Cerchio interno
di Barry N. Malzberg
Titolo originale: Inner Circle
Papà dice, guardando la mamma: — Saresti un piatto gustoso. Mi piacerebbe tagliarti arto per arto, spellare i resti, arrostirli nel forno giusto per tirare fuori il meglio e poi mangiarli uno a uno, banchettando per una settimana. Certo tu mi capisci, non è vero? È un desiderio normale e naturale, almeno tenendo conto della maledizione atavica.
La mamma, senza alzare lo sguardo dai suoi anagrammi (è appassionata di quei ripugnanti giochetti di società: si isola in qualche angolo per ore e ore alle prese con vecchi giornali e libri di enigmistica: in questi ultimi tempi è davvero impossibile avere un contatto umano con la vecchia), dice: — Non essere ridicolo, Charles. Il cannibalismo non è solo un delitto, è un profondo insulto allo spirito, una violazione di tutte le leggi di Dio. Inoltre — aggiunge guardando nella mia direzione, nel punto in cui mi tengo in disparte vicino alla finestra, osservando tra un’avida occhiata e l’altra quanto succede sulla terrazza esterna che si spinge qualche metro oltre uno strapiombo di centocinquanta metri — inoltre il ragazzo costituirebbe un pasto molto più soddisfacente di me. Ha solo venticinque anni, è nel pieno del suo vigore, nel pieno uso della propria carne, per così dire, mentre io sono decisamente avvizzita, come sai bene, Charles, e poi — conclude — comincio a essere davvero stanca di tutte queste discussioni, per non parlare delle maledizioni ataviche e così via. Questa faccenda ti sta ossessionando, Charles, forse per via dell’età. Perché non ti dedichi a qualche passatempo salutare come il mio e distogli la mente da questi pensieri cupi e contorti? — Poi torna al suo crittogramma. — Come scomponi “vile” per formare altri due vocaboli? — chiede.
Ma il papà non si lascia scoraggiare né distrarre. — Scusami, Eva — dice, e si alza spingendo indietro la sedia a dondolo per andare nervosamente in cucina da cui emerge poco dopo con due coltelli da macellaio e un sacco buttato su un braccio. — Sul serio, scusami, ma tu capisci che la maledizione atavica è molto chiara. Tutte le persone della mia linea di discendenza a un certo momento della loro vita sono portate al cannibalismo, il più oscuro e voluttuoso di tutti i desideri, e poi noi non andiamo più d’accordo da molti anni. Direi che il nostro matrimonio ha perso spontaneità e calore. — Comincia ad affilare i coltelli uno contro l’altro sprigionando piccole scintille di fuoco. — E comunque — aggiunge — non posso farlo con il ragazzo. Non corrisponderebbe ai termini della maledizione, mangiare lui, intendo, e poi — dice avvicinandosi alla mamma con i coltelli protesi — penso che avrò bisogno di lui per tenerti ferma — e mi fa un cenno con gli occhi.
Io balzo giù dalla sedia (spingendola violentemente indietro verso la terrazza dove ondeggia per un attimo sull’orlo, e poi precipita giù, provocando un terribile impatto qualche attimo dopo), arrivo dietro la mamma e le poso con forza le mani sulle spalle, mentre il papà le punta decisamente i coltelli contro. Lei si dibatte.
— Non è possibile! — grida. — Io ti ho sposato, Charles, nonostante tutti i tuoi limiti perché in qualche modo mi attraevi, e il matrimonio rimane un sacramento. — Per un attimo la vecchia mi lascia sbalordito. Non avrei mai pensato che avesse tanto coraggio e perseveranza. Tira e scalcia, comincia a trascinarmi in una fuga precipitosa per la stanza, seguita da una piccola esplosione di pagine enigmistiche e opuscoli di rompicapi... ma, come ha detto lei stessa, io sono nel fiore della gioventù, nel pieno del mio vigore. Con pazienza e pochi colpi ben assestati in testa riesco a tenerla ferma mentre papà avanza verso di lei per poi affondarle con forza i coltelli nella nuca e nelle cosce, e dopo qualche grido la vecchia muore sotto di me.
È un’esperienza profonda e mortale, quasi edipica, stare seduto sulla propria madre mentre il proprio padre la uccide, ma ricordo a me stesso che in questa faccenda ci sono ben pochi elementi di ordine psicologico, che tutto ha a che fare con la terribile e antica maledizione della linea paterna, e così mi lascio assorbire dai compiti immediati mentre il papà squarta abilmente la mamma, qui una giuntura, là un bulbo oculare, qua l’arco di un tendine, parti scelte da un lato, i resti nel sacco, poi asciugamani da cucina per asciugare il sangue, e alla fine...
Io e il papà, seduti nella sontuosa, ma poco usata (la mamma odiava i lavori domestici troppo pesanti) sala da pranzo sull’altro lato della casa, mangiamo la mamma al cartoccio, succulenti e delicati bocconcini di mamma che passano, croccanti, dalla bocca allo stomaco: papà aveva proprio ragione, è un piatto davvero saporito, i suoi difetti da viva (grassezza, pigrizia) si sono trasformati in pregi sulla tavola da pranzo, e papà e io affondiamo le forchette, scaviamo avidamente con le dita verso la fine del banchetto, scusandoci l’un con l’altro per le nostre cattive maniere, arraffando e masticando, finché, proprio quasi alla fine del pasto, sentiamo un colpo alla porta e papà si sente in dovere di rispondere. Un tipo vestito dell’uniforme delle autorità (credo che sia il poliziotto locale anche se tutti i rappresentanti delle autorità esterne mi sembrano uguali) entra nella sala da pranzo seguito dal papà, guardando con interesse i mobili intarsiati, per non parlare del cibo sul tavolo che naturalmente, a questo punto del pasto, sembra carne di manzo o di vitello. Non provo nessun brivido di paura: i nostri rapporti con il villaggio sono da molti anni frammentari e dubito che qualcuno sentirà mai la mancanza della mamma.
— Volete favorire al nostro umile pasto? — chiede il papà, indicando le diverse posate e pochi bocconi di carne rimasti nel grande piatto di portata, e il poliziotto dice no, no, ha appena mangiato, dandosi dei colpetti sulla pancia, e poi chiede se abbiamo il regolare permesso di sepoltura. Papà, a quanto pare, ha già informato il poliziotto locale della sventurata morte della mamma e ha comunicato di aver già provveduto alla sepoltura privata. È stato molto sciocco da parte sua, decido io, guardando il vecchio, ma il papà si è sempre sentito in dovere di soddisfare le piccole complicazioni burocratiche della legge comune: forse dipende dal suo desiderio di fare tutto legalmente anche nel mezzo della terribile maledizione.
— No — dice papà, sfregandosi le mani, perplesso — perché... no, no, non ho pensato al permesso di sepoltura, una cosa così sconvolgente, così triste, così sventurata, la mia amata moglie da quarant’anni e più... con nostro figlio, nel fiore della gioventù, fuoco dei nostri reni, così terribilmente triste, ho deciso di provvedere da solo alla sepoltura e all’inumazione. Ecco tutto, e non ho pensato al permesso. Mi dispiace davvero, agente.
I suoi occhi sono spiritati: il vecchio sembra addirittura sul punto di farfugliare qualcosa di non molto lontano dalla verità. Con un’occhiata ammonitrice lo faccio stare zitto.
— Ah — fa il poliziotto, infilando i pollici nella cintura e osservando gli strani ed eleganti mobili della sala da pranzo. — Certo, posso capire... siete rimasti isolati per tanti anni su questa collina ed è comprensibile, il grande dolore, l’emozione improvvisa e così via. Possiamo concordare una veloce deposizione che mi potete rilasciare anche adesso e che confermi che voi ignoravate la necessità di un permesso per la sepoltura. Non vi dispiace se accetto qualcosa da mangiare, vero? — dice, guardando avidamente il piatto. La carne ha un aspetto invitante. — Solo un assaggio, tanto per gradire... Comunque dov’è seppellito il corpo? Potrei vedere le spoglie?
— Mi dispiace — dice papà, prendendo un piatto e riempiendolo mentre il poliziotto diventa rosso, si lecca le labbra e tiene lo sguardo abbassato, ma non gli chiede di smettere — ma le spoglie non sono disponibili. L’abbiamo messa in una cassa e l’abbiamo lasciata cadere giù nel burrone dalla terrazza. — Con la mano indica le colline. — È laggiù — dice — la bara si è fracassata in mille pezzi.
— Perché avete fatto una cosa del genere? — chiede il poliziotto, prendendo con aria schiva il piatto, afferrando una forchetta e infilzando un bel pezzo tenero di carne. — Mi sembra una cosa un po’ strana.
Vero, vero — concorda tristemente papà, sfregandosi di nuovo le mani in quel suo caratteristico gesto irritante — ma doveva essere fatto. È un’antica tradizione familiare, parte del nostro retaggio.
— Che idiozia — dico più tardi a papà, dopo che il poliziotto ha raccolto la deposizione, ha fatto il bis della mamma (e questo significa che ne rimane ben poco per domani, ma cosa potevamo fare? Non potevamo dire di no; l’ha trovata deliziosa). — Informare le autorità, intendo dire, quando non ce n’era nessun bisogno. Al villaggio sanno a malapena che siamo qui e poi l’idea di non dire che avevi un permesso di sepoltura è stata davvero stupida. Il fatto è che tu, vecchio — dico avvicinandomi... siamo seduti nel soggiorno, devo far notare, il papà allungato in una sedia con un foglio di giornale sullo stomaco, mezzo appisolato è soddisfatto dopo l’abbondante pasto... — hai complicato le cose in modo spaventoso e noi non abbiamo più molta carne per domani e — concludo, afferrando un coltello che lui aveva lasciato inavvertitamente nel soggiorno dopo la sistemazione della mamma, segno di senilità incipiente — penso che ti toglierò di mezzo. — Impugno il coltello come una spada e gli salto letteralmente sulla pancia.
Di colpo lui riacquista lucidità. — È ridicolo — dice. — Non hai nessun motivo per uccidermi, non ti ho fatto niente e poi la maledizione non si impone finché il membro di sesso maschile non ha oltrepassato i sessant’anni, mentre tu, figliolo, ne hai solo venticinque.
— Ma la maledizione è stata infiammata dalla carne, da vera carne! — E poi lottiamo furiosamente.
Papà è sorprendentemente forte per la sua età e per le condizioni fisiche in cui si trova, se si tiene conto che è in stato quasi comatoso per l’enorme pasto consumato. Riesce a evitare il mio primo attacco e rotoliamo a terra, papà e io, stretti in una lotta mortale per la sua carne, e a un certo punto lui mette la mano sul coltello, cosa che mi sconcerta, e spinge il mio polso indietro imprimendogli un’angolazione pericolosa: sarebbe certamente ironico e terribile se fossi io a essere mangiato da lui, ma poi giovinezza, forza, coraggio e audacia prevalgono come sempre succede, sia dentro sia fuori delle favole, e io rigiro il coltello, glielo pianto nel collo e riesco a recidergli la trachea. Lui caccia fuori un enorme fiotto di sangue e saliva e mi muore catastroficamente ai piedi.
Faccio quello che è necessario, cioè la routine che mi è già familiare: coltelli, sacchi, asciugamani, eccetera eccetera. Il vecchio ha addosso molto scarto, molto più della mamma. Anzi, quando ho finito di sbrigare con zelo il mio lavoro solitario, scopro che di lui ci saranno sì e no cinque chili commestibili. Butto i resti nel sacco, e li trascino faticosamente sulla terrazza (era stato molto più facile sbarazzarsi dei resti della mamma, quando eravamo in due) da dove precipitano nel solito burrone, e poi torno in casa, metto le parti commestibili in un altro sacco e le trasporto nel seminterrato dove le metto sui blocchi di ghiaccio per conservarle per domani. Sarebbe pura golosità attaccare con il papà stasera. Posso aspettare finché non avrò di nuovo fame.
Il poliziotto torna alla casa: circolano strane voci, strane dicerie. Gli abitanti del villaggio hanno visto precipitare sacchi nel burrone, sagome aggirarsi sulla terrazza, niente di serio, naturalmente, semplici pettegolezzi locali, ma lui deve chiarire tutte queste cose per fare contente le casalinghe e, a proposito, cosa è successo a papà? Spiego che il vecchio è morto improvvisamente e inspiegabilmente nel sonno la notte dopo la prima visita del poliziotto e, secondo le regole, i riti e i dettami della nostra setta ho disposto delle sue spoglie nel solito modo privato e consacrato dal tempo. Nessun permesso di sepoltura neppure questa volta dico, arrossendo e fissandogli le scarpe. Dolore e così via. Anzi, io avevo sempre lasciato tutte queste incombenze a mamma e papà, dal momento che per venticinque anni ho condotto vita ritirata. Adesso, però, con entrambi i genitori morti, concludo, è ora che abbandoni queste stanze antiche e che mi faccia strada nel mondo. Eccetera.
Lui sembra contento. Annuisce e mi augura la buonasera. — Mi chiedevo — dice quando è alla porta — se aveste ancora un po’ di quella carne deliziosa...
— No — dico io — no, mi dispiace, non ne abbiamo più. — In un eccesso di ingordigia ho finito tutto il papà in due enormi pasti il giorno precedente. — No, è finita tutta, mi dispiace molto — rammaricandomi più che mai della mia ingordigia, perché avrei potuto tenere da parte qualche pezzettino di papà da mangiare come spuntino nelle settimane successive, ma no, no, ah, giovinezza impulsiva, ho dovuto mangiarmelo tutto... — Mi dispiace davvero — dico al poliziotto, faccio un cenno con la testa, apro la porta, e lui se ne va. Mi fermo un momento a osservare la sua schiena curva, quella schiena che mostra malumore e risentimento. Che ometto insignificante, che lavoro noioso il suo. Per un attimo ho idea di richiamarlo indietro e di lavorarlo di coltello... ma no, non posso. Non posso, semplicemente. Quello che sta succedendo non mi è del tutto chiaro, ma in parte si spiega mentre guardo il poliziotto: non troverei soddisfazione nella carne di una persona non appartenente alla famiglia. Questo genere di cose devono rimanere in famiglia perché le condizioni siano soddisfatte.
Così, mentre siedo in questi corridoi a riflettere sulla mia esistenza desolata ed essenzialmente tragica, diventa chiaro che dovrò cominciare da me. Il modo esatto in cui ho avuto questa drastica, per non dire autolesionista intuizione, non deve essere discusso in questo momento, basti dire che è chiaro che i termini della maledizione saranno adempiuti solo dall’autodistruzione. Ho mangiato carne troppo presto, questo è evidente: la maledizione mi è stata rivelata troppo presto e il mio appetito è stato troppo acceso. Adesso devo rivolgermi contro me stesso per sfogare le mie oscure ossessioni ed è un peccato anche se, naturalmente, la cosa è spiegabile in termini freudiani. Taglio via un dito. Il dito cade sulla pagina su cui sto scrivendo, e goccioline di sangue, simili a occhi, si affacciano sull’articolazione tagliata. Tampono il sangue meglio che posso e mangio il dito. Un giorno un dito della mano, un altro giorno un dito del piede: ho calcolato di avere venti giorni o anche tre settimane prima di dover prendere una decisione più drastica.
Il poliziotto bussa alla porta. Ancora una volta arrossisce, ancora una volta tiene gli occhi modestamente bassi. — Devo fare delle indagini — dice. — Ci sono troppi aspetti misteriosi in questa faccenda. A meno che — aggiunge timidamente — a meno che mi possiate far avere ancora un po’ di quella carne deliziosa...
Con la mano bendata mi trascino verso il freezer e gli offro il mio ultimo dito. Ho calcolato venti giorni, ah, impulsiva giovinezza! Può darsi che me ne restino soltanto la metà.
Il poliziotto rosicchia il mio dito rosolato e imburrato, voltandosi per nascondere il suo semplice piacere animale.
Mi rendo conto che la situazione è precipitata.