Charlotte e Justine, lo sguardo del padre
C’è una foto di Annie Leibovitz che ritrae tre donne e un cane su un letto. Sono tutti bellissimi: le donne, il cane, il letto. La maggiore delle tre è Jane Birkin: in jeans e maglietta slabbrata, gli occhiali che pendono da un cordoncino al collo, i capelli raccolti con una pinza e spettinati sul viso. Sta in ginocchio sul letto e ride a occhi chiusi. Con una mano, la destra, accarezza il cane bianco abbandonato tra le sue gambe lunghe. Con la sinistra tiene una sigaretta già a metà, la tiene discosta dal corpo col gesto consueto di chi vuole allontanare il fumo. Ha un filo di rossetto, un amuleto indiano, l’aria di una cattiva ragazza di buona famiglia che sale con le scarpe sul letto di broccato color crema nella stanza tappezzata ton sur ton. La seconda donna è stesa bocconi: anche lei ha i jeans e una maglietta, anche lei è spettinata, anche lei ride. Ha gli occhi aperti, però, occhi orientali, pelle scura, capelli nerissimi: Lou Doillon, diciannove anni, la figlia. Guarda la terza donna, sua sorella. Charlotte Gainsbourg sta seduta sul bordo del letto e non ride: fissa l’obiettivo della fotografa. Lei sola lo fissa, severa. Ha addosso un cappotto di pelle nera, sembra l’unica ritratta per caso e sul punto di andarsene. Le due giovani figlie di Jane Birkin fanno le attrici: Lou è stata da poco scelta come testimonial da Givenchy, Charlotte ha lavorato in America coi divi di Hollywood e in Europa nel cinema colto. Sono entrambe molto celebri in Francia, nessuna tuttavia come la madre. Il padre di Lou è Jacques Doillon, regista. «È stato molto duro essere la figlia di una donna tanto bella e sentirsi invece tutto il contrario. Mi guardavo allo specchio e vedevo un maschiaccio, a quindici anni non avevo né seno né forme. A peggiorare le cose mia madre era considerata da tutti la donna di Gainsbourg, il genio. Io ero la figlia dell’altro: quell’idiota per cui lei aveva lasciato Serge.» Charlotte col cappotto di pelle è la figlia di Serge. Ha sempre il broncio, nelle foto, spesso le occhiaie. Ride solo con gli angoli della bocca. È molto pallida. «Sono sempre stata circondata da donne bellissime: mia madre, mia sorella. A me nessuno ha mai detto che fossi brutta, ma lo sapevo. Lo sapevo dallo sguardo di mio padre.»
Lo sguardo di tuo padre. Lo sguardo muto, colto in corridoio mentre passa davanti alla porta aperta della tua stanza. Lo sguardo che passa in rassegna le donne pronte per uscire la sera, dai ragazze che andiamo, e che però su di te scivola più svelto. Lo sguardo da dietro il giornale, dal tavolo della colazione, dallo specchietto retrovisore in macchina. Lo sguardo che sparisce appena lo intercetti e in quella frazione di secondo si inchioda. Lo sai cosa pensa tuo padre di te, lo senti in quegli istanti: ti resta addosso più forte degli abbracci e delle parole, più longevo dei gesti. Un padre guarda, soprattutto. Sorveglia, esamina, giudica. Un padre non importa quanto c’è, non conta cosa dice: importa come ti guarda. È quello sguardo che ti definisce – ai suoi occhi, ai tuoi – una volta per tutte. È quello che torna nei sogni.
Anche Justine ha dietro al collo, dove si attaccano i capelli, gli occhi di suo padre. Una che di nome si chiama come un racconto di De Sade e che di cognome si chiama Lévy. Tempo fa ha scritto un libro autobiografico: Niente di grave. Uno pensa: la figlia di Bernard-Henri Lévy (per i francesi Bhl, non più un uomo ma un marchio) potrebbe anche astenersi dallo scrivere romanzi. Potrebbe dedicarsi all’astronomia, studiare le galassie, aprire asili modello secondo un suo personale principio dell’educazione dei fanciulli o, come si dice in genere con spregio delle persone molto fortunate, fare della beneficenza. Non scrivere, insomma. Non scrivere di suo padre, tra l’altro. Un giorno questa ragazza col naso a punta e le sopracciglia ad ala di gabbiano, questo impeccabile esemplare di giovinetta francese è comparsa in tv intervistata da Bernard Pivot. Lui con una certa sufficienza le ha chiesto: scusi, ma lei perché per il suo libro non ha usato un altro cognome? Lei gli ha sorriso: «Se uno si chiama Pivot può anche cambiare cognome. Se si chiama Lévy non può farlo».
Nel romanzo, per settimane ai vertici delle classifiche dell’esigente mercato francese, Justine Lévy racconta di furti: di come lei rubasse le anfetamine dal cassetto di suo padre, di come Carla Bruni le abbia rubato il fidanzato Raphaël, anch’egli figlio di un filosofo non famoso quanto il superbo genitore, però. Scrive dell’impossibile fuga dallo sguardo di suo padre, del coraggio che serve per tornare indietro e finalmente incrociarlo. È difficile sempre, forse più difficile ancora quando sei per tutti «la figlia di». Bisogna prima arrivare in fondo al precipizio, ammazzarsi quasi e poi tornare su, se ti riesce: solo allora raccontare con quella voce scarna e aspra com’era stare lì in fondo al pozzo. Sopportare i mostri, liquidarli, cadere in tutte le trappole e uscirne. Soffocare sotto una madre che muore di cancro, un padre che sovrasta chiunque, un amore che finisce così male. Patire tutti i dolori del mondo in un buio secco e bruciato e poi dire va bene, va bene: è andata così. «Ogni storia è un brogliaccio della prossima, si tira una riga, un’altra riga e quando il compito è quasi pulito e senza errori d’ortografia non resta che andarsene.» Questione di igiene e di grammatica, un fatto di ordine. Niente di importante. Niente di grave.