Diario di un mannaro
di Joseph Payne Brennan
Titolo originale: Diary of a Werewolf
(Il tragico documento che segue viene sottoposto all’esame del pubblico, non con l’intenzione di fare sensazione a buon mercato ma unicamente perché serva da monito a coloro che potrebbero un giorno trovarsi soggetti ad atavici impulsi perversi, impulsi, ne siamo convinti, che hanno origine nella Voragine dell’Inferno. Tali impulsi demoniaci devono essere immediatamente allontanati dalla mente. L’indefinibile creatura, il cui diario è qui pubblicato, fu condiscendente a tali impulsi, vi si trastullò e alla fine vi si abbandonò. Nessuna parola da parte nostra potrebbe descrivere adeguatamente l’orrore che ne derivò. Le parole di questo stesso mostro inumano sono più che sufficienti. Eccole.)
4 aprile 1970: mi sono finalmente sistemato a Hemlock House. Questa zona mi si addice in modo meraviglioso. La vecchia casa colonica in pietra, circondata da un boschetto di imponenti abeti canadesi, è situata in una regione selvaggia e desolata a una certa distanza dal villaggio di Juniper Hill. Trecento acri di boschi fitti, paludi inesplorate e campi lussureggianti appartengono alla tenuta. Avrò ampi spazi in cui vagabondare, senza sconfinare nelle terre dei miei vicini! Non vedo l’ora di uscire a passeggiare in queste foreste solitarie. Sarà così riposante!
6 aprile 1970: la casa è a posto. Tra poco inizierò a esplorare i miei possedimenti. Prima devo riposare un paio di giorni. Sono venuto qui su consiglio del mio medico. Mi aveva avvertito che le mie molte “dissolutezze” mi avrebbero inevitabilmente portato alla rovina fisica e mentale, a meno che non vi avessi posto un freno e avessi riposato di più. Io ho trascurato il suo consiglio finché non ho cominciato ad avere incubi tremendi e momenti di vero e proprio oscuramento. Mi sono spaventato molto e ho deciso che quel vecchio tremolante del mio medico poteva anche avere ragione, dopo tutto. Non è stato facile lasciare New York. Mi mancano le sedute d’eroina... che visioni si hanno!... ma sono sicuro che mi adatterò. C’è qualcosa in questa regione che già mi incuriosisce. Ha aspetti primitivi, desolati, selvaggi che mi attirano inspiegabilmente. Che diversità dalla cosiddetta “giungla di neon”!
8 aprile 1970: ho passato gran parte della giornata a girovagare nel fitto dei boschi. Mi sento riposato e stranamente eccitato nello stesso tempo. Mi piace la luce fredda di questi boschi, le ombre, il silenzio, la consapevolezza che vi si nascondono non pochi cacciatori a quattro zampe sulle tracce della propria preda! Riesco a immaginare me stesso, migliaia di anni fa e sotto un diverso aspetto, aggirarmi in cerca di preda in una landa simile a questa. Il solo pensiero mi fa fremere! In che strane fantasie vado crogiolandomi!
11 aprile 1970: sono uscito per due giorni con un tempo freddo e piovoso. Queste vaste e cupe distese di foreste sono come una calamita che mi attrae irresistibilmente... verso cosa non lo so. Benché non abbia neppure un fucile, mi sento un cacciatore. Che assurdità!
13 aprile 1970: ieri sono stato a Juniper Hill per fare scorta di viveri. Un piccolo villaggio insignificante e sonnolento sperduto in una vastità desolata. Mi sono trovato stranamente a disagio tra quella gente di campagna. Ho provato una sorta di animosità nei loro confronti, quasi un odio. Che vita senza senso devono condurre! E perché mi guardano come se avessi due teste? Stupidi bifolchi, niente di più. Sono uno sciocco a lasciare che il loro pensiero mi irriti. Eppure sento l’impulso perverso a far esplodere la loro meschina, tediosa monotonia in un incubo!
16 aprile 1970: c’è un’ampia distesa di foresta di pini che mi attira in modo particolare. È così buio e tranquillo sotto quegli alberi! Gli aghi di pino caduti anno dopo anno, da decenni, attutiscono ogni suono. Vi trascorro ore intere: è così riposante. Ogni tanto mi corico dietro i pini e sto a guardare se passa qualche animale. Anch’io, mi dico, sono uno dei cacciatori.
20 aprile 1970: devo stare alla larga dalla foresta di pini. Due giorni fa, mentre gironzolavo in quel posto ombroso, sono stato improvvisamente sopraffatto dall’impulso più folle. Mi è venuta voglia di mettermi a quattro zampe e di correre per i boschi come un animale! Naturalmente non l’ho fatto. Sono corso a casa e ho aperto la bottiglia di cognac. Alla fine sono andato a letto un po’ brillo.
26 aprile 1970: oggi, dopo tre giorni di tensione e di agitazione, sono tornato alla foresta di pini. Mentre mi aggiravo sotto gli alberi, il mio sogno è diventato più vivido che mai. Dopo molta esitazione, ho deciso che poteva essere divertente, e certo non dannoso, rappresentare il sogno, o almeno la sua idea generale. Dopo avere individuato il punto più riparato e isolato, mi sono effettivamente messo a quattro zampe e ho cominciato a trotterellare sui mucchi di aghi di pino. All’inizio mi sentivo assurdo e goffo, e stavo quasi per rialzarmi. Ma le mie sensazioni cambiarono rapidamente. Come in un sogno, avvertii un’improvvisa sensazione di allegria, di liberazione da ogni sorta di freni inibitori.
Mi sembrò di essere diventato una diversa entità. Mi muovevo a balzi sempre più veloci, mentre impulsi selvaggi mi scoppiavano improvvisamente nel cervello! Finalmente sperimentavo la gioia pura, spietata del cacciatore! Anelavo a stanare qualche creatura più piccola a quattro zampe da poter cacciare, raggiungere e sbranare! Corsi finché la stanchezza non mi fermò; mi trascinai barcollando verso casa e passai il resto del giorno a bere cognac. Scrivo con mano che trema. L’esperienza nella foresta di pini non si deve ripetere. Giuro che ne starò lontano.
28 aprile 1970: sono esausto mentre scrivo, ma devo cercare di prendere nota di quello che mi sta accadendo. Nonostante il proposito di fare il contrario, sono ritornato a quella maledetta foresta di pini e ho corso sotto gli alberi neri come un animale selvaggio, a quattro zampe, ringhiando o digrignando i denti contro non so cosa! La mia stessa identità sembrava fondersi in quella di qualche creatura demoniaca, una creatura che trovava la sua felicità nella caccia, dilaniando gole, facendo sgorgare sangue fresco! Mi sento terrorizzato, ma senza difese. O Dio, è possibile che l’eroina abbia danneggiato alcuni dei più importanti centri cerebrali? E infiammato, forse, alcune cellule cerebrali che hanno a loro volta scatenato impulsi atavici, sepolti ma ancora latenti? O si tratta di una maledizione ereditaria che si è insinuata in me? Ho sempre saputo di possedere braccia insolitamente lunghe... è proprio questo che mi permette di correre così bene a quattro zampe! Cosa posso fare? Devo partire! Sì, domani me ne andrò!
30 aprile 1970: scrivo in preda al terrore! Questa cosa ha un potere su di me che non riesco a spezzare! Avevo fatto le valigie questa mattina, pronto a partire, poi ho guardato fuori della finestra verso la foresta di pini che si stagliava, verde, quasi nera, contro il vicino orizzonte.
Ho lasciato le valigie ammucchiate nell’ingresso, mezz’ora dopo correvo carponi sotto gli immensi alberi silenziosi. Mi sono trascinato verso casa, molte ore dopo, e sono crollato sul letto.
3 maggio 1970: finalmente sono riuscito a riprendere il controllo su me stesso. Non che sia riuscito a vincere l’impulso a correre carponi per la foresta di pini. Ma ho deciso di trarre vantaggio dalla situazione, di prenderla con filosofia. Se non riesco a vincere l’impulso, tanto vale che ne tragga piacere. Probabilmente si tratta di uno squilibrio momentaneo che farà il suo corso e si esaurirà col tempo. Sicuramente ho esagerato con le dosi di eroina.
9 maggio 1970: il guaio con la foresta di pini è che non nasconde molte prede. Forse è troppo isolata. Potrei avventurarmi nelle zone in cui gli alberi sono meno fitti, vicino ai campi aperti. I palmi delle mani sono ormai interamente ricoperti di calli e sono in grado di correre a forte velocità. Non ne sono più sconvolto. Avverto un senso di liberazione, di allegria infinita, di pura, selvaggia, primitiva gioia che niente mi aveva mai dato prima. Mentre corro come un animale selvaggio (animale che in fondo tutti noi siamo), le preoccupazioni e gli assilli cessano di esistere. Al momento, vivo in modo completo. Sento di essermi pienamente adattato. Adesso devo cominciare a cacciare...
11 maggio 1970: il mio primo tentativo di caccia è finito nel comico. Mentre avanzavo attraverso una macchia di felci enormi che crescono nel fertile terreno sotto questi sempreverdi, mi sono trovato davanti a un giovane orso nero. L’animale si è fermato sorpreso, mi ha fissato per un attimo (eravamo testa a testa; io ero a quattro zampe come lui) e ha fatto un balzo. Io mi sono acquattato e sono scoppiato in una risata feroce. La cosa ha letteralmente terrorizzato l’orso che è schizzato via come una saetta!
14 maggio 1970: ho cominciato a cacciare nel territorio boscoso più aperto adiacente alla fitta foresta di pini, ma anche qui ho avuto solo delusioni. Ho stanato solo alcuni conigli che non sono assolutamente in grado di raggiungere, per quanto possa correre! Sono troppo piccoli, e nella boscaglia li perdo subito di vista. Eppure il ruolo di cacciatore mi riempie di eccitazione!
17 maggio 1970: o Dio, è successo, come temevo, come sapevo che sarebbe successo! Ieri... giornata buia, il cielo coperto minacciava pioggia... mi stavo aggirando in un boschetto di betulle, a una certa distanza dalla foresta di pini. Una frangia di questo boschetto, una sottile striscia di alberi, si spinge a lato di una strada in terra battuta che costeggia la zona. Per divertirmi sono sgattaiolato attraverso questa striscia di alberi, tenendomi nascosto, e ho fatto capolino nella strada. A circa dieci metri di distanza, sulla strada deserta, una vecchia camminava ad andatura svelta, trasportando una specie di sacco. Continuava a guardare verso l’alto come se si aspettasse le prime gocce di pioggia da un momento all’altro.
I miei occhi si sono puntati su di lei e un tremito mi ha scosso il corpo. Mentre la fissavo, lei si è girata e si è guardata nervosamente alle spalle affrettando nel contempo il passo. Posso dire in perfetta onestà, a mia difesa, che inizialmente avevo solo intenzione di spaventarla. Lo giuro! Quando è arrivata alla mia altezza, ho spezzato volutamente alcuni ramoscelli secchi su cui tenevo appoggiate le mani e ho cominciato a ringhiare. Lei si è messa a guardare in direzione degli alberi, è trasalita e mentre io continuavo a ringhiare, più forte, è stata colta dal terrore. Lasciato cadere il sacco, si è messa a correre. Allora mi è sembrato che un velo rosso mi calasse sugli occhi. Senza una consapevole volontà da parte mia, sono balzato carponi fuori degli alberi, sono saltato nella strada e mi sono lanciato all’inseguimento della donna. Lei si è voltata, e il terrore le ha trasformato la faccia in una maschera di stucco grigio.
Paralizzata dalla paura, è rimasta inchiodata a terra, con la bocca aperta, incapace perfino di gridare.
In un solo balzo le sono stato addosso e l’ho scaraventata a terra. Un attimo dopo i miei denti affondavano nella sua gola. L’ho addentata ferocemente. Il getto di sangue mi ha colpito la faccia. Non ricordo molto di più. Il sangue mi ha messo addosso una incontrollabile frenesia. Ero consapevole di un terribile rumore di denti che spezzano e frantumano, rumore che sembrava provenire dall’aria intorno a me. Non posso credere che venisse dalla mia gola. Alla fine la nebbia rossa si è dissolta.
Imbrattato di sangue, mi sono ritrovato acquattato carponi sul corpo della vecchia. La testa era quasi staccata. La faccia era così dilaniata e straziata da essere irriconoscibile.
Di nuovo sono sgattaiolato nel boschetto di betulle e sono corso a una sorgente vicina dove mi sono lavato la faccia dal sangue. Tenendomi nascosto nella boscaglia e nei campi, ho fatto ritorno a Hemlock House, ho bruciato i vestiti e mi sono buttato a letto. Sono rimasto sdraiato per ore e ore in uno stato di spossatezza, svuotato da ogni emozione o impulso. Non avvertivo né rimorso, né orrore, assolutamente niente.
Solo adesso, mentre scrivo queste parole, posso vedere questa orribile faccenda nella giusta prospettiva. Devo consegnarmi alle autorità, oppure farla finita.
19 maggio 1970: questa mattina sono stato a Juniper Hill. Gli abitanti appaiono ancora sconvolti quando si nomina la vecchia. Il suo nome, ho saputo, era Alberta Bates. Ho espresso il mio cordoglio. Non hanno il minimo sospetto su di me. Danno la colpa a qualche animale selvaggio della foresta. Alcuni parlano di un orso... io ho detto di averne visto uno... altri di un lupo. L’inverno scorso, mi dicono, è stato insolitamente rigido. Si pensa che dal Canada possano essere calati lupi affamati e che alcuni siano ancora qui. Be’, adesso questi stupidi bifolchi hanno qualcosa di cui parlare! La noia delle loro giornate è stata finalmente spezzata! Mi sento completamente al sicuro. La strada, benché in terra battuta, era stata così ben pareggiata che non era possibile trovare impronte di nessun genere. Hanno provato a liberare i cani per seguire le orme, ma non hanno ottenuto risultati perché era caduta una violenta pioggia nelle molte ore trascorse prima del ritrovamento del corpo della poveretta.
Ho deciso di non consegnarmi alle autorità e neppure di farla finita. Dopo tutto, non è stato neppure un delitto vero e proprio. Non c’è stata premeditazione. È stato commesso d’impulso, un atto orribile, certo, ma irriflessivo, non premeditato. La mia morte adesso non sarebbe di nessuno aiuto alla vecchia.
Me ne starò alla larga dai boschi e l’intera faccenda sarà presto dimenticata. Devo rimanere calmo e distaccato.
25 maggio 1970: sono stato di nuovo fuori, a correre carponi, ma sono diventato astuto e circospetto. Mi tengo nella parte più fitta della foresta di pini. Le squadre locali di ricerca sono ancora in giro, stanno battendo i boschi alla ricerca della “cosa” che ha ucciso la povera Alberta Bates. Buona fortuna!
26 maggio 1970: questa mattina un gruppo di cacciatori si è presentato a casa mia a chiedermi il permesso di fare una battuta nelle mie terre. Naturalmente ho acconsentito di buon grado. Ridevo dentro di me mentre li guardavo arrancare sotto la pioggia.
3 giugno 1970: i cacciatori hanno rinunciato. Dal momento che Alberta Bates non aveva parenti, nessuno sentirà a lungo la sua mancanza. Sono consapevole di una sensazione di completezza: ho messo nel sacco gli idioti del villaggio!
10 giugno 1970: devo andarmene subito da Hemlock House. Questa zona di boschi cupi e di distese tristi e deserte esercita su di me un’influenza maligna, un’influenza così potente che io non posso combatterla. La notte scorsa, che Dio mi aiuti, ho ucciso di nuovo!
Ero stato inquieto tutto il giorno, ma ero riuscito a controllare i miei impulsi. Con il calare della notte, però, e il sorgere della luna piena, la tensione che mi dilaniava i nervi è diventata intollerabile. Alla fine ho deciso che mi sarei limitato a fare un giro lungo la strada isolata in terra battuta che costeggia gran parte della mia proprietà.
Posso dire in tutta onestà che questa era la mia unica intenzione. Pensavo che l’aria della sera e un po’ di moto sarebbero serviti a diminuire la tensione che avvertivo ormai a un livello pericoloso.
Era una bella notte. La strada sembrava grigio-argentata sotto la luna. Tutto sembrava inondato da una radiosità smorzata. Era un paesaggio di sogni splendidi e letali nello stesso tempo. Avvertivo un’eccitazione crescente. Continuavo ad alzare la testa per guardare la luna. Sembrava avere un messaggio speciale, solo per me!
Eppure, anche così, non sarebbe successo nulla se quel poveretto, Freddy Camberwell, non mi si fosse presentato barcollando davanti agli occhi.
Freddy è l’ubriacone del villaggio, un beone cronico ma innocuo che dorme nei fienili dei contadini ed esegue lavori occasionali per potersi comperare il whisky.
Se ne veniva barcollando, parlando tra sé e sé e intonando brani di canzoni. Non c’è stata premeditazione da parte mia. Quell’incontro casuale sembrava voluto dal destino, deciso dalle stelle, fissato inesorabilmente da quella strana luna argentata.
Lasciandomi andare carponi, mi sono lanciato verso la strada, direttamente contro di lui. Lui non si è accorto di me finché non sono stato a pochi metri. Fred si è strofinato gli occhi velati dall’alcol, incerto se io fossi reale o solo un fantasma partorito dalla bottiglia. Appena prima che io spiccassi il balzo, i suoi occhi si sono dilatati e lui ha aperto la bocca impastata per gridare. Poi è stato scaraventato a terra e io l’ho afferrato alla gola. Gli è uscito un grido di dolore che somigliava al belato di un coniglio. La nebbia rossa mi ha offuscato gli occhi. Nelle orecchie avvertivo un ronzio. Poi il ronzio si è trasformato in un rauco, feroce ringhio che sembrava venire da molto lontano. Più tardi... secondi, minuti, non ne ho idea... la nebbia si è dileguata e mi sono ritrovato curvo sotto la luna argentata, coperto di sangue ma calmo, così meravigliosamente, serenamente calmo. Ho guardato senza interesse la sagoma dilaniata che giaceva sotto di me. Era forse ancora più orrendamente sfigurato della vecchia, ma non avevo dubbi che l’insopportabile puzzo di alcol l’avrebbe fatto riconoscere abbastanza in fretta!
Nessuno era apparso nella strada. Sono balzato rapidamente nella boscaglia, affrettandomi verso Hemlock House. Lungo la strada del ritorno ho guadato per alcuni metri un piccolo ruscello, fermandomi a immergere la testa nell’acqua e a sciacquare via il sangue. Ho fatto un fagotto dei vestiti e li ho sotterrati in giardino, poi sono andato a letto e ho dormito nove ore filate.
12 giugno 1970: Juniper Hill è diventato un campo di battaglia: squadre di cacciatori stanno battendo le colline intorno al villaggio. Come prevedevo, la muta di segugi ha perso ben presto le tracce. Sono arrivati fino al ruscello e hanno cominciato a vagare nella più assoluta confusione. Il corpo non è stato trovato fino a metà mattinata e allora la pista era ormai fredda in ogni senso.
È venuto lo sceriffo Mocelin per avvertirmi che la “cosa” potrebbe nascondersi da qualche parte nelle mie terre. Gli ho promesso di stare in casa, o di uscire solo con un fucile carico.
Naturalmente sarei uno sciocco ad andarmene da Hemlock House in questo momento. I sospetti cadrebbero subito su di me. Devo rimanere, almeno per qualche tempo ancora: non ci sono alternative.
14 giugno 1970: si sta facendo dura per gli orsi neri. Ne hanno già uccisi tre. Avverto un senso di rimorso. Di solito sono bestie così buffe e buone!
16 giugno 1970: se qualcuno leggerà mai queste righe... Dio non voglia! ... immagino che a questo punto si aspetterà che io riferisca della crescita di lunghi peli sulle gambe, dell’improvviso aumento in lunghezza dei miei canini, eccetera, eccetera. Si tratta di sciocchezze inventate da scrittorucoli da quattro soldi: bardature melodrammatiche e niente più.
Tuttavia io sono convinto che i licantropi come me sono esistiti per secoli. Può darsi che contadini spaventati abbiano per primi inventato alcuni fantasiosi particolari, ma adesso io posso vedere chiaramente che esiste una solida base per le numerose leggende che ci sono giunte attraverso le varie epoche. Ne devono essere esistiti tanti come me! Gli elementi sovrastrutturali inventati per fare sensazione non sono nulla paragonati agli orrori nascosti che esistono non visti nelle spire del nostro cervello. Cervello sottoposto a chissà quali mostruose pressioni, squilibri, malattie, tare ereditarie!
18 giugno 1970: mi tengo nei dintorni di Hemlock House. Non è ancora prudente avvicinarsi ai boschi. Gli idioti del villaggio hanno già ammazzato sette cani randagi, una lince rossa, una grossa volpe argentata e altri due orsi. Non si è visto un salo lupo!
22 giugno 1970: con la posta di ieri mi è arrivato il volume di Sabine Baring-Gould Il libro dei licantropi: rapporto su una terribile superstizione. L’ho ordinato alcuni giorni fa. È stato pubblicato a Londra nel 1865 da Smith, Elder e Co. Deve essere un libro raro: ho dovuto pagare 25 dollari per questa copia, che per di più è in pessime condizioni. Il libro è una miniera di informazioni interessanti. L’autrice scrive nella prefazione: «Quando una forma di superstizione si radica ovunque e in ogni epoca, deve avere un riscontro nella realtà...». Vero! Non ho dubbi che il mio caso sarà tramandato nelle leggende della licantropia! Questo diario, infatti, è un documento unico. Lo affido ai posteri!
25 giugno 1970: la follia si sta nuovamente insinuando in me, dilaniandomi i nervi! Non avverto più rimorsi. Comunque, i due che ho ucciso erano nullità senza importanza per nessuno, a eccezione di se stessi.
26 giugno 1970: se solo questi idioti di Juniper Hill la finissero di trascinarsi per i boschi! Penso, però, che la loro febbre di caccia si vada esaurendo. Anche loro sono assetati di sangue. Hanno abbattuto almeno una ventina di animali innocenti. Devo ammettere che questo mi fa rimordere un po’ la coscienza. Questi cacciatori locali sono peggiori di me! Io ho ucciso solo quando una specie di follia si è impadronita di me. Loro invece ammazzano a sangue freddo!
1° luglio 1970: oggi ho sentito dire che le ultime “pattuglie” sono state tolte dai boschi. La caccia alla “cosa” è stata abbandonata. Finalmente!
3 luglio 1970: questa mattina mi sono spinto fino alla foresta di pini e ho corso carponi. Che senso di sollievo, di liberazione, di assoluta gioia primitiva! La sete di sangue mi sta nuovamente pulsando nelle vene, ma devo stare attento. Devo agire con astuzia, l’astuzia di un lupo! Ah! Ah!
10 luglio 1970: devo uccidermi! Sono rovinato, completamente e per sempre! Ho ucciso una creatura innocente e sono folle di rimorso! Ma devo conservare la logica e descrivere i fatti.
Era pomeriggio inoltrato. Stavo vagabondando per le strade, non molto lontano dal villaggio. Sbucando da una curva ho visto una bambina di sei-sette anni che camminava facendo dondolare un secchio. Immagino che fosse stata a raccogliere mirtilli sul bordo della strada e che stesse tornando a Juniper Hill. Non posso credere che avesse avuto il permesso di andare in giro da sola: probabilmente se l’era svignata, ridacchiando tra sé e sé mentre riempiva allegramente il secchiello di mirtilli maturi.
Ho cercato di restare calmo. Mi sono fermato, ma poi ho cominciato a tremare e mi sono reso conto, o Dio!, di essere perduto! Il rischio... la vicinanza del villaggio... mi lasciava indifferente. La sete di sangue era insopprimibile.
Quando sono preda di questo mostruoso impulso non ho il minimo controllo sui miei movimenti; i principali centri cerebrali cadono nella più assoluta insensibilità. Nel giro di pochi secondi ero una belva feroce lanciata nella strada, con i denti scoperti per la morsa mortale!
La piccola innocente stava osservando un uccello o qualcos’altro nel bosco e non mi ha neppure visto. Le sono balzato addosso e le ho dilaniato la gola delicata prima che potesse lanciare un grido. Forse è rimasta tramortita, o addirittura svenuta, quando l’ho scagliata a terra. Spero ardentemente che sia stato così. Stavo ancora ringhiando e infierendo su di lei quando, in qualche modo, un rumore è riuscito a penetrare attraverso il muro di nebbia rossa che mi circonda in questi momenti. Era il cigolio di un carro che si avvicinava sulla strada. Ho avuto solo pochi attimi per afferrare il corpo della piccola e tuffarmi nei cespugli a lato della strada. In preda all’orrore, al rimorso e a una paura frenetica, ho aspettato finché il carro con il suo rumore assordante non fu passato. Fortunatamente il conducente ha continuato a guardare dritto davanti a sé e non ha notato la macchia di sangue sulla strada.
Non appena il carro fu sparito, ho ammucchiato rami e foglie sul corpo della bambina e me ne sono andato in fretta. Non osavo farmi vedere per la strada. Perciò ho fatto ritorno a casa attraverso boschi, campi e paludi. È stata una fatica estenuante di quattro ore.
15 luglio 1970: il corpo della piccola, Debra Dorman, è stato scoperto solo poche ore dopo la morte. Una pattuglia di cacciatori ha notato il sangue sulla strada e ha rapidamente localizzato il cadavere sotto il mucchio di foglie dove io l’avevo lasciato. Ancora una volta i cani si sono rivelati inutili: hanno infatti perso le mie tracce in un tratto paludoso non lontano. Ma Juniper Hill si trova adesso in uno stato d’animo pericoloso.
Il mattino dopo l’atto infame, lo sceriffo Mocelin e alcuni uomini da lui prescelti come suoi vice sono venuti a bussare alla mia porta. Dapprima ho avuto una terribile paura che tutto fosse perduto, ma ho subito scoperto che volevano solo che mi unissi a una delle squadre impegnate nella caccia al “mostro”. Non ho osato rifiutare. Per gran parte di tre giorni e tre notti ho fatto parte di un gruppo che ha battuto paludi e boscaglie alla ricerca del “lupo pazzo”, della “cosa”, o come diavolo lo chiamano al momento.
Volontari stanno affluendo da tutto il paese. Le battute di caccia continuano senza interruzioni. Finalmente mi è stato detto di tornarmene a casa quando era ormai evidente che o me ne andavo a letto o sarei crollato. Adesso sono reduce da quattordici ore di sonno e mi sento abbastanza riposato.
Tuttavia, mi sento ancora troppo stanco per provare qualsiasi emozione. Sono quello che sono diventato. Forse tutto passerà e con il tempo rimarrà solo un ricordo funesto.
17 luglio 1970: la “caccia al lupo” continua, ma i cacciatori sono frustrati da una crescente sensazione di inutilità. Ieri mi sono nuovamente unito per diverse ore a una squadra. Qualcuno ha suggerito che il “lupo” potrebbe anche non essere un animale. Io ho reagito con ironia, ma uno dei cacciatori ha fatto notare che un lupo in cerca di preda avrebbe sicuramente attaccato anche pecore, mucche e capre oltre agli esseri umani isolati che gli fosse capitato di incontrare. Naturalmente non è stato trovato bestiame ucciso e questo fatto sta provocando una grande agitazione. Avrei dovuto uccidere un paio di pecore, giusto per salvare le apparenze, ma non ho molta voglia di ammazzare animali domestici. Adesso è troppo tardi, comunque.
Devo stare più attento. Mi sono ricordato con spavento che Il libro dei licantropi di Baring-Gould era sul tavolo quando lo sceriffo Mocelin e i suoi vice sono venuti da me. Apparentemente, però, nessuno l’ha notato.
20 luglio 1970: la caccia prosegue, ma adesso nessuno crede più che l’assassino possa essere catturato con metodi normali. Sento nascere in me il desiderio di sgusciare nella foresta di pini e di correre carponi, ma non oso. Si incontrano ovunque uomini armati, e mai soli.
Nessuno esce dal villaggio senza un fucile. Tutte le strade sono deserte di notte, se si escludono le squadre di caccia.
Devo rimanere a Hemlock House nonostante gli impulsi feroci che mi bruciano dentro.
24 luglio 1970: è finita! Non ce l’ho più fatta a sopportare questa tensione terribile. Mille demoni sembravano dibattersi dentro di me, chiedendo di essere liberati. Alla fine ho ceduto. Però ho avuto abbastanza buonsenso da capire che non dovevo aggirarmi nelle immediate vicinanze di Juniper Hill.
Sono partito verso mezzogiorno e ho guidato per circa sessanta chilometri in direzione nord. Verso le tre, dopo essermi fermato a mangiare qualcosa in un motel, ho parcheggiato l’auto ai bordi di una strada di campagna e ho cominciato a camminare. La strada si inoltrava in terreni poco coltivati, in mezzo a macchie di fitta boscaglia. Per chilometri ho visto solo due fattorie, di cui una deserta e quasi in rovina. Sono passate un paio di auto, ma non ho incontrato nessun pedone. Alla fine, verso il tramonto, sono arrivato a una specie di campeggio, probabilmente parte di un parco nazionale. Qui ho scorto un’auto lontana dalla strada in terra battuta, ferma nel fitto della boscaglia. Ho pensato subito che dentro ci fosse una coppietta.
Mi sono messo a carponi e mi sono inoltrato nella boscaglia avanzando verso l’auto con il cuore che batteva! Quando mi sono sollevato per sbirciare attraverso il finestrino, ho visto che avevo ragione. All’interno c’erano un ragazzo e una ragazza abbracciati!
La nebbia rossa è calata di colpo davanti ai miei occhi! Con un balzo in avanti ho spalancato la portiera. Non riesco a ricordare tutti i particolari. So che il ragazzo ha tentato di lottare. Invano. Quando sono in preda alla follia, la forza e la furia che sento sono pari a quelle di una belva della giungla. L’ho strappato fuori dell’auto, scaraventandolo a terra, e gli ho affondato i denti nella gola. La lotta frenetica del ragazzo è stata inutile. Gli stavo ancora dilaniando la gola quando mi sono ricordato della ragazza.
Appena ho sollevato la testa ho sentito un urlo e uno schianto nei cespugli circostanti. In un attimo mi sono gettato al suo inseguimento, ringhiando con rinnovata sete di sangue!
Proprio mentre raggiungeva la strada le sono balzato addosso. La ragazza si è afflosciata, improvvisamente muta e immobile per il terrore. I miei denti erano a pochi centimetri dalla giugulare quando alcune luci hanno illuminato la strada e ho sentito il suono di voci eccitate!
Con un balzo mi sono messo a correre lungo la strada, pensando solo a fuggire. Alle mie spalle ho sentito urla e ordini eccitati.
I momenti successivi sono stati un incubo. Almeno una dozzina di volte sono stato costretto a lanciarmi a lato della strada per acquattarmi tra i cespugli. Per pura fortuna sono riuscito a raggiungere la mia auto prima che venisse individuata. Mi sono allontanato guidando a velocità folle e intanto mi pulivo via il sangue dalla faccia. Ma mentre oltrepassavo un incrocio, i fari hanno inquadrato la sagoma di un ragazzotto di campagna che bighellonava da quelle parti. Lui ha sollevato lo sguardo, sussultando nel vedermi, e poi... che la sua anima di bifolco sia dannata al tormento eterno!... ha lanciato un’occhiata alla targa. Se ha distinto i numeri, è tutto finito.
Questo è accaduto ieri e ne ho scritto il resoconto in mattinata. Adesso è pomeriggio. Ho barricato le porte al piano inferiore. Temo il peggio. Se solo avessi ucciso anche la ragazza e quello stupido contadinotto! Temo che lei sia in grado di descrivermi e che lui abbia preso il numero di targa! Uno dei due potrebbe rovinarmi!
Sono finito! Devono avermi rintracciato! Una folla si sta radunando intorno alla casa! Sento rumore di vetri rotti: tirano sassi contro le finestre! Qualcuno mi urla di arrendermi! Non lo farò! La folla mi farà a pezzi!
Lo sceriffo Mocelin urla che mi proteggerà se mi arrendo. La folla sta gridando! Sono tentato di correre fuori e squarciare ancora qualche gola prima di essere sopraffatto!
Non riesco a respirare! Il gas lacrimogeno sta riempiendo la stanza! Devo...
(Nota bene: grazie agli sforzi eroici dello sceriffo Mocelin e dei suoi aiutanti, il demonio che ha scritto quanto sopra fu alla fine sottratto al linciaggio della folla e portato in carcere in un’altra città. Benché la pubblica accusa abbia poi richiesto con veemenza la pena di morte, la presentazione da parte della difesa del diario tenuto dal mostro non lasciò dubbi nella mente dei giurati che il suo autore fosse irrimediabilmente pazzo. L’indefinibile carnefice venne condannato a vita al manicomio criminale. Dio voglia che vi rimanga!)