Atterra un Ufo su Kushiro

 

 

 

Per cinque giorni, aveva passato tutto il tempo davanti alla televisione. Guardando in silenzio quelle immagini di banche e ospedali crollati, strade piene di negozi avvolte dalle fiamme, ferrovie e autostrade fatte a pezzi. Sprofondata nel divano, le labbra serrate, quando Komura le parlava non rispondeva. Non faceva nemmeno sì o no con la testa. Lui dubitava persino che la sua voce le arrivasse.

Sua moglie era di Yamagata, e per quanto ne sapeva lui, nella zona di Kòbe non aveva parenti né amici. Eppure dalla mattina alla sera non si staccava dal televisore un solo istante. In ogni caso non in sua presenza: lui non l'aveva mai vista mangiare né bere. Non andava neanche in bagno. A parte cambiare ogni tanto canale con il telecomando, non faceva il minimo movimento.

Komura si tostava il pane e prendeva il caffè da solo prima di andare al lavoro. Quando tornava a casa, la moglie era seduta davanti al televisore nella stessa posizione della mattina. Vista la situazione, si preparava qualcosa di semplice con quello che trovava in frigo, e cenava senza di lei. Quando si addormentava, lei era ancora lí che guardava il notiziario della notte. Era circondata da un muro di silenzio. Komura, rassegnato, smise persino di rivolgerle la parola.

Dopo cinque giorni, una domenica, quando tornò dal lavoro al solito orario, la moglie era sparita.

Komura lavorava come commesso in uno dei più vecchi negozi di impianti hi-fi di Akihabara. Si occupava di apparecchi di alta qualità e ogni volta che vendeva un prodotto riceveva una commissione che andava a integrare il suo stipendio. Tra i suoi clienti c'erano molti medici, piccoli imprenditori danarosi e ricchi signori della provincia. Erano otto anni che faceva quel lavoro, ma sin dall'inizio i guadagni erano stati più che discreti. L'economia tirava, i prezzi dei terreni erano in ascesa e in tutto il Giappone i soldi abbondavano. I portafogli erano gonfi di banconote da 10.000 yen e tutti sembravano desiderosi di usarli senza risparmio. I prodotti più cari erano i primi a essere venduti.

Alto e magro, elegante e dai modi piacevoli, Komura da scapolo aveva avuto molte donne. Ma da quando a ventisei anni si era sposato, il suo desiderio di eccitanti incontri sessuali si era esaurito di colpo, in modo perfino sorprendente. Nei cinque anni successivi al matrimonio non era stato a letto con altre donne che la moglie. Non che le occasioni gli fossero mancate. Ma aveva perso completamente interesse per i rapporti brevi e occasionali. Preferiva tornare a casa presto, cenare tranquillamente con la moglie, chiacchierare con lei sul divano, andare a letto e fare l'amore. Era solo questo che desiderava.

Quando Komura si era sposato, amici e colleghi avevano espresso tutti, chi più chi meno, una certa perplessità. In confronto a lui, con il suo bel viso dai tratti regolari, la moglie appariva a dir poco insignificante. Ma non era solo un problema di aspetto fisico, anche la sua personalità era priva di fascino. Non parlava quasi mai, e la sua faccia era perennemente imbronciata. Era bassa, con le braccia grosse, e dava una generale impressione di ottusità.

Eppure Komura, per ragioni che lui stesso non avrebbe saputo spiegare, quando era con la moglie sotto lo stesso tetto, sentiva ogni tensione allentarsi e riusciva finalmente a trovare pace. Grazie a lei la notte poteva dormire tranquillamente, senza quegli strani sogni che l'avevano sempre turbato. Le sue erezioni erano vigorose, e il sesso aveva un sapore di intimità. Aveva smesso perfino di angosciarsi per la morte, le malattie a trasmissione sessuale e la vastità del cosmo.

Ma sua moglie odiava vivere in una grande metropoli come Tòkyo, che trovava opprimente, e avrebbe voluto tornare al suo paese natale, a Yamagata. Le mancavano i genitori e le due sorelle più grandi, e quando la nostalgia si acuiva, tornava per qualche tempo a casa da sola. I genitori, che gestivano un albergo di stile tradizionale, erano benestanti, e il padre adorava la sua figlia più piccola, quindi era ben contento di offrirle un biglietto di andata e ritorno. A Komura era già successo diverse volte, al rientro dal lavoro, di non trovare a casa la moglie, ma un appunto sul tavolo di cucina in cui lo avvisava che era andata dai suoi per alcuni giorni. Neanche in quei casi lui si era mai lamentato. Aveva solo aspettato in silenzio che lei tornasse. Dopo una settimana, dieci giorni, sua moglie, recuperato il suo equilibrio, era di nuovo a casa.

 

Ma quando se ne andò cinque giorni dopo il terremoto, nella lettera che aveva lasciato c'era scritto: «Non ho intenzione di ritornare mai più». Spiegava anche, in modo sintetico ma esplicito, le ragioni per cui non voleva più vivere con Komura. «Il problema - scriveva - è che tu non mi dài nulla. Detto ancora più chiaro, le cose che vorrei da te non puoi darmele, perché ti mancano completamente. Tu sei dolce, gentile, bello, ma per me vivere con te è stato come avere accanto una bolla d'aria. Naturalmente non è che la responsabilità di questo sia solo tua. Penso ci siano molte donne che potrebbero amarti. Ti prego di non cercarmi, di non telefonarmi neanche. Le cose che ho lasciato, per favore pensaci tu a buttarle».

Ma in realtà di suo non rimaneva quasi nulla. Si era portata via tutto, dai vestiti alle scarpe, dall'ombrello alla tazza da caffè all'asciugacapelli. Probabilmente aveva spedito la sua roba con un corriere, dopo che Komura era uscito per andare al lavoro. Quello che rimaneva delle «sue cose» era la bicicletta che usava per andare a fare la spesa e alcuni libri. Dallo scaffale dei CD erano spariti quasi tutti quelli dei Beatles e di Bill Evans, anche se era una collezione che aveva messo insieme lui, quando non era ancora sposato.

Il giorno seguente provò a telefonare a casa dei suoi, a Yamagata. Rispose la madre e gli disse: «Mia figlia dice che non vuole parlare con te». Il suo tono tradiva un certo imbarazzo nei confronti di Komura. Gli riferí che gli avrebbero inviato i documenti per il divorzio e lo pregava di apporvi il suo sigillo e restituirli il più presto possibile.

- Il più presto possibile... è facile a dirsi, ma si tratta di una decisione importante, quindi vorrei avere almeno un po' di tempo per pensarci, - rispose lui.

- Potrai pensarci quanto vuoi, ma credo proprio che non cambierà nulla, - rispose la madre.

Probabilmente ha ragione, pensò. Per quanto io possa aspettare e riflettere, niente tornerà più come prima. Ne era certo.

 

Qualche tempo dopo aver restituito i documenti firmati, Komura prese una settimana di ferie. Il suo capo era grosso modo al corrente della sua situazione, e poi febbraio era un periodo tranquillo per il lavoro, così gli diede il permesso senza nessuna obiezione. Dall'espressione del viso, sembrava volesse dirgli qualcosa, ma non lo fece.

Durante l'intervallo del pranzo, si avvicinò il collega Sasaki e gli chiese: - Komura, ho sentito che prendi le ferie. Che progetti hai?

- Non so, ci sto pensando.

Sasaki era più giovane di Komura di circa tre anni, ed era scapolo. Fisicamente minuto, i capelli corti, portava occhiali tondi dalla montatura dorata. Parlava troppo, ed era piuttosto arrogante, il che lo rendeva antipatico a molti, ma grazie al carattere accomodante di Komura loro due andavano abbastanza d'accordo.

- Beh, visto che hai questa opportunità, perché non ti fai un bel viaggetto?

- Hmm, - fece Komura.

Sasaki si pulì gli occhiali col fazzoletto, quindi guardò in faccia Komura come per studiarlo.

- Sei mai stato in Hokkaido?

- No, non ancora, - rispose Komura.

- Avresti voglia di andarci?

- Perché?

Sasaki socchiuse gli occhi e fece un colpo di tosse.

- A dire il vero, avrei un piccolo pacchetto da far recapitare a Kushiro, e ho pensato che magari potresti portarlo tu. Se accettassi, per sdebitarmi ti pagherei volentieri il biglietto aereo di andata e ritorno. Mi occuperei anche del tuo alloggio lì.

- Un piccolo pacchetto?

- Più o meno di questa misura, - disse Sasaki, e con le dita di entrambe le mani formò un cubo di una decina di centimetri di lato. - Non è pesante.

- È una cosa che ha a che fare col lavoro?

Sasaki scosse il capo: - No, nulla a che fare col lavoro, assolutamente. È una questione personale al cento per cento. Mi dispiacerebbe se questo oggetto venisse sbatacchiato qua e là, quindi non mi va di mandarlo per posta o con un corriere, e per questo preferirei affidarlo a qualcuno che conosco. In effetti la cosa migliore sarebbe se potessi portarlo io con le mie mani, ma non so proprio dove trovare il tempo per andare fino in Hokkaido.

- È un oggetto prezioso?

Sasaki storse leggermente le labbra strette, quindi annuì.

- Però non è fragile, né pericoloso, quindi non devi preoccuparti. Basta che lo porti normalmente. Non è una cosa per cui potresti essere fermato all'aeroporto quando passerà attraverso i raggi x. Non ti metterei mica nei guai. Se non voglio mandarlo per posta, è più che altro per una tranquillità mia.

A febbraio in Hokkaido avrebbe fatto sicuramente un freddo terribile. Ma che facesse caldo o freddo, per Komura era del tutto indifferente.

- E a chi dovrei consegnare questo pacchetto?

- Mia sorella vive lí.

Komura non si era nemmeno posto il problema di come passare le ferie, e mettersi adesso a fare programmi gli sarebbe costato troppa fatica, quindi decise di accettare la proposta. Del resto non aveva nessuna ragione per non voler andare in Hokkaido. Subito Sasaki telefonò alla compagnia aerea e prenotò un biglietto per Kushiro. Il volo partiva il pomeriggio di due giorni dopo.

L'indomani al negozio Sasaki consegnò a Komura un oggetto della forma di una piccola urna cineraria, avvolto in carta da pacchi beige. A giudicare dal tatto, doveva essere di legno. Come il collega gli aveva detto, non pesava quasi nulla. Il pacchetto era chiuso da ogni lato da un largo nastro adesivo trasparente. Komura lo prese in mano, poi restò per qualche istante a osservarlo. Provò a scuoterlo leggermente, ma non sentì niente, nemmeno il più piccolo rumore.

- Mia sorella verrà a prenderti all'aeroporto. Per la tua sistemazione provvederà lei, - disse Sasaki. - Aspettala agli arrivi, tenendo in mano la scatola in modo che la possa vedere. Stai tranquillo, non è un grande aeroporto.

 

Prima di uscire di casa, avvolse la scatola che gli era stata affidata in una maglia pesante e la mise in mezzo alla borsa. L'aereo era molto più affollato di quanto avesse previsto. Komura si chiese sconcertato che cosa mai andasse a fare tutta quella gente da Tokyo a Kushiro in pieno inverno.

I giornali erano come al solito zeppi di articoli sul terremoto. Si sedette al suo posto e lesse dalla prima all'ultima pagina l'edizione del mattino. Il numero dei morti continuava a salire. Erano molte le zone ancora senza acqua e corrente elettrica, e in tanti avevano perso la casa. Si scoprivano continuamente nuove tragedie. Eppure a Komura tutti quei dettagli sembravano stranamente piatti, e privi di spessore, echi lontani e attutiti. L'unica cosa a cui riuscisse a pensare con un minimo senso di realtà era sua moglie, che si stava allontanando sempre di più da lui.

Scorreva meccanicamente con gli occhi gli articoli sul terremoto, ogni tanto pensava alla moglie, quindi tornava a scorrere gli articoli. A un certo punto, stanco di pensare a lei, e stanco di leggere, chiuse gli occhi e cadde in un breve sonno. Quando si svegliò, di nuovo pensò alla moglie. Perché si era messa a seguire così seriamente le notizie sul terremoto alla televisione dalla mattina alla sera, dimenticandosi perfino di mangiare e dormire? Che cosa ci vedeva in quelle immagini?

 

All'aeroporto, due giovani donne che indossavano cappotti simili per taglio e colore si avvicinarono a Komura e gli rivolsero la parola. Una era di carnagione chiara, sul metro e settanta, con i capelli corti. L'eccessiva distanza tra il naso e il labbro superiore carnoso faceva pensare al muso di un ungulato dal pelo corto. L'altra era sul metro e cinquantacinque, e a parte il naso troppo piccolo, di viso non era male. Aveva capelli lisci, lunghi fino alle spalle. Le orecchie erano scoperte, e su quello destro aveva due nei, messi ancora più in risalto dagli orecchini. Sembravano entrambe sui venticinque anni. Le due donne portarono Komura in un caffè dentro l'aeroporto.

- Mi chiamo Sasaki Keiko, - disse la ragazza più alta. - La ringrazio, so che è sempre tanto gentile con mio fratello. Questa è la mia amica Shimao.

- Piacere, - disse Komura.

- Salve, - disse Shimao.

- Ho sentito da mio fratello che recentemente ha perso sua moglie, - disse Sasaki Keiko con espressione addolorata.

Komura esitò un istante, quindi precisò:

- No, veramente mia moglie non è morta.

- Eppure mio fratello mi ha detto chiaramente cosí l'altroieri al telefono. Komura ha appena perso la moglie.

- No, ho solo divorziato. Per quanto ne so io mia moglie è viva e in buona salute.

- Che strano. Mi sembra davvero strano aver potuto fraintendere una cosa così importante.

Un'espressione di contrarietà passò sul suo viso, quasi fosse stata lei la vittima di quell'equivoco. Komura mise poco zucchero nel caffè, e lo girò lentamente col cucchiaino. Quindi ne bevve un sorso. Era annacquato e insapore. Più che un caffè ne era una pallida evocazione. Ma che ci faccio in questo posto?, si chiese sconcertato Komura.

- Devo aver sentito male. È l'unica spiegazione possibile, - disse Sasaki Keiko, un po' rinfrancata. Respirò a fondo e si morse leggermente le labbra. - La prego di scusarmi. Ho fatto davvero una terribile gaffe.

- No, non importa. In fondo è più o meno la stessa cosa.

Mentre loro due parlavano, Shimao guardava Komura in silenzio, un vago sorriso sulle labbra. Sembrava ben disposta verso di lui. Komura lo capiva dalla sua espressione e da qualche piccolo gesto. Per un po' sui tre calò il silenzio.

- Prima di tutto, vorrei consegnarle questo prezioso oggetto, - disse Komura.

Aprí la lampo della borsa e tirò fuori il pacchetto dalla pesante maglia da sci in cui l'aveva avvolto. Solo allora si ricordò che avrebbe dovuto portarlo in mano. Doveva essere il segnale di riconoscimento. Come avranno fatto queste due donne a capire che ero io?, si chiese.

Sasaki Keiko tese entrambe le mani sul tavolo, prese il pacchetto e per qualche istante lo fissò con occhi privi di espressione. Lo sollevò per saggiarne il peso, e come aveva fatto Komura, lo avvicinò all'orecchio e lo scosse leggermente. Poi fece un grande sorriso a Komura, a significare che era tutto a posto, e infilò il pacchetto nella sua grossa borsa.

- Dovrei fare una telefonata: le dispiace se mi allontano un attimo? - chiese Keiko.

- No, naturalmente. Faccia pure, - rispose lui.

Keiko si mise la borsa a tracolla, e si diresse verso una cabina telefonica che si trovava piuttosto lontano. Per qualche istante Komura seguí con lo sguardo la sua figura di spalle. La parte superiore del corpo sembrava immobile, mentre dai fianchi in giù si muoveva con ampie ondulazioni, come una specie di macchina. Nel guardare quella sua camminata, provò una strana sensazione, come se un'immagine dal passato si fosse introdotta, in modo incongruo e improvviso, nei suoi pensieri.

- Era già venuto in Hokkaidó? - chiese Shimao.

Komura scosse la testa.

- Beh, certo, è lontano...

Komura annui. Poi si girò intorno.

- Però a stare adesso qui, non ho la sensazione di essere arrivato cosí lontano. Strano, vero?

- Dipende dall'aereo. È troppo veloce! - disse Shimao. - Anche se il corpo si sposta, la mente fatica a stargli dietro.

- Sí, forse è questo.

- Lei aveva voglia di andare lontano?

- Forse.

- Perché sua moglie se n'è andata?

Komura annuí.

- Però, per quanto uno possa allontanarsi, non può fuggire da se stesso, - disse Shimao.

Komura, che stava contemplando assorto la zuccheriera sul tavolo, alzò lo sguardo verso la ragazza.

- Sì, è proprio come dice lei. Per quanto uno possa andare lontano, non può fuggire da se stesso. È come un'ombra che ti segue sempre.

- Lei voleva bene a sua moglie, vero?

Komura evitò di rispondere.

- Lei è un'amica della signorina Sasaki?

- Sì. Siamo un duo.

- In che senso un duo?

- Ha fame? - chiese a sua volta Shimao, invece di rispondere.

- Fame? - disse Komura. - Non saprei, non capisco se ho fame o no.

- Andiamo tutti e tre insieme a mangiare qualcosa di caldo. Mangiare qualcosa di caldo fa sentire subito meglio.

 

Guidò Shimao. L'automobile era una piccola Subaru a quattro ruote motrici. A giudicare dalle condizioni, doveva aver superato i duecentomila chilometri. Il paraurti posteriore aveva una grossa ammaccatura. Sasaki Keiko sedette davanti, e Komura nello stretto sedile di dietro. Non che Shimao guidasse male, ma il posto dietro era terribilmente rumoroso, e le sospensioni piuttosto deboli. Il cambio automatico era brusco, e il riscaldamento funzionava in modo discontinuo. Se Komura chiudeva gli occhi, aveva la sensazione di trovarsi dentro una lavatrice in funzione.

A Kushiro non c'era neve fresca. Quella vecchia era ammassata ai lati delle strade, gelata e sudicia, come parole destituite di senso. Le nuvole si addensavano basse, e anche se mancava ancora un po' al tramonto, era già piuttosto scuro. Il vento fendeva l'oscurità sibilando. Per strada non c'era quasi nessuno. Il paesaggio era desolato, perfino i semafori sembravano ghiacciati.

- Anche se siamo in Hokkaido, qui è raro che si accumuli la neve, - spiegò Sasaki Keiko, girandosi dietro e alzando la voce. - È una zona costiera, e poi c'è un vento talmente forte che anche se se ne accumula un po', subito la porta via. Però quanto a freddo non si scherza. Sembra che ti tagli le orecchie.

- Succede spesso che quelli che si ubriacano e si addormentano per strada muoiano congelati, - disse Shimao.

- In questa zona non si vedono orsi? - chiese Komura.

Keiko guardò Shimao e scoppiò a ridere.

- Hai sentito? Vuole sapere degli orsi.

- Non so molto dello Hokkaido, - si giustificò lui.

- A proposito degli orsi c'è una storia molto divertente, disse Keiko. - Non è vero? - aggiunse rivolta a Shimao.

- Molto divertente, - confermò l'altra.

Ma la conversazione si fermò lí, e l'aneddoto sugli orsi non fu raccontato. Komura non insistè. Finalmente arrivarono a destinazione. Era un grande ristorante di ramen lungo la strada. Parcheggiarono l'auto ed entrarono tutti e tre nel locale. Komura prese una birra e una scodella fumante di ramen. Il ristorante era squallido, spoglio, tavoli e sedie traballanti, ma i ramen erano davvero squisiti, e quando ebbe finito di mangiare, Komura si sentí effettivamente un po' più calmo.

- Signor Komura, c'è qualcosa che vuol fare in Hokkaido? chiese Sasaki Keiko. - Ho sentito che si fermerà qui più o meno una settimana, vero?

Komura pensò qualche istante, ma non gli veniva in mente nulla che volesse fare.

- Magari andare alle terme? Non le piacerebbe immergersi in un bel bagno bollente e rilassarsi? Se vuole, in questa zona c'è un bagno termale piccolo e rustico.

- Beh, potrebbe essere un'idea, - disse Komura.

- Penso proprio che le piacerebbe. È un bel posto. E non ci sono orsi.

Le due donne si guardarono, e di nuovo scoppiarono a ridere.

- Senta, Komura, posso farle una domanda su sua moglie? - chiese Keiko.

- Faccia pure.

- Quando è che se n'è andata?

- Cinque giorni dopo il terremoto. Ormai sono due settimane.

- Il fatto che sia andata via ha a che fare col terremoto?

Komura scosse il capo. - No, non credo.

- Eppure, qualche rapporto dovrebbe esserci... - disse Shimao, inclinando pensosamente la testa.

- Che magari però lei, Komura, non sa, - disse Keiko.

- Sono cose che succedono, - disse Shimao.

- Cose? Quali cose? - chiese Komura.

- Per esempio, - disse Keiko. - Tra i miei conoscenti, c'è stato un caso del genere.

- Ti riferisci a Saeki? - chiese Shimao.

- Sì, - rispose Keiko. - C'è un tale che si chiama Saeki. Vive a Kushiro, è sui quaranta e fa il parrucchiere. Sua moglie, l'autunno scorso, ha visto un Ufo. Di notte, in periferia, mentre guidava la macchina da sola, dice che ha visto un enorme Ufo scendere in mezzo ai campi. Come in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Una settimana dopo se n'è andata di casa. Non aveva nessun problema in famiglia, ma se n'è andata così, su due piedi, e non è mai più tornata.

- Sparita nel nulla, - disse Shimao.

- A causa dell'Ufo? - chiese Komura.

- Il motivo non si sa. Però un giorno, senza lasciare nemmeno un biglietto, è andata via abbandonando due bambini ancora alle elementari, - disse Keiko. - Pare che la settimana prima di andarsene, a tutte le persone che incontrava non facesse che parlare dell'Ufo. Parlava a raffica, senza un attimo di pausa. Di quanto era grande, di quanto era bello...

Tutt'e due aspettarono che la mente di Komura assorbisse il racconto.

- Nel mio caso, un biglietto c'era, - disse Komura. - E noi non abbiamo figli.

- Beh, allora a lei è andata un po' meglio che al signor Saeki, - disse Keiko.

- Già, quello dei bambini è un bel problema, - annui Shimao.

- Il padre di Shimao ha abbandonato la famiglia quando lei aveva sette anni, - spiegò Keiko, aggrottando le sopracciglia. - È scappato con la sorella più piccola della moglie.

- Un giorno, all'improvviso, - disse Shimao sorridendo.

Scese il silenzio.

- Forse la moglie di Saeki non se n'è andata di casa, ma è stata portata via da un alieno venuto con l'Ufo, - disse Komura, per superare l'imbarazzo.

- Beh, è possibile, - disse seria Shimao. - Storie del genere si sentono spesso.

- Oppure mentre camminava per strada è stata mangiata da un orso, - disse Keiko. Entrambe di nuovo scoppiarono a ridere.

 

Usciti dal ristorante, andarono tutti e tre in un love hotel non lontano da lì. Era una strada di periferia, dove i negozi di pietre tombali si alternavano ai love hotel. Shimao entrò nel parcheggio di uno di questi. Era uno strano edificio, che imitava un castello europeo. Sulla sua sommità era issata una bandiera rossa triangolare.

Keiko ritirò la chiave alla reception, e tutti e tre insieme presero l'ascensore per salire in camera. La finestra era piccola, ma in compenso il letto era di una grandezza spropositata. Komura si tolse il giubbotto, lo appese a un attaccapanni e andò alla toilette. Nel frattempo le due donne, rapide ed efficienti, riempirono la vasca da bagno di acqua calda, regolarono le luci, controllarono la temperatura del riscaldamento, accesero la televisione, esaminarono il menu dei ristoranti con consegna a domicilio, provarono gli interruttori accanto al comodino, ed esaminarono il contenuto del frigobar.

- Il proprietario dell'albergo è un amico, - disse Sasaki Keiko. - Per questo siamo riuscite ad avere la stanza più grande. Come vede, è un love hotel, ma non ci faccia caso. Non le dà mica fastidio, vero?

Nessun problema, la rassicurò Komura.

- Ho pensato che qui fosse molto più piacevole per lei che dormire in uno di quei tristi e squallidi business hotel davanti alla stazione.

- Sì, forse.

- La vasca è piena: perché non si fa un bel bagno?

Komura seguì il suggerimento, ma la vasca era troppo grande, e starci immerso da solo gli diede una sensazione di disagio. Probabilmente quasi tutti i clienti di quel posto facevano il bagno in coppia.

Quando tornò nella stanza, Sasaki Keiko era sparita. C'era solo Shimao, che guardava la televisione bevendo una birra.

- Keiko è dovuta andar via. Si scusa ma aveva un impegno. Verrà a prenderla domani mattina. Senta, le va bene se resto qui ancora un po' a bere una birra?

Prego, disse Komura.

- Sicuro che non le do noia? Non so, magari vuole stare da solo, o la presenza di qualcuno la disturba...

Non mi dà noia, disse Komura. Prese una birra, e strofinandosi i capelli con un asciugamano, per un po' guardò la televisione insieme a Shimao. Era uno speciale del telegiornale dedicato al terremoto. Le solite immagini, ripetute per l'ennesima volta. Edifici inclinati, strade crollate, donne anziane in lacrime, confusione e rabbia impotente. Quando arrivò la pubblicità, Shimao usò il telecomando per spegnere.

- Visto che siamo qui, facciamo due chiacchiere, - propose.

- Va bene.

- Di cosa vuole parlare?

- In macchina avete accennato a una storia sugli orsi, - disse Komura. - Una storia divertente che ha a che fare con gli orsi.

- Ah, la storia degli orsi, - annui Shimao.

- Perché non me la racconta?

- Certo.

Shimao prese un'altra birra dal frigorifero e la versò nei due bicchieri.

- È una storia un po' spinta, se gliela racconto non è che le darà fastidio?

Komura scosse la testa.

- Glielo chiedo perché a volte ci sono uomini a cui queste cose non piacciono.

- Non è il mio caso.

- È un fatto che mi è realmente accaduto. Perciò in effetti mi vergogno un po'.

- Se a lei va, la sentirei volentieri.

- D'accordo. Se va bene a lei.

- Per me non ci sono problemi.

- È successo circa tre anni fa, mi ero iscritta da poco all'università, al corso di laurea breve, e stavo con un ragazzo. Era anche lui uno studente, di un anno avanti rispetto a me. Il primo con cui sono andata a letto. Siamo partiti insieme per un'escursione, io e lui da soli. Sulle montagne, molto più a nord.

Shimao bevve un sorso di birra.

- Era autunno, il periodo in cui vengono fuori gli orsi. Escono a raccogliere cibo per il letargo invernale, quindi sono abbastanza pericolosi. Ogni tanto attaccano qualcuno. Anche quella volta, appena tre giorni prima avevano attaccato e ferito gravemente un turista. Perciò la gente del posto ci diede un campanello, più o meno della grandezza di quelli che suonano al vento. Ci dissero di scuoterlo continuamente in modo da fare rumore mentre camminavamo, din-don din-don. Così gli orsi avrebbero capito che si stavano avvicinando degli uomini e non sarebbero usciti. Gli orsi, si sa, non attaccano per un istinto aggressivo. Mangiano di tutto ma fondamentalmente sono erbivori, quindi non hanno ragione di assalire gli uomini. Lo fanno solo quando se li trovano davanti all'improvviso nel loro territorio. Reagiscono così se sono spaventati o arrabbiati. Perciò se uno cammina scampanellando, din-don din-don, gli orsi si tengono alla larga. Mi segue?

- La seguo.

- E così noi due avanziamo sui sentieri di montagna con questo scampanellio continuo. Finché, in un posto dove non c'era nessuno, tutt'a un tratto lui disse che gli era venuta voglia di fare proprio quello. E siccome anche a me l'idea in fondo non dispiaceva, gli dissi «va bene». E così ci inoltrammo in un boschetto dove nessuno avrebbe potuto vederci. Stendemmo a terra un telo di plastica. Ma io avevo il terrore degli orsi. Il pensiero che nel bel mezzo di quello che stavamo facendo avremmo potuto essere attaccati dagli orsi e ammazzati mi sembrava terribile. Non c'è modo peggiore di morire, non crede?

Komura assentí.

- E cosí facemmo l'amore continuando a scuotere il campanello con una sola mano per tutto il tempo. Dall'inizio alla fine. Din-don, din-don-din-don!

- Chi dei due lo scuoteva?

- Lo facevamo a turno. Quando uno si stancava la mano, lo passava, poi quando anche l'altro si era stancato, lo scambiavamo di nuovo. Fu un'esperienza stranissima, fare sesso continuando a scuotere un campanello, - disse Shimao. - Ancora oggi, mentre sto facendo l'amore, mi succede a volte di ricordarmi tutt'a un tratto quella scena e di scoppiare in una risata incontrollabile.

Anche Komura fece una risatina.

Shimao batté le mani diverse volte.

- Ah che bello! Allora pure lei sa ridere.

- Naturalmente, - disse Komura. Anche se, a pensarci bene, era da tanto che non gli capitava. Quando aveva riso l'ultima volta?

- Senta, potrei farmi anch'io un bagno?

- Prego.

Mentre la ragazza faceva il bagno, Komura guardò un programma di varietà condotto da un comico dalla voce squillante. Non lo trovava per nulla divertente, ma non avrebbe saputo dire se era colpa del programma o colpa sua. Bevve la birra, aprí un pacchetto di noccioline che trovò in frigo e le mangiò. Shimao restò a lungo nel bagno, poi finalmente uscí, avvolta solo nell'asciugamano, e si sedette sul letto. Si tolse l'asciugamano e come un gatto si infilò sotto le coperte. Poi guardò Komura dritto in faccia.

- Quando è che hai fatto quelle cose lí con tua moglie l'ultima volta?

- Mi pare a fine dicembre, l'anno scorso.

- Poi non l'hai più fatto?

- No.

- Nemmeno con altre?

Komura chiuse gli occhi e scosse la testa.

- Secondo me, quello di cui adesso hai bisogno è rinfrescarti un po' la mente e goderti di più la vita, senza troppi pensieri, - disse Shimao. - E poi si sa, no? Domani potrebbe esserci un terremoto. Potresti essere rapito dagli extraterrestri. Oppure mangiato dagli orsi. Nessuno può saperlo ciò che accadrà domani.

- Nessuno può saperlo, - ripetè Komura.

- Din-don din-don, - disse Shimao.

 

Dopo aver provato più volte a fare l'amore, fallendo a ogni tentativo, Komura infine rinunciò. Era la prima volta che gli succedeva.

- Non è che pensavi a tua moglie? - gli chiese Shimao.

- Forse, - rispose Komura. Ma in realtà nella sua testa c'erano solo le immagini del terremoto. Come in una proiezione di diapositive, appariva un'immagine, poi si spegneva. Un'altra appariva, poi si spegneva. Autostrade, fiamme, fumo, montagne di macerie, crepe nelle strade. Non c'era verso di bloccare quella sfilata silenziosa di immagini.

Shimao appoggiò l'orecchio sul petto nudo di Komura.

- Sono cose che capitano, - disse.

- Hmm.

- Penso sia meglio non prendertela.

- Non me la prendo, - disse lui.

- Sarà, ma invece ve la prendete, voi uomini.

Shimao strinse leggermente fra le dita un capezzolo di Komura. - Avevi detto che tua moglie prima di andar via aveva lasciato un biglietto, vero?

- Sí.

- Cosa c'era scritto?

- C'era scritto che vivere con me era come avere accanto una bolla d'aria.

- Una bolla d'aria? - Shimao inclinò la testa perplessa, e guardò Komura in viso. - Che cosa avrà voluto dire?

- Che sono privo di contenuto, credo.

- Che sei privo di contenuto?

- Forse ha ragione. Però non lo so. Sarò anche privo di contenuto, ma che cosa sarà mai questo contenuto?

- Già, sarei curiosa anch'io di sapere cosa potrebbe essere, - disse Shimao. - Mia madre andava pazza per la pelle del salmone, e diceva sempre: «Magari ci fosse un salmone che ha solo la pelle». Quindi possono esserci dei casi in cui è meglio non avere nessun contenuto. Non credi?

Komura provò a immaginare un salmone fatto di sola pelle. Ma ammesso che potesse esistere un salmone così, il contenuto del salmone non sarebbe stato comunque la pelle? Komura tirò un sospiro profondo, e la testa della ragazza si sollevò e tornò giù.

- Beh, se tu abbia contenuto o meno io non lo so, ma ti trovo molto carino. Penso che il mondo sia pieno di donne che possono capirti e amarti.

- C'era scritto anche questo.

- Nel biglietto di tua moglie?

- - Sì.

- Ah sì? - disse Shimao, un po' contrariata. Poi tornò ad appoggiare l'orecchio sul petto di Komura. Lui percepiva il suo orecchino come un corpo estraneo, misterioso.

- A proposito di contenuto, quel pacchetto che ho portato, - disse Komura. - Che cosa ci sarà lì dentro?

- Ti preoccupa?

- Fino ad ora non ci ho neanche pensato. Ma adesso chissà perché ha cominciato a inquietarmi.

- Da quando?

- Da un po'.

- All'improvviso?

- Sì, quando mi è venuto in mente, all'improvviso.

- Chissà come mai hai cominciato a preoccupartene così, tutt'a un tratto.

Komura guardò il soffitto e ci pensò un attimo.

- Chissà.

Per qualche istante entrambi tesero le orecchie all'ululare del vento. Un vento che veniva da un luogo sconosciuto a Komura, e che si allontanava verso un luogo differente ma a lui altrettanto sconosciuto.

- Lo so io perché, - disse Shimao con voce pacata. - E perché il tuo contenuto era dentro quel pacchetto. Senza saperlo l'hai portato fin qui e con le tue mani l'hai consegnato a Sasaki. Perciò il tuo prezioso contenuto non tornerà più.

Komura si sollevò e guardò dall'alto il viso di lei. Il naso piccolo, i nei sull'orecchio. Nel silenzio profondo, il suo cuore batteva con un rumore forte e sordo. Nel voltarsi, le sue ossa scricchiolarono. Fu un attimo, ma Komura si accorse di essere sul punto di compiere un gesto di immane violenza.

- Stavo solo scherzando, - disse Shimao, quando vide il pallore nel volto di lui. - Ho detto così tanto per dire. È stato uno scherzo stupido. Scusa. Non prendertela. Non intendevo ferirti.

Komura si calmò, si guardò intorno nella stanza, poi tornò ad affondare la testa nel cuscino. Chiuse gli occhi e respirò profondamente. La vastità del letto lo circondava come il mare di notte. Si sentiva il rumore del vento gelido. Il battito impazzito del cuore lo scuoteva fino alle ossa.

- Di', hai cominciato finalmente a sentire che sei arrivato lontano?

- Sí, ho la sensazione di essere arrivato molto lontano, - rispose con sincerità Komura.

Con la punta delle dita Shimao tracciò sul petto di Komura un complicato disegno, come una sorta di incantesimo.

- E invece sei ancora solo all'inizio, - disse la ragazza.