Sono nata coi figli.
Franca Viola

Anche quarant’anni fa suonarono alla porta a quest’ora del mattino. Era il 26 dicembre del 1966, aprì sua madre. Erano tredici giovani armati, portarono via Franca, la tennero prigioniera otto giorni in un casale abbandonato. Filippo Melodia, il rampollo della potente famiglia che la voleva sposare a dispetto del suo rifiuto, pensò così di averla avuta e invece no. «Nell’istante in cui l’ho visto entrare con le armi in casa mia ho saputo che quell’uomo non l’avrei sposato mai. Con la violenza, mai.» In questa vigilia di Natale, quarant’anni dopo, è Franca Viola che scende ad aprire la porta. È ancora bellissima. La pelle liscia di luna, il naso dritto, le labbra che sembrano dipinte senza esserlo. Un grembiule, uno spazzolone e uno straccio, i capelli ricci che cadono sulla fronte: «Scusi sono veramente in disordine. Stavo per cominciare a pulire le scale». È nonna, la nipote Sonia ha appena compiuto tre anni, in soggiorno c’è il suo triciclo.

Franca Viola è nei libri, tra le donne che hanno fatto il Novecento: icona del primo rifiuto, in Sicilia, del matrimonio che ripara il disonore. Della dignità, della libertà di scegliere. Della ribellione alla legge non scritta che impone alle donne sacrificio e silenzio. È nelle enciclopedie e nelle tesi di laurea, ma lei non lo sa. C’è una Bibbia, nella libreria di casa sua, e qualche album di foto. «La mia vita non si è fermata allora, è stata un’altra. Con mio marito di quegli otto giorni non abbiamo parlato mai. Sono una moglie, una madre, una nonna. Non ho fatto niente di straordinario, ho solo dato ascolto al mio cuore. Come avrei potuto vivere con un uomo violento che non aveva avuto rispetto di me? Che futuro avrei avuto con lui? Sarei stata una schiava, prigioniera di un uomo che disprezzavo. Come si può accettare una sorte così? Ecco, io ho avuto la fortuna di un padre eccezionale, lui sì che mi avrebbe potuto imporre il matrimonio e non l’ha fatto. Mi chiese, quel giorno, riportandomi a casa sulla macchina dei carabinieri: “Cosa hai deciso, Franca?”, “Non lo voglio sposare”. “Brava, figlia mia. Tu metti una mano e io ne metto cento”, capisce che vuol dire?» Vuol dire ti aiuto. «Ecco, sì. Vuol dire tu con la tua piccola forza e io con la mia, che sarà cento volte tanta. E guardi che era difficile per un povero contadino, allora, opporsi alla volontà di una delle quaranta “famiglie” di Alcamo, la più importante per giunta. Gli avevano bruciato il capanno e raso al suolo le vigne, lo avevano minacciato con la pistola per strada. Lo avrebbero ammazzato anche per meno, erano anni così. Però lui mi disse fai come vuoi tu, Franca, fai come ti senti. Si chiamava Bernardo, mio padre. Anche il mio secondo figlio: Bernardo Mauro. I figli mi hanno riempito la vita, non i ricordi.»

Parla un italiano perfetto. Sta diritta sul divano del salotto con le gambe incrociate e appena inclinate. Le persiane sono chiuse, una porta scorrevole e di là c’è il tinello moderno e pulito, il presepe con la foto di Padre Pio, le tende coi ricami. In camera da letto un copriletto di raso rosa, cuscini di trine. «In questa casa a parlare del fatto successo non è mai entrato nessuno.» Il «fatto successo», lo chiama. «Sono venuti a centinaia, una giornalista una volta è arrivata dall’America, è venuto Pippo Baudo di persona proprio qui e io l’ho fatto entrare, certo. Mio marito ci ha fatto una foto, se vuole gliela mostro, ma in tv no, non ci sono andata mai. Solo una volta, qualche anno fa, mi sono fermata qualche minuto sulla porta a parlare con un suo collega di Palermo, un signore gentile, poi siamo saliti da una vicina, lui mi aveva portato un libro che parlava di me. Però mai, mai ho voluto parlare di me perché davvero non saprei che dire. Mio marito dovete intervistare, mio marito sa cosa ha fatto?» Cosa? «Ha rischiato la vita per amore. Io l’avevo conosciuto che avevo 14 anni, lui 18. Un suo fratello aveva sposato una mia zia, così frequentava la casa. Ci eravamo promessi, una cosa da ragazzi ma vera, sincera. Poi, dopo il fatto successo, io non l’ho voluto più. Quello che mi aveva rapita mi aveva detto, prima di lasciarmi andare: “Adesso tutti puoi sposare se non vuoi sposare me, ma quello no perché lo ammazzo”. Allora quando Giuseppe, mio marito, mi ha detto sposiamoci gli ho detto no, perché ti ammazza. Io sola voglio restare. Mi faccio monaca, piuttosto. Resto vicina alla mia famiglia, sto coi miei genitori. Giuseppe insisteva: sposami. C’era stato il processo, a quell’uomo undici anni di carcere gli avevano dato. Io gli ho detto: “Fra dieci anni esce e ti ammazza”. Giuseppe mi ha risposto: “Meglio vivere dieci anni soli con te che tutta la vita con un’altra”. Ci devo mettere anche i miei suoceri nell’elenco di quelli che hanno avuto coraggio. Una madre che vede suo figlio avviarsi a un destino così incerto si può opporre, mia suocera non l’ha fatto, sono stata una figlia per lei. Vede, alla fine l’eccezionalità della mia storia è solo questa: aver avuto attorno una famiglia straordinaria.»

Era di una bellezza sorprendente Franca Viola a diciott’anni, un’attrice, una Mangano. Quando della sua vicenda fecero un film, La sposa più bella, chiamarono Ornella Muti ragazza. Filippo Melodia la voleva, era ricco e potente, lei poverissima. Con dodici amici lui organizzò la «fuitina». La rapirono insieme al fratellino Mariano, che allora aveva otto anni. Il bambino piangeva e stava male, dopo un paio di giorni lo riportarono a casa. Lei restò nel casale. C’era un guardiano di bestie che li aveva visti passare, non disse nulla. «Omertà. Tutti sapevano, ma nessuno parlava. Mio padre, il terzo giorno, prese il fucile e cercò di uccidersi. Glielo tolse di mano mio zio. Pensava che fossi in fondo a un pozzo, che mi avessero uccisa. Lo vedo ancora il giorno che venne a prendermi, con la barba lunga di una settimana. “Non mi potevo radere la barba se tu non c’eri, figlia”, mi disse.» È qui che piange, Franca Viola: a rivedere quella barba lunga, gli occhi di suo padre quel giorno. «Lei vuole sapere come ho fatto a non restare prigioniera tutta la vita di quella settimana. Venga, glielo mostro.» In camera da letto c’è un quadro col volto di Cristo, un disegno. «Ecco, questo era nella mia cameretta di ragazza. Io ci parlavo tutti i giorni. Lui mi diceva avanti, Franca, avanti. Mi accompagna da tutta la vita. La fede è una grande fortuna. Io, in specie, ho avuto una grazia da Dio: non ho paura. Non ho mai avuto paura, non ho mai camminato voltandomi indietro a guardarmi le spalle. È una grazia vera, sa? Perché come diceva Borsellino, il giudice: se non hai paura di morire muori una volta sola. Capisce che vuol dire?» Credo, sì. «Vuol dire che se hai paura muori un po’ ogni volta che hai paura. Poi ti riprendi, ma vivi morendo. Se non hai paura, invece, vivi fino a quando non muori ed è solo un momento, allora.»

Vita, sua madre, abita nella casa vicino. Ha compiuto ottant’anni, Franca mostra le foto. Suo padre no, è morto vent’anni fa. «Ma ha fatto in tempo a vedere Nunzio Sergio e Bernardo Mauro, i miei ragazzi. Mi ha vista felice.» I ragazzi sono uomini, adesso. 36 e 30 anni. Il primo ha una figlia, il secondo si sposa l’anno prossimo. «È arrivato un momento in cui ho dovuto dirglielo. Sergio era in prima media, la sua insegnante un giorno disse in classe: “Fra qualche anno nelle antologie ci sarà anche la storia della mamma di Sergio”. Allora lui tornò a casa e mi chiese: “Mamma, quale storia?”. Così gliel’ho raccontata, l’ho fatta un po’ più lieve ma gliel’ho raccontata tutta. Lui mi ha chiesto di leggere le riviste, qualcuna l’ho conservata. Tutte no, perché erano migliaia. Lo sa che ho dovuto sposarmi alle sette del mattino per evitare i giornalisti? Sono stati qui sotto casa per mesi, sono tornati per anni, ma io no, non volevo parlare: ho sempre voluto proteggere questa vita normale. Anche la scorta abbiamo mandato via. Per due anni dopo il processo sono rimasti i carabinieri nel garage davanti casa: io uscivo, e mi accompagnavano. Mio fratello andava a scuola, e lo portavano.» Le «famiglie», era logico, si sarebbero vendicate di quella condanna. Tredici ragazzi in galera, Franca fiera della sua vita. E invece no, non si è vendicato nessuno. «Le donne delle famiglie di quei tredici, le madri, le fidanzate, le sorelle, hanno capito, io credo, col tempo che era stata una cosa giusta. Avranno pensato: e se fosse successo a me? La cosa sorprendente è che dopo il fatto successo io pensavo di farmi monaca e invece lo sa che ho avuto tante proposte di matrimonio? Quelle venute da fuori non le conto nemmeno, ho una valigia piena di lettere di gente che mi ha scritto e c’erano anche quelli che dicevano “sposami”, ma cosa vuole, sono cose che si dicono, però cinque o sei proposte le ho avute qui, da ragazzi di Alcamo, ragazzi che conoscevo. La gente a volte è più forte del destino che gli tocca.»

Filippo Melodia è morto, ucciso vicino a Modena da due colpi di lupara due anni dopo aver scontato la sua pena, nel ’78. Gli altri sono liberi. «Negli anni qualche loro familiare è venuto a chiedermi di firmare le carte perché potessero avere un lavoro, fare un concorso. Le ho firmate. Li incontro qui in città, ogni tanto. Preferisco evitarli, ma se non riesco li saluto, e loro mi salutano: ciao. Quasi sempre abbassano lo sguardo. Ho pensato, nel tempo, che magari anche loro erano stati ingannati. Anche a loro quello aveva detto quel che poi ha detto al processo: che io ero d’accordo a sposarlo ma mio padre no. Così si sono prestati a fare da complici. Anche il papa me lo ha detto: “Le persone a volte sbagliano senza rendersi conto”.» Papa Paolo VI. «Ci ricevette in udienza privata durante il viaggio di nozze, nel ’68. Mi disse che benediceva me, mio marito e i figli che sarebbero venuti. Io ero così emozionata che non riuscivo a far altro che guardare quei piedi piccolissimi nelle scarpe bianche di raso, e pensavo: “Ma come fa il papa a sapere tutta la mia storia?”. Quando siamo usciti dal Vaticano mio marito mi ha detto: “Ma Franca, avrà avuto qualcuno che gliel’ha raccontata prima”. Ecco, sì, dev’essere andata così.» Signora Viola, la sua storia non la sapeva solo il papa: la sapevano tutti. «Questo, adesso che glielo sento dire, ancora mi sorprende, sa? Ma perché? Cosa ho fatto io? Lei non avrebbe fatto la stessa cosa? Nulla, ho fatto. Solo che, accidenti, parlando parlando s’è fatto tardi e non ho nemmeno pulito le scale.»