. Poi aveva aggiunto: «Ubbidiscimi, qualsiasi cosa io t’ingiunga: se non mi ubbidirai, farò in modo che un triste destino ti attenda». «Ma ti accorgi di quanto sei vile? Sono rassegnata: se possiedi tutto quello che dici, perché non smetti di tormentare la gente e non vai a venderlo a un giornale?» gli aveva gridato e, dopo un litigio, si erano lasciati. Perciò Mitsuko, non desiderando mostrarsi troppo debole, quel giorno non era andata a Kasayamachi, perché desiderava vedere che cosa avrebbe fatto lui, e, subito dopo la mia telefonata, era corsa con gioia a incontrarmi. Era improbabile che Watanuki, non ancora sicuro che quella fosse la fine della loro relazione, tentasse un atto insensato, che avrebbe potuto nuocere anche a lui, ma ormai, ancor più di prima, il rimedio migliore era ottenere la complicità di mio marito. Decidemmo dunque di realizzare il piano che io avevo ideato. Mitsuko mi propose: «Se dobbiamo fuggire in un luogo vicino potremmo rifugiarci nella nostra villa di Hamadera». Quell’anno vi abitavano solo i custodi, una coppia di coniugi: se Mitsuko avesse detto di voler nuotare e avesse chiesto a Ume d’accompagnarla, vi si sarebbe potuta trattenere quattro o cinque giorni senza che i familiari s’insospettissero minimamente. Io avrei dovuto uscire di nascosto di casa e incontrarmi con lei e con la cameriera alla stazione di Nanba; all’ora in cui saremmo arrivate tutte e tre ad Hamadera, mio marito si sarebbe accorto della mia assenza e, prima di tutto, avrebbe telefonato a casa di Mitsuko. Saputo dove si trovava l’avrebbe subito chiamata ad Hamadera. Sarebbe stata Ume a rispondere al telefono: «Sua moglie e la mia signorina si sono avvelenate e adesso sono in coma. È un suicidio premeditato perché hanno scritto delle lettere d’addio. Stavo proprio telefonando alla famiglia e a casa sua. Venga immediatamente». Certamente si sarebbe precipitato là.
Ume, con il suo discorso, aveva una parte importante ma più di tutto era necessario che mostrassimo d’essere in coma: per quanto abili nel recitare, avremmo dovuto prendere davvero quel farmaco. Non sapevamo quale fosse la dose giusta perché il dottore dicesse che non c’era pericolo per la nostra vita e che sarebbe bastato tenerci a riposo due o tre giorni. Ma il sonnifero della Bayer a cui Mitsuko era abituata non sembrava molto pericoloso: «Delle pasticche più piccole se ne può prendere anche una scatola intera senza morire. Accontentiamoci di una dose più modesta e andrà tutto bene. E anche se per sbaglio morissimo a me non importerebbe, pur di stare con te, sorella maggiore» e io le feci eco: «Ah, neanche a me importerebbe». E quando mio marito fosse arrivato, ansante, Ume gli avrebbe spiegato: «Come potrete vedere sono ancora in stato confusionale, ma il medico ha assicurato che non c’è assolutamente alcun pericolo: si sono già un po’ riprese, ogni tanto aprono gli occhi. A dire il vero dovrei informare la famiglia, ma la signorina verrebbe rimproverata, e chissà poi come si arrabbierebbe con me la signora. Perciò non ho telefonato. La prego di mantenere il segreto. È impossibile che tornino a casa questa notte: lasci che sua moglie rimanga qui a riposare, come se fosse venuta a soggiornare con noi, finché starà meglio». Saremmo rimaste tranquille per due o tre giorni fingendo di dormire, di delirare, di svegliarci piangendo; e intanto Ume avrebbe collaborato nel modo più opportuno raccomandandogli al momento giusto: «Se vuole salvarle ascolti le loro preghiere». Mio marito sarebbe stato costretto ad acconsentire. «E allora che giorno fissiamo?» «Come faccio a stabilire quando se sono così sorvegliata? Oggi è la nostra unica occasione.» «Anch’io preferisco che ci affrettiamo, perché Watanuki potrebbe tornare a infastidirmi.» Mentre discutevamo venni ripetutamente chiamata al telefono. Non avrei potuto fuggire, perché se ne sarebbe accorto prima che arrivassimo ad Hamadera. Dal momento della fuga a quello del ritrovamento sarebbero dovute trascorrere, come minimo, due o tre ore, altrimenti non avremmo avuto tempo a sufficienza e non ci sarebbe convenuto tentare. All’inizio avevo pensato di dire: «Riposerò fino a sera, non voglio essere svegliata». Avrei proibito a mio marito di telefonare, mi sarei chiusa a chiave in camera da letto, sarei saltata dalla finestra e fuggita; ma la casa era una costruzione di stile occidentale, con un muro bianco senza alcun sostegno su cui poggiare i piedi, e poi la spiaggia antistante era gremita di bagnanti e non potevo esibirmi in quel modo. Cambiai parere e, dopo esserci di nuovo consultate, convenimmo che sarei rimasta tranquilla per due o tre giorni, e poi, approfittando della disattenzione di mio marito e della gente di casa, mi sarei allontanata fingendo di andare a nuotare, e sarei fuggita. Dopo due o tre giorni, quando mio marito avesse incominciato a fidarsi, nel momento in cui si fosse accinto a uscire di casa, lo avrei avvisato: «Se continuo a stare in casa tutto il giorno finirò con il sembrare ammalata. Permettimi almeno di andare al mare. Indosserò solo il costume da bagno e resterò qui davanti, sulla spiaggia, senza allontanarmi». Poi mi sarei davvero incamminata verso il mare con indosso il solo costume. Ume e Mitsuko mi avrebbero atteso sulla spiaggia con un abito completo e mi sarei subito cambiata. L’ideale sarebbe stato un abito occidentale da infilare rapidamente sopra il costume, e un cappello con l’ala abbassata il più possibile a coprire il volto. La spiaggia formicolava di gente: nessuno se ne sarebbe accorto; e poi, in quel periodo, non indossavo quasi mai vesti occidentali, perciò anche se mi avessero notata, non mi avrebbero riconosciuta. Ci saremmo date appuntamento tra le dieci del mattino e mezzogiorno, quando mio marito si sarebbe trovato sicuramente a Osaka. Quanto alla data, se non fosse piovuto, avrei preferito il terzo giorno; altrimenti, Mitsuko e la cameriera sarebbero tornate ogni giorno, finché avessi potuto fuggire. Mentre ci consultavamo ci venne un’altra buona idea: Mitsuko, la sera del giorno precedente la fuga, si sarebbe dovuta recare prima di noi ad Hamadera. Così, se mio marito avesse telefonato a casa sua per chiedere mie notizie, gli avrebbero detto: «Da ieri Mitsuko è in villa» e, quando fosse riuscito a parlare con lei, si sarebbe sentito rispondere: «La sorella maggiore non sa che sono qui. Non è possibile che venga da me». Egli avrebbe pensato che non ero fuggita lontano, che forse ero annegata e, prima di tutto, mi avrebbe cercata in mare. E, al momento opportuno, Ume gli avrebbe telefonato: «Devo avvertirla che poco fa è arrivata sua moglie. Mi sono allontanata un istante e nel frattempo è successa una cosa terribile». Provammo a calcolare le ore necessarie all’attuazione di quel piano: un’ora e mezza, forse due, perché la gente di casa mia se ne accorgesse, un’altra per le telefonate di mio marito a Osaka e in altri luoghi, compreso il tempo che avrebbe impiegato per tornare a Kōroen, una o due ore per perlustrare la spiaggia e cercare nelle vicinanze, un’ora e mezza circa per arrivare ad Hamadera dopo la telefonata di Ume. Insomma, avremmo avuto a disposizione cinque o sei ore, sufficienti a ultimare i preparativi necessari. Mi dispiaceva però per Ume, che il giorno precedente avrebbe dovuto accompagnare Mitsuko ad Hamadera e, il mattino stabilito, avrebbe dovuto arrivare alle dieci a Kōroen ad aspettarmi sulla spiaggia rimanendo per una o due ore esposta alla canicola. E forse mi avrebbe atteso invano e sarebbe dovuta tornare per due o tre giorni di seguito. Ma Mitsuko mi rassicurò: «Lo farà senz’altro, sono situazioni che piacciono a quella ragazza». Fissammo tutti i particolari in modo da non tralasciare nulla, e salutandoci ci scambiammo un «buona fortuna». Era l’una del pomeriggio quando Mitsuko se ne andò, rischiando d’incrociare mio marito che rincasò quasi subito. Pensai che era stata davvero una fortuna non scegliere quel giorno per la fuga.
XXX
Ah... fuggii proprio dopo tre giorni. Le condizioni del tempo e l’ora si prestavano perfettamente al mio piano: poco dopo le dieci indossai il costume da bagno e scesi in spiaggia, vidi Ume, le lanciai uno sguardo d’intesa e, senza una parola, corremmo sulla spiaggia per quasi un chilometro; poi m’infilai dalla testa un abito di voile fantasia, presi una borsetta contenente dieci yen e, nascondendomi il viso con un parasole e camminando lontana da Ume, raggiunsi a passi veloci la strada nazionale. Fortunatamente arrivò un taxi, vi salii e in un baleno mi trovai a Nanba. Prima delle undici e mezzo ero già alla villa; Ume arrivò trenta minuti dopo e commentò: «Ma com’è stata veloce! Meglio di così non poteva andare. Su, su, se non ci sbrighiamo, se perdiamo tempo, arriveranno le telefonate» e ci guidò, anzi quasi ci spinse, verso una casetta con il tetto coperto di paglia, che si chiamava «Capanna del...» e che sorgeva in mezzo al giardino, molto distante dall’edificio principale. Entrata, vidi che erano già stati collocati accanto ai cuscini il bicchiere con l’acqua e il farmaco; tolsi l’abito e indossai uno yukata, poi mi sedetti di fronte a Mitsuko, pensando che forse avrei veduto il mondo per l’ultima volta, che sarei potuta davvero morire. «Se per sbaglio morissi mi seguiresti nell’aldilà, Mitchan?» «E anche tu, sorella maggiore, mi seguirai, vero?» Non facemmo che abbracciarci e piangere. Mi mostrò le lettere d’addio, una indirizzata ai genitori e l’altra a mio marito. «Leggila» mi disse, e anch’io le porsi la mia. Le leggemmo per paragonarle: le avevamo scritte come se fossero davvero i nostri ultimi messaggi; in particolare, in quella che Mitsuko aveva destinato a mio marito, vi era questa frase: «Non so come scusarmi per aver condotto via con me la sua moglie preziosa. Pensi che questo è il destino e si rassegni». Le sue parole avrebbero senza dubbio commosso mio marito e gli avrebbero fatto dimenticare il suo odio; noi stesse, vedendo le lettere, provammo la sensazione che fosse tutto vero, che ormai avremmo dovuto ineluttabilmente morire. Indugiammo così per circa un’ora fino a che, preceduta dal rumore dei suoi zoccoli, arrivò correndo Ume ad annunciare: «Signorina, signorina! C’è finalmente una telefonata da Imabashi. Se è ancora in tempo venga un attimo a parlargli». Mitsuko la seguì precipitosamente e, finito che ebbe di telefonare, mi comunicò: «È andato tutto bene. Su, non possiamo più esitare». Ci stringemmo ancora una volta le mani tremando, disperate di doverci dire addio e inghiottimmo le pasticche. Per circa mezza giornata persi completamente coscienza; mi dissero in seguito che verso le otto di sera avevo incominciato ad aprire gli occhi ogni tanto e a guardarmi intorno con curiosità. Dei due o tre giorni seguenti non mi è rimasto alcun ricordo distinto... Mi sembrava che qualcosa mi schiacciasse la testa, provavo un senso d’oppressione al petto e avevo la nausea, e intanto mi appariva confusamente l’immagine di mio marito seduto accanto al capezzale. Insomma, mi sembrava di trascorrere da un sogno all’altro, in cui io, mio marito, Mitsuko e Ume partivamo tutti e quattro per un viaggio, ci coricavamo sotto la zanzariera nella camera di una locanda, una stanzetta angusta di circa sei tatami. Io e Mitsuko eravamo coricate in mezzo, tra mio marito e Ume... Questa scena mi rimase vagamente impressa nella mente, come parte di un sogno; a giudicare dall’aspetto della camera, particolari reali si erano mescolati a quelli fantastici. In seguito venni a sapere che a notte alta il mio giaciglio era stato trasportato nella stanza accanto e che Mitsuko, aperti gli occhi, aveva continuato a chiamare: «Sorellina maggiore, sorellina maggiore» come se fosse in preda al delirio, e, piangendo a dirotto, a gridare: «Non c’è più mia sorella. Ridatemi mia sorella! Ridatemela!» perciò erano stati costretti a riportarmi di là. Nel mio sogno quel luogo si era trasformato in una camera di locanda. Avevo anche sognato molte altre situazioni strane: stavo dormendo un pomeriggio, sempre in una locanda e, a intervalli, udivo Watanuki e Mitsuko chiacchierare di nascosto e bisbigliare: «Starà davvero dormendo la sorella maggiore?», «Sarebbe un guaio se aprisse gli occhi». Ascoltavo in uno stato di semicoscienza e mi domandavo: «Dove mi trovo?» Doveva essere di certo la solita casa di Kasayamachi, purtroppo erano alle mie spalle e non riuscivo a vederli, ma anche così capivo che si trattava di loro. Ero stata davvero ingannata: avevano dato le pasticche solo a me e, dopo averlo fatto, Mitsuko aveva chiamato Watanuki. «Ah, che rabbia, che rabbia! Voglio balzare in piedi e lacerare loro la pelle del volto, li voglio smascherare!» pensavo, e tentavo di sollevarmi non riuscendo però a muovermi. Desideravo gridare, ma più mi sforzavo e più la lingua mi s’irrigidiva. Non riuscivo neppure ad aprire gli occhi. Ah, ero furente, pensavo a quello che avrei potuto fare, ma intanto cadevo in preda a un nuovo torpore... udivo ancora le loro voci. Che strano! la voce dell’uomo non era più quella di Watanuki, era di mio marito... Che faceva in quel posto? Come mai aveva tanta confidenza con Mitsuko? «Si arrabbierà la sorella maggiore?» «Ma no, questo è anche il più caro desiderio di Sonoko.» «Allora staremo insieme in armonia tutti e tre.» Mi giungevano alle orecchie brani della loro conversazione. A ripensarci ora, non so bene se stessero davvero parlando fra di loro, o se io avessi aggiunto alla realtà la fantasia di un sogno... e poi... ho cercato di cancellare quei ricordi dicendomi che erano solo un’illusione della mia anima sconvolta, senza alcun fondamento; ma c’è un’altra scena che non sono ancora riuscita a dimenticare... In principio credetti che fosse solo uno stupido sogno, ma, dileguato l’effetto del farmaco e tornatami vivida la coscienza, mentre tutti gli altri sogni erano spariti, quella scena mi rimaneva impressa nella mente: non mi era più possibile dubitare. Pur avendo ingerito lo stesso numero di pasticche io ero rimasta in coma più a lungo perché Mitsuko, verso le undici, aveva fatto un’abbondante colazione, un vero pranzo, mentre io ero uscita di casa senza mangiare quasi nulla, e mi ero data a una attività frenetica: sul mio stomaco vuoto il farmaco aveva avuto un effetto molto più energico. Mentre io vagavo ancora nel mondo dei sogni Mitsuko aveva vomitato, liberandosi completamente del sonnifero e aveva quindi ripreso coscienza molto prima di me. Ma in seguito mi disse: «Non mi ero accorta, credevo che la persona accanto a me fossi tu». Se era vero la colpa era di mio marito. Secondo la sua confessione, due giorni dopo, a mezzogiorno, mentre Ume si trovava nell’edificio principale, egli, contemplando il mio volto cercava di tenerne lontane le mosche con l’uchiwa, quando Mitsuko, fingendo d’essere assopita, aveva bisbigliato: «Sorella maggiore» e aveva cercato di venirmi più vicina. Mio marito, temendo che mi svegliassi, si era infilato tra di noi e aveva cercato di separarci sollevando tra le sue braccia Mitsuko, aveva ricomposto il cuscino da lei spostato, ci aveva rimboccato le coperte... aveva agito con spontaneità, credendo che dormisse; quando finalmente se n’era accorto non aveva più potuto fuggire. Infatti mio marito, per quelle cose, non aveva esperienza, era come un bambino, e io penso che fosse lui a dire la verità.
XXXI
Mah, è inutile domandarsi chi dei due abbia preso l’iniziativa. Ormai avevano sbagliato e, benché provassero rimorso verso di me, continuarono a ripetere lo stesso errore; perciò, a pensarci bene, non potrei neppure sostenere che mio marito non avesse nessuna responsabilità, ma potevo provare compassione per lui perché, come ho già detto ripetutamente, tra di noi esisteva una certa incompatibilità e, come io avevo sempre cercato altrove una persona da amare, così anch’egli, inconsciamente, avvertiva la stessa esigenza. Inoltre, diversamente dagli altri uomini, non sapeva placare la sua insoddisfazione divertendosi con le geisha e bevendo il sake, e si trovava perciò in uno stato d’animo ancor più disposto alla seduzione: accaduto l’inevitabile, una cieca passione, come una massa d’acqua che rompe gli argini, aveva travolto nel suo impeto la volontà e la ragione: la frenesia di mio marito era stata dieci, venti volte più intensa di quella di Mitsuko. Per questa ragione potevo capire quasi interamente il suo cambiamento, ma quali potevano essere le intenzioni di Mitsuko? Era veramente assopita, si era trattato di una follia momentanea? O forse aveva avuto uno scopo preciso? Aveva cioè voluto sostituire Watanuki, che era stata costretta ad abbandonare, con mio marito, in modo da ingelosirci e continuare a manovrarci? Per natura ambiva circondarsi del maggior numero di ammiratori: forse la sua condotta le era stata nuovamente ispirata da quella nefasta abitudine. Oppure, come lei stessa aveva detto (una volta sveglia, mi rammaricai che fosse accaduto, ma pensai anche che ci convenisse, per ottenerne la complicità) non era stato che un mezzo per coinvolgerlo. A ogni modo sarebbe difficile cercare di comprendere l’anima di una persona tanto complicata e segreta; è probabile però che ai motivi cui ho già accennato si sia aggiunto l’impulso del momento. Entrambi me lo confessarono solo in un secondo tempo, perciò, all’inizio, non approfondii la questione; rimasi sdraiata con la vaga sensazione d’essere stata tradita. Anche quando Ume si accostò al mio capezzale e mi sussurrò: «Signora, ormai può stare tranquilla. Suo marito ha accondisceso a tutte le richieste» provai, nel medesimo tempo, esultanza e rabbia, e non mi mostrai molto contenta. Entrambi allora incominciarono a capire che li sospettavo. La sera del terzo giorno il medico mi comunicò: «Ormai può alzarsi» e la mattina del quarto lasciammo Hamadera. Al momento di congedarci Mitsuko mi disse: «Sorella maggiore, ormai non c’è più di che preoccuparsi. Verrò domani a trovarti e parleremo con calma» ma pareva in preda ai rimorsi e il suo contegno era insolitamente formale; mio marito doveva essersi accordato con Mitsuko perché, appena mi ebbe riaccompagnata a Kōroen, se ne andò subito dicendo: «Devo sbrigare del lavoro arretrato. Vado in ufficio». Rientrò dopo le otto di sera e si limitò ad annunciarmi: «Ho già cenato» come se temesse che io gli rivolgessi la parola. Sapevo bene che non era uomo da ingannare tranquillamente il prossimo; attendevo il momento della sua confessione fingendo la massima indifferenza, con l’intenzione di metterlo il più possibile in imbarazzo. Giunta l’ora mi coricai subito, prima di lui: sembrava che mio marito stentasse sempre più a ritrovare la sua tranquillità. A mezzanotte non era ancora riuscito a addormentarsi e continuava a cambiare posizione, ogni tanto socchiudeva gli occhi e mi contemplava di nascosto, ascoltando il mio respiro: nonostante l’oscurità, avvertivo la sua agitazione. Dopo un po’ mi disse: «Senti» e, prendendomi una mano, «come stai? Non ti duole più la testa? Se sei ancora sveglia vorrei parlarti» e quindi: «Tu... lo sai, vero?... Ti prego, perdona. Abbi pazienza, pensa che questo era il destino». «Ah, allora non è stato un sogno...» «Perdonami, dimmi che mi perdoni.» Nonostante le sue parole scoppiai a piangere e a singhiozzare; allora, accarezzandomi le spalle per consolarmi, mi disse: «Anch’io vorrei crederlo un sogno... un brutto sogno da dimenticare... ma ormai non posso più dimenticare. Per la prima volta ho capito cos’è l’amore. Ora comprendo perché sei impazzita per lei. Dicevi che ero incapace di passione, e invece non è vero. Se ti perdono mi perdonerai anche tu?» «Mi confidi tutto ciò perché vuoi vendicarti, vero? Complotti con lei per lasciarmi sola...» «Non dire idiozie! Non sono un uomo così abietto! Ora ho finalmente compreso la tua passione, perché dovrei farti soffrire?» Mi raccontò che al ritorno dall’ufficio aveva incontrato Mitsuko per discutere della situazione. Se solo io avessi acconsentito egli si sarebbe addossato ogni problema e avrebbe sistemato Watanuki in modo che non ci desse più preoccupazioni. Mitsuko sarebbe venuta a trovarmi il giorno seguente, ma l’idea d’incontrarmi l’intimoriva e gli aveva raccomandato: «Chiedi tu scusa alla sorella maggiore». Egli non era un uomo di cui si dovesse diffidare: gli si poteva concedere quello che era stato permesso a Watanuki. Era vero: mio marito non era, in effetti, capace di ingannare, ma chi mi preoccupava era Mitsuko. Lui dichiarava: «Stai tranquilla, sono diverso da Watanuki» ma era quel «diverso» che mi angustiava! Infatti Mitsuko aveva conosciuto per la prima volta un vero uomo, poteva essersi innamorata sinceramente, come mai le era capitato fino ad allora: perciò avrebbe potuto abbandonarmi con il magnifico pretesto che «l’amore normale è più nobile di un amore innaturale», e non avrebbe provato che un lieve rimorso... Se Mitsuko avesse addotto questo argomento non avrei potuto dire a mio marito che stava commettendo un errore, anzi, sarebbe stato lui a convincermi con vari argomenti, e alla fine mi avrebbe annunciato: «Lascia che sposi Mitsuko». Non sarebbe forse giunto il giorno in cui mi avrebbe detto: «Sposarci è stato un errore. Tra di noi c’è incompatibilità di carattere. Rimanendo insieme continueremo a essere entrambi infelici. È meglio che ci separiamo.» E allora io, che ero solita sostenere l’esigenza della libertà in amore, non avrei potuto rifiutare; la gente, poi, avrebbe giudicato normale che lui si volesse separare da una come me: forse esageravo preoccupandomi di cose che riguardavano il domani, ma avevo l’impressione che incombesse su di me un destino sinistro e ineluttabile. D’altronde, però, se non avessi ascoltato le richieste di mio marito, non avrei potuto rivedere Mitsuko il giorno dopo. «Non è che non ti creda, ma, non so perché, ho un triste presentimento» riuscii a dirgli tra pianti e singhiozzi. «Che idiozia! Sono tutte fantasie tue. Piuttosto di accettare l’infelicità di uno di noi moriremo tutti e tre insieme» e, così dicendo, anche mio marito non seppe trattenere le lacrime. Piangemmo insieme fino all’alba.
XXXII
Dal giorno seguente mio marito s’impegnò a fondo per ottenere comprensione da parte della famiglia di Mitsuko e per risolvere i rapporti con Watanuki. Anzitutto si recò dai Tokumitsu, chiese di vedere la madre e le disse: «Sono il marito di Sonoko, amica intima di sua figlia, che mi ha affidato un incarico. Debbo comunicarle che sua figlia è insidiata da un losco individuo». Ecco come aveva iniziato il discorso; poi aveva aggiunto: «In realtà quell’uomo ha una certa caratteristica, per cui non ha potuto attentare alla virtù di sua figlia, ma è un essere abietto e sparge la voce, completamente infondata, che la signorina gli darà un figlio e che ha un rapporto lesbico con mia moglie; l’ha persino costretta a firmargli un documento, forse verrà presto anche a casa vostra a minacciarvi: non dovete assolutamente prenderlo in considerazione. Conosco più di chiunque l’innocenza di sua figlia e, come marito, posso assicurarle che i rapporti di mia moglie con lei non sono affatto squallidi come quell’individuo pretenderebbe. Come amico mi sento in dovere di prestare la mia opera, anche se non richiesta. La prego di affidare a me l’intera questione. Mi assumerò io la responsabilità della salvezza di sua figlia. Se quell’uomo verrà a importunarvi vi consiglio di non riceverlo, ma di dirgli: ‘Si rivolga all’ufficio di Imabashi’».
Così, una persona come mio marito, che non aveva mai mentito, riuscì per amore a fare un discorso come questo. Fu tanto abile da incantare la madre, poi si recò da Watanuki e sistemò la faccenda con il denaro, obbligandolo a consegnargli la fotografia del documento e il negativo, che avrebbe venduto ai giornali, la ricevuta rilasciatagli da mio marito e ogni altra possibile prova. Riuscì a risolvere ogni problema in due o tre giorni, ma io e Mitsuko non eravamo capaci di credere, nonostante tutti i suoi sforzi, che egli avesse davvero saputo indurre Watanuki a ritirarsi. Non bastava impossessarsi del negativo, forse aveva preso altre fotografie, chissà che cosa complottava. «Quanto denaro gli hai dato?» gli domandai. «Pretendeva mille yen, ma gliene ho dati solo cinquecento. Ormai avevo imparato tutti i suoi trucchi, deve aver pensato che non sarebbe più riuscito a ricattare nessuno, e così ha deciso di prendere il denaro» raccontava mio marito, completamente fiducioso. In apparenza si era svolto tutto secondo i nostri piani; solo Ume era stata sfortunata, perché l’avevano licenziata rimproverandole: «Ma com’è possibile che tu non abbia avuto il buon senso d’informare i tuoi padroni di quello che succedeva sotto i tuoi occhi?» Perciò ci odiava: sinceramente era stata un’imperdonabile negligenza lasciare che la punissero dopo tutta la pena che si era data per noi, così al momento del congedo, le comprai molti regali e tentai d’ingraziarmela; non avrei immaginato neppure in sogno che in seguito si sarebbe vendicata. Poiché mio marito aveva annunciato ai familiari di Mitsuko che ormai potevano stare tranquilli, il padre si recò personalmente in ufficio a ringraziarlo e la madre venne a trovarmi e mi disse: «Come lei sa Mitsuko è una ragazza egoista, la prego d’occuparsi di lei come se fosse davvero una sua sorella minore. Quando sappiamo che è qui siamo tranquilli. Se vorrà uscire, in qualsiasi luogo voglia andare, glielo permetterò solo se sarà accompagnata da lei». Si fidava completamente di me. Ume fu sostituita da un’altra cameriera che si chiavama Saki e che l’accompagnava tutti i giorni, senza segreti, a casa nostra: Mitsuko a volte si fermava anche a dormire, ma la madre non diceva nulla. Benché ormai le relazioni con l’esterno evolvessero favorevolmente, i nostri rapporti erano improntati a una diffidenza ancor più profonda di quando c’era Watanuki; giorno dopo giorno provavamo le pene dell’inferno. Le cause erano tante: prima avevamo un luogo comodo come la locanda di Kasayamachi, ora non disponevamo di nulla di simile e, se pure così non fosse stato, non avremmo potuto uscire in coppia escludendo uno di noi tre: non avevamo altra risorsa che rimanere in casa, ma anche in questo caso, in fondo, uno di noi due, o io o mio marito, era di troppo e avrebbe dovuto dimostrare il tatto di sapersi ritirare spontaneamente. Mitsuko, ben sapendolo, al momento di uscire telefonava sempre in ufficio a Imabashi e gli diceva: «Sto andando a Kōroen» così egli poteva rincasare subito. Poiché c’eravamo promessi di non nasconderci nulla, non potevo oppormi a che lei lo informasse, ma avrebbe almeno dovuto venire a trovarmi più presto al mattino e invece arrivava abitualmente alle due o alle tre del pomeriggio, così che rimanevamo sole per pochissimo tempo. D’altro lato mio marito, appena arrivava la telefonata di Mitsuko, abbandonava qualsiasi impegno e si precipitava a casa. «Ma non potresti agire diversamente? Non ho neanche un attimo di tempo per parlarle» lo rimproveravo, al che lui: «Avrei voluto arrivare più tardi, ma non avevo niente da fare in ufficio». Oppure: «Se sono lontano la mia immaginazione mi tormenta. Mi basta essere a casa per stare tranquillo. Potrei scendere al piano di sotto, senza disturbarvi» o anche: «Mi dispiacerebbe se tu non capissi che, mentre voi due avete il tempo di stare sole, io non ho affatto questa possibilità». Lo sottoposi, a poco a poco, a un interrogatorio serrato, alla fine del quale mi confessò: «A dire il vero Mitchan si è arrabbiata e mi ha domandato: ‘Perché non sei rincasato nonostante la mia telefonata? I sentimenti della sorella maggiore sono molto più sinceri dei tuoi’». Non riuscivo a comprendere fino a che punto la gelosia di Mitsuko fosse reale e dove cominciasse l’astuzia: c’era in essa una certa follia. Per esempio, quando chiamavo mio marito «caro» le si riempivano subito gli occhi di lacrime e diceva: «Ormai non siete più marito e moglie, non devi chiamarlo ‘caro’. Dillo pure davanti agli estranei, ma in privato ci sono altri termini: esigo che tu lo chiami ‘Kōtarōsan’ oppure ‘Kōchan’», e pretendeva che mio marito non mi chiamasse né «cara» né «Sonoko», bensì «Sonokosan» o anche «sorella maggiore». Non solo, ma una sera andò a prendere sonnifero e vino e ci disse: «Bevete e dormite: me ne andrò quando avrò constatato che vi siete addormentati, e non voglio ascoltare ragioni».
All’inizio pensai che fosse uno scherzo, ma non era affatto così. Infatti disse: «Mi sono fatta preparare un sonnifero particolarmente efficace» e mise davanti a me e mio marito due bustine contenenti una polverina. Poi aggiunse: «Se volete giurarmi fedeltà, datemene una prova bevendo». D’un tratto mi venne un sospetto: «E se fosse un veleno? Se volesse farmi dormire un sonno eterno?» e più ci esortava: «Bevete, bevete» più dubitavo. Fissai il volto di Mitsuko. Anche mio marito sembrava essere stato colto dal medesimo timore, si era versato la polverina bianca sull’anulare e ne paragonava il colore con la mia, spiando attentamente l’espressione del volto di Mitsuko e del mio. Lei s’impazientì: «Perché non bevete? Perché non bevete?» e poi, tremando: «Ah, ho capito, mi avete ingannata» e scoppiò a piangere. Ormai era inevitabile, decisi di bere a costo di rimetterci la vita. Portai alle labbra la bustina, ma mio marito, vedendomi, esclamò: «Sonoko!» e mi afferrò rapidamente la mano. «Aspetta! Ormai non ci resta che tentare la fortuna e vedere a chi tocca. Scambiamoci le bustine.» «Sì, facciamo così, beviamo contemporaneamente. Su, uno, due, tre...» e così bevemmo.
XXXIII
Il piano di Mitsuko si era perfettamente realizzato: quanto ci sospettammo mio marito e io, quanto diventammo gelosi! Ogni sera, al momento di prendere il sonnifero, pensavo: «Non sarò solo io a addormentarmi? Mio marito non starà forse bevendo un farmaco innocuo, non fingerà di dormire?» Avrei voluto fingere di bere il sonnifero, gettandolo via, ma Mitsuko fissava le nostre mani perché non l’ingannassimo; non abbastanza sicura, finì con il proporre: «Ve lo faccio bere io» e, in piedi tra i nostri letti, teneva una bustina in una mano e una nell’altra, perché non ci guardassimo come rivali: ci fece coricare supini, aprire la bocca, ci versò la polverina e poi – ha presente quel recipiente di vetro con il beccuccio lungo con cui si somministrano le bevande agli ammalati? – ne teneva uno per mano e ci versava l’acqua in bocca nello stesso istante, senza fare preferenze. «Bevetene tanta, dormirete prima» e così dicendo riempì i recipienti due o tre volte e ce la versò in bocca. Tentai con tutte le mie forze di rimanere sveglia il più a lungo possibile fingendo di dormire, ma lei ci impose di non cambiare posizione e di rimanere supini per poterci guardare in viso, sedendosi tra i due letti: rimase a sorvegliarci senza distogliere gli occhi, attenta al nostro respiro; provava a farci battere le palpebre, ci poneva la mano sul petto e si assicurava con altri espedienti che fossimo davvero addormentati, prima di lasciarci. Ma che bisogno aveva di fare tutto ciò? Ormai non ci saremmo più comportati come marito e moglie. Anche se ci avesse lasciati in pace, non ci saremmo sognati di toccarci neppure con un dito, non c’era coppia più tranquilla di noi; ma lei diceva: «Se proprio volete dormire nella stessa camera dovete prendere il sonnifero». A poco a poco subentrò l’assuefazione; fu costretta ad aumentare la dose, a cambiare la composizione. Era talmente forte che il suo effetto non si esauriva con il risveglio; non saprei descrivere la sensazione orribile che provavo al mattino al momento di destarmi: avevo la nuca intorpidita, braccia e gambe senza forza, non le sentivo neppure, un senso di nausea, e non riuscivo a sollevarmi sul letto. Un giorno mio marito, che aveva come me un viso pallido e ammalato, mi disse sospirando, con la bocca impastata come se sentisse ancora il sapore del farmaco: «Se continuiamo così potremo anche morire per intossicazione». Mentre osservavo il suo aspetto provai quasi un senso di sollievo pensando che anche lui aveva davvero preso il sonnifero; mi parve assurdo dubitare ancora, e gli domandai: «Come mai ci costringe a bere il sonnifero tutte le sere?» «Già, perché?» fece eco mio marito fissandomi con molta diffidenza. «Dovrebbe pur saperlo che non ha bisogno di farci dormire per stare tranquilla. Avrà un altro scopo.» «E tu lo conosci?» «Io no, e tu?» «Io neppure, tu invece lo sai, vero?» «È inutile continuare all’infinito a dubitare uno dell’altra. Però ho la sensazione di essere l’unica a dormire.» «La stessa che provo anch’io.» «Già, ma non vi siete comportati così ad Hamadera?» «Proprio per questo penso che adesso sia il mio turno d’essere ingannato.» «Non ti è mai capitato di restare sveglio fino al momento in cui Mitsuko se ne andava? Ti prego, sii sincero.» «A me no, e a te?» «Con un sonnifero così potente, anche se volessi, non potrei rimanere sveglia.» «Uhm, allora anche tu prendi davvero il sonnifero, è così?» «Ma naturale, guarda come sono pallida.» «E tu osserva la mia faccia.» Mentre parlavamo, come sempre alle otto, arrivò la sua telefonata: «Su, alzatevi» c’ingiunse; mio marito si levò dal letto stropicciandosi gli occhi insonnoliti. Era costretto a recarsi in ufficio oppure, quando proprio non riusciva a vincere il sonno, riposava sul divano di vimini della veranda, a pianterreno, perché Mitsuko gli aveva raccomandato: «Dopo le otto non devi più rimanere in camera da letto». Io potevo dormire fin che volevo, lui invece era condannato a una stanchezza sempre più intensa; anche se andava in ufficio non riusciva ad applicarsi a nulla; avrebbe voluto rimanere a casa a riposare, ma se si attardava troppo lei gli diceva: «Vuoi rimanere vicino alla sorella maggiore». Così, solitamente, anche se non aveva nessun impegno, usciva dopo avermi confidato: «Vado a fare la siesta». Avevo incominciato a lamentarmi dicendo: «Mitchan a me non raccomanda nulla, mentre a te non fa che ripetere: ‘Fai così, fai cosà’. È la prova che ama più te». Ma mio marito mi rispondeva: «Non sarebbe naturale tormentare così chi si ama; vuole solo stancarmi, paralizzarmi in modo che non sorga più in me alcun desiderio carnale. Ha in mente di divertirsi liberamente con te». E poi – che strano! – al momento di cenare, quando, benché il sonnifero ci avesse rovinato lo stomaco e non avessimo alcun appetito, cercavamo di mangiare quanto più potessimo perché a stomaco vuoto il farmaco avrebbe agito più prontamente e trangugiavamo il riso contando quante tazze ne mangiasse l’altro, lei ci diceva: «Ma così il sonnifero non sarà più efficace, non dovete mangiarne più di due tazze per uno». Finì con il controllare le razioni a cui ci aveva costretto, con occhi lucidi e attenti. A pensare alle condizioni fisiche di allora mi meraviglio d’essere sopravvissuta: lo stomaco si era indebolito e la dose del sonnifero aumentava di giorno in giorno; forse non riuscivo a smaltirne l’effetto, perché a mezzogiorno mi sentivo ancora confusa, non capivo se ero viva o morta; il mio viso diventava sempre più pallido, continuavo a dimagrire e, quel che era peggio, mi si annebbiavano i sensi. Mitsuko invece, mentre ci tormentava e controllava persino il nostro cibo, gustava con entusiasmo tutto quello che le piaceva e splendeva di salute. Lei era per noi come un sole luminoso e per quanto fossimo stanchi mentalmente, ci bastava contemplare il suo volto per sentirci risuscitare, era l’unica gioia che ci manteneva in vita. Mitsuko stessa ci diceva: «Anche se avete il sistema nervoso intorpidito, incontrandomi vi risvegliate, no? Diversamente significherebbe che non mi amate con passione» e aggiungeva che dal grado di eccitamento poteva capire l’intensità della nostra passione, e che perciò non avrebbe smesso di obbligarci a prendere il sonnifero. In altre parole, un sentimento normale non le interessava, non era soddisfatta se non sentiva che il nostro era un amore tale da divampare nonostante l’ottundimento dei desideri carnali indotto dai farmaci. Alla fine ci aveva ridotti come conchiglie vuote: voleva che non avessimo altro desiderio o interesse al mondo se non quello di vivere unicamente della luce di un sole chiamato Mitsuko, pretendeva che non cercassimo altrove la felicità; così, quando mostravamo di non voler prendere il sonnifero, piangeva e si arrabbiava. Ecco, in realtà, anche prima, nella psiche di Mitsuko c’era una tendenza a mettere alla prova le persone per capire quanto l’adorassero, e a gioirne, ma quelle eccessive, isteriche proposte avevano senza dubbio un’origine diversa, dovuta probabilmente all’influenza di Watanuki. Lei, infatti, non tentava forse, proprio perché la prima esperienza l’aveva condizionata in modo tale che un partner normalmente sano non avrebbe saputo soddisfarla, di trasformare qualsiasi preda in un altro Watanuki? Altrimenti che necessità avrebbe avuto di paralizzare con tanta crudeltà i nostri sensi? Nelle antiche storie si racconta spesso di possessione da parte di spiriti defunti o appartenenti a viventi e, a giudicare dall’aspetto di Mitsuko, che diventava di giorno in giorno sempre più violenta, s’intuiva qualcosa di terribile, da fare accapponare la pelle: era come se fosse stata tormentata dallo spirito irato di Watanuki. E non solo Mitsuko; persino mio marito, un uomo che era sempre stato moralmente sano e assolutamente normale, pareva, senza che avessi fatto in tempo ad accorgermene, aver cambiato natura: era diventato sarcastico e ingiustamente sospettoso, come una donna e, mentre corteggiava Mitsuko, il suo viso emaciato aveva uno strano sorriso. In quei momenti osservavo attentamente come si esprimeva, i sentimenti che il suo volto lasciava trasparire, l’atteggiamento ombroso e vile: tutto, dal tono di voce allo sguardo, era la copia perfetta di Watanuki! Pensai che davvero il volto di un uomo muta col mutare del suo animo. A proposito, qual è, Maestro, la sua opinione sulla possessione da parte di uno spirito irato? Pensa che sia una insulsa superstizione? Watanuki era un uomo così ostinato e vendicativo che forse ci aveva maledetti e aveva ordito di nascosto qualche terribile stregoneria, per cui mio marito era stato posseduto dal suo spirito. E infatti quando gli dissi: «Assomigli sempre di più a Watanuki» mi rispose: «È quello che penso anch’io. Mitchan vuole trasformarmi in un secondo Watanuki». Mio marito ormai sembrava rassegnato ad accettare qualsiasi destino e, non solo non rifiutava di diventare un secondo Watanuki, ma pareva anzi provarne gioia e aveva finito con il desiderare la somministrazione del farmaco. D’altro canto Mitsuko, comprendendo che ormai nessuno di noi tre si sarebbe salvato, era pronta a tutto e forse, in parte per disperazione, aveva deciso di uccidere mio marito e me avvelenandoci lentamente con il sonnifero... Non era forse quello il suo recondito proposito?... Non me n’ero accorta solo io, anche mio marito aveva finito col dire: «Sono rassegnato»; forse Mitsuko attendeva in realtà il momento, non lontano, in cui, esili come spettri, saremmo morti; e ciò per liberarsi abilmente di noi, diventare una persona assolutamente onesta e cercare un buon marito. «Dev’essere proprio così» ammise mio marito, «a giudicare da come Mitchan gode di ottima salute, mentre tu e io siamo così pallidi.» Lui e io eravamo convinti che, resi ormai insensibili per la debolezza a ogni gioia e piacere, fosse giunta per noi l’ora di abbandonare il mondo e vivevamo con il pensiero che quel giorno o il seguente saremmo morti. Ah... come sarei stata felice se tutto fosse andato com’era previsto e avessi potuto morire con loro! Invece sopraggiunse una fine inattesa; a causarla fu soprattutto quell’articolo sul giornale. Mi pare fosse proprio il 20 settembre, al mattino mio marito mi disse: «Svegliati». Mi domandai cosa fosse successo. «Guarda che ci hanno lasciato» disse e aprì un giornale alla terza pagina: osservai e vidi riprodotta in grande la fotografia del documento scritto da Watanuki e, sopra un lunghissimo titolo, due cerchi in inchiostro rosso impressi come un marchio. Quell’articolo sarebbe stato seguito da altri: vi si annunciava che il giornalista aveva radunato un abbondante materiale e che gli squallidi peccati della classe agiata sarebbero stati denunciati in più puntate, giorno dopo giorno. «Ecco, come immaginavo Watanuki ci ha ingannati» gli dissi. Ormai ero più rassegnata di quanto avessi supposto, non provavo né rabbia né timore; pensavo soltanto: è finalmente arrivato l’ultimo momento. Anche sulle gote esangui di mio marito era apparso un gelido sorriso: «Bah, che idiota. Che cosa sperava di ottenere, ormai rendendo pubblici questi fatti?» «Non importa, non importa, lasciamoli fare» dissi io, ma in cuor mio speravo che la gente non credesse a un giornaletto poco attendibile come quello e, prima di tutto, telefonai a Mitsuko per informarla. «Ci è arrivato un giornale. L’hanno mandato anche a te, Mitchan?» le domandai. Andò a cercare in fretta e mi rispose: «C’è, c’è, per fortuna nessuno l’ha ancora letto». Poco dopo si precipitò da noi con quel giornale nascosto nello scollo del kimono e disse: «Che fare?»
All’inizio pensammo che, se le informazioni erano state vendute da Watanuki, non sarebbe stato pubblicato nulla di compromettente per lui; le dicerie su Mitsuko e su di me non erano una novità e forse non sarebbe stato un gran problema. Insomma, non era il caso che perdessimo la testa in quel modo. Due o tre giorni dopo, i familiari di Mitsuko ne vennero a conoscenza, ma mio marito riuscì a persuaderli affermando: «È la solita mascalzonata, tuttavia pubblicare la fotografia di un documento con una firma falsa è un grave illecito. Si potrebbe anche denunciarli». Avevamo appena potuto respirare di sollievo quando altri articoli apparvero, che si addentravano sempre di più nella verità e sembrava non dovessero mai finire: non solo rivelavano senza complimenti fatti sfavorevoli a Watanuki, ma descrivevano anche la locanda di Kasayamachi, le gite a Nara, come Mitsuko si era imbottita il kimono per incontrare mio marito... particolari che Watanuki non poteva conoscere; data la loro foga, avrebbero finito con il divulgare tutto, dal nascondiglio di Hamadera al finto suicidio, al coinvolgimento di mio marito. Il fatto più strano era che, benché avessimo conservato con cura le lettere che Mitsuko e io ci eravamo scambiate e non le avessimo mostrate a nessuno, una delle mie, piena di frasi terribilmente violente e imbarazzanti, doveva essere stata rubata per poter essere riprodotta sul giornale. Nessuno, all’infuori di Ume, avrebbe potuto impossessarsene. Ci accorgemmo per la prima volta che doveva essere stata complice di Watanuki. Licenziata dalla famiglia di Mitsuko, era venuta due o tre volte a trovarmi, indugiando a lungo senza necessità, e ciò mi aveva insospettito; «Le ho dato quel che le dovevo, che voglia ancora del denaro?» mi ero chiesta, ma pensando che non ne valesse la pena non me ne ero preoccupata. Si presentò di nuovo due o tre giorni prima che uscissero quegli articoli e fece delle strane osservazioni sarcastiche su Mitsuko, poi se ne andò e non la rividi più. «Che ingrata! E pensare che quand’era a casa mia non la trattavo come una persona di servizio ma come una vera sorella...» «Hai lasciato che diventasse troppo sfacciata.» «Ecco cosa significa essere morsi a una mano dal proprio cane. Ma di che si lamenta, dopo tutto quello che anche tu, sorella maggiore, le hai regalato?» «Allora si è lasciata proprio comprare da Watanuki?» Immagino che al giornale abbiano prima indagato sul materiale portato da Watanuki e che poi, accortisi che la faccenda celava altri segreti, se ne siano appropriati dopo aver scovato Ume. Oppure Watanuki si era accordato con lei e, spinto dalla disperazione, aveva venduto anche la confessione dei suoi segreti più intimi. A ogni modo non dovevamo indugiare: se avessimo ancora esitato Mitsuko non avrebbe più potuto muovere un passo fuori di casa. Decidemmo di rassegnarci a mettere in atto rapidamente ciò che avevamo giurato e ci consultavamo tutti i giorni su come agire. Nel frattempo era stato pubblicato un articolo sui fatti di Hamadera. Di quello che successe in seguito hanno scritto così dettagliatamente tutti i giornali che anche lei, Maestro, ne sarà informato; non c’è ormai bisogno che l’annoi con il racconto minuzioso di ciò che è passato... e poi, forse perché ho parlato troppo, mi sento stranamente emozionata, temo di aver fatto discorsi contraddittori... c’è solo un particolare che i giornali hanno omesso: la prima a proporre il suicidio e a decidere le ultime disposizioni fu Mitsuko. Accadde sicuramente il giorno in cui capì che Ume le aveva rubato la lettera; mi portò tutte quelle che ci eravamo scambiate e che potevano diventare delle testimonianze, dicendo: «Sarebbe pericoloso lasciarle a casa mia». «Le devo bruciare?» le domandai. «No, no. Noi, prima o poi, dovremo ucciderci. Lasciamo questi documenti come testamento. Conservale con cura insieme con le tue» mi raccomandò e poi ci disse di mettere in ordine tutte le nostre cose. Due o tre giorni dopo, all’una del pomeriggio del 28 ottobre, arrivò annunciando: «È finita, a casa c’è un’atmosfera strana, se tornassi non mi lascerebbero più uscire». Disse che ci conveniva morire nella camera di sempre, perché, se fossimo fuggiti, ci avrebbero presi. Appendemmo il dipinto della Kannon alla parete davanti al capezzale e, radunatici tutti e tre a pregare, accendemmo bastoncini d’incenso di fronte all’immagine. «Se questa Kannon mi guiderà per mano sarò felice anche da morta» dissi, e mio marito aggiunse: «Se dopo la nostra morte tutti chiameranno questa dea ‘Mitsuko Kannon’ e la pregheranno, le nostre anime potranno riposare in pace». Ci promettemmo di non litigare più per gelosia nell’altro mondo, ma di restare in buona armonia ai lati della nostra divinità, come i due Wakibotoke26 e, fatta coricare Mitsuko in mezzo a noi e appoggiate le teste una accanto all’altra bevemmo il farmaco... Cosa? Già, è vero, vuol sapere perché io sola sono rimasta in questo mondo. Il giorno seguente, quando mi svegliai, pensai subito di seguirli, poi mi sembrò che forse non ero sopravvissuta per caso, forse mi avevano ingannato fino alla morte; questo sospetto mi veniva anche dall’affidamento di quel pacco di lettere: non avevano forse voluto evitare di essere disturbati da me anche in quel mondo? Ah... Maestro (improvvisamente la vedova Kakiuchi si era abbandonata a un pianto dirotto)... se non avessi avuto quel dubbio... non avrei continuato vergognosamente a vivere fino a oggi... D’altronde è inutile odiare chi è morto; anche adesso, quando penso a Mitsuko, più che rancore o rabbia provo una nostalgia, una nostalgia... Ah, la prego, la prego, mi perdoni se piango...