20



– Lo scopo del tramonto nelle sere d’estate e soprattutto nei parchi – disse con foga la voce – è di far risaltare il movimento sussultorio dei seni delle ragazze. Sono convinto che sia effettivamente così.

Arthur e Fenchurch risero, passando, e lei per un attimo gli si strinse più forte accanto.

– E sono sicuro – disse il giovane dai capelli rossi e ricci e dal naso lungo e sottile che stava esponendo il suo punto di vista seduto su una sdraio vicino alla Serpentina – che se si analizzasse a fondo l’argomento, si scoprirebbe che la sua logica intrinseca scaturisce naturalmente da tutti i fenomeni su cui Darwin insisteva così ossessivamente. – Si girò verso l’amico bruno e magro che stava sprofondato nella sdraio accanto alla sua e pensava con tristezza ai propri brufoli e concluse: – È una cosa certa. Incontrovertibile. E mi piace molto.

D’un tratto si voltò e sbirciò Fenchurch da dietro gli occhiali.

Arthur la condusse via e sentì che era scossa da una silenziosa risata.

– E adesso – disse lei quando ebbe smesso di ridere – prova a indovinare ancora che cosa c’è che non va in me.

– Va bene – disse Arthur. – Il tuo gomito. Il gomito sinistro. C’è qualcosa che non va nel tuo gomito sinistro.

– Hai sbagliato di nuovo – disse Fenny. – Niente del genere. Sei completamente fuori strada.

Il sole d’estate stava tramontando tra gli alberi del parco, e pareva… Ma non usiamo mezzi termini.

Hyde Park era semplicemente favoloso. Tutto, lì, è favoloso, salvo la spazzatura del lunedì mattina. Perfino le anatre sono favolose. Chiunque vada a Hyde Park una sera d’estate senza commuoversi per la sua bellezza probabilmente ci va a bordo di un’ambulanza e ha un lenzuolo che gli copre la faccia.

È un parco in cui la gente fa cose più affascinanti di quelle che fa altrove. Arthur e Fenchurch videro un uomo in pantaloncini corti che suonava la cornamusa sotto un albero. L’uomo interruppe i suoi esercizi per cacciare via una coppia di americani che avevano cercato timidamente di mettere delle monete sulla custodia della cornamusa.

– No! – gridò loro. – Fuori dai piedi! Sto solo esercitandomi.

Ricominciò a soffiare con foga sullo strumento, ma nemmeno il rumore che ne uscì poté influire negativamente sullo stato d’animo di Arthur e Fenchurch.

Arthur le mise le mani intorno alla vita e poi le fece scendere piano giù, verso il fondo della schiena.

– Non credo che sia il tuo sedere che ha qualcosa che non va – disse dopo un po’. – Mi pare che non abbia proprio niente che non va.

– Infatti – convenne lei. – Il mio sedere è perfettamente a posto.

Si diedero un bacio così lungo, che alla fine il suonatore di cornamusa andò a esercitarsi dalla parte opposta dell’albero.

– Ti voglio raccontare una storia – disse Arthur.

– Va bene.

Trovarono uno dei pochi spiazzi erbosi non gremiti di ragazzi e ragazze che giacevano gli uni sulle altre, si sedettero, e guardarono le anatre favolose e la luce del tramonto che brillava sull’acqua che scorreva sotto le anatre favolose.

– Raccontami – disse Fenchurch, stringendogli affettuosamente il braccio.

– È una storia che illustra bene che genere di cose capitano a me. Ed è assolutamente vera.

«Sai, a volte le persone raccontano storie che dicono siano successe al miglior amico del cugino della loro moglie, ma che in realtà hanno probabilmente subito delle alterazioni nel corso di tutti quei passaggi.

«Ecco, la mia è una storia di quel tipo, solo che è accaduta sul serio, e io lo so che è accaduta sul serio, perché la persona a cui è accaduta sono io.»

– Un po’ come la faccenda del biglietto della lotteria.

Arthur rise. – Sì. Ora ti spiego. Dovevo prendere il treno e andai quindi alla stazione…

– Ti ho raccontato – lo interruppe Fenchurch – quel che successe ai miei genitori in una stazione?

– Sì – disse Arthur. – Me l’hai raccontato.

– Volevo solo controllare.

Arthur diede un’occhiata all’orologio. – Forse a questo punto potremmo anche tornare – disse.

– Prima voglio sapere la storia – disse lei, decisa. – Andasti alla stazione…

– E scoprii che ero in anticipo di una ventina di minuti. Mi ero sbagliato a guardare l’orario. – Rifletté un attimo, poi aggiunse: – O forse erano le Ferrovie Britanniche ad avere guardato male l’orario. Non avevo mai pensato a questa possibilità, prima d’ora.

– Su, dài, continua – disse Fenchurch, ridendo.

– Allora comprai un giornale per fare le parole incrociate e andai al buffet a prendere una tazza di caffè.

– Fai spesso le parole incrociate?

– Sì.

– Quali?

– Di solito quelle del Guardian.

– Secondo me tendono a essere troppo difficili. Io preferisco quelle del Times. Riuscisti a farle?

– Che cosa?

– Le parole incrociate del Guardian.

– Non avevo ancora avuto il tempo di dare un’occhiata al giornale – disse Arthur. – Avevo appena ordinato il caffè.

– D’accordo. Avevi ordinato il caffè, e…

– E avevo comprato anche dei biscotti.

– Che tipo di biscotti?

– I Rich Tea.

– Ottima scelta.

– Mi piacciono. Con il caffè e i biscotti in mano andai a sedermi a un tavolo. E non chiedermi com’era il tavolo, perché è passato un certo tempo e non me lo ricordo più. Probabilmente era rotondo.

– Va bene.

– Allora lascia che ti illustri il quadro. Io ero seduto al tavolino.

Alla mia sinistra avevo il giornale. Alla mia destra la tazza di caffè. Al centro del tavolo c’era il pacchetto di biscotti.

– Ho la scena chiara davanti agli occhi.

– Quello che non hai chiaro davanti agli occhi, perché non ne ho ancora parlato – disse Arthur – è il tizio che era già seduto al tavolo.

Stava proprio di fronte a me.

– Com’era?

– Un tipo molto normale, con giacca e cravatta e la valigetta per i documenti. Non sembrava proprio il genere di persona che può fare cose strane.

– Ah sì, ho capito. E che cosa fece?

– Si protese in avanti, afferrò il pacchetto di biscotti, lo aprì, tirò fuori un biscotto e…

– E…?

– Lo mangiò.

Cosa?

– Lo mangiò.

Fenchurch lo guardò sbalordita. – E tu cosa diavolo facesti?

– Be’, io mi comportai come si sarebbe comportato qualsiasi inglese con del sangue nelle vene. Mi sentii in dovere di far finta di niente.

Cosa? Perché?

– Be’, non è il tipo di evento a cui sei abituato fin dalla nascita, no? Analizzai la mia anima e scoprii che la mia educazione, la mia esperienza o anche i miei istinti primari non mi avevano mai insegnato come reagire a una persona che se ne sta seduta calma e tranquilla davanti a me e mi ruba i biscotti.

– Be’, avresti potuto… – Fenchurch rifletté un attimo. – Devo dire che non so nemmeno io come avrei reagito al tuo posto. Allora cosa successe?

– Tenni gli occhi incollati al cruciverba – disse Arthur. – Per quante definizioni guardassi, non mi venne in mente neanche una parola. Provai a bere un sorso dì caffè, ma era troppo caldo, così non sapevo cosa fare. Tirai fuori tutto il mio coraggio. Presi un biscotto, cercando di far finta di non aver notato che il pacchetto, curiosamente, era aperto…

– Però in fondo rispondevi alla provocazione e sceglievi la linea dura.

– A modo mio, sì. Mangiai il biscotto. Lo mangiai molto lentamente e ostentatamente, in modo che lui non potesse fare a meno di accorgersene. Sai – precisò Arthur – quando mangio un biscotto lo mangio con molta calma.

– E lui allora che cosa fece?

– Ne prese un altro. Ti giuro, reagì proprio in questo modo. Prese un altro biscotto e lo mangiò. È la pura verità. È vero come è vero che siamo seduti qui sull’erba.

Fenchurch si mosse, con l’aria di sentirsi a disagio.

– E il guaio era – disse Arthur – che siccome non avevo protestato la prima volta, diventava ancora più difficile per me protestare la seconda. Che cosa dovevo dire? “Scusate, non ho potuto fare a meno di notare che… ehm…” No, frasi del genere non funzionano. Così mostrai se possibile ancora più indifferenza di prima.

– Dio santo…

– Tornai a fissare il cruciverba, non mi venne in mente neanche questa volta una sola parola, e allora decisi di raccogliere il coraggio che raccolse Enrico V il giorno di San Crispino…

– Cosa?

– Mi gettai di nuovo nella mischia. Presi un altro biscotto. E per un attimo i nostri sguardi si incontrarono.

– Come i nostri adesso?

– Sì, cioè no, non nello stesso modo. Ma si incontrarono, anche se solo per un istante. Ed entrambi distogliemmo gli occhi. Ma ti assicuro che c’era un po’ di elettricità nell’aria. Al nostro tavolo si stava accumulando una certa tensione. A quel punto almeno, sì.

– Posso bene immaginarlo.

– Vuotammo così l’intero pacchetto. Una volta lui, una io, una volta lui, una io…

– L’intero pacchetto?

– Be’, dentro c’erano solo otto biscotti, ma data la situazione sembravano un’infinità. Fu dura quanto una lotta di gladiatori.

– Se non altro i gladiatori combattevano alla luce del sole – disse Fenchurch. – La loro era una fatica più fisica che psicologica.

– Già. E così, quando tra di noi restò il pacchetto vuoto, l’uomo finalmente, compiuta la sua malefatta, si alzò e se ne andò. Io naturalmente lasciai andare un respiro di sollievo. Successe che pochi attimi dopo l’altoparlante annunciò che il mio treno stava per partire, così finii il caffè, mi alzai, presi il giornale, e sotto il giornale…

– Sì?

– Sotto il giornale c’erano i miei biscotti.

– Che cosa? – disse Fenchurch. – Che cosa?

– Ti giuro.

– No! – Fenny restò a bocca aperta, poi si buttò giù sull’erba ridendo a crepapelle.

Alla fine si tirò su a sedere.

– Che sciocco che sei – sussurrò. – Che sciocchissimo stupidone che sei. – Lo spinse indietro, gli si stese sopra, lo baciò e poi si scostò di nuovo. Arthur si stupì che fosse tanto leggera.

– Adesso raccontamela tu, una storia.

– Credevo che non vedessi l’ora di tornare a casa – disse lei, assumendo un tono di voce basso e sensuale.

– Non c’è fretta – disse allegramente lui. – Vorrei che mi raccontassi una storia.

Lei guardò il laghetto con aria pensierosa.

– D’accordo – disse. – Te ne racconterò una corta e non divertente come la tua, ma… Pazienza.

Abbassò gli occhi. Arthur sentì che il momento era particolare.

L’aria intorno a loro pareva come immobile, in attesa. Arthur avrebbe voluto che l’aria se ne andasse da qualche altra parte e badasse ai fatti suoi.

– Quando ero piccola… – cominciò lei. – Già, questo tipo di storie iniziano sempre così, vero? «Quando ero piccola…» Va be’. Sembra una di quelle scene in cui la ragazza all’improvviso rievoca l’infanzia e fa le sue confidenze. Allora siamo arrivati a questa scena. Quando ero piccola, dunque, alla parete che stava davanti ai piedi del mio letto era appeso un quadro… Finora che cosa pensi della storia?

– Mi piace. Mi pare che proceda bene. Hai attratto subito e con efficacia l’attenzione dell’ascoltatore verso la camera da letto. Credo che le cose miglioreranno ulteriormente se svilupperai il tema del quadro.

– Era uno di quei quadri che dovrebbero piacere ai bambini, ma che invece non gli piacciono affatto – disse Fenny. – Sai, uno di quei quadri pieni di animaletti graziosi che fanno cose graziose…

– Sì, ho presente. Anche nella mia stanza purtroppo ce n’erano. E gli animaletti erano conigli con il panciotto.

– Proprio così. I conigli, in questo caso, erano su una zattera, in compagnia di topi e gufi. Forse c’era anche una renna.

– Sulla zattera?

– Sulla zattera. E sulla zattera era seduto un bambino.

– In mezzo ai conigli con il panciotto, ai gufi e alla renna?

– Esattamente. Un bambino del tipo allegro–monello–un–po’–zingaro.

– Ugh.

– Quel quadro mi suscitava una certa ansia, devo dire. C’era una lontra che nuotava davanti alla zattera, e io spesso di notte me ne stavo sveglia a chiedermi come facesse quella povera lontra a trainare la zattera che aveva sopra quei disgraziati animali che non avrebbero dovuto trovarsi lì. Tanto più che la lontra aveva la coda troppo sottile per trainare tutta quella roba, e io pensavo che provasse un gran male.

Ero preoccupata, capisci? Non molto, ma un po’, e questa sensazione non mi abbandonava mai.

«Poi un giorno, e ricordati che quei quadro l’avevo guardato ogni sera per anni e anni, notai d’un tratto che la zattera aveva una vela.

«Non me n’ero mai accorta, prima. La lontra non trainava proprio niente, si limitava solo a nuotare.»

Fenny scrollò le spalle.

– Ti pare una buona storia? – chiese.

– Il finale è un po’ debole – disse Arthur. – Il pubblico ha diritto di gridare: «Embè, e allora?». Fino a un certo punto il racconto va benissimo, ma occorre dargli un certo climax prima della parola fine.

Fenchurch rise e si strinse le gambe tra le braccia.

– Fu per me una rivelazione così improvvisa, e la vaga ansia che avevo provato per anni si dissolse con tanta rapidità… Fu un po’ come se mi fossi tolta di dosso un peso, come se un disegno in bianco e nero fosse diventato all’improvviso a colori, come se un ramo secco fosse stato di colpo innaffiato. In casi del genere senti d’un tratto la prospettiva cambiare, ed è come se qualcuno ti dicesse: «Lascia perdere le tue ansie, il mondo è bello, è fantastico. Ed è in realtà liscio e piano». Penserai magari che ti dico queste cose perché ho provato una sensazione del genere oggi pomeriggio, vero?

– Be’, io… – disse Arthur, sentendo venir meno di colpo la sua padronanza di sé.

– Va be’, non importa – disse lei. – Te lo dico io che è stato effettivamente così. Ma vedi, questa sensazione l’ho già provata in precedenza, e in modo molto forte. Incredibilmente forte. – Fenny guardò un punto in lontananza e poi aggiunse: – Credo di essere un tipo particolarmente soggetto ad avere rivelazioni improvvise e stupefacenti.

Arthur era imbarazzato, riusciva a stento a proferire parola, e quindi ritenne più saggio evitare di proferirla.

– Fu una cosa molto strana – disse lei, col tono con cui gli egiziani che inseguivano gli ebrei avrebbero potuto dire che era un po’ strano il comportamento del Mar Rosso quando Mosè aveva aperto le sue acque agitando la verga.

– Molto strana – ripeté. – Nei giorni precedenti era nata e si era sviluppata in me una sensazione arcana. Era come se stessi per partorire. Anzi no, era piuttosto come se a poco a poco qualcuno mi stesse collegando a qualcosa. Ma no, non era nemmeno così: in realtà era come se l’intera Terra, attraverso me, si accingesse a…

– Ti dice niente il numero quarantadue? – chiese Arthur, con dolcezza.

– Cosa? No, perché mi dici questo? – domandò Fenchurch.

– Era solo un’idea che mi era venuta – mormorò Arthur.

– Arthur, io non sto scherzando, quello che mi è successo è verissimo, ed è una cosa molto seria.

– Anch’io parlavo sul serio, ti assicuro – disse Arthur. – È solo dell’Universo che non sono mai veramente sicuro.

– Che cosa intendi dire?

– Raccontami il resto della storia – disse lui. – Non aver paura che la giudichi strana. Credimi, stai parlando con uno che ha visto un sacco di cose strane. E non mi riferisco ai biscotti.

Lei annuì, e parve convinta. D’un tratto lo afferrò per un braccio.

– Quando la rivelazione arrivò mi sembrò così semplice – disse. – Così deliziosamente e incredibilmente semplice.

– In che consisteva? – chiese calmo Arthur.

– Sai, questo purtroppo non lo so più – disse Fenny. – E la sento come una perdita irreparabile. Se cerco di ripensare alla cosa, tutto diventa vago e indistinto, e se mi sforzo ancora di più di ricordare, riesco ad arrivare solo alla tazza di tè, e dopo c’è il vuoto assoluto.

– Cosa?

– Be’, come nella tua storia, il teatro della mia esperienza fu un bar – disse Fenchurch. – Ero seduta lì e stavo bevendo una tazza di tè. Questo accadeva dopo che per giorni la sensazione di cui ti parlavo mi si era sviluppata dentro.

«Mi pare che stessi bisbigliando qualcosa fra me e me.

«C’era molta gente che stava lavorando intorno a un edificio che si trovava davanti al bar, e io guardavo la scena dalla finestra e da sopra l’orlo della mia tazza, cioè da quella che secondo me è la prospettiva migliore per guardare gli altri lavorare. Poi all’improvviso da qualche parte arrivò il messaggio, e il messaggio entrò nella mia mente. Era così semplice. Chiariva tutto quanto. Drizzai la schiena e pensai: ‘Oh! Oh sì, questa è la soluzione’. Ero così sbigottita che per poco non lasciai cadere la tazza. Anzi, devo averla lasciata cadere sul serio.»

Ci pensò su un attimo, poi aggiunse: – Sì, sono sicura che la lasciai cadere. Ti pare comprensibile finora la mia storia?

– Fino al punto in cui parli della tazza di tè, è perfettamente comprensibile.

Fenny scrollò la testa due volte come per cercare di schiarirsi le idee, cosa che effettivamente stava cercando di fare.

– Infatti – disse – tutto è chiaro fino al momento in cui ero lì a bere il tè. Fu a quel punto che mi parve letteralmente che il mondo esplodesse.

– Cosa…?

– Lo so che sembra assurdo, e tutti sostengono che si trattò di allucinazioni, ma se quella era un’allucinazione, allora vuol dire che io ho allucinazioni in cinemascope tridimensionale con Dolby Stereo a 16 piste, e che probabilmente dovrei offrirmi a nolo alla gente che è stufa di film di squali. Fu come se la terra si aprisse sotto i miei piedi, e… e…

Accarezzò leggermente l’erba, come per tranquillizzarsi, poi parve cambiare idea su come proseguire il racconto.

– E mi risvegliai all’ospedale. Credo da allora di essere entrata e uscita dall’ospedale varie volte. Ed è per quello che ho istintivamente paura di sapere attraverso qualche rivelazione improvvisa e stupefacente che tutto va bene e non c’è nessun problema.

Arthur aveva completamente smesso di preoccuparsi delle strane anomalie che aveva notato tornando sul suo pianeta d’origine, o meglio le aveva relegate in quei recessi della sua mente contrassegnati dalla targa Cose su cui riflettere – Urgenti. “Ecco qui il mio mondo” si era detto. “Qualunque sia la ragione per cui esiste ancora, ecco qui il mio mondo, bello solido e con me sopra.” Ma adesso quella sicurezza era stata infranta, come già era stata infranta la sera in cui, a bordo della Saab, il fratello di Fenchurch gli aveva raccontato quelle stupide storie sull’agente della CIA trovato nella cisterna.

L’Ambasciata francese gli pareva come appannata da una cortina di spruzzi. Gli alberi gli parevano come appannati da una cortina di spruzzi. Il lago gli pareva come appannato da una cortina di spruzzi, ma quello era perfettamente vero, normale e per nulla allarmante, visto che un’oca grigia vi era appena atterrata sopra. Le oche se la spassavano beatamente e non avevano importanti risposte di cui desiderassero conoscere le domande.

– In ogni caso – disse Fenchurch diventando di colpo allegra e sorridente – c’è qualcosa che non va in me, e tu devi scoprire cosa. Torniamo a casa.

Arthur scosse la testa.

– Che cos’hai? – disse lei.

Arthur aveva scosso la testa non perché disapprovasse la proposta, che anzi riteneva davvero eccellente, una delle migliori proposte che si potessero immaginare al mondo, ma perché per un attimo aveva cercato di liberarsi da un’idea insistente, l’idea che proprio quando meno lui se lo aspettava l’Universo potesse di colpo saltar fuori da dietro una porta e fargli: – Buuu!

– Stavo solo cercando di chiarirmi tutta quanta la faccenda – disse.

– Hai detto che hai avuto l’impressione che la Terra… esplodesse?

– Sì. Ma è stata molto più di un’impressione.

– Mentre tutti gli altri – disse Arthur esitante – sostengono che si sia trattato di allucinazioni?

– Già. Però è assurdo, Arthur. La gente crede, dicendo “allucinazioni”, di poter spiegare qualcosa che non riesce a capire, e che alla fine questo qualcosa si dissolva semplicemente nel nulla. Ma è solo una parola, e non spiega un bel niente. Non spiega perché siano scomparsi i delfini.

– No – disse Arthur. – No – ripeté, meditabondo. – No – ripeté un’altra volta, ancora più meditabondo. – Che cosa? – disse alla fine.

– Non spiega perché siano scomparsi i delfini.

– Già – disse lui. – Capisco. Di che delfini parli?

– Come sarebbe di che delfini parlo? Parlo di quando tutti i delfini sono scomparsi.

Fenny gli posò la mano sul ginocchio, per cui Arthur capì che il formicolio che avvertiva lungo la spina dorsale non era causato dalle carezze di lei, ma doveva essere uno di quei sinistri formicolii che sentiva spesso quando la gente cercava di spiegargli qualcosa.

– I delfini?

– Sì.

– Tutti i delfini sono scomparsi? – disse Arthur.

– Sì.

– I delfini? Stai dicendo che tutti i delfini sono scomparsi? È questo… – puntualizzò, desideroso di dissipare ogni dubbio – è questo che stai dicendo?

– Dio santo, Arthur, ma dove sei stato tutto questo tempo? I delfini sono scomparsi tutti lo stesso giorno in cui io…

Fissò intenta il suo viso stupefatto.

– Cosa…? – fece lui.

– Non ci sono più delfini. Sono tutti scomparsi. Spariti. Fenny lo scrutò attentamente.

– Davvero non lo sapevi?

Che Arthur non lo sapesse risultava chiaro dalla sua espressione sbalordita.

– Dove sono andati? – chiese.

– Nessuno lo sa. Per questo diciamo che sono scomparsi. – Fenny fece una pausa. – A dir la verità c’è un uomo che afferma di sapere dove sono, ma pare che viva in California e che sia pazzo. A un certo punto mi era venuta la tentazione di andare a trovarlo perché forse è l’unica persona che può aiutarmi a capire cosa mi sia successo.

Alzò le spalle, poi lo guardò a lungo, con espressione calma, e gli posò una mano sulla guancia.

– Mi piacerebbe proprio sapere dove sei stato – disse. – Comincio a pensare che sia successo qualcosa di terribile anche a te. Ed è per quello che ci siamo come riconosciuti l’un l’altro.

Buttò un’occhiata al parco, su cui adesso erano calate le ombre della sera.

– Bene – disse – ora hai qualcuno a cui raccontare la tua storia.

Arthur lasciò andare un sospiro lungo un anno.

– È una storia molto lunga – disse.

Fenchurch allungò la mano e prese la sua borsa di tela.

– Ha per caso a che vedere con questo? – disse. L’oggetto che tirò fuori dalla borsa era malconcio e malandato, il che non era strano, visto che era stato gettato in fiumi preistorici, esposto al sole cocente che splende rosso sui deserti di Kakrafoon, semisepolto nelle sabbie candide che circondano gli inebrianti oceani di vapore di Santraginus V, buttato in mezzo ai ghiacciai della luna di Jaglan Beta, usato come sedile, sbattuto a calci in questo o quel punto di diverse astronavi, maneggiato con mala grazia e in genere maltrattato. E poiché chi l’aveva messo in commercio aveva calcolato che questo fosse esattamente il genere di cose che potevano succedergli, lo aveva saggiamente chiuso in una custodia di plastica assai resistente e vi aveva posto sopra, in grandi caratteri che ispiravano fiducia, la scritta NIENTE PANICO.

– Come fai ad averlo? – chiese stupito Arthur, prendendole di mano l’oggetto.

– Ah – disse lei – immaginavo che fosse tuo. L’ho trovato quella famosa sera sulla macchina di Russell. Ti è caduto. Sei stato in molti di questi posti?

Arthur tirò fuori la Guida Galattica per gli Autostoppisti dalla sua custodia. La Guida era un piccolo computer sottile, flessibile e maneggevole. Arthur premette qualche testo, finché sullo schermo brillarono alcune parole.

– Solo in alcuni – rispose.

– Possiamo andarci insieme?

– Cosa? No – disse brusco lui. Poi si addolcì, ma si addolcì molto gradualmente. – Vorresti andarci? – chiese, sperando che la risposta fosse no. Era stato un atto di grande generosità da parte sua non dire: – Non vorrai mica andarci, vero? – una frase che già presupponeva una risposta negativa.

– Sì – disse lei. – Vorrei sapere qual è il messaggio che non ricordo più, e da dove veniva. – Si alzò e guardò le ombre sempre più scure del parco. – Perché non credo che sia venuto da qui.

– Anzi – aggiunse un attimo dopo, circondando con un braccio la vita di Arthur – non sono nemmeno sicura di dove si trovi, questo “qui”.