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Una giornata d’estate ad Islington, con l’aria piena del rumore lamentoso prodotto dalle macchine per restaurare i mobili.

Fenchurch era impegnatissima quel pomeriggio, così Arthur girellò in uno stato di piacevole confusione mentale, guardando tutti i negozi, che ad Islington sono molto utili, come può subito confermare chiunque abbia bisogno abitualmente di vecchi arnesi per lavorare il legno, elmetti risalenti alla guerra contro i boeri, reti a strascico, mobili da ufficio o pesce.

Il sole batteva sui giardini pensili, sugli architetti e gli idraulici, sugli avvocati e i ladri, sulle pizze e soprattutto sugli agenti immobiliari.

Batteva anche su Arthur, che in quel momento stava entrando in un negozio di mobili restaurati.

– È un edificio interessante, questo qui – disse allegramente il proprietario. – C’è uno scantinato con un passaggio segreto che conduce a un vicino pub. A quanto sembra fu costruito per il Principe Reggente, che così era libero di squagliarsela quando aveva necessità di farlo.

– Volete dire quando temeva che qualcuno lo potesse scoprire in flagrante mentre comprava mobili di pino scortecciato? – disse Arthur.

– No – disse il proprietario – non era per quello che fuggiva.

– Scusate – disse Arthur. – È che sono terribilmente felice.

– Capisco.

Arthur continuò a girellare e si ritrovò davanti agli uffici di Greenpeace. Si ricordò dello schedario su cui aveva scritto Cose da fare – urgenti! e che nel frattempo non aveva più aperto. Entrò con un allegro sorriso sulle labbra e disse che voleva offrire dei soldi per il progetto con cui Greenpeace si proponeva di liberare i delfini.

– Molto divertente – gli dissero. – Fuori dai piedi.

Non era certo il tipo di risposta che Arthur si aspettava, per cui insistette. Questa volta i responsabili dell’associazione si arrabbiarono molto; Arthur allora versò ugualmente una somma e tornò fuori, alla luce del sole.

Subito dopo le sei, con una bottiglia di champagne sottobraccio, tornò nella stradina dove sorgeva la casa di Fenchurch.

– Tieni – disse lei, mettendogli in mano una grossa corda e scomparendo dentro la grande porta di legno bianco da cui penzolava un massiccio lucchetto fissato a una sbarra di ferro nera.

La casa era una piccola stalla ristrutturata e si trovava in un vicolo nella zona dove sorgevano industrie leggere, dietro il fatiscente Istituto Agrario Reale di Islington. Oltre alla grande porta da stalla, aveva anche una porta d’ingresso normale impiallacciata in legno lucido, con un batacchio nero a forma di delfino.

L’unica cosa strana di quella porta era il gradino, alto circa due metri e mezzo: la porta si apriva infatti sul secondo dei due piani e forse era stata utilizzata in origine per buttare il fieno a cavalli affamati.

Dalla muratura in mattoni sopra l’ingresso spuntò una vecchia carrucola in cui era infilata la fune di cui Arthur stava reggendo un capo. All’altro capo era sospeso un violoncello.

La porta sopra la testa di Arthur si aprì.

– Va bene – disse Fenchurch – tira la corda, tieni fermo il violoncello e passamelo.

Arthur tirò la corda e tenne fermo il violoncello.

– Non posso tirare ancora senza lasciar andare il violoncello – disse. Fenchurch si sporse giù.

– Lo tengo fermo io – disse. – Tu tira la fune.

Il violoncello arrivò all’altezza della porta dondolando leggermente, e Fenchurch lo prese e lo mise dentro.

– Vieni pure! – gridò ad Arthur.

Arthur raccolse la bottiglia di champagne e con un brivido di gioia entrò in casa dalla porta più grande. La stanza di sotto, che aveva già visto per un attimo, era semplice e piena di cianfrusaglie. Vicino a una parete c’era un vecchio mangano di ghisa, e in un angolo erano ammucchiati vari lavelli. Arthur per un attimo si sentì allarmato quando vide che c’era anche una carrozzina per bambini, ma era molto vecchia e piena fino all’inverosimile di libri.

Il pavimento, macchiato, era di cemento e aveva qui e la delle crepe eccitanti. Il fatto che delle crepe sul pavimento sembrassero ad Arthur eccitanti faceva capire quale fosse il suo stato d’animo mentre saliva su per la sgangherata scala di legno collocata nell’angolo più lontano.

Perfino un pavimento di cemento crepato gli pareva qualcosa di inconcepibilmente sensuale.

– Un mio amico architetto non fa che dirmi che potremmo tirar fuori meraviglie da questo posto – spiegò allegramente Fenchurch quando Arthur arrivò al piano di sopra. – Ogni tanto arriva qui, se ne sta con espressione estatica a borbottare qualcosa a proposito dello spazio, degli oggetti, delle particolarità, delle qualità stupende della luce, poi dice che gli occorre una matita e non si fa più vivo per settimane. Perciò le meraviglie non le abbiamo ancora tirate fuori.

In realtà, pensò Arthur guardandosi intorno, la stanza del secondo piano era già abbastanza bella, anche senza l’intervento dell’architetto.

Era arredata con semplicità e piena di cuscini. E in un angolo c’era anche un apparecchio stereo con casse acustiche che avrebbero suscitato invidia nei tizi che eressero Stonehenge.

Qui e la si vedevano fiori pallidi e quadri interessanti.

Sotto la pendenza del tetto una struttura che ricordava vagamente una galleria ospitava un letto e anche un bagno in cui, spiegò Fenchurch, si poteva stare stretti come sardine. – Come sardine – aggiunse – abbastanza pazienti da sopportare di scorticarsi la testa. E così… Eccoti qui.

– Sì.

Si guardarono un attimo.

L’attimo si fece più lungo, di colpo diventò un attimo lunghissimo, così lungo che c’era da chiedersi come potesse esistere un tempo così interminabile.

Per Arthur, che di solito riusciva a sentirsi impacciato anche quando veniva lasciato solo per un periodo abbastanza esteso davanti a una fabbrica di formaggi svizzeri, quello fu un momento di prolungata rivelazione. Si sentì d’un tratto come un animale nato allo zoo e abituato a uno spazio ristretto che svegliandosi una mattina trovasse la porta della gabbia aperta, vedesse la savana grigio–rosa stendersi fino al lontano sole dell’alba, e udisse suoni nuovi e sconosciuti.

Mentre guardava il viso stupito di Fenny e i suoi occhi che sorridevano anch’essi stupiti, si chiese quali fossero i suoni nuovi e sconosciuti.

Prima d’allora non aveva mai capito che la vita ci parla, e che la sua voce dà risposta alle domande che le poniamo di continuo; non aveva mai captato consciamente quella voce, né riconosciuto i suoi toni fino a quel momento, quel momento in cui la voce gli aveva detto una cosa che non gli aveva mai detto prima, e cioè: – Sì.

Fenchurch alla fine distolse lo sguardo, scuotendo leggermente la testa. – Lo so – disse. – Bisognerà che tenga a mente che sei il tipo di persona che non può tenere in mano un semplice pezzo di carta per due minuti senza vincere a una lotteria. Voltò le spalle.

– Andiamo a fare una passeggiata – si affrettò a dire. – A Hyde Park. Adesso mi cambio e mi metto qualcosa che mi stia meglio.

Indossava un vestito scuro piuttosto austero e non particolarmente elegante, che in effetti non le stava troppo bene.

– Questo vestito lo porto soprattutto quando vado dal mio professore di violoncello – disse Fenny. – È una simpatica persona, ma a volte ho l’impressione che quando mi chino sullo strumento e suono si ecciti un po’. Torno subito.

Salì agilmente i gradini che portavano alla galleria e gridò da sopra: – Metti la bottiglia in frigo per dopo.

Mentre infilava la bottiglia di champagne in frigorifero, Arthur vide che ce n’era un’altra identica, dentro.

Andò alla finestra e guardò fuori. Poi girò le spalle e diede un’occhiata ai dischi. Da sopra sentì arrivare il fruscio del vestito che cadeva sul pavimento. Cercò di ricordarsi che era una persona seria. Si disse con molta fermezza che doveva almeno per qualche secondo tenere gli occhi saldamente incollati alle copertine dei dischi, leggere i titoli, annuire con aria di apprezzamento e addirittura contarli quei maledetti, se era necessario. Ma che in nessun caso doveva alzare la testa.

Tutto questo mancò orribilmente e vilmente di fare.

Fenny lo stava fissando con tanta intensità, che parve non notare nemmeno che lui aveva alzato gli occhi per guardarla. Poi di colpo scrollò la testa, s’infilò un prendisole leggero e scomparve subito in bagno.

Uscì un attimo dopo, sorridente e con un cappellino da sole, e scese le scale con agilità straordinaria. Si muoveva in modo strano, come se ballasse. Si accorse che Arthur la osservava e inclinò leggermente la testa.

– Ti piace? – chiese.

– Sei splendida – disse lui, perché lo pensava davvero.

– Uhmmm – fece lei, come se Arthur non avesse in realtà risposto alla domanda.

Chiuse la porta d’ingresso del piano di sopra, che durante tutto quel tempo era rimasta aperta, e si guardò intorno come per controllare che nella piccola stanza le varie cose fossero a posto e potessero restare da sole per un po’. Arthur seguì la direzione del suo sguardo, poi, quando lui distolse gli occhi, Fenny prese qualcosa da un cassetto e lo infilò nella borsa di tela che aveva con sé.

Arthur si girò di nuovo verso di lei.

– Sei pronta?

– Tu lo sai, vero, che ho qualcosa che non va? – disse lei, con un sorriso un po’ strano.

Quella domanda diretta colse Arthur alla sprovvista.

– Be’, ho sentito fare dei discorsi piuttosto vaghi su…

– Mi chiedo quanto tu possa sapere di me – disse Fenny. – Se i discorsi li hai sentiti da chi penso, non sono certamente attendibili. Russell dice solo un mucchio di sciocchezze, perché non riesce a capire quale sia in realtà il problema.

Arthur provò una fitta di ansia.

– Allora qual è il problema? – chiese. – Puoi dirmelo?

– Non ti preoccupare – disse lei. – Non è niente di brutto. Solo una cosa insolita. Molto, molto insolita.

Gli toccò la mano, poi si protese verso di lui e gli scoccò un piccolo bacio.

– Muoio dalla voglia di sapere se riuscirai a indovinarla, stasera.

Arthur sentì che, se a quel punto qualcuno gli avesse dato un colpetto sulla spalla, il suo corpo avrebbe emesso un suono armonioso, come quello limpido e profondo che mandava la vaschetta per i pesci quando lui vi batteva sopra con l’unghia del pollice.