Thailandia

 

 

 

Si udí un annuncio.

«Stiamo per entrare in una zona di turbolenze. I passeggeri sono pregati di tornare ai loro posti e di mantenere le cinture allacciate».

Satsuki era assorta nei suoi pensieri, quindi ci mise un po' a capire il significato di quell'annuncio, fatto dallo steward thailandese in un giapponese molto zoppicante.

Satsuki grondava di sudore. Faceva un caldo terribile. Le sembrava di essere cotta al vapore. Aveva il corpo in fiamme, e le calze di nylon e il reggiseno le davano un fastidio insopportabile. Avrebbe voluto potersi spogliare e liberare di tutto. Allungò il collo per guardarsi intorno, ma stranamente sembrava essere la sola a soffrire tanto il caldo. Gli altri passeggeri della business class evitavano il getto freddo del condizionatore e dormivano raggomitolati, con una coperta che li copriva fino alle spalle. Forse erano solo le sue abituali vampate. Satsuki si morse le labbra. Per distrarsi, decise di concentrare la mente su qualche altra cosa. Riapri il suo libro alla pagina dove si era fermata, e provò a riprendere la lettura. Ma naturalmente dimenticare quel caldo era impossibile. Non era un caldo normale. E poi ci voleva ancora molto tempo per arrivare a Bangkok. Chiese dell'acqua alla hostess che si occupava di lei. Poi tirò fuori dalla borsa un portapillole e mandò giù la dose di ormoni che aveva dimenticato di prendere. Non potè fare a meno di pensare per l'ennesima volta che il problema della menopausa era un ammonimento sarcastico (se non un dispetto) di Dio agli esseri umani che avevano allungato la durata della vita più del dovuto. Fino a poco più di cento anni prima, l'aspettativa media di vita non arrivava ai cinquantanni, e le donne ancora in vita venti o trent'anni dopo la fine delle mestruazioni erano casi rarissimi. I disagi di vivere con un corpo nel quale le ovaie e la tiroide avessero smesso di produrre secrezioni, o la possibilità di un rapporto tra il calo del livello di estrogeni e malattie come l'Alzheimer non erano problemi tali da creare ansie e preoccupazioni. Per la maggioranza degli individui, quella di procurarsi quotidianamente il cibo era una questione ben più pressante. A pensare questo, in effetti, veniva da chiedersi se il progresso della medicina non avesse fatto altro che portare a galla, dissezionare e complicare i problemi del genere umano.

Passò un po' di tempo e ci fu un altro annuncio. Questa volta in inglese. «Se c'è un medico a bordo, è pregato di contattare un membro dello staff».

Qualcuno sull'aereo doveva essersi sentito male. Satsuki pensò di farsi avanti, ma dopo aver riflettuto un momento ci rinunciò. In passato le era già successo due volte, in simili circostanze, di offrire il suo aiuto, e in entrambi i casi le era capitato di scontrarsi con medici che viaggiavano sullo stesso aereo. Avevano la sicurezza degli ufficiali più anziani che in prima linea assumono il comando, e sembravano possedere l'occhio per riconoscere al primo sguardo il medico specialista senza esperienza pratica come Satsuki. «È tutto a posto. Me ne occuperò io da solo. Lei, dottoressa, si riposi tranquillamente», le avevano detto con sorrisi freddi. Mormorata qualche stupida scusa, lei era tornata al suo posto, e aveva ripreso a guardare il suo stupido film.

Però, rifletté, può anche darsi che su questo aereo non ci sia nessun medico oltre a me. O che la persona che sta male abbia un grave problema del sistema immunitario che riguarda la tiroide. E se così fosse - ma non credo che le probabilità siano molte -, anch'io potrei essere d'aiuto. Tirò un sospiro e premette il bottone per chiamare gli assistenti di volo.

 

Il convegno mondiale sulla tiroide si era tenuto a Bangkok, al Marriott Hotel, ed era durato quattro giorni. In effetti, più che di un convegno, si trattava di una riunione di famiglia. I partecipanti erano specialisti della tiroide: tutti conoscevano tutti, e se per caso non si conosceva qualcuno, c'era sempre chi provvedeva alle presentazioni. Era un piccolo mondo. La giornata era dedicata agli interventi e alle tavole rotonde, e la sera ci si riuniva in gruppi per dei piccoli party. I vecchi amici si ritrovavano e rinnovavano la loro amicizia. Si beveva vino australiano, si parlava di tiroide, si riferivano pettegolezzi sottovoce, si scambiavano informazioni sulle rispettive carriere, si raccontavano barzellette oscene di argomento medico, e si cantava Surfer Girl dei Beach Boys ai bar di karaoke.

Durante il soggiorno a Bangkok, Satsuki aveva frequentato soprattutto alcuni amici dei tempi di Detroit. Era con loro che si sentiva più a suo agio. Per quasi dieci anni, aveva lavorato all'ospedale universitario di Detroit, e in quel periodo aveva portato avanti le sue ricerche sulle funzioni immunitarie della tiroide. Ma da un certo punto in avanti i rapporti tra lei e il suo marito americano, un analista finanziario, avevano cominciato a rovinarsi. La sua dipendenza dall'alcol era aumentata col passare degli anni, e in più c'era un'altra donna, una per giunta che Satsuki conosceva bene. Si separarono, e per un anno ci fu una furiosa battaglia a colpi di avvocati. «La causa di tutto è stata il fatto che tu non volevi bambini», le aveva rinfacciato il marito.

Tre anni prima, finalmente si era raggiunto un accordo per il divorzio, ma pochi mesi più tardi aveva trovato la sua Honda Accord, nel parcheggio dell'ospedale, con i finestrini e i fari distrutti, e la scritta JAP CAR con vernice bianca sul cofano. Satsuki aveva chiamato la polizia. L'agente nero grande e grosso che era arrivato, dopo aver raccolto la sua denuncia, le aveva detto: «Dottoressa, qui siamo a Detroit. La prossima volta cerchi di comprare una Ford Taurus».

Per queste ragioni Satsuki cominciò a sentire un rifiuto per il fatto di continuare a vivere in America e maturò la decisione di tornarsene in Giappone. Trovò subito lavoro in un ospedale universitario di Tòkyo. Un collega indiano che lavorava con lei alla stessa ricerca tentò di trattenerla. «Come puoi farlo, proprio ora che il nostro lavoro di anni e anni comincia a dare dei frutti? Se tutto va bene, potremmo ricevere una candidatura al Nobel, e non sto parlando di fantasie! » Ma Satsuki non tornò sulla sua decisione. Qualcosa dentro di lei si era rotto.

 

Satsuki era rimasta nell'albergo di Bangkok da sola anche dopo la fine del convegno. Come aveva spiegato agli altri, era riuscita a organizzare le cose in modo da prendersi un po' di ferie, cosí aveva pensato di andare in una località balneare, non lontano da lí, per passarvi una settimana di assoluto riposo: leggere qualche libro, nuotare, bere cocktail freddi sul bordo della piscina. Che bello, beata te, avevano commentato gli amici. Ogni tanto una pausa è necessaria. Fa bene anche alla tiroide. Li salutò con strette di mano, abbracci, e si lasciarono promettendo di rivedersi presto.

Il giorno dopo, di buon mattino, la limousine che doveva venire a prenderla arrivò davanti all'albergo come previsto. Era una Mercedes-Benz blu, un modello vecchio, lustra come un gioiello, e senza la minima macchiolina. Era magnifica, più bella di qualsiasi automobile nuova. Sembrava essere venuta fuori direttamente dall'immaginazione visionaria di qualcuno. L'uomo che le avrebbe fatto da guida e autista era un thailandese dal fisico asciutto, che sembrava aver superato la sessantina. Indossava una camicia bianca inamidata a mezze maniche con una cravatta di seta nera e portava occhiali da sole scuri. Era abbronzato e aveva un collo lungo e magro. Arrivato davanti a lei, invece di stringerle la mano, la salutò congiungendo le sue e facendo un piccolo inchino alla giapponese.

- Mi chiami Nimit. Avrò l'onore di accompagnarla durante questa settimana, dottoressa.

 

Satsuki non capì se Nimit fosse il nome o il cognome. In ogni caso l'avrebbe chiamato così. Nimit parlava un inglese elegante e facile da capire. Il suo accento non aveva il tono trasandato dell'inglese americano, né l'inflessione snob di quello britannico. O per meglio dire, non si distingueva in lui nessun accento. Era un inglese che a Satsuki sembrava di avere già sentito da qualche parte, ma non riusciva a ricordare dove.

- Piacere, - disse Satsuki.

Attraversarono il centro di Bangkok, caldo, caotico, rumoroso e dall'aria inquinata. C'era molto traffico, la gente si scambiava insulti e i clacson fendevano l'aria come allarmi antiaerei. E per giunta c'erano degli elefanti che camminavano in strada. E non soltanto uno o due. Che cosa ci fanno degli elefanti in piena città?, chiese Satsuki a Nimit.

- È la gente di campagna che porta gli elefanti in città, - spiegò Nimit. - Sono elefanti che in origine venivano usati per lavori forestali. Ma siccome in questo modo i loro proprietari non riuscivano a guadagnare abbastanza, hanno avuto l'idea di portarli in città per farli esibire davanti ai turisti stranieri e far su cosí un po' di soldi. Per questo motivo il numero di elefanti è cresciuto troppo, con molti disagi per gli abitanti. A volte, se qualcosa li spaventa, si mettono a correre per le strade, e di recente molte auto sono andate distrutte. Naturalmente la polizia cerca di controllarli, ma i poliziotti non possono sottrarre un elefante al suo proprietario. Una volta sequestrati, non ci sarebbero posti dove tenerli in custodia, e il prezzo per nutrirli non è uno scherzo. Ecco perché alla fine li lasciano cosi.

L'auto finalmente superò la città, entrò nell'autostrada e si diresse verso nord. Nimit tirò fuori dal vano portaoggetti una cassetta e la mise nello stereo a basso volume. Era musica jazz. Satsuki riconobbe il brano con una fitta di nostalgia.

- Potrebbe alzare un po' il volume? - chiese.

- Certo, - rispose Nimit. Il pezzo era «I Can't Get Started». Nella stessa esecuzione da lei sentita tante volte in passato.

- Howard McGhee alla tromba, Lester Young al sax tenore, - sussurrò Satsuki, come parlando fra sé. - Nella versione della JATP.

Nimit guardò il volto di lei nello specchietto retrovisore.

- Vedo che è un'esperta, dottoressa. Le piace il jazz?

- Era la passione di mio padre. Me lo faceva sentire spesso quando ero bambina. Mi faceva ascoltare lo stesso brano più volte, e voleva che imparassi il nome degli esecutori. Se li sapevo dire senza sbagliare, mi dava un dolcetto. Perciò me li ricordo bene anche adesso. Solo il vecchio jazz: gli artisti di oggi non li conosco per niente. Lionel Hampton, Bud Powell, Earl Hines, Harry Edison, Buck Clayton...

- Anch'io sento solo il jazz di una volta. Di cosa si occupava suo padre?

- Era medico anche lui. Pediatra. Ma è morto quando io ero appena all'inizio del liceo.

- Mi dispiace, - disse Nimit. - Ascolta ancora il jazz, dottoressa?

Satsuki scosse la testa.

- Ormai è tanto tempo che non lo ascolto quasi più. Mio marito odiava il jazz. L'unico tipo di musica che ascoltava era l'opera. A casa avevamo un bell'impianto stereo, ma se mettevo dei dischi che non fossero di opera faceva una faccia ostentatamente schifata. Mi sono fatta l'idea che gli appassionati di lirica siano le persone più intolleranti del mondo. Mi sono separata da mio marito, ma penso che se anche non dovessi ascoltare mai più un brano d'opera per il resto della vita, non ne sentirei la mancanza.

Nimit fece solo un lieve cenno con la testa, e non disse nulla. Guidava in silenzio, lo sguardo concentrato sulla strada. Era bello il modo in cui teneva il volante, riportando ogni volta le mani nella stessa posizione, alla stessa inclinazione. Cominciò un altro brano, per lei altrettanto nostalgico, «I'll Remember Aprii» di Erroll Garner. Concert by the Sea di Garner era il disco preferito del padre. Satsuki chiuse gli occhi e si immerse in ricordi lontanissimi. Tutto intorno a lei era sempre andato bene fino a quando suo padre non si era ammalato di cancro ed era morto. Niente di brutto era mai accaduto prima di allora. Poi bruscamente sulla scena calò il buio. Da un momento all'altro suo padre non c'era più, e da allora tutto prese ad andare per il verso sbagliato. Come se di colpo fosse cambiato anche il copione. Non passò neanche un mese che la madre buttò la collezione di dischi jazz del padre e il suo grande impianto stereo.

- Di che parte del Giappone è, dottoressa?

- Di Kyoto, - rispose Satsuki. - Ma ci ho vissuto solo fino a diciott'anni, e da allora non ci sono praticamente tornata mai più.

- Mi sbaglio, o Kyoto è molto vicina a Kòbe?

- Non è lontana, ma non si può dire che sia molto vicina. Grazie a questo, a Kyoto il terremoto non ha causato grossi danni.

Nimit si spostò nella corsia di sorpasso e superò uno dopo l'altro, con facilità, alcuni grossi camion carichi di animali domestici.

- Questa è la cosa più importante. Nel terremoto del mese scorso a Kòbe sono morte tante persone. Ho visto i telegiornali. È molto triste. Tra i suoi conoscenti, non c'era nessuno che abitasse lí?

- No. A Kòbe credo proprio di non conoscere nessuno, - rispose Satsuki. Ma non era vero. A Kòbe viveva lui.

Nimit rimase per un po' in silenzio. Poi, voltando leggermente la testa verso di lei, disse: - Però è una cosa strana, un terremoto, non trova? Noi siamo convinti che la terra che abbiamo sotto i piedi sia qualcosa di duro e di immobile. C'è pure l'espressione «avere i piedi per terra», no? E poi un giorno tutt'a un tratto uno si accorge che non è affatto così. La terra e le rocce che dovrebbero es- sere solide si squagliano come fossero liquide. E quello che ho sentito al telegiornale. Hanno parlato di liquefazione, se non sbaglio. Per fortuna in Thailandia non ci sono grossi terremoti.

Satsuki appoggiò la schiena al sedile e chiuse gli occhi. Poi si concentrò in silenzio sull'esecuzione di Erroll Garner. Magari lui fosse stato travolto da qualcosa di pesante e duro, e ne fosse rimasto schiacciato, pensò. Oppure fosse stato risucchiato dalla terra liquefatta. È proprio quello che gli ho augurato per tutto questo tempo.

 

L'auto giunse a destinazione alle tre del pomeriggio. Verso mezzogiorno Nimit si era fermato in un'area di servizio lungo l'autostrada per una breve pausa. Nel bar Satsuki aveva preso un caffè mal filtrato e mangiato un mezzo donut. Il posto che aveva scelto per la sua settimana di vacanza era un lussuoso complesso alberghiero in montagna. Gli edifici si affacciavano su una vallata attraversata da un torrente. Il pendio era disseminato di bellissimi fiori dai colori primari, e gli uccelli volavano da un albero all'altro emettendo degli striduli gridi. Come stanza le era stato assegnato un cottage indipendente. Il bagno era spazioso e pieno di luce, il letto aveva un elegante baldacchino, e il servizio in camera funzionava ventiquattr'ore su ventiquattro. Nella hall vi era una biblioteca da cui si potevano prendere in prestito libri, CD e video. Tutto era immacolato, curato nei minimi dettagli, e realizzato con grande dispendio di mezzi.

- Oggi abbiamo fatto un lungo viaggio e penso si sentirà stanca. Si riposi tranquillamente, dottoressa. Verrò a prenderla qui domattina alle dieci e l'accompagnerò alla piscina. Le uniche cose che dovrà portare saranno l'asciugamano e il costume, - disse Nimit.

- Piscina? Ma nell'albergo ce n'è una molto grande, no? Almeno cosí mi era stato detto.

- La piscina dell'albergo è affollata. Siccome il signor Rappaport mi ha detto che lei pratica il nuoto seriamente, ho cercato una piscina in questa zona dove potrà fare tutte le vasche che vuole. Si paga qualcosa per entrare, ma non è una grossa cifra. Sono sicuro che la troverà di suo gradimento.

John Rappaport era l'amico americano che aveva organizzato per lei questa vacanza in Thailandia. Girava per l'Asia sudorientale come corrispondente per un giornale sin dai tempi in cui imperversavano i khmer rossi, e anche in Thailandia aveva molte conoscenze. Era stato lui a raccomandarle Nimit come guida e autista. «Non dovrai preoccuparti di nulla. Non dire niente e lascia fare a lui, e vedrai che andrà tutto benissimo. È un tipo speciale», le aveva detto Rappaport col suo tono scherzoso.

- D'accordo, mi affido a lei, - rispose Satsuki a Nimit.

- Allora a domani, alle dieci.

Satsuki disfece i bagagli, appese i vestiti e le gonne agli appendiabiti, spianando con la mano le pieghe, quindi si infilò il costume e andò alla piscina dell'albergo. Come aveva detto Nimit, non era una piscina in cui si potesse nuotare sul serio. Era a forma di zucca, aveva al centro una bella cascata e nella zona dov'era meno profonda c'erano dei bambini che si tiravano la palla. Satsuki rinunciò a nuotare, si stese sotto un ombrellone, ordinò un Tio Pepe allungato con una Perrier e riprese la lettura dell'ultimo romanzo di John Le Carré. Quando fu stanca di leggere, si coprì il viso con il cappello e dormi un po'. Sognò un coniglio. Fu un sogno breve. Il coniglio era chiuso in una gabbia e tremava. Era piena notte e sembrava avvertire che stava per arrivare qualcosa. All'inizio osservava il coniglio dall'esterno, ma a un certo punto si accorse di essere diventata lei il coniglio. Riusciva a distinguere vagamente nel buio quel qualcosa. Anche dopo essersi svegliata, il sogno le aveva lasciato un retrogusto sgradevole.

Sapeva che lui viveva a Kòbe. Conosceva persino indirizzo e numero di telefono. Non aveva mai perso le sue tracce. Subito dopo il terremoto, aveva provato a telefonare a casa sua, ma naturalmente le linee erano interrotte. Magari la sua casa fosse stata rasa al suolo, si era detta. Magari la sua famiglia vagasse per le strade ridotta alla miseria. Se penso a quello che hai fatto alla mia vita, se penso a quello che hai fatto ai miei figli che avrebbero dovuto nascere, non è il minimo che ti meriteresti?

 

La piscina che Nimit aveva trovato era a circa mezz'ora di macchina dall'albergo. Bisognava oltrepassare una montagna, dove quasi sulla cima c'era una foresta popolata da numerose scimmie. Le scimmie, dal pelo grigio, sedute in fila lungo la strada, guardavano attente le macchine che passavano, come indovini che scrutano il futuro.

La piscina si trovava all'interno di un terreno vasto e un po' misterioso, circondato da un alto recinto e chiuso da un imponente cancello di ferro. Quando Nimit abbassò il finestrino dal lato del guidatore e salutò, subito il custode senza una parola aprí il cancello. Procedendo sul viale ricoperto di ghiaia, c'era un vecchio edificio di pietra a due piani, e alle sue spalle la piscina, lunga e stretta. Anche se un po' rovinata, era una vera piscina a tre corsie, lunga venticinque metri. Era circondata da prato, piante e alberi, l'acqua era bellissima e lei sembrava essere l'unica cliente. Ai bordi della piscina erano allineate diverse vecchie sedie a sdraio di legno. Era un luogo silenziosissimo, e non vi era alcun segno di presenza umana.

- Come le sembra? - chiese Nimit.

- Splendido, - disse Satsuki. - È un club sportivo?

- Una cosa del genere. Ma in seguito ad alcune circostanze, attualmente non è quasi per niente utilizzato. Perciò nuoti pure quanto le pare. Ho già sistemato tutto.

- Grazie. Lei è una persona veramente in gamba.

- La ringrazio, - disse con un piccolo inchino, senza mutare espressione, con quei suoi modi d'altri tempi.

- Quel piccolo bungalow funge da spogliatoio, e ci sono anche il bagno e la doccia. Lo usi pure liberamente. Io aspetterò vicino alla macchina, quindi se ha bisogno di qualcosa le basterà chiamarmi.

A Satsuki piaceva nuotare sin da ragazza, e quando aveva tempo andava sempre in piscina. Aveva imparato lo stile corretto da un istruttore. Nuotando, riusciva a cacciare dalla mente tutti i suoi ricordi più spiacevoli. E quando nuotava a lungo, si sentiva libera, come un uccello che vola nel cielo. Grazie al fatto che aveva sempre continuato a mantenersi in allenamento, non si era mai ammalata, non aveva mai avuto problemi fisici degni di nota, né aveva messo su chili. Naturalmente, non aveva le forme snelle e definite di quando era giovane. Soprattutto i fianchi erano un po' più rotondi di quanto avrebbe desiderato. Ma era perfettamente nei limiti. E d'altra parte non doveva fare la modella negli spot pubblicitari. Dimostrava cinque anni meno della sua età, e questo per lei era già un buon risultato.

Quando si fece ora di pranzo, Nimit le serví tè freddo e sandwich su un vassoio argentato. I sandwich, piccoli, triangolari, tagliati con cura, erano ripieni di verdure e formaggio.

- Li ha fatti lei? - gli chiese sorpresa.

A quella domanda, ci fu un impercettibile mutamento nell'espressione di Nimit.

- No, dottoressa, io non mi occupo di cucina. Li ho fatti preparare.

Da chi?, avrebbe voluto chiedere Satsuki, ma non lo fece. Ricordò le parole di Rappaport: Non dire niente e lascia fare a lui, e vedrai che andrà tutto benissimo. I sandwich erano ottimi. Dopo mangiato fece un riposino, e con il walkman che si era portata dietro ascoltò una cassetta del Benny Goodman Sextet, presa in prestito da Nimit, e si mise a leggere il suo libro. Nel pomeriggio, nuotò ancora un po' e verso le tre ritornò in albergo.

Tutto questo si ripetè in modo identico per cinque giorni. Nuotava tutto il tempo che voleva, mangiava i sandwich di verdure e formaggio, ascoltava la musica e leggeva. A parte la piscina, non andò in nessun altro posto. Quello che Satsuki desiderava era riposo assoluto, e soprattutto non pensare a nulla.

A nuotare lì, era sempre lei sola. Forse perché la piscina, incastonata in quella valle tra le montagne, era alimentata da fonti sotterranee, l'acqua era gelida, così gelida che quando Satsuki cominciava a nuotare le mancava il respiro. Ma dopo aver fatto alcune vasche, il corpo si riscaldava e raggiungeva la giusta temperatura. Quando si stancava di fare il crawl, si toglieva gli occhiali di protezione e nuotava sul dorso. Nel cielo fluttuavano nuvole bianche, attraversate da uccelli e libellule. Magari potessi continuare questa vita in eterno, pensava Satsuki.

- Dove ha imparato l'inglese? - chiese a Nimit in macchina sulla via del ritorno.

- Ho lavorato trentatre anni a Bangkok come autista per un norvegese che commerciava in pietre preziose, e con lui parlavo sempre in inglese.

Ecco cosa mi ricordava, pensò Satsuki. Quando aveva lavorato all'ospedale di Baltimora, c'era un collega, un medico danese, che parlava esattamente lo stesso tipo di inglese. Corretto dal punto di vista grammaticale, quasi senza accento e privo di espressioni gergali. Facile da capire, pulito e magari un po' impersonale. Certo, era curioso ritrovare quell'inglese di scuola scandinava proprio in Thailandia!

- Il mio capo amava il jazz, e quando eravamo in macchina, ascoltava sempre delle cassette. Cosí anch'io, facendogli da autista, ho imparato a conoscere il jazz in modo naturale. Quando tre anni fa è morto mi ha lasciato l'auto e tutte le sue cassette. Anche questa che stiamo sentendo adesso, è una delle sue.

- Quindi è dopo la morte del suo principale che lei ha cominciato a lavorare per conto suo come guida e autista per i turisti stranieri?

- Sí, è proprio cosí, - disse Nimit. - In Thailandia di guide e autisti ce ne sono tanti, ma credo di essere il solo ad avere una Mercedes di sua proprietà.

- Il suo principale doveva avere grande fiducia in lei.

Nimit restò per un lungo momento in silenzio. Sembrava indeciso su come rispondere. Poi disse:

- Dottoressa, io sono un uomo solo. Non mi sono mai sposato. Per trentatre anni ho trascorso tutte le mie giornate con il mio capo, diventando, se cosí si può dire, la sua ombra. L'ho sempre accompagnato ovunque andasse e lo aiutavo un po' in tutto. Sono diventato una parte di lui. Facendo questa vita per tanto tempo, a poco a poco si finisce col non capire più che cosa veramente si desidera.

Nimit aumentò leggermente il volume dello stereo: era l'assolo di un sax tenore dal timbro profondo.

- Per esempio, il discorso vale anche per questa musica. «Nimit, ascolta bene questo brano. Segui attentamente l'improvvisazione di Coleman Hawkins, nota per nota. Tendi bene l'orecchio per capire che cosa cerca di dirci con quelle note. Racconta la storia di uno spirito libero che tenta in tutti i modi di fuggire dal suo petto. Uno spirito come quello è dentro di me e dentro di te. Senti? Lo riconosci? Il suo sospiro caldo, il tremito del suo cuore?», diceva. Io ascoltavo quella musica infinite volte e tendendo l'orecchio riuscivo a riconoscere i suoni del suo spirito. Ma non so dire con certezza se io li percepissi davvero con le mie orecchie. Stando tanto a lungo con una persona, eseguendo i suoi ordini, in un certo senso si diventa un corpo e un'anima. Capisce cosa intendo dire?

- Credo di sì, - rispose Satsuki.

Mentre ascoltava Nimit parlare, a un tratto aveva pensato che tra lui e il suo principale potesse esserci stata una relazione omosessuale. Naturalmente era solo una congettura, senza alcun vero fondamento. Eppure aveva la sensazione che questo avrebbe chiarito quello che lui cercava di dire.

- Ma io non ho nessun rimpianto. Se potessi ricominciare la mia vita da capo, so che rifarei tutto nello stesso modo. Nello stesso identico modo. E lei, dottoressa?

- Non lo so, Nimit, - rispose Satsuki. - Non ne ho la più pallida idea.

Nimit non disse altro. Attraversarono la montagna con le scimmie dal manto color cenere, e ritornarono all'hotel.

L'ultimo giorno prima del suo ritorno in Giappone, dopo la piscina, sulla via del ritorno Nimit portò Satsuki in un villaggio vicino.

- Dottoressa, avrei un favore da chiederle, - disse, guardandola attraverso lo specchietto retrovisore. - Un favore personale.

- Di che si tratta? - chiese Satsuki.

- Potrebbe darmi un'ora del suo tempo? C'è un posto che vorrei mostrarle.

Satsuki disse che non aveva nulla in contrario. Non chiese nemmeno quale fosse il posto dove voleva portarla. Aveva già deciso da tempo di affidarsi a lui in tutto e per tutto.

La donna viveva in una piccola casa all'estremità del villaggio. Il villaggio era povero, e cosí la casa. Un susseguirsi di stretti campi di riso a terrazze lungo un pendio, animali magri e sporchi. La strada era piena di pozzanghere, e l'aria impregnata dell'odore di escrementi di mucca. Un cane vagava lí intorno, il sesso penzolante, e una moto cinquanta di cilindrata correva con un frastuono assordante sollevando fango al suo passaggio. Dei bambini seminudi, fermi al lato della strada, seguirono con lo sguardo la macchina con a bordo Nimit e lei. Satsuki era stupita che a poca distanza da quel lussuoso hotel ci fosse un villaggio cosí povero.

La donna era molto anziana. Forse ormai vicina agli ottanta. La pelle era scura come cuoio logoro, e rughe profonde come dirupi le ricoprivano il corpo. Aveva la schiena curva e portava un vestito dalla fantasia floreale, troppo grande per lei. Appena Nimit la vide, la salutò giungendo le mani, e lei gli rispose con lo stesso gesto.

Satsuki e la vecchia si sedettero al tavolo una di fronte all'altra, e Nimit di lato. Dapprima lui e la vecchia parlarono brevemente tra loro di qualcosa. La donna aveva una voce piuttosto squillante per la sua età, e sembrava avere ancora tutti i denti. Poi a un tratto la vecchia guardò dritto di fronte a sé, e fissò gli occhi su quelli di Satsuki. Aveva uno sguardo fermo e penetrante, senza uno sbattere di ciglia. A sentirsi fissata così, Satsuki fu presa da un senso di ansia, come un piccolo animale imprigionato in una stanza stretta senza alcuna possibilità di fuga. Poi si accorse di essere tutta bagnata di sudore. Si sentiva il viso in fiamme, e il respiro affannoso. Avrebbe voluto tirar fuori dalla borsa le sue pillole e ingoiarne una. Ma non c'era acqua. L'acqua minerale era rimasta in macchina.

- Metta entrambe le mani sul tavolo, - disse Nimit. Satsuki obbedì. La vecchia allungò le mani e prese la destra di Satsuki. Aveva mani piccole ma vigorose. La vecchia le tenne stretta la mano fissandola negli occhi in silenzio per una decina di minuti (ma avrebbero anche potuto essere solo due o tre). Satsuki sosteneva senza energia quello sguardo, e ogni tanto si asciugava il sudore dalla fronte con il fazzoletto che teneva nella sinistra. Poi finalmente la vecchia tirò un profondo sospiro e le lasciò la mano. Quindi, rivolta a Nimit, parlò per un po' con lui in thailandese. Nimit tradusse in inglese.

- Ha detto che dentro il suo corpo c'è una pietra. È una pietra bianca e dura. Della grandezza del pugno di un bambino. Da dove sia venuta, lei non sa dirlo.

- Una pietra? - chiese Satsuki.

- Sulla pietra c'è scritto qualcosa, ma siccome è in giapponese, non è in grado di leggerlo. Sono dei caratteri piccoli, scritti con inchiostro nero. Siccome sono cose vecchie, è probabile che lei abbia vissuto per molti anni con loro. Lei deve buttare quella pietra da qualche parte. Se non lo fa, anche dopo che lei sarà morta e cremata, solo quella pietra resterà ancora.

La vecchia, rivolgendosi questa volta a Satsuki, parlò a lungo, lentamente, in thailandese. Satsuki capí, dal tono della sua voce, che doveva trattarsi di un discorso importante. Nimit tradusse in inglese.

- Presto farà un sogno, un sogno in cui apparirà un grande serpente. Il serpente verrà fuori piano piano da un buco nel muro. Un serpente verde, tutto ricoperto di squame. Quando sarà venuto fuori di almeno un metro, lei dovrà afferrarlo per il collo. Tenerlo stretto e non lasciarlo andare. Avrà un aspetto spaventoso, ma è innocuo. Perciò non dovrà aver paura. Lo tenga ben stretto con tutt'e due le mani. Lo stringa più forte che può, pensando che è la sua vita. Dovrà tenerlo stretto fino a quando non si sveglierà. Quel serpente ingoierà la sua pietra. Ha capito, vero?

- Ma che cosa...

- Dica: Ho capito, - disse Nimit con tono grave.

- Ho capito, - disse Satsuki.

La vecchia annuí in silenzio. Poi, di nuovo rivolta a Satsuki, aggiunse qualcosa.

- Quella persona non è morta, - tradusse Nimit. - Non ha subíto nessuna ferita. Forse non è quello che lei si augurava, ma per lei questa è una grande fortuna. Dev'essere grata di avere avuto questa fortuna.

La vecchia disse brevemente qualcosa a Nimit.

- È finito, - disse Nimit. - Possiamo tornare in albergo.

 

- È una specie di divinazione? - chiese Satsuki a Nimit quando furono in auto.

- Non è divinazione, dottoressa. Come lei cura il corpo, così quella donna cura la mente. Soprattutto, prevede i sogni.

- Ora che ci penso, avrei dovuto lasciare qualcosa come ringraziamento. È stato talmente improvviso, mi ha colto così di sorpresa che me ne sono completamente dimenticata.

Nimit manovrò il volante con i suoi movimenti esatti e precisi, e l'automobile fece una curva difficile lungo la strada di montagna.

- Ho pagato io. Non è una cifra per la quale debba preoccuparsi. Lo consideri un mio personale segno di simpatia nei suoi confronti.

- Lei porta lì tutti i suoi clienti?

- No, dottoressa, lei è l'unica persona che ci ho portato.

- Potrei sapere come mai?

- Lei è una bella persona, dottoressa. Forte, e dalle idee chiare. Ma sembra che si trascini sempre un peso nel cuore. È tempo che lei cominci a prepararsi per affrontare la morte con dolcezza. Se lei continuerà a investire troppe energie solo nel vivere, non riuscirà a morire bene. Un poco alla volta è necessario fare questo cambiamento. In un certo senso vivere e morire si equivalgono, dottoressa.

- Senta, Nimit, - disse Satsuki, togliendosi gli occhiali da sole e sporgendosi in avanti verso di lui.

- Cosa, dottoressa?

- Lei è riuscito a prepararsi per morire bene?

- Io sono per metà già morto, dottoressa, - rispose Nimit, come se dicesse qualcosa di ovvio.

 

Quella sera, nel suo grande letto immacolato, Satsuki pianse. Riconobbe il fatto che si stava dolcemente avviando verso la morte. Riconobbe di avere una pietra bianca e dura dentro il suo corpo. Riconobbe che da qualche parte nel buio si nascondeva un serpente verde tutto ricoperto di squame. Pensò al bambino che non era mai nato. Lei se n'era liberata e l'aveva gettato in un pozzo senza fine. E aveva continuato a odiare un uomo per trent'anni. Gli aveva augurato di morire fra atroci dolori. Per quello nel fondo del cuore aveva sperato persino in un terremoto. In un certo senso, si disse, sono stata io a provocare quel terremoto. Lui ha trasformato il mio cuore e il mio corpo in una pietra. Le scimmie color cenere in quella montagna lontana l'avevano guardata in silenzio. In un certo senso vivere e morire si equivalgono, dottoressa.

 

All'aeroporto, dopo aver fatto il check-in, Satsuki diede a Nimit una busta contenente cento dollari. - La ringrazio veramente di tutto. Grazie a lei ho trascorso una bellissima vacanza. Questo è un piccolo regalino da parte mia, - disse.

- La ringrazio molto per il pensiero, - rispose Nimit prendendo la busta.

- Senta, Nimit, ha un po' di tempo per prendere un caffè insieme?

- Certo, con molto piacere.

Entrarono in un bar e ordinarono due caffè. Satsuki lo bevve nero, Nimit mise nel suo un'abbondante quantità di latte. Satsuki fece ruotare a lungo la tazza nel piattino.

- A dire il vero, io ho un segreto, un segreto che finora non ho mai rivelato a nessuno, - cominciò. - Non sono mai riuscita a tirarlo fuori. Ho vissuto portandolo sempre con me. Ma oggi vorrei che lei lo ascoltasse. Tanto probabilmente non ci vedremo mai più. Dopo la morte improvvisa di mio padre, mia madre, senza neanche chiedere la mia opinione...

Nimit sollevò le palme delle mani verso di lei. Poi scosse con forza la testa.

- La prego, dottoressa. Non deve aggiungere altro. Come ha detto quella donna, deve aspettare il sogno. Capisco quello che prova, ma se lo mette in parole, tutto si trasformerà in una bugia.

Satsuki si ricacciò in gola le parole, e chiuse gli occhi in silenzio. Tirò un profondo sospiro, poi espirò.

- Deve aspettare il sogno, dottoressa, - disse dolcemente Nimit, come se cercasse di farla ragionare. - In questo momento è necessario resistere. Butti via le parole. Le parole diventano pietre.

Poi allungò la mano e prese con dolcezza quella di Satsuki. Era stranamente liscia, e dava una sensazione di freschezza giovanile. Satsuki aprì gli occhi e lo guardò. Nimit lasciò andare la mano e intrecciò le dita sul tavolo.

- Il mio capo norvegese era lappone, - disse Nimit. - Come forse saprà, la Lapponia è la regione più a nord della Norvegia. È vicina al Polo nord, e ci sono molte renne. D'estate non vi è notte, e d'inverno non vi è giorno. Può darsi che lui sia venuto in Thailandia proprio per sfuggire a quel freddo. Perché in un certo senso sono proprio i due estremi opposti. Lui amava la Thailandia e ha voluto essere seppellito qui. Eppure, fino all'ultimo giorno della sua vita ha sempre avuto nostalgia per il villaggio della Lapponia in cui era nato. Mi ha parlato tante volte di quel piccolo paesino. Ma ciononostante, per trentatre anni non è mai tornato in Norvegia. Sicuramente laggiù doveva essere accaduto qualcosa. Anche lui era una persona che aveva una pietra dentro di sé.

Nimit prese la tazza di caffè nella mano, ne bevve un sorso, poi tornò a posarla sul piattino, attento a non fare rumore.

- Una volta mi parlò degli orsi polari. Di quali creature solitarie essi siano. Non si accoppiano che una volta all'anno. Una volta sola in un anno! Nel loro mondo non esistono relazioni, diciamo cosí, matrimoniali. Su quelle grandi distese ghiacciate due orsi, un maschio e una femmina, si incontrano per caso e lí avviene l'accoppiamento. Non si va tanto per le lunghe. Una volta consumato l'atto, il maschio si allontana di corsa dalla femmina come se fosse arrabbiato, e fugge via dal luogo dell'accoppiamento. Scappa via a tutta velocità, e non si volta mai indietro. Dopodiché trascorrerà un anno in totale solitudine. Non esiste nessun rapporto di comunicazione, o di scambio. Nessun contatto di spirito. Questa è la storia degli orsi polari. Almeno secondo quanto mi raccontò il mio capo.

- Beh, è certamente una storia singolare, - commentò Satsuki.

- Sí, una storia davvero singolare, - ripetè Nimit con un'espressione molto seria. - Quando la sentii, gli chiesi: «Allora, per che cosa vivono gli orsi polari?» A quella domanda, un sorriso divertito apparve sul suo volto, e infine disse: «E noi, Nimit, noi per che cosa viviamo?»

 

L'aereo decollò, e dopo qualche istante l'avviso di cinture allacciate si spense. Ed eccomi di ritorno in Giappone, disse fra sé Satsuki. Tentò di pensare a quello che avrebbe fatto dopo il suo arrivo, ma poi cambiò idea. Le parole diventano pietre, aveva detto Nimit. Si lasciò sprofondare nel sedile e chiuse gli occhi. Poi rivide il colore del cielo come le appariva quando, nuotando sul dorso, guardava in alto.

Ricordò la melodia di «I'll Remember April», nell'esecuzione di Erroll Garner. Proviamo a dormire, si disse. Dormire, nient'altro. E aspettare che arrivi il sogno.