Radical Chic

 

Alle due o alle tre o alle quattro del mattino, o giù di lì, del 25 agosto 1966, il giorno del suo quarantesimo compleanno, Léonard Bernstein si svegliò al buio in uno stato di totale agitazione. Gli era già capitato. La sua insonnia si manifestava spesso a questo modo. E così, fece come le altre volte. Si alzò e provò a camminare. Si sentiva frastornato. Poi di colpo ebbe una visione, un’ispirazione. Vide se stesso, Léonard Bernstein, l’egregio maestro1, entrare in palcoscenico in cravatta bianca e marsina davanti a un’orchestra al gran completo. Da un lato del podio del direttore d’orchestra un pianoforte. Dall’altro una sedia con appoggiata sopra una chitarra. Lui si siede sulla sedia e prende in mano la chitarra. Una chitarra! Uno di quegli stupidi strumenti, tipo la fisarmonica, fatti per i ragazzetti di quattordici anni di Levittown che hanno un quoziente intellettivo di 110 e che vogliono Imparare-a-Suonare-in-Otto-Giorni con Ez! Ma una ragione c’è. Ha un messaggio di pace da comunicare al suo gran pubblico di bianche gole inamidate della sala sinfonica. Annuncia loro: «Amo». Nient’altro. L’effetto è disdicevole. Dalla curva del piano sbuca fuori di colpo la testa di un negro che dice cose tipo: «Il pubblico è stranamente imbarazzato». Lenny ci prova ancora, suona dei rapidi pezzi al piano e dice: «Amo. Amo ergo sum». Il negro si rialza e dice: «Il pubblico è dell’avviso che dovrebbe alzarsi e andarsene. Il pubblico pensa: “Mi vergogno pure a dare una gomitata al mio vicino”». Infine, Lenny tira fuori un sentito discorso pacifista ed esce.

Per un istante, seduto lì da solo in casa sua nelle prime ore del mattino, Lenny pensò che la cosa poteva pure funzionare e buttò giù qualche appunto. Pensate ai titoli:

 

BERNSTEIN ELETTRIZZA IL PUBBLICO IN SALA

CON UN APPELLO PER LA PACE.

 

Ma poi l’entusiasmo venne meno. E il coraggio andò perduto. Chi diavolo era quel negro che era sbucato fuori dal piano e che aveva comunicato a tutti che Léonard Bernstein stava facendo la figura del cretino? Questo Super-Ego negro accanto al piano non aveva alcun senso.

Mmmmrnmmmnimmmmmm. Questi sì che sono buoni. Bocconcini di roquefort ricoperti di noci tritate. Saporitissimi. Delicatissimi. È il modo in cui l’aroma secco delle noci cede al gusto austero del formaggio che li rende così buoni, così delicati. Chissà che cosa sceglierebbe una Black Panther da questo vassoio di antipasti? Chissà se alle Panthers piacciono i bocconcini di roquefort ricoperti di noci tritate, e le punte di asparagi alla maionese, e le polpettine di carne au Coq Hardi, tutta roba che proprio in questo istante viene offerta loro su dei vassoi d’argento sbalzato da cameriere in uniformi nere con grembiulini bianchi stirati a mano... Il maggiordomo porterà loro da bere... Negatelo pure, ma sono queste le pensées métaphysiques che ci passano per la testa nelle serate Radical Chic di questi tempi a New York. Per esempio, quella grossa Black Panther lì all’ingresso, quella che stringe la mano di Felicia Bernstein, quella con la giacca di pelle nera e gli occhiali scuri e quell’incredibile acconciatura afro stile fuzzy-wuzz...2 Quella Black Panther lì prenderà un bocconcino di roquefort ricoperto di noci tritate dal vassoio che le verrà offerto da una cameriera in uniforme, e se lo ficcherà dritto in gola senza perdere un solo tono della perfetta voce alla Mary Astor di Felicia Bernstein...

Felicia si fa notare. È bella, di quella rara bellezza splendente che sopravvive al passare degli anni. I capelli sono di un pallido biondo e stanno bene così. La voce è così teatrale, per usare una parola dei suoi tempi. Accoglie le Black Panthers con quello stesso modo di ruotare il polso e di inclinare il capo, con quella stessa voce alla Mary Astor con cui accoglie gente tipo Jason, John e D.D., Adolph, Betty, Giancarlo, Schuyler e Goddard alle cene après-concert per cui lei e Lenny sono così famosi. Che serate! Felicia accende le candele sul tavolo della sala da pranzo, e nel crepuscolo di Gotham palpitanti fiammelle si riflettono sulla superficie a specchio del tavolo, tenebre infinite con sopra mille stelle, ed è allora che Lenny ama. E come se ci fossero mille stelle sopra e mille sotto, una stanza piena di stelle, un attico duplex pieno di stelle, una torre di Manhattan piena di stelle, con gente meravigliosa che fluttua in quei cieli, Jason Robards, John e D.D. Ryan, Giancarlo Menotti, Schuyler Chapin, Goddard Lieberson, Mike Nichols, Lilian Heilman, Larry Rivers, Aaron Copland, Richard Avedon, Milton e Amy Greene, Lukas Foss, Jennie Tourel, Samuel Barber, Jerome Robbins, Steve Sondheim, Adolph e Phyllis Green, Betty Comden, e i Patrick O’Neal...

...E ora, nella stagione del Radical Chic, le Black Panthers. Quella grossa Pantera lì, quella a cui Felicia sfodera il suo sorriso da tango, è Robert Bay, che appena quarantuno ore fa è stato arrestato per un diverbio con la Polizia, pare per via di una calibro 38 trovata addosso a qualcuno dentro un’auto posteggiata nel Queens, tra Northern Boulevard e la 104esima, o in qualche altro incredibile posto, ed è stato messo in prigione con la curiosa accusa di «istigazione a delinquere». E ora è fuori, in libertà provvisoria, ed è in Park Avenue, nell’antico duplex di tredici stanze di Leonard e Felicia Bernstein. Tedio & fastidio, armi & porci, prigione & libertà... Loro sì che sono vere, queste Black Panthers. La loro natura più autentica, di rivoluzionari in carne e ossa, che vivono realmente sulla barricata, scorre per il duplex di Lenny come un virus impazzito. Non c’è chi non dia una sbirciatina, o non resti incantato a guardare, o non provi a sorridere, per poi rivalutare la casa per tale gradevole imprevisto... Negatelo pure, ma nella stagione del Radical Chic si finisce sempre per fare deliziosi furtivi paragoni... C’è Otto Preminger in biblioteca e Jean Vanden Heuvel all’ingresso, e Peter e Cheray Duchin in salotto, e Frank e Domna Stanton, Gail Lumet, Sheldon Harnick, Cynthia Phipps, Burton Lane, la signora August Heckscher, Roger Wilkins, Barbara Walters, Bob Silvers, la signora Richard Avedon, la signora Arthur Penn, Julie Belafonte, Harold Taylor, e tant’altra bella gente, inclusa Charlotte Curtis, la redattrice delle pagine femminili del «New York Times», la più celebre cronista mondana d’America, una snella donna in nero, con il taccuino alla mano, in piedi vicino a Felicia e al grosso Robert Bay, lì a chiacchierare con Cheray Duchin.

Cheray le dice: «Non ho mai incontrato una Pantera... Per me è la prima volta!»... Senza nemmeno immaginare che nel giro di quarantott’ore le sue parole finiranno sulla scrivania del Presidente degli Stati Uniti... Per me è la prima volta. Ma non è l’unica a non stare nella pelle mentre le Black Panthers entrano marciando in casa di Lenny: Robert Bay, da Oakland il Maresciallo Superiore delle Panthers Don Cox, da Harlem il Capitano della Difesa Henry Miller, le Panthers donne... Cristo Santo, e poi dicono che le Panthers non sanno come mettersi in tiro con pantaloni stretti, dolcevita neri stretti, giacche di pelle, occhiali da sole cubani, acconciature afro. Ma afro di quelle vere, non di quelle raffazzonate e potate come piante ornamentali e vaporizzate fino a risplendere come fibra acrilica... No, queste sono serie, naturali, selvagge... e di più.

Questi non sono negri da diritti civili che portano abiti grigi tre misure più grandi... Questi non sono più interminabili banchetti della Urban League3 nelle sale da ballo degli alberghi in cui cercano di alternare bianchi e neri ai tavoli come se infilassero perline in una collanina Arapaho... Questi sono uomini veri!

Sparatorie, rivoluzioni, foto su «Life» di poliziotti che afferrano Black Panthers come fossero Vietcong... Non si capisce come, ma nella testa il tutto si confonde all’idea di quanto sono belli. Affilati come lame. Le Panthers donne: ce ne sono tre o quattro in giro, mogli di alcuni dei 21 imputati, e sono così magre, così agili, lo abbiamo già detto, dentro i loro pantacollant e le loro acconciature Yoruba che sembrano turbanti. Le diresti uscite dalle pagine di «Vogue», anche se è fuor di dubbio che «Vogue» abbia copiato da loro. Tutte insieme le donne della stanza sanno con esattezza cosa intenda Amanda Burden quando dice che è contro la moda perché «la sofisticatezza delle pupe nere mi ha fatto rivedere le mie posizioni». Dio sa se le Panthers donne non passano mezz’ora davanti allo specchio al mattino a illeggiadrire le orbite con lenti a contatto, eyeliner, ombretto, matita, spazzolino per sopracciglia, ciglia finte, mascara, correttore e crema antirughe per gli angoli... Ed eccole qui, davanti ai tuoi occhi, che marciano nel duplex giallo cinese dei Bernstein, tra candelabri, coppe d’argento piene di anemoni bianchi e color lavanda, e domestici in uniforme che servono bevande e bocconcini di roquefort ricoperti di noci tritate...

Ma va bene così. Sono domestici bianchi, niente Claude e Maude, ma sudamericani bianchi. Lenny e Felicia sono dei geni. Perché alla fine tutto si riduce ai domestici. Sono la pietra di paragone del Radical Chic. Logicamente, se dai un party per le Black Panthers, come fanno Lenny e Felicia stasera, o come hanno fatto Sidney e Gail Lumet la settimana scorsa, o come hanno fatto prima ancora John Simon della Random House e Richard Baron, l’editore. O per i Chicago Eight4, come al party di Jean Vanden Heuvel. O per i raccoglitori d’uva e per Bernadette Devlin, come ai party di Andrew Stein.

O per gli Young Lords, come al party che Ellie Guggenheimer darà la prossima settimana nel suo duplex in Park Avenue. O per gli indiani d’America o per l’Sds5 o per le G1 coffee houses6 o anche per gli Amici della Terra... Beh, in quel caso è chiaro che non puoi avere un maggiordomo e una cameriera negri, tipo Claude e Maude, in uniforme, che girano per salotto, biblioteca e ingresso servendo bevande e canapè. Un mucchio di gente ha cercato di immaginarselo. Cercano di immaginare le Panthers o qualcun altro entrare con l’aria arrabbiata, 0 capelli elettrizzati, gli occhiali da sole cubani, le giacche di pelle e tutto il resto, e cercano di immaginare Claude e Maude con le uniformi nere avvicinarsi e dire: «Gradisce un drink, signore?». Chiudono gli occhi e cercano di immaginarselo in qualche modo, ma non c’è modo. Impossibile vederlo, tutto qui.

E così l’ondata del Radical Chic ha trasformato la ricerca di domestici bianchi in un’impresa disperata. Carter e Amanda Burden hanno domestici bianchi. Sidney Lumet e sua moglie Gail, che è la figlia di Lena Home, hanno tre domestici bianchi, inclusa una tata scozzese. Hanno tutti domestici bianchi. E Lenny e Felicia... Loro li avevano già prima che il Radical Chic cominciasse. Felicia è cresciuta in Cile. Suo padre, Roy Elwood Cohn, un ingegnere di San Francisco, lavorava per l’American Smelting and Refining Co. di Santiago. Come Felicia Montealegre (il nome da ragazza dalla madre), a New York faceva l’attrice e nel 1949 vinse il premio della critica del «Motion Picture Daily» come migliore nuova attrice televisiva. In ogni caso loro hanno un personale composto da tre domestici sudamericani bianchi, incluso un cuoco cileno, più l’autista e cameriere personale di Lenny che è inglese, e quindi è ovviamente bianco. Facile da capire quanto tutto ciò sia perfetto per i tempi... No? Beh, molti dei loro amici l’hanno capito, e così telefonano ai Bemstein per chiedere di trovar loro dei domestici sudamericani, e i Bernstein sono così altruisti, così gentili, che la gente, caritatevole e grata, li chiama «Agenzia di Collocamento Spie e Span», il che ovviamente è dettato da un senso dell’umorismo facile e alquanto folkloristico.

La sola altra cosa da fare è quello che EUie Guggenheimer farà la prossima settimana al suo party per gli Young Lords nel suo duplex in Park Avenue sull’89esima, appena dieci isolati da Lenny e Felicia. Darà il suo party di domenica, che è il giorno libero della cameriera e della donna delle pulizie. «Due miei amici», confida al telefono, «due miei amici che guarda caso... non sono bianchi... Ecco, sono queste le cose che odio dei tempi in cui viviamo: le parole... Beh, loro sono disposti a fare da maggiordomo e cameriera... E anch’io farò da cameriera!».

A questo punto qualche benpensante potrà obiettare: ma se la faccenda crea simili tensioni e se uno crede veramente nell’uguaglianza, perché allora non fare del tutto a meno dei domestici? Beh, il solo chiederselo è sintomo che si ignora un elemento basilare della vita nei grandi appartamenti e nelle residenze dell’East Side nell’Era del Radical Chic. Perché, Dio mio, i domestici non sono solo una comodità, sono un assoluto bisogno psicologico. Una volta che si fa una vita del genere, che la si fa a tutti gli effetti, con le prime mattine ad affannarsi sulle pedane di velluto di Kounovsky7 e le tarde mattine passate al telefono, e la colazione da Running Footman, che adesso è molto più alla moda della Grenouille, di Lutèce, di Lafayette, della Caravelle, e in generale di tutti gli altri Stagni di Ranocchi della città, meno appariscente, più genere David Hicks meno Parish-Hadley, e allora... Beh, allora, l’idea di fare a meno dei domestici è impensabile. Ma anche questo non la dice tutta. Messa così sembrerebbe solo una questione di comodità, quando in effetti il problema in sé è solo quello di... avere dei domestici. Comprensibile, no?

Dio, a questi eventi Radical Chic passa per la testa un tale diluvio di tabù... Ma è delizioso. E come se le terminazioni nervose fossero in allarme rosso per quel che riguarda le sfumature più personali di status. Negatelo pure! Tuttavia qui capita a tutti. Il fatto è che qui restate intrappolati da magnifiche contraddizioni. Come quando cerchi di unire a forza le estremità di due calamite e vieni preso da un delizioso brivido... Loro e noi...

Per esempio, i propri domestici, per quanto bianchi siano, di solito non sono un problema. Basta una parola discreta ed eufemistica sul tipo di party che si sta per dare, ed è quasi certo che saranno dei modelli di correttezza. Anche se è vero che gli eufemismi non sono sempre una cosa facile. Quando si parla ai propri domestici bianchi, non si sa mai bene se chiamare i neri neri, negri, o gente di colore. Quando si parla con gli altri... Beh, alle persone istruite ovviamente si dice neri. Al momento è l’unica parola che sottintende la propria consapevolezza della dignità della razza nera. Ma, non si sa come, quando stai per usare quella parola con i tuoi domestici bianchi, esiti. Non riesci a cacciartela fuori dalla bocca. Perché? Contro-senso di colpa! Sai che stai per pronunciare una di quelle parole fonda- mentali che divide i colti dagli incolti, gli intonati dagli stonati, i fichi dagli sfigati. Non appena la parola ti esce di bocca - e te ne accorgi già mentre hai la prima sillaba sulla punta della lingua - il tuo domestico ti ha già schedato come uno di quei progressisti in limousine, o comunque ti voglia definire, tutti impegnati a dedicare il proprio buon cuore bianco alla causa dei neri, e magari ne dedicassi un po’ ai proletari bianchi, ai domestici dell’East Side, per esempio, e figurarsi, sahib. Negatelo pure! Ma sono queste le piccole deliziose agonie del Radical Chic. Così uno finisce per scegliere negro, sperando che per un attimo il grande dio Culturatus metta da parte il suo libro mastro... Comunque sia, se si è capaci di accettare questo piccolo compromesso, i propri domestici non sono più un problema. Ma il ragazzo dell’ascensore e il portiere... Appena si accorgono che stai per dare uno di quei party, di riflesso cominciano a lanciarti occhiate fulminanti! Ovviamente vengono tutti dal Queens e posti del genere, e bisogna tenerne conto. Per una qualche ragione i ragazzi degli ascensori hanno la tendenza a prendersela più dei portieri. Meno senso della politesse, probabilmente.

E poi: come ci si veste a questi party per le Panthers o per gli Young Lords o per i raccoglitori d’uva? Come deve vestirsi una donna? E chiaro che uno non vuole mettersi qualcosa di frivolo né di esageratamente costoso, come ai party di Gerard Pipart. D’altro canto però non si vuole nemmeno arrivare vestiti tipo «boccone del povero» con una qualche orribile accoppiata dolcevita-jeans comprati sull’Ottava Ovest, per avere l’aria funky e sembrare «uno di loro». Francamente Jean Vanden Heuvel... Quella Jean lì nel corridoio che distribuisce a tutti il suo celebre sorriso, con quei suoi occhietti strizzati tipo F16... Francamente Jean tende troppo al funky. Jean, che è la figlia di Jules Stein, uno degli uomini più facoltosi del Paese, indossa una specie di gonna a portafoglio di pelle scamosciata color ruggine, tipo quelle che le operaie inglesi vanno a scegliersi il sabato pomeriggio in una di quelle boutique assolutamente infernali di Londra tipo Bus Stop o Biba, in cui tutto sembra chic ma anche economico, grezzo ed essenziale. Felicia Bernstein sembra abbia più chiara la situazione. Guardatela. S’è messa il più semplice abitino nero che si possa immaginare, e come unico fronzolo una normale collanina d’oro. Perfetto. Dignitoso e senza alcuna ostentazione di status symbol.

Lenny? Anche Lenny è rimasto tutto il tempo in salotto a chiacchierare con i suoi vecchi amici tipo i Duchin e gli Stanton e i Lane. Lenny indossa un dolcevita nero, un blazer blu, pantaloni a quadri Black Watch, e una collanina con un ciondolo che gli penzola sullo sterno. Ha un sarto personale che va da lui per prendergli le misure e aggiustargli i vestiti. Lenny è basso e magrolino, eppure sembra sempre alto.

È per via della testa. Ha una testa aristocratica, con una faccia che è al tempo stesso sensibile e burbera, e una folta chioma di capelli grigio ferro, con basette, il tutto messo in risalto dal giallo cinese della stanza. Gli occhi e il sorriso irradiano successo con un fascino che ben illustra l’adagio di Lord Jersey per il quale «contrariamente a quanto i metodisti ci dicono, soldi e successo fanno bene all’anima». Lenny potrà pure avere cinquantun’anni, ma è ancora il Wunderkind della musica americana. Lo dicono tutti. Non è solo uno dei più grandi direttori d’orchestra del mondo, ma è anche un altrettanto competente compositore e pianista. Con West Side Story e i suoi concerti televisivi per bambini, è l’uomo che più di ogni altro ha abbattuto il muro che c’è tra musica d’élite e gusti popolari. E normale che adesso se ne stia qui in casa sua a irradiare quel fascino e quella grazia che lo rendono un gradito ospite ai leader degli oppressi. E buffo che la prossima ora sarà così sconvolgente per Yegregio maestro. Ed è strano che il negro del piano debba sbucare fuori giusto stasera...

Suonò un campanello, dal suono si sarebbe detto uno di quei campanelli da tavolo da pranzo, di quelli con cui si chiama la cameriera che è in cucina, e il party si trasferì dall’ingresso al salotto. Felicia fece strada, Felicia e un omino grigio, con i capelli grigi, la faccia grigia, il vestito grigio, e un paio di basette all’ultimo grido ma grigie. Praticamente un omino grigio, che sarebbe saltato su nei momenti chiave... per tenere il treno della Storia sui binari, per così dire...

Felicia era in fondo al salotto che cercava di convincere tutti a entrare.

«Lenny!», disse. «Di’ ai dissidenti di entrare!». Lenny era ancora sulla soglia del salotto, vicino all’ingresso. «Dissidenti!», disse, «Entrate!».

Quasi tutti i mobili del salotto, i divani, le poltrone, i tavolini, le sedie e via dicendo, erano stati messi contro le pareti, e una trentina o quarantina di sedie pieghevoli erano state messe al centro della stanza. Era una stanza gigantesca con pareti giallo cinese e stucchi bianchi, candelabri, specchiere, un ritratto di Felicia distesa su una sdraio, e in fondo, lì dove adesso c’era Felicia, un paio di pianoforti a coda. Un paio: i due pianoforti erano messi schiena contro schiena, scoperchiati e con la pancia in bella mostra. Sopra i due pianoforti c’era l’ordinaria schiera di foto in cornici d’argento, di quelle foto che stanno in piedi grazie a piccoli sostegni messi sul retro e ricoperti di velluto o di moiré, di quelle che gli arredatori consigliano per dare al salotto un’aria familiare e vissuta. Lo chiamano «il chatchka look da un milione di dollari». E in un certo qual modo era perfetto per il Radical Chic. La cosa graziosa era che per Lenny era istintivo. E anche per Felicia. Il tutto dava l’idea che erano stati spesi 200mila dollari di arredamento senza che sembrasse pretenzioso, anche se è chiaro che per un appartamento di tredici stanze non è una gran cifra... Vallo a spiegare alle Black Panthers. Altro delizioso pensiero... I divani, per esempio, erano coperti con eleganti stampe a spruzzi su fondo bianco che nascondevano grandi cuscini morbidissimi, nella tradizione Billy Baldwin o Margaret Owen... Senza però dare l’idea che Billy o Margaret fossero stati lì ad affannarsi con tavolini da tè o sedie laccate. Gemütlich... Vecchia Vienna quando il Nonno era ancora vivo... Assolutamente perfetto...

Appena Lenny riuscì a far entrare «i dissidenti», la stanza fu presto piena. In effetti era strapiena. La gente s’era messa a sedere sui divani e sulle poltrone lungo le pareti, o sulle sedie pieghevoli, o se ne stava in piedi in fondo alla stanza, dove c’era Lenny. Otto Preminger se ne stava seduto su un divano vicino ai pianoforti, dove si sarebbero messi i relatori. Le mogli delle Panthers sedevano nelle prime due file con le loro acconciature Yoruba, assieme a Henry Mitchell e Julie Belafonte, la moglie di Harry Belafonte. Julie è bianca, ma tutti la salutavano affettuosamente chiamandola «Sorella». Dietro di lei era seduta Barbara Walters, conduttrice del «Today Show» in TV, che indossava un tailleur pantaloni a quadri con un grosso e vaporoso collo di pelliccia sul cappotto. Harold Taylor, l’ex-«ragazzo preside» del Sarah Lawrence8, adesso cinquantacinquenne dai capelli argentati, ma ancora giovanile, si diresse verso le prime file per abbracciare e dare un grosso bacio sociale a Gail Lumet.

Robert Bay si sistemò in centro sala, su una sedia pieghevole. Jean Vanden Heuvel era in piedi in fondo alla stanza che cercava di mettere a fuoco i pianoforti... Charlotte Curtis era in piedi accanto alla porta a prendere appunti.

E poi Felicia si mise in piedi accanto ai pianoforti e disse: «Vorrei ringraziarvi infinitamente per essere venuti. Sono molto, molto contenta di vedervi così numerosi». Tutto andava a meraviglia. La sua voce era piena come quella di un oboe.

Presentò un uomo che si chiamava Leon Quat, un avvocato impegnato nella raccolta di fondi per Panther 21, ventuno Black Panthers arrestate con l’accusa di cospirazione per far saltare in aria cinque centri commerciali di New York, gli incroci ferroviari di New Haven, un commissariato di Polizia e l’orto botanico del Bronx. Leon Quat, cosa alquanto curiosa, sembrava nell’insieme uno di quei cinquantaduenni che dirigono uno studio legale che è insieme agenzia immobiliare e agenzia di assicurazioni, al secondo piano di un edificio a due piani su Queens Boulevard abitato da gente che paga le tasse. Anche se in realtà Leon Quat non era quel tipo d’uomo. Aveva le basette. Un gran bel paio di basette. Non gli scendevano giù solo fino alla sporgenza intertragica, che è quella linguetta sul bordo inferiore dell’orecchio a cui tanti uomini alla moda cercano di arrivare. No, su quella perfetta faccia da assicuratore di Queens Boulevard c’erano delle vere basette che arrivavano in fondo ai lobi, quei veri e propri scopettoni che in qualche modo sono diventati il marchio del Movimento.

Leon Quat si alzò in piedi sorridendo: «Siamo molto grati alla signora Bernstein»... Che però pronunciò -stin.

«STEIN!»: un vocione affumicato che rimbomba dal fondo della stanza! E Lenny! Leon Quat e le Black Panthers avranno la fortuna di sentire la voce di Lenny. Poco ma sicuro. Fa sul serio.

Leon Quat dev’essere l’unica persona in quella stanza a non sapere di Lenny e dei suoi esercizi di dizione delle tre del mattino... Per anni, con un ritmo di minimo venti per volta, Lenny ha lavorato su -stein e non -stin, come a dire: io non sono uno di quegli ebrei del 1921 che cercano di ammorbidire la propria ebraicità annacquando il proprio nome con una malriuscita pronuncia inglese. E in effetti Lenny si è talmente allenato con il suo -stein e non —stin che alcune delle persone in sala pensano immediatamente alla storia di quel tale che ha abbordato Larry Rivers, l’artista, dicendo: «Che cos’è questa storia che tu e Léonard Bernstin», pronunciando -stin, «non vi rivolgete più la parola?». Al che Rivers aveva risposto: «STEIN!».

«Siamo molto grati... per la meravigliosa ospitalità», dice Quat, non osando evidentemente riprovare a pronunciare il nome. Poi sorride raggiante in direzione della folla: «Immagino che in questa stanza siamo tutti una banda di snob e intellettuali... Ovviamente mi riferisco alle parole del Vicepresidente Agnew che oggi non potrà essere con noi perché si trova nel Sud del Pacifico a spiegare la dottrina di Nixon agli australiani. Tutti i Vicepresidenti soffrono del complesso dell’autonoleggio Avis: sono i secondi, per cui si sforzano di più, tipo il Generale Ky o Hubert Humphrey...». A ogni battuta si ferma ad aspettare ghigni e risatine, ma celebrità e intellettuali sono tutti perplessi. Gli dedicano una specie di attenzione catatonica. Sono venuti qui per le Panthers e per il Radical Chic, e si ritrovano un agente immobiliare di Queens Boulevard che fa battute su Agnew. Ma Quat è troppo calato nel suo ruolo per riuscire a venirne fuori.

«Se anche avevo del rispetto per Lester Maddox, l’ho perso quando ho visto Humphrey mettergli un braccio sulle spalle...», e non si sa come, ma Quat comincia a sparire dentro il suo ruolo lapidando Hubert Humphrey con pezzi di repertorio di Shelley Berman. Poi, lentamente, riesce a risalire. Comincia a parlare dell’oppressione di Panther 21. Sono in prigione dal 2 aprile del 1969 in attesa di processo per accuse ridicole come un complotto per far saltare in aria l’orto botanico del Bronx. La cifra della cauzione era di 100mila dollari a persona, una cosa senza senso che ha reso loro inapplicabile quello che è il diritto alla cauzione. Sono stati separati e trasferiti di prigione in prigione. È stato negato loro, a tutti gli effetti, il diritto di consultare i propri avvocati per preparare la difesa. In prigione sono stati sottoposti a un trattamento disumano, come nel caso di Lee Berry, un epilettico che è stato trascinato fuori dal letto di un ospedale e sbattuto in prigione dove è stato tenuto in cella d’isolamento con una lampadina accesa sulla testa giorno e notte. Le Panthers che non sono state arrestate né uccise, tipo Fred Hampton, vengono seguite e perseguitate dovunque vadano. «Uno dei pochi leader che è ancora alla macchia», Quat sorride, «oggi è qui. Don Cox, Maresciallo Superiore del Black Panthers Party».

«Esatto», dice una voce rivolgendosi in modo abbastanza pacato a Leon Quat. E da dietro uno dei pianoforti a coda di Lenny si alza un uomo alto e nero... Il negro accanto al piano...

Il Maresciallo Superiore del Black Panthers Party s’era messo a sedere su una sedia tra il piano e il muro. Si alza in piedi. Ok, ha l’aria da duro. È un uomo grande e grosso dalla pelle marrone e un’acconciatura afro e la barba a punta e un dolcevita nero tipo quello di Lenny, e se ne sta in piedi accanto al piano, vicino alla schiera chatchka di foto di famiglia da un milione di dollari. E in effetti c’è un che di perfetto nell’attimo in cui la prima Black Panther si alza in piedi in un salotto di Park Avenue per esporre i dieci punti del manifesto delle Panthers alla Società newyorkese nell’Era del Radical Chic. La figura di Cox si staglia sul fondo... Ok, dietro di lui, a quasi sei metri di distanza c’è una delle finestre con vista su Park Avenue coperta da una tenda di seta bianca con mantovana stile impero. O forse non è seta, forse è un cotone mercerizzato di Jack Lenor Larsen o una cosa del genere, lucido ma più raffinato della seta. Tutto il quadretto, la tenda bianca e la silhouette del negro accanto al piano che le si staglia contro, è incorniciato da un paio di tendine verde bottiglia tirate su ai due lati della finestra.

E adesso comincia?... Ma questo Cox è un tipo tranquillo. Mica se ne esce con epiteti da strada e modi di dire e tutta quella roba fatta di retorica e di occhi iniettati di sangue che si usa per, come si dice, mau-mauizzare i progressisti bianchi.

«Il Black Panthers Party», comincia, «presenta un programma in dieci punti elaborato nell’ottobre del 1966 dal nostro Ministro della Difesa, Huey P. Newton...». E parte con i dieci punti: «Noi vogliamo un sistema educativo che sia espressione della vera natura di questa società decadente [...]. Noi vogliamo che tutti i neri vengano esentati dal servizio militare [...]. Noi vogliamo che tutti i neri in prigione vengano liberati. Li vogliamo liberi perché non hanno avuto un giusto processo. Siamo stati sempre giudicati da giurie borghesi ed esclusivamente bianche [...]. E soprattutto: noi vogliamo la pace... Chiaro?... Noi vogliamo la pace, ma non ci sarà pace finché la società sarà razzista e finché una parte della società sarà impegnata nell’oppressione sistematica di un’altra parte [...]. Noi vogliamo un plebiscito delle Nazioni Unite che istituisca delle comunità nere, così che possiamo avere il controllo del nostro destino [...]».

Tutti quanti dentro la stanza, logicamente, si bevono la performance come latte di tigre quasi fosse roba per... l’Anima. Tutti amano quel tono di voce, che è confidenzialmente alla moda. E però il discorso scade in schemi stranamente formali. Che cosa sono queste frasi fatte tipo: «Il nostro Ministro della Difesa, Huey P. Newton»?

«C’è della gente che pensa che siamo razzisti, e questo perché ai media fa comodo creare quest’immagine per alimentare il Sistema, con il quale noi non abbiamo niente a che fare... Chiaro?... A loro piace che il Black Panthers Party dia l’impressione di essere un’organizzazione razzista, perché così viene nascosta la vera natura di quella che è una lotta di classe. Ma diventa sempre più difficile tenere in piedi questa mistificazione, e così sono costretti a ricorrere a campagne di persecuzioni e violenze per cercare di eliminare il Black Panthers Party. Qui a New York ventuno membri del Black Panthers Party sono stati arrestati lo scorso aprile con l’accusa ridicola di complotto per far saltare in aria centri commerciali e giardini di fiori. Dallo scorso aprile a oggi ci sono state ventisette udienze per ottenere la libertà condizionale... Chiaro?» - ma tutti quanti qui adorano i chiaro? è i non so se mi spiego. Sono così, come dire... neri... così funky... così ritmici... Senza nemmeno averne piena consapevolezza ognuno accetta, e condivide, il fatto che lui li usi non per enfatizzare ma come interpunzione, con ritmo, più tipo gli uh tanto amati dai ministri della Chiesa Episcopale, come in: «E benedici, uh, questi doni, uh, che Ti offriamo e noi che, uh, siamo Tuoi servitori» - «Dallo scorso aprile a oggi ci sono state ventisette udienze per ottenere la libertà condizionale... Chiaro?... E ogni volta il giudice ha rifiutato di far scendere la cauzione sotto i 100mila dollari... Mentre un gruppo di bianchi accusati di aver fatto realmente saltare in aria alcuni edifici... è riuscito a uscire su cauzione. Questa è una dimostrazione evidente della natura razzista della campagna contro il Black Panthers Party.

Noi non diciamo più cauzione, noi diciamo riscatto, perché una cauzione così proibitiva può essere chiamata soltanto riscatto».

«Qui a New York la situazione è quanto mai esplosiva, ve ne sarete già accorti, con le persone ammucchiate le une sulle altre. Già faticano a farcela quando la gente è organizzata, per cui quando nasce un gruppo come le Black Panthers vogliono eliminarlo e basta... Chiaro?... E alla fine questa è stata la posizione assunta da J. Edgar Hoover, che ci considera la più grossa delle minacce al Sistema. Cercano di dare l’impressione che siamo impegnati in attività criminali. Ma che cosa sono queste attività criminali? Abbiamo istituito un programma colazione, per dedicarci a quelli che sono i bisogni della comunità. Tutte le mattine diamo da mangiare a bambini affamati prima che vadano a scuola. Al momento è un programma a scala ridotta. Diamo da mangiare solo a cinquantamila bambini in tutto il Paese, ma gli unici soldi che abbiamo per il programma sono le donazioni dei negozianti del vicinato.

Abbiamo un programma per la costruzione di ospedali nelle comunità nere e ci interessiamo ai bisogni della comunità anche in altri modi... Chiaro?... La gente sa che il Sistema mente quando dice che siamo impegnati in attività criminali. Quei porci sono stati costretti ad azioni estreme, come l’assassinio nel suo letto del nostro vicepresidente, Fred Hampton... Chiaro?... Nel sonno... Ma quando sono arrivati al limite e hanno gettato la maschera e hanno assassinato Fred Hampton nel letto, nel sonno... Chiaro?... la cosa ha sconvolto la gente, perché finalmente ha visto le tattiche del Sistema per quello che sono...».

«Ci siamo appropriati di una frase coniata da Malcolm X: “Con ogni mezzo necessario”... Chiaro?... “Con ogni mezzo necessario”... E con questo vogliamo dire che riconosciamo che se qualcuno ti attacca tu hai il diritto di difenderti. I Porci dicono che le Black Panthers sono armate, che le Black Panthers hanno le armi... Chiaro?... e che quindi hanno il diritto di fare irruzione nelle nostre case e di assassinarci nei nostri letti. Non credo che ci sia qualcuno qui dentro che non si difenderebbe se qualcuno entrasse e attaccasse lui e la propria famiglia... Chiaro?... Non credo che ci sia qualcuno qui dentro che non difenderebbe la propria famiglia» - e ogni donna che è in questa stanza pensa al proprio marito... con le guanciotte morbide come burrocacao e il pigiama Dior... che si fionda in bagno e chiude a chiave la porta e apre la doccia, così che poi può dire che non ha sentito niente - «Li chiamiamo Porci e va bene così», dice Don Cox, «perché hanno l’abitudine di far passare la vittima per criminale, e il criminale per vittima. Così ogni Panther deve essere pronta a difendersi. Lo ha dichiarato il nostro Ministro della Difesa, Huey P. Newton: “Chiunque non abbia nella propria casa i mezzi sufficienti alla propria autodifesa, o chiunque abbia i mezzi e non si difenda... Noi ripudiamo quell’uomo”... Chiaro?... Come dice il nostro Ministro della Difesa Huey P. Newton: “Ogni persona disarmata è uno schiavo, ovvero è uno schiavo nel vero senso della parola”... Noi dichiariamo che questo Paese è il più repressivo del mondo, forse della storia del mondo. I Porci hanno le armi e sono pronti a usarle contro la gente, e noi dichiariamo che ciò è male. Sono pronti a commettere genocidio contro quelli che fanno resistenza, e noi dichiariamo che questo è male».

«Noi vogliamo soltanto una vita serena, come la vostra. Vivere in pace e fare una vita serena, è tutto quello che vogliamo... Chiaro?... Ma in questo preciso momento non c’è modo di poterlo fare. Voglio leggervi una cosa: “Quando, nel corso degli eventi umani, diventa necessario per un popolo sciogliere i legami politici che l’hanno unito a un altro”» - legge tutto di fila, parola per parola - «“e, di conseguenza, l’esperienza ha dimostrato che il genere umano è disposto più a soffrire, a differenza delle creature demoniache che non lo sono, che a farsi giustizia da sé abolendo gli schemi a cui è abituato. Ma non appena una lunga serie di abusi e soprusi, mirati a perseguire il medesimo scopo, rivela il progetto di sottometterlo a un dispotismo assoluto, è suo diritto, è suo dovere, rovesciare un tale Governo, e procurarsi nuovi custodi per la loro sicurezza futura”. Sapete che cos’è?», e li guarda in faccia uno per uno prima di sferrare il colpo. «È la Dichiarazione d’indipendenza, la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. E noi difenderemo noi stessi e faremo come ci viene detto di fare... Non so se mi spiego... E questo è quanto».

La parte del «questo è quanto» sembra così casuale, così funky, così opportuna, dopo la retorica di quello che ha detto. E poi si rimette a sedere e sparisce dietro uno dei pianoforti a coda. La cosa inizia a muoversi. E... diamine, sì, l’incendio del Reichstag! Un altro uomo si alza in piedi, un bianco che si chiama Gerald Lefcourt, che è a Capo del Consiglio di Panther 21, un giovanotto con folti capelli neri e i basettoni stile Movimento e quel gran motore dentro sé che tutti i giovani penalisti dovrebbero avere. Cita al cospetto dei presenti l’incendio del Reichstag. Riepiloga il caso Panther 21 e poi dice: «Mi pare che questa sgradevole situazione possa essere paragonata al tentativo di dare fuoco al Reichstag» - si riferisce al modo in cui i nazisti usarono l’incendio del Reichstag come pretesto per attivare la Gestapo e sterminare ogni forma di opposizione politica in Germania - «e mi pare che anche questo processo possa essere paragonato al processo Reichstag... Per vari motivi... Un processo che diede il via a un’Era che potrebbe cominciare anche in questo Paese. Con questo processo potrebbe prendere il via un’Era della Destra, e l’unica cosa che può impedirlo è che le persone come noi protestino e lo facciano subito» - e non facciano i Krupp, i Junker, o i tedeschi bene - «Abbiamo avuto l’opportunità di fare delle domande ai membri della Giuria, e abbiamo scoperto delle cosette alquanto interessanti. Guadagnano tutti in media 300mila dollari, e vengono tutti da questa zona della città», dice Lefcourt, e con la testa fa un gesto per comprendere l’intero Upper East Side. E di colpo tutti sentono, e lo sentono veramente, che nei grandi condomìni di Park Avenue il genere umano si divide in due razze: i Junker reazionari dalla mascella squadrata vestiti Brook Club e con cravatte di serpente degli edifici circostanti... e le poche anime intonate qui, oggi, nell’attico di Lenny. «Hanno tutti un reddito annuo nell’ordine di 35mila dollari... E voi che pensavate di avere una Giuria di pari... Erano scandalizzati dalle nostre domande. A detta loro non erano domande da farsi. Sono tutti membri della Grand Jury Association. Praticamente un club. Una volta ogni tanto pranzano insieme. Molti di loro erano compagni di scuola. La solidarietà che hanno nei confronti delle Black Panthers è pari a quella del Presidente Nixon».

I Junker! Leon Quat dice: «Ogni fascismo nasce dalla persecuzione del movimento meno forte e meno popolare. Oggi le Panthers, domani gli studenti... E poi ebrei e altre minoranze problematiche!... Bell’esempio di libertà civili!... E ora si dia il via alle offerte a quattro cifre. Chi è disposto a dare un contributo di un migliaio di dollari o anche più?».

Sul momento niente. Ma l’omino grigio seduto accanto a Felicia, l’omino grigio con le basette, salta in piedi, dà a Quat un pezzo di carta e dice: «Il signor Clarence Jones mi ha chiesto di dire... Non è potuto venire qui oggi, ma contribuisce alla raccolta fondi per la difesa con 7.500 dollari!».

«Oh! Magnifico!», dice Felicia.

Poi la voce di Lenny dal fondo della stanza: «Come ospite di mia moglie», sorride, «contribuirò con il mio cachet per la prossima rappresentazione della Cavalleria Rusticana». Risate cameratesche. Applausi. «Spero bene sia di quattro cifre!».

Le cose si stanno muovendo. Otto Preminger, dal divano in cui è seduto, dice: «Offrooooo mille tollari!».

Perfetto.

Quat dice: «Non posso assicurarvi che sia fiscalmente detraibile». Sorride. «Vorrei poterlo fare, ma non posso». Beh, quest’uomo diventa di minuto in minuto più intelligente. Sa riconoscere un pubblico Radical Chic. Parole magiche nell’Era del Radical Chic: non è fiscalmente detraibile.

Le offerte diventano sempre più veloci, solo 250 o 300 dollari a botta, ma una dopo l’altra... Sheldon Harnick... Bernie e Hilda Fishman, Judith Bernstein... Il signore e la signora Burton Lane...

«Sì, lo so che alcuni di voi sono stati beccati con le quotazioni in borsa in perdita», dice Quat, «coraggio, però...».

Quat dice: «Abbiamo un’offerta di 300 dollari di Harry Belafonte!».

«No, no», dice Julie Belafonte.

«Chiedo scusa», dice Quat, «è denaro personale di Julie! Le mie scuse. Del resto c’è un movimento di liberazione delle donne che dilaga per tutto il Paese, e voglio che venga formalizzata come una donazione della signora Belafonte!». Poi dice: «Lo so che vorreste arrivare al momento delle domande, ma so pure che c’è ancora dell’oro in questa miniera. Credo sia giunto il momento di passare agli assegni in bianco».

Ancora offerte... 100 dollari dalla signora August Heckscher. «Accettiamo qualsiasi cosa!», dice Quat, «Prendiamo tutto!» - e la sua voce da procacciatore di fondi è al culmine - «Uscirete da qui senza un soldo!». Alla fine però si calma. Una meravigliosa ragazza dai capelli biondo cenere con un viso assolutamente perfetto stile Miss Porter’s School si alza in piedi e parla. Ha un vestito in pelle e tweed. Sembra una della Junior League che si sta laureando nella boutique di Ungaro. «Mi piacerebbe fare una domanda al signor Cox», dice. Cox si alza ancora una volta in piedi, accanto al pianoforte a coda. «Oltre al programma colazione», dice, «avete altri progetti per la comunità? E di che si tratta?».

Cox comincia a parlare di un programma delle Black Panthers per la costruzione di ospedali nei ghetti, e via dicendo, ma poi continua dicendo che le Panthers chiedono che i poliziotti abitino nelle comunità che devono sorvegliare. «Se un poliziotto sorveglia una comunità, deve viverci... Chiaro?... Perché se vivesse dentro la comunità, ci penserebbe due volte prima di brutalizzarci, perché a quel punto possiamo regolare la faccenda quando la sera torna casa... Chiaro?... Stiamo pure lavorando alla creazione di scuole di liberazione per bambini neri, e in queste scuole di liberazione insegneremmo loro delle cose sull’ambiente in cui vivono, perché al momento imparano, ma non imparano a vedere realisticamente com’è l’ambiente in cui vivono... Chiaro?... Gli insegnano Paperino e Mamma Oca e tutte quelle canzoncine cretine... Non so se mi spiego... Ci piacerebbe portare i bambini in gita nei quartieri dei bianchi, tipo Scarsdale e posti così, e far vedere come vivono i loro oppressori... Non so se mi spiego... Ma al momento non abbiamo i soldi per realizzare questi programmi e venire incontro ai bisogni della comunità. Gli unici soldi che abbiamo sono quelli che ci danno i negozianti della comunità nera quando gli chiediamo un contributo, e devono darceli, perché loro sfruttano la comunità nera...».

...Merda. Ma perché diavolo Cox sta tirando fuori questa storia? Quat e l’omino grigio sono pronti a intervenire in un nanosecondo. Per amor di Dio, Cox, non aprire il vaso di Pandora. Anche in simile branco di crani imbottiti c’è della gente che riesce a indovinare chi siano quei negozianti, a quale razza appartengano, e in quale modo vengano chiesti i contributi, ed eravamo riusciti a tenerci alla larga dal problema per tutta la serata, amico... Non tirare fuori proprio adesso questa rottura di coglioni...

Ma siamo in salvo. Dal fondo si materializza di colpo un problema molto più urgente: «Chi chiamate per dare un party? Chi chiamate per dare un party?». Tutte le teste si girano... Che spettacolo... E un tipo biondo e snello che si è fatto strada fino alle prime file di quelli che stanno in piedi. E in smoking. Porta gli occhiali con la montatura nera e i capelli biondi pettinati all’indietro stile Eaton Square. Somiglia a quel tizio di Yale dallo sguardo intenso sbucato fuori da una di quelle pubblicità della Frigidaire del 1927 sul «Saturday Evening Post», al tempo in cui per vendere qualsiasi cosa si metteva un tizio di Yale sullo sfondo, in smoking, in coppia con la sua giovane morosa dai capelli alla paggio, pronti per la cena al New Haven Lawn Club. L’uomo ha ancora la mano per aria tipo studente modello di prima elementare. «Non potrò stare qui per tutta la serata a sentire quello che direte», dice, «ma chi chiamate per dare un party?».

In realtà è Richard Feigen, proprietario della Feigen Gallery, sulla 79esima accanto al Madison. Sbarcato tra anni fa da Chicago nell’ambiente artistico e sociale... Da allora non ha smesso di arrampicarsi mani e piedi... Come un vero campione... Stasera - ecco lo smoking... Stasera c’è un ricevimento al Museo d’Arte Moderna... Perfetto... Un ricevimento per i soci sostenitori, una vernice privata non aperta ai semplici soci... Ma prima del ricevimento vero e proprio, che è alle 20 e 30, ci sono le cene private... No?... Sono quelle le vere inaugurazioni... E sono nelle case dei grandi collezionisti o dei grandi arrampicatori o della grande élite protestante, meravigliose cene, il meglio del meglio, cravatta nera, e queste cene sono l’unica vera prova della posizione raggiunta all’interno dell’intero reame del l’Arte & Società... Tutto sta in quale casa si è stati invitati prima della vernice... E il giochetto finisce intorno alle 20 e 45, quando l’ospite riunisce tutti gli invitati per la gita al museo, e gli invitati dicono, più o meno di rito: «Dio! Avrei preferito vedere la mostra senza muovermi da qui! È un posto delizioso! Vorrei tanto non dovermi muovere!»... E, logicamente, vogliono dire proprio questo! Assolutamente! Per loro, l’inaugurazione è già finita, la mano è giocata... E Richard Feigen, l’uomo del momento, il replicante dell’uomo Yale 1927, cravatta nera e capelli stile Eaton Square, ha fatto un salto, sulla strada, en passant, dai Bernstein, per tenere un piede anche sul tandem del mondo della Cultura, del Radical Chic... E l’appropriatezza della cosa, il godimento che gli procura, sembra pervaderlo tutto, e fa scattare la mano su in aria, e non si sa come ma il Radical Chic lo raggiunge lì in alto, in quell’attimo di purezza assoluta... mentre Richard Feigen, nel suo smoking, irrompe chiedendo, dal profondo del cuore: «Chi chiamate per dare un party?».

È lì che nacque una tendenza, una moda, in quell’attimo di puro trionfo. Assolutamente straordinario che soltanto trenta minuti dopo ci sarebbe stato il Radical Chic... Ma in quel momento il Radical Chic era la nouvelle vague suprema della Società newyorkese. C’erano voluti più di sei mesi per costruirlo. A quel punto aveva raggiunto le pagine di moda di «Vogue» e stava per conquistare anche quelle di cucina. «Vogue» aveva già pronta una rubrica dal titolo Cibo Soul.

«Il culto del Cibo Soul», cominciava, «è una forma di autocoscienza dei neri e, a un livello più basso, di solidarietà dei bianchi alla causa dell’autonomia dei neri. È come se quelli che mangiano i fagioli e i fagiolini della disperazione sulla soglia della capanna si trovassero a condividerli con quelli che, senza essere costretti a farlo, ne mangiano volontariamente quasi fosse un sacramento. La presente lotta è enfatizzata dal gesto dello spezzare il pane tradizionale...».

 

Focaccia di Patate Dolci 3 tazze di patate dolci finemente grattugiate 1/2 tazza di latte 1 cucchiai di burro fuso 1/2 cucchiaino di: cannella, zenzero, chiodi di garofano e noce moscata 2 uova sale 1/2 tazza di zucchero di canna 1/2 tazza di melassa o miele Mescolate patate, latte, burro fuso, cannella, zenzero, chiodi di garofano, noce moscata e uova. Aggiungete un pizzico di sale, lo zucchero di canna e la melassa o il miele (con la melassa si ottiene la focaccia tradizionale, con il miele una focaccia versione dandy).

 

Una focaccina sacramentale... E intanto i ragazzini tornano dentro la capanna di legno di pino ad aiutare la mamma a rimettere cannella, zenzero, chiodi di garofano e noce moscata sullo scaffale delle spezie Spice Island marca Leslie Foods... E poi vanno a finire di condividere il cibo con quelli che, senza essere costretti a farlo, ne mangiano volontariamente quasi fosse un sacramento.

Molto grazioso! In effetti, questa specie di nostalgie de la boue, o romanticizzazione degli animi primitivi, è stata una delle cose che ha portato il Radical Chic in primo piano nella Società newyorkese. Nostalgie de la boue è un’espressione francese del secolo XIX che, alla lettera, significa ‘nostalgia del fango’.

Per tutti gli anni Sessanta fu la colonna sonora della Società newyorkese, e questo a partire da quando due socialisti, Susan Stein e Christina Paolozzi, scoprirono la Peppermint Lounge e il Twist e due dei primi idoli di quell’Era, Joey Dee e Killer Joe Piro. Nostalgie de la boue diventa il tema preferito ogni volta che un mucchio di facce nuove e un mucchio di soldi nuovi fanno il loro ingresso in Società. I nuovi arrivati hanno sempre avuto due modi per dimostrare la propria superiorità sull’odiata borghesia. Possono far propri gli sfarzi dell’aristocrazia, tipo sontuose architetture, domestici, palchi a teatro, e un rigido protocollo. Oppure possono concedersi l’ebbrezza della Sinistra di far proprio quello che è lo stile delle classi sociali inferiori. I due modi non si escludono a vicenda, e in effetti vengono sempre adottati in coppia. In Inghilterra, durante la Reggenza, la nostalgie de la boue fece furore. In quegli anni la Società londinese adottò mantelli dai colori sgargianti e uno stile di guida selvaggio per i cocchieri, la moda «alla pugile» e i capelli pettinati come quelli dei boxeur che si battevano a pugni nudi, la moda del trasparente e delle scollature fino ai capezzoli da ragazze di taverna, cosi come un nuovo ballo licenzioso: il valzer. Simili manierismi avevano come obiettivo quello di opporre l’arrogante sicurezza dell’aristocrazia all’ossessione per la decenza e la salvaguardia delle apparenze della borghesia. A New York, negli anni Sessanta, la nostalgie de la boue diventò la moda del Rock, del Twist, della Pop Art, del Camp, del corteggiamento dei primi idoli tipo i Rolling Stones o José Torres, e di innumerevoli modi di vestire che si riassumono nell’immagine ricorrente di un giovanotto benestante col suo dolcevita che gli arriva fino alle basette stile bohémien 1962 da Automat sulla Sixth Avenue che dà la buona notte a un anziano portiere vestito tipo colonnello austriaco del 1870.

Intanto la Società newyorkese stava passando per un altro di quegli stravolgimenti provocati dall’arrivo di denaro nuovo che rese la storia sociale di New York simile alla storia politica dei Caraibi. Ovvero una rivoluzione ogni vent’anni, se non prima. Le aristocrazie, nel senso europeo del termine, si basano sempre sulla trasmissione per eredità di grandi proprietà terriere. Nei primi anni della storia degli Stati Uniti, la crociata di Jefferson contro la primogenitura eliminò la possibilità di una casta di baroni di terre ereditate. I grandi possidenti terrieri, tipo i Carroll, i Livingston e gli Schuyler, vennero presto scavalcati da banchieri di Stato, tipo i Biddle o i Lenoxe. Seguirono, una dopo l’altra, ondate di nuovi plutocrati con nuove fonti di rendita: banchieri internazionali, speculatori immobiliari, sanguisughe della Guerra Civile, magnati delle ferrovie, agenti di borsa di Wall Street, sfruttatori di petrolio e acciaio, e via dicendo. Verso la fine della Guerra Civile, la vita sociale di New York era già The Great Barbecue, per usare un’espressione inventata dallo storico della letteratura Vernon L. Parrington. Tra il 1865 e il 1866 la Società newyorkese diede 600 feste da ballo, e lungo Fifth Avenue venne costruita una grande muraglia di palazzine in pietra arenaria.

All’inizio del 1880 i parvenu di New York - quelli che erano gli Scull, i Paley, gli Engelhard, gli Holzer di quel tempo - erano i Vander- bilt, i Rockefeller, gli Huntington e i Gould. Costruirono la Metropolitan Opera House per la sola ragione che il più importante tempio della Cultura di New York, l’Academy of Music, costruito appena ventinove anni prima tra la 14esima e Irving Place, aveva solo diciotto eleganti palchi di proscenio, ed erano monopolizzati da famiglie tipo quelle dei Lorillard, dei Traverse, dei Belmont, degli Stebbins, dei Gandy e dei Barlow. Lo status sociale dei Gould e dei Vanderbilt venne rivelato dalla rassegna stampa che ebbe l’inaugurazione del Met (il 22 ottobre del 1883): «I Gould e i Vanderbilt e la gente come loro profumavano l’aria dell’odore dei loro croccanti bigliettoni».

 

Negli anni Sessanta un’altra nuova industria iniziò a dominare la vita di New York: quella delle cosiddette comunicazioni, i media. Contemporaneamente quelle che nel primo quarto di secolo erano «minoranze» cominciarono ad affermarsi. Soprattutto gli ebrei, ma anche molti cattolici, divennero persone di rilievo nel campo dei media e della Cultura. E così, verso il 1965 - come già era accaduto nel 1935, nel 1926, nel 1883, nel 1866enel 1820-New York si ritrovò con due Società: la Vecchia New York e la Nuova Società. In ogni epoca la Vecchia New York aveva guardato inorridita alla Nuova Società e aveva manifestato la sincera convinzione che una vera aristocrazia, di sangue e di ossa - loro stessi in pratica - stesse subendo la contaminazione di quest’orda di arrampicatori sociali. E questo era stato uno dei temi ricorrenti di ogni epoca. Nel 1960 questa assurda convinzione venne amplificata dal fatto che molti dei membri della Nuova Società, per la prima volta, non fossero protestanti. Nomi e indirizzi della Vecchia New York erano tutti nel Registro Sociale, che solo dieci anni prima veniva confidenzialmente detto il Libro dei Purosangue o il Libro della Buona Società. Era, ed è tuttora, quasi esclusivamente un elenco di famiglie protestanti. Oggi, però, il rimpasto annuale del Registro Sociale, nel quale vengono paracadutati dei «nomadi sociali», tipo John Jacob Astor, non fa più effetto a nessuno. Il fatto è che la Vecchia New York, tranne che per quei membri che fanno parte anche della Nuova Società, tipo Nelson Rockefeller, John Hay Whitney, la signora Wyatt Cooper, non fa più clamore, e senza pubblicità non è mai stato facile diventare un personaggio di tendenza qui a New York. La stampa newyorkese ha avuto sempre la tendenza a favorire la Nuova Società e a prenderla sul serio, anche se solo perché faceva notizia.

Per esempio: la festa da ballo da 400mila dollari data dai Bradley Martin nel 1897. I John Bradley Martin, appena arrivati da Troy, nello Stato di New York, avevano inserito un trattino invisibile tra Bradley e Martin preferendo farsi chiamare Bradley Martin, come i Gordon Walkers in Inghilterra. Per la cronaca: i Bradley Martin dichiararono che quel loro ballo del 1897 sarebbe stato una «spinta al commercio» che avrebbe alleviato le sofferenze dei poveri. Accesi dalla grandiosità dell’evento, i giornali avevano raccontato la festa fino all’ultimo pezzetto di merletto e all’ultima perla coltivata. Fu la più grossa scalata sociale fatta in un colpo solo nella storia di New York prima del ballo in maschera di Truman Capote del 1966.

Negli anni Sessanta i giornali di New York ebbero un motivo in più per favorire la Nuova Società. I commercianti di vestiti della Seventh Avenue, la più grande fonte di reddito pubblicitario per i giornali, avevano cominciato a reclutare gente della Nuova Società per lanciare le nuove mode. Si arrivò al punto che per una matrona, essere fotografata da Ohrbach - indiscutibilmente il negozio d’abbigliamento più chic del mondo - seduta in prima fila alle sfilate di primavera o di autunno dei modelli europei, diventò una prova di appartenenza sociale seconda a nessuna. Ma anche in questo non c’era niente di nuovo. Quarant’anni prima le ditte che spingevano cose tipo i pianoforti Hardman, la crema Pond’s, i letti di metallo Simmons e le sigarette Carnei scoprirono che il massimo della felicità delle matrone dei clan Harriman, Longworth, Belmont, Fish, Lowell, Iselin e Carnegie era convertirsi ai loro prodotti con i quali farsi fotografare nelle proprie case, più che altro per la gloria sociale elargita dalla pubblicità.

Un’altra fonte di pubblicità era l’aiuto ai poveri. I nuovi mondani di New York, a qualsivoglia Era appartenessero, avevano sempre pagato il dovuto contributo ai «poveri», facendo della carità un mezzo di affermazione della nobiltà propria del noblesse oblige e di legittimazione della propria ricchezza. Ne fu esempio il ballo dei Bradley Martin. Di solito ad andare in questa direzione è più il denaro nuovo di quello vecchio. John D. Rockefeller, sotto la guida di Ivy P. Lee, il vero genio delle pubbliche relazioni, riuscì così a convertire la propria reputazione di barone ladro spenna-vedove in quella di vecchio e saggio filantropo così rapidamente che i bambini piansero alla sua morte. La sua strategia fu quella di investire diverse centinaia di milioni di dollari in Cultura e ricerca scientifica.

Tra i nuovi mondani degli anni Sessanta, soprattutto tra quelli che un tempo erano stati «minoranze», questo vecchio trucchetto sociale di farsi del bene facendo del bene, come dice la canzone, prese una direzione più specificamente politica. È capitato spesso tra mondani e culturati ebrei, anche se non soltanto tra loro. Politica- mente gli ebrei sono stati un caso a sé rispetto ai gruppi sbarcati a New York con le grandi migrazioni di fine secolo XIX e inizio XX. Naturalmente molti di questi gruppi erano di Sinistra o progressisti di prima generazione, ma non appena le famiglie cominciarono a raggiungere ricchezza, successo, o soltanto sicurezza, cominciarono ad adottare una filosofia di vita sempre più conservatrice. Ne sono esempio gli irlandesi. Costrette invece dalla storia dei secoli XIX e XX a stare in guardia dai movimenti di Destra, le famiglie ebree ricche e famose ebbero la tendenza a restare fedeli alla loro visione del mondo progressista e di Sinistra. E infatti, a detta di Seymour Martin Lipset, Nathan Glazer e Kenneth Keniston, una percentuale curiosamente elevata di studenti contestatari viene da benestanti famiglie ebree. Per spiegarlo hanno sviluppato la cosiddetta teoria del «neonato con il pannolino rosso». Secondo Lipset, molti bambini ebrei sono cresciuti in famiglie che, «intorno al tavolo da pranzo, quotidianamente, a Scarsdale, Newton, Great Neck e Beverly Hills», discutevano delle tendenze razziste e reazionarie della società americana. Lipset parla della benestante famiglia ebrea con uno «stile di vita di Destra» (per esempio, gli studi di Lipset, Glazer e Herbert Hyman hanno rilevato che la maggioranza degli americani che non vivono nel Sud e che hanno domestici fissi sono ebrei) e un «modo di pensare di Sinistra».

Il fenomeno ha le sue radici nella storia ebraica europea e non soltanto americana. L’antisemitismo fu uno degli argomenti della Rivoluzione Francese. In tutta Europa, durante il secolo XIX, venne abolita ogni sorta di restrizione legale e de facto contro gli ebrei. E tuttavia agli ebrei venivano ancora negati i privilegi sociali automaticamente concessi ai gentili che avevano raggiunto ricchezza e fama. Non erano ammessi in Società, per esempio, e di solito l’opinione pubblica era antisemita. Non era solo per una questione di risentimento, ma anche per un istinto all’autodifesa, che gli ebrei benestanti tendevano a sostenere i Partiti politici di Sinistra. Non avevano scelta. La maggior parte delle organizzazioni di Destra era antisemita o, nella migliore delle ipotesi, esclusivamente cristiana. Gli ebrei che erano arrivati negli Stati Uniti tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX avevano ben poca scelta tra i grossi partiti politici. E non si capiva se ci fosse più antisemitismo tra i democratici o tra i repubblicani. I repubblicani avevano abolito la schiavitù, ma il partito era pieno di know-nothings’ e sciovinisti anti-immigrati. Anche i populisti erano antisemiti. Tom Watson, per esempio, il celebre senatore populista, denunciò i cartelli petroliferi, lottò contro l’intervento dell’America nella Prima Guerra Mondiale in quanto cinica avventura capitalista, difese Eugene Debs, chiese che gli Stati Uniti riconoscessero l’Unione Sovietica subito dopo la Rivoluzione, ma era dichiaratamente antisemita e anticattolico e al suo funerale, nel 1922, venne seppellito all’ombra di una croce di rose alta due metri e mezzo mandata dal Ku Klux Klan. E così molti ebrei, soprattutto in città come New York o Chicago, appoggiarono i Partiti Socialisti che negli anni Venti, e per poco, prosperarono. In molti casi gli ebrei furono i loro maggiori sostenitori. Intanto gli ebrei continuarono a cercare una qualche corrente interna ai Partiti maggiori nella quale potersi identificare, e infine la trovarono nel New Deal. Per anni molti dei membri ebrei della Nuova Società hanno appoggiato organizzazioni nere come la Naacp9, la Urban League e il Core10. E non c’è dubbio che l’abbiano fatto sinceramente, visto che erano organizzazioni che non hanno mai avuto una grossa collocazione sociale e che avevano stampato addosso il marchio «borghesi». Bastava guardare i loro «leader negri». Eccoli lì, ai posti d’onore nelle sale dei banchetti dei grandi alberghi, con le loro camicie bianche, i loro completi Hart Schaffner & Marx tre taglie più grandi, la loro accademica solennità. L’anno scorso, però, le cose sono cambiate. Nel 1965 due nuovi movimenti politici, il movimento pacifista e il Black Power, hanno cominciato a ottenere consensi tra i culturati di New York. Dal 1968 i due movimenti hanno iniziato ad acquisire prestigio sociale tanto quanto culturale con le campagne presidenziali di Eugene McCarthy e Robert Kennedy. Soprattutto con quella di Kennedy. Kennedy non è stato solo un candidato pacifista. Ha sostenuto anche i raccoglitori d’uva di Caesar Chavez - «La Causa», «La Huelga» - in California. Inizialmente «La Causa» era un movimento sindacalista. Ma diventò presto simbolo delle ambizioni politiche di tutto il proletariato messicano-americano - i chicanos, i brown americani - e, per estensione, di tutti gli americani di colore, neri inclusi.

Lo stesso Black Movement, logicamente, prese un aspetto molto più elettrizzante e romantico. Che sollievo per la Società newyorkese quando la leadership sembrò passare dalla borghesia al... funky! Da A. Philip Randolph, il Dottor Martin Luther King e James Farmer... a Stokely, Rap, LeRoi ed Eldridge! Significava che gli smaliziati affari della nuova ben vestita classe politica adesso potevano essere arricchiti da una causa sociale fidata e autentica: la nostalgie de la boue. E ciò che ne venne fuori fu il Radical Chic.

Sin dall’inizio non ebbe alcun senso discutere della sincerità del Radical Chic. Era fuor di dubbio che il primo impulso, «pannolino rosso» o meno, fosse sincero. Ma, come accade per molti sforzi umani che si concentrano su un ideale, sembrava che il pensiero avanzasse su una sorta di doppia pista. Prima pista: beh, è chiaro che si ha un sincero interesse per i poveri e bisognosi e una sincera rabbia rispetto alla discriminazione. Il cuore si ribella — e lo fa spontaneamente! — quando sente come la Polizia tratta le Panthers, trascinando un epilettico come Lee Berry giù dal letto dell’ospedale per gettarlo in galera. Se uno pensa a Mitchell e ad Agnew e a Nixon e a tutti i loro seguaci tipo Captain Beefheart e Maggie e Jiggs del New York Athletic Club, trogloditi cripto-seguaci di Horst Wessel Irish Oyster Bar Construction Worker, allora si capisce perché i poveri neri tipo le Panthers siano costretti a usare metodi estremi, e... beh, comunque ci si sente dalla loro. Sul serio. D’altro canto - nella seconda pista della mente - si ha un sincero interesse a che la Società newyorkese mantenga uno stile di vita proprio dell’East Side. E tale preoccupazione è sincera tanto quanto la prima, ed è profonda tanto quanto la prima. Sul serio. Diventa sul serio parte della psiche. Per esempio, bisogna avere un posto dove andare il fine settimana, in campagna o al mare, di preferenza tutto l’anno, ma necessariamente da metà maggio a metà settembre. È complicato far capire a chi è fuori dall’ambiente come simili bisogni apparentemente volgari siano assoluti. Li si sente nel Sistema Solare. Quando uno immagina di restare intrappolato a New York sabato dopo sabato, a giugno o ad agosto, condannato a far parte di quelle orde tremendamente sciatte che vagano dalle parti di Bonwit e Tiffany sulla sabbiolina cotta dal sole di mezzogiorno, a 92 gradi, paparini che sbarcano da Long Island con i loro bei bermuda dal culo sformato comprati in un negozio di Times Square in Oceanside e mamme grasse con i loro pantaloni bianchi a campana strizzati sulle pance cadute e arricciati sul cavallo tipo labia in dacron-poliestere... Beh, a quel punto uno sente il bisogno di obbedire quantomeno alle regole minime della Società newyorkese. Sul serio.

La prima regola è che la nostalgie de la bone - lo stile romantico e rudemente vitale dei primitivi che abitano nelle case popolari, per esempio - è bella, e che la borghesia, nera o bianca che sia, è brutta. Diventa così inevitabile che il Radical Chic prediliga chi ha l’aria primitiva, esotica e romantica, tipo i raccoglitori d’uva, che oltre al fatto che sono radicali e «vengono dalla Terra» sono anche latini, o le Panthers, con le loro giacche di pelle, le acconciature afro, gli occhiali da sole e le sparatorie, o i Pellerossa, che, logicamente, hanno sempre avuto un’aria primitiva, esotica e romantica. Quantomeno all’inizio, tutti e tre i gruppi avevano un’altra qualità che li avvantaggiava: stavano tutti a tremila miglia di distanza dall’East Side di Manhattan, in posti tipo Delano (i raccoglitori d’uva), Oakland (le Panthers) e l’Arizona e il New Mexico (i Pellerossa). Non c’erano molte probabilità che ce li ritrovassimo troppo... come dire, tra i piedi. Esotici, romantici, lontani... Come vedremo a breve, altre creature amate dal Radical Chic avevano le stesse attrattive, ovvero gli ocelot, i giaguari, i ghepardi e i leopardi della Somalia.

La regola numero due è che non importa quale, ma bisogna avere un indirizzo appropriato, con arredamento appropriato e domestici. I domestici, in particolare, sono una delle essenziali linee di confine tra chi fa realmente parte della Società, Nuova o Vecchia che sia, e la grande massa borghese degli emuli che arrivano a pagare un affitto di 2.500 dollari al mese o che comprano costosissimi appartamenti in condomìni di tutto l’East Side. In questo non ci sono mezze misure. Bisogna avere i domestici. Avere i domestici diventa un tale bisogno psicologico che oggi capita di sentire un mucchio di donne della Società lamentarsi in buona fede di quanto sia difficile trovare una tata per i bambini che sostituisca la tata fissa quando ha il giorno libero. C’è la famosa Signora C., una delle più ricche vedove di New York, che ha un duplex di dieci stanze in Sutton Place, la parte bene di Sutton Place, ovviamente, non quella che dà su Miami Beach, che essendo una vipera con i domestici non riesce più a procurarsi che aiuti a giornata, e non fa che lamentarsi: «A che serve tutto il denaro di questo mondo se poi non puoi arrivare a casa la sera e trovare qualcuno che ti prenda il cappotto e ti prepari un drink?». E l’osservazione nasce da un’angoscia reale. Nell’Era del Radical Chic, poi, quale conflitto si innescò tra l’assoluto bisogno di domestici e il fatto che i domestici fossero il simbolo assoluto di ciò contro cui i nuovi movimenti, neri o marrone, stavano combattendo! E allora, quanto assolutamente urgente divenne la ricerca dell’unica via di salvezza: domestici bianchi!

 

Il primo grande party Radical Chic, l’evento epocale, per così dire, fu il party che il deputato Andrew Stein diede per i raccoglitori d’uva nella tenuta di suo padre, a Southampton, il 29 giugno 1969.I raccoglitori d’uva avevano già fatto il loro ingresso nella vita sociale newyorkese. Carter e Amanda Burden, Coppia Fiordiluna 1960, avevano dato un party per loro nel loro duplex di River House, sulla 52esima Est che dà sull’East River. Alcuni dei migliori grafici newyorkesi, tipo Paul Davis, avevano fatto degli incantevoli manifesti per «La Causa» e «La Huelga». I raccoglitori d’uva avevano avviato una campagna nazionale per sollecitare i consumatori al boicottaggio dell’uva da tavola californiana, e in nessun altro posto la richiesta fu accolta in maniera così assoluta come nei circoli del Radical Chic. Chavez divenne uno dei pochi leader sindacalisti con un’aura romantica.

E così il party di Andrew Stein fu l’evento epocale, e non perché lui era alla moda, ma perché c’erano i raccoglitori d’uva. La lista degli ospiti e degli sponsor dell’evento era di prim’ordine. La figlia di Henry Ford II, Anne (la signora Giancarlo Uzielli), era la Presidentessa, ed Ethel Kennedy la Presidentessa Onoraria. Era la prima apparizione in pubblico della signora Kennedy dopo l’assassinio del marito nel 1968. Lo stesso Stein era il figlio ventiquattrenne di Jerry Finkelstein, che aveva fatto una discreta fortuna con le pubbliche relazioni investendola poi nell’azienda Struthers Wells. Finkelstein era una potenza anche all’interno del Partito Democratico dello Stato di New York, e infatti è diventato da poco segretario di Partito a New York City. Il figlio Andrew aveva accorciato il nome da Finkelstein in Stein ed era conosciuto, oltre che per i suoi party strabilianti, per la sua elezione al Parlamento nell’East Side di Manhattan. Girava voce che il padre avesse speso 500mila dollari per la campagna elettorale. Ma nessuno che s’intendesse di politica ci credeva, dato che sarebbe bastata metà di quella somma per comprare un numero di persone in Albania sufficiente a farlo proclamare re.

Il party venne organizzato nel prato davanti al gigantesco cottage orné di Finkelstein a Southampton, sul mare. C’erano due nomi all’ingresso principale della proprietà. Uno era Finkelstein e l’altro Stein. Gli ospiti che entravano facevano la solita battuta: «Non puoi tenere il Fink11 fuori dal Finkelstein». E però nessuno rifiutò l’invito. Dall’inizio del pomeriggio fu tutto un susseguirsi di quelle deliziose contraddizioni e incongruenze che rendono il Radical Chic così elettrizzante. Chavez non c’era, ma c’era un manipolo di raccoglitori d’uva, incluso il Primo Luogotenente di Chavez, Andrew Imutan, e la moglie e i tre figli di Imutan. I raccoglitori d’uva erano tutti in abiti da lavoro, Levi’s, pantaloni color cachi, spigati dal culo sformato comprati da Sear, camicie sportive comprate al supermercato, e via dicendo. I mondani, nel frattempo, erano giunti al culmine della moda Estate 1969 con pantaloni di seta scampanati, magliette aderenti Pucci, blazer Dunhill e sciarpe Turnbull & Asser. Ad accogliere gli ospiti un’orchestra di Mariachi. Meraviglioso! I radar di tutti a questo punto erano talmente sensibili che l’orchestra di Mariachi sembrò un po’ un fauxpas. In effetti le orchestre di Mariachi, con quei costumi stile «Visitate il Messico» e quelle tristi trombe che ce la mettevano tutta per tenere alta una nota ma che finivano per perderla e ricominciavano da capo, sono il più immediato prototipo di messicano nell’immaginario del turista bianco. In un party per «La Causa», per i raccoglitori d’uva, per la lotta dei chícanos... ecco, era un po’ come portare Ma Goldberg a intrattenere la Stern Gang. Eppure, a modo suo, era... un’esperienza deliziosa provare questo strano genere di brividi...

Quando iniziò la raccolta fondi, Andrew Imutaaprese il microfono sulla terrazza che dava sul prato e chiese a tutti di chiudere gli occhi e di immaginare di essere la moglie di un bracciante delle polverose pianure di Delano, in California, che sta mangiando pane e mortadella a colazione, alle tre del mattino, prima di andare nei campi... E così se ne stettero tutti lì, nei loro abiti Pucci, scarpe Gucci, foulard Capucci, a immaginare di essere le mogli dei raccoglitori d’uva o a chiedersi se quello stramaledetto vento sarebbe mai finito. Il vento veniva dall’oceano e stava scombinando tutte le acconciature. La gente se ne stava lì con le mani in testa come se la zona fosse stata colpita da un raggio buca-cervelli proveniente dalla Dimensione Purpurea. I capelli di Andrew Stein erano lunghi, folti, e all’inizio erano apparsi straordinariamente ben acconciati alla francese, stile Roger sulla 58esima, e adesso erano... un disastro... Stava con una mano incollata alla testa, come il ragazzo della diga... «mangiando pane e mortadella a colazione, alle tre del mattino...». A quel punto Frank Mankiewicz, che era stato l’addetto stampa di Robert Kennedy, si alzò in piedi e disse: «Beh, per quanto ne so io, se solo riusciamo a raccogliere il venti per cento di quanto è stato speso in Pucci indossati stasera, possiamo ritenerci più che soddisfatti!». Attese le risate, ma ottenne solo una gran ventata in faccia. Ormai tutti i presenti stavano pensando più o meno la stessa cosa... E a modo suo era delizioso... Solo che metterla così era stata un po’ una controgaffe.

Tuttavia il Radical Chic era arrivato. E l’autunno sociale del 1969 fu il suo grande momento. Gente come Jean Vanden Heuvel diede dei party per la rivista «Ramparts», che a quel punto era diventata una rivista cento per cento militante, e per i Chicago Eight. Jules Feiffer diede un party per le coffee houses, dove Richard Avedon, il fotografo di moda più famoso d’America, fotografava chiunque desse 25 dollari per la causa. Aveva sistemato macchina fotografica e luci nella sala da pranzo.

Il fatto è che Avedon era diventato una specie di fotografo di corte del Movimento. Stava facendo la sua apparizione quinquennale per verificare lo stato delle cose. Cinque anni prima era uscito dal suo studio per dare un’occhiata intorno e aveva fotografato e curato un numero intero di «Harper’s Bazaar» per segnalare quello che aveva scoperto, che erano cose tipo Pop, Op, Rock, Andy, Rudi e Go-Go. Adesso Avedon stava raccogliendo materiale per un libro sul Movimento. Era andato a Chicago per il processo degli Eight e aveva allestito uno studio dentro un albergo vicino al tribunale per fotografare celebrità e attivisti che andavano a testimoniare al processo, o che andavano a vedere, o che in un modo o nell’altro si trovavano da quelle parti.

Nel mentre, alcune delle più giovani matrone di San Francisco e di New York entrarono in un’organizzazione che si chiamava «Amici della Terra». Gli Amici della Terra erano votati all’idea che le donne non dovessero comprare cappotti o altri vestiti fatti con la pelle di animali in estinzione tipo leopardi, ghepardi, giaguari, ocelot, tigri, linci spagnole, leoni asiatici, lupi rossi, lontra di mare, lontra gigante, orso polare, zebra di montagna, alligatori, coccodrilli, tartarughe di mare, lama, lupi americani, ghiottoni, marguai, visoni siberiani, martore, pekan, puzzole, zibellini, ocelot africani e leoni di montagna. All’apparenza non c’era un granché di radicale in simile gestuccio mirato alla conservazione della specie, o ecologico, come si dice oggi. Eppure gli Amici della Terra erano Radical Chic, proprio così. La loro natura radicale stava nel semplice fatto che non erano fiscalmente detraibili. Gli Amici della Terra divennero i germogli del Sierra Club. L’interesse del Sierra Club per il movimento ecologico cominciò nell’esatto momento in cui il Governo federale lo dichiarò organizzazione politica, dichiarazione dovuta perlopiù alla sua battaglia contro i progetti di costruzione di una diga nel Grand Canyon. Il che avrebbe comportato che i contributi alla causa non sarebbero più stati fiscalmente detraibili. Una delle eminenze grigie del Sierra Club, lo scomparso Howard Gossage, continuava a ripetere a David Brower, Presidente del Sierra Club: «E la cosa più fantaaastica che poteva capitarvi! Rimuove ogni senso di colpa! Adesso sì che i soldi arriveranno a ruooooota libera». Poi esplodeva nella sua risata cosmica. Gossage aveva una risata incredibilmente cosmica. Partiva dal fondo della gola e veniva fuori a ruooooota libera, come se venisse dalla Corsia 27 del bowling celeste.

Non è fiscalmente detraibile! Divenne parte delle regole del Radical Chic. Dire le cose per come stavano! Le matrone che sollecitavano fondi per gli Amici della Terra e per altre organizzazioni ci diedero dentro con telefonate che terminavano con: «Ok, allora aspetto un suo assegno nella posta... e non è fiscalmente detraibile». Era una sfida, che sottintendeva: puoi essere un fiscalmente detraibile Fondatore della Fondazione per il Cuore, Promotore del Gran Ballo di Beneficenza di Parigi, Fondatore di Asili Nido, se è tutto quello che vuoi dalla tua vita del cazzo...

Quanto a loro, gli Amici della Terra scesero in strada, picchettarono i negozi e urlarono contro le donne che se ne andavano a spasso con addosso le loro nuove pellicce di leopardo della Somalia. E l’unico modo accettabile che una donna aveva per giustificarsi era dire che aveva sparato lei stessa all’animale e poi se l’era mangiato. Il movimento degli Amici della Terra non era solo una lotta in favore delle povere bestie, ma una lotta contro l’avidità, contro l’anima predatoria del capitalismo, per chiamarla con il suo vero nome... anche se la lotta prese qua e là qualche cantonata, come spesso capita al Radical Chic.

Queste stramaledette oscillazioni di gusto! A New York, per esempio, Freddy Plimpton si fece confezionare da Jacques Kaplan, il pellicciaio numero uno della Società, una gonna di pelle di gatto randagio, o quantomeno questo fu quanto scrisse il «New York Times». Non per nulla Jacques Kaplan è il pellicciaio numero uno della Società. Doveva aver visto arrivare il Radical Chic a un miglio di distanza. A inizio giochi lui stesso, un pellicciaio, iniziò a darci dentro a più non posso con gattopardi, marguai, puzzole e compagnia bella, come se non ci fosse un domani. Comunque sia, il «Times» diede la notizia che aveva fatto una gonna di pelle di gatto randagio per Freddy Plimpton. L’idea era che i gatti randagi, a differenza degli ocelot e via dicendo, sono troppi per l’ecologia del mondo e finirebbero comunque nelle camere a gas dell’Aspca12. Poteva pure essere logico per Kaplan o per la signora Plimpton, ma per le centinaia di vecchine che amavano i gatti e che si immedesimavano in Dickerson Archlock c’era un qualche bieco pregiudizio di classe nascosto... Massacrare il povero gatto randagio per salvare l’aristocratico gattopardo... Andò a finire così... E meno si parlava di recuperare dalle camere a gas pelli con cui abbigliarsi, meglio era... Avevano intenzione di andare a picchettare la boutique di Jacques Kaplan e di scatenare l’inferno perché aveva massacrato dei gatti randagi. Il fatto che la gonna in realtà fosse stata confezionata con pelle di genetta, un nocivo animale europeo simile al furetto - come precisò un errata corrige apparso sul «New York Times» due giorni dopo - sul momento non cambiò molto le cose per gli amici dei gatti. Massacrare la povera genetta randagia per salvare l’aristocratico gattopardo...

Altre organizzazioni di beneficenza iniziarono a interessarsi al Radical Chic, anche se non arrivarono in fondo e non rinunciarono al loro status di associazioni fiscalmente detraibili. Per esempio, la serata organizzata per l’Università della Strada il 22 gennaio del 1970. L’Università della Strada era votata all’«educazione degli “ineducabili” del ghetto». La serata era un ballo con musica d’avanguardia, light show, proiezioni di film, sculture e «ambienti multi- sensoriali». L’invito diceva: «Prezzo: 125 dollari a coppia (fiscalmente detraibili)» e «Abbigliamento: bello». Niente di nuovo. La novità stava nel fatto che il ballo non si sarebbe tenuto nel grandioso isolamento di volte e pilastri di un albergo del centro, ma già nel Lower East Side, tra la Settima Est e Avenue A, a Tompkins Square, nel cuore del territorio radicalmente chic di portoricani & neri & hippie. Gli inviti arrivarono in una scatola di plastica trasparente con coperchio, e dentro ogni scatola c’era l’occhio a raggi di una vera piuma di pavone, e poi c’era un bocciolo che arrivò rinsecchito e accartocciato, e molti si chiesero, eccitati, se non fosse una qualche esotica sostanza psichedelica del Sudovest, e se andasse fumata. Una matrona nella lista degli invitati diede la piuma di pavone alla figlia perché la portasse a scuola, una delle scuole elementari private più alla moda della città, per il gioco del mattino del «Mostra e Dici», in cui venivano mostrati degli oggetti insoliti, si provava a indovinare cos’erano, per poi dirlo alla fine. Tornata a casa la madre le aveva chiesto che effetto aveva fatto la piuma, e la bambina era scoppiata in lacrime. Altri sette bambini della sua classe avevano portato l’occhio a raggi della piuma di pavone per il «Mostra e Dici».

Presto - poche settimane dopo il primo grande party Radical Chic - Andrew Stein ne diede un altro, stavolta per Bernadette Devlin, la Giovanna d’Arco d’Irlanda. Per non essere da meno, Carter Burden, il suo rivale numero uno, diede il via a quel che può essere descritto solo come stile di vita del perfetto Radical Chic. Nel 1965 Burden, allora ventitreenne, e sua moglie Amanda, allora ventenne, erano stati nominati da «Vogue» giovane coppia newyorkese perfetta. Erano andati ad abitare in un ampio appartamento del Dakota Building e lo avevano così rivestito e incrostato di antichità da sembrare una sorta di trionfo finale della duchessa madre in un romanzo di Angela Thirkell. Venivano descritti come due che possedevano non solo ricchezze, ma anche «menti aperte alla conoscenza». Per confermarlo«Vogue» scrisse che «la signora Burden, con l’aiuto di una domestica, sta imparando a mandare avanti la casa». Appena un anno dopo il loro trionfo al Dakota, i Burden si spostarono a River House, nave ammiraglia tra gli edifici di quella costa d’oro che era la parte dell’East River che da Beekman Place arrivava a Sutton Place. Andarono ad abitare in un duplex e assunsero Parish-Hadley, arredatore di interni di Jacqueline Kennedy, di Jay e Sharon Rockefeller, dei Paley, dei Wrightsman e degli Engelhard. Il «Town & Country» scrisse: «Si mormora che solo per arredare il loro appartamento di River House Carter e Amanda Burden abbiano speso un milione tondo tondo. La maggior parte delle opere d’arte e dei mobili già c’era». Ma da lì a un paio d’anni i Burden entrarono nel Radical Chic. È vero che non rinunciarono al loro monumento a River House. In effetti non lo privarono di nessuno dei suoi tesori. Ma misero su un’altra casa su Fifth Avenue all’altezza della 100esima. Il che stabilì la residenza dei Burden nel Fourth Councilmanic District e Carter potè candidarsi alle elezioni per il New York City Council, e con successo, come si vide in seguito. Ebbero inoltre l’appartamento di New York con la posizione migliore per il perfetto Radical Chic.

C’era del genio nel modo in cui i Burden riuscirono a rendere visualmente l’atmosfera del Radical Chic. L’edificio è forse il più scassato di tutta la parte alta di Fifth Avenue. La tinta dell’atrio e dei corridoi sembra quella di un cacciatorpediniere del 1947. C’è un portiere ma nessun ragazzo dell’ascensore: uno deve salire e scendere da solo dentro un vecchio ascensore automatico stile West Side. Ma... è un condominio ed è nella parte alta di Fifth Avenue. L’appartamento in sé ha i soffitti bassi, un piccolo soggiorno e in tutto solo cinque stanze. Ma dà su Central Park. È arredato quasi esclusivamente con quella sorta di horror divertente - sedie laccate, letti di ottone e via dicendo — che finisce sempre nelle soffitte delle case di campagna, quel tipo di cose che si eredita Dio sa da chi e che uno non si decide mai a buttare via... Eppure è sempre... divertente. Le pareti sono coperte di quadri dipinti su scampoli da artisti decorativi alla moda, tipo Stella e Lichtenstein... Il genere di sbaglio che ogni collezionista fa e che non sa mai dove appendere... E però sono degli Stella e dei Lichtenstein... Non si sa come ma Burden è riuscito persino a trasformare la propria paffutaggine stile Deke House del suo Primo Periodo «Vogue» in un aspetto noto come Denutrizione Quasi Perfetta. E grazie a questo stile di vita bilanciato con arte che i Burden sono capaci di spassarsela, come si dice in giro, con gli Young Lords e con altri cuccioli primitivi di Harlem, e al tempo stesso di partecipare a tutti gli eventi importanti tipo il gala per il Centesimo Anniversario del Metropolitan Museum of Art ed essere fotografati mentre ballano il nuovo boogaloo.

E così... il Radical Chic era già sulla cresta dell’onda quando, alla fine del 1969, il Black Panthers Party iniziò una campagna nazionale per la raccolta fondi. Gli organizzatori, come quelli che avevano raccolto fondi per i raccoglitori d’uva, contavano sulla «causa del Partito» - per usare un termine in voga trentacinque anni fa - non solo per raccogliere soldi. Lo status delle Panthers era alquanto confuso nelle menti di molti progressisti, e il fatto che venissero dati party per loro nelle case di una serie di leader sociali e culturali non era una cosa indifferente. Idealmente era una cosa che coinvolgeva anche i mondani e i culturati, perché se c’era un gruppo che incarnava il romanticismo e l’eccitazione propri del Radical Chic,, questo era quello delle Panthers.

Già prima del party dato per le Panthers dai Bernstein, ce n’erano stati almeno altri tre, nelle case di John Simon della Random House in Hudson Street, dell’editore Richard Baron a Chappaqua, e di Sidney e Gail Lumet nella loro casa tra Lexington Avenue e la 91esima. Era stato il party dei Lumet a far sì che si organizzasse quello dei Bernstein. Una vecchia organizzatrice della causa, Hannah Weinstein, aveva chiamato Gail Lumet. Le aveva detto che Murray Kempton le aveva chiesto di provare a organizzare un party per le Black Panthers per raccogliere fondi per la difesa di Panther 21. Fu un party strano, anche per gli standard Radical Chic. Molti degli invitati non sembravano particolarmente mondani... Erano del tipo signore e signora Ricco Dentista di New Rochelle. Eppure c’era un certo voltaggio sociale dato dalla presenza di gente tipo Murray Kempton, l’autore di 1776 Peter Stone, gli stessi Lumet, e molte matrone di Park Avenue tra cui spiccava la moglie di Léonard Bernstein, Felicia. Comunque, gli ospiti bianchi e i pochi neri dall’aspetto accademico se ne stavano stipati, seduti o in piedi, nel soggiorno. A quel punto arrivò un manipolo di dodici o tredici Black Panthers. Le Panthers non poterono che mettersi nella sala da pranzo e starsene in piedi - con le loro giacche di pelle, le acconciature afro e gli occhiali da sole - a guardare i bianchi in soggiorno. E così, ogni volta che qualcuno si alzava in piedi nel soggiorno per parlare, il pubblico non solo guardava chi parlava ma anche le facce di una schiera compatta di Black Panthers che se ne stava nella sala da pranzo. Proprio un bel quadretto. Fu a quel punto che una matrona di Park Avenue formulò per prima quello che era il sentimento diffuso nel Radical Chic: «Questi non sono negri da diritti civili dentro completi grigi di tre misure più grandi... Questi sono uomini veri\».

La prima metà della serata generò il sentimento Radical Chic nella sua forma più pura e penetrante. Non solo c’era l’elettrizzante spettacolo delle Panthers ammassate, ma la signora Lee Berry si alzò e fece un commovente racconto di come suo marito fosse stato preso dalla Polizia mentre era nella sua stanza d’ospedale e portato su due piedi in prigione. Per la verità alcune delle matrone ci rimasero un po’ male quando la signora Lee Berry aprì la bocca. Aveva una vocina così pacata. «Sono la moglie di una Pantera», aveva detto. Sono la moglie di una Pantera? Ma la sua era una storia commovente. Felicia Bernstein aveva presenziato fino a quel momento e, in quanto vecchia sostenitrice dei diritti civili, era rimasta turbata da quanto aveva sentito. Ma fu costretta ad andar via prima che la serata finisse. Ogni ospite, appena andava via, riceveva un foglio di carta e la richiesta di fare una di queste tre cose: impegnarsi con un contributo in denaro per la raccolta fondi per la difesa di Panther 21, firmare una petizione che sarebbe uscita sul «New York Times», oppure offrire la propria casa per un altro party per la raccolta fondi. Arrivata all’uscita Felicia era già pronta ad aprire le porte di casa sua.

Il culmine dell’emozione venne presto raggiunto quando Ray «Masai» Hewitt, il Panther Ministro dell’Educazione e membro del Comitato Centrale, si alzò a parlare. Hewitt era un giovane intenso e carismatico, e non era affatto diplomatico. «Qualcuno di voi», | disse, «potrebbe avere ancora qualche simpatia per il Sistema, mal noi no. Vogliamo vederlo morire. Siamo rivoluzionari maoisti, e non abbiamo altra scelta che combatterlo fino alla fine». Per circa trenta minuti Masai Hewitt continuò su questa linea. Qua e là faceva riferimento a «quel figlio di troia di Nixon» e a come la lotta non sarebbe stata facile. Se le case fossero state bruciate e ci fosse stata altra violenza, sarebbe stata solo parte della lotta a cui la struttura del potere costringeva le minoranze oppresse. Le parole di Hewitt avevano come obiettivo quello di provocare una reazione tipo tutto o niente. I pochi che ricordavano le lotte degli anni della Depressione ne furono profondamente commossi, accesi da una specie di nostalgia della religione di una volta. Ma più di una matrona di Park | Avenue piombò in una confusione Radical Chic. La frase più significativa fu: «E un uomo magnifico, ma mettiamo che degli ingenui prendano sul serio tutta questa storia del bruciare le case?».

Murray Kempton calmò un po’ le cose. Si alzò in piedi e, con i suoi modi professionali e con il tono del conferenziere in tweed che fa battere la pipa contro i denti come avesse un metronomo dentro la testa, fece il punto della situazione. Il fidato vecchio Murray la mise! nei più pacifici termini di Devoto alla Ragione, proprio come nei periodici che adorava, «The New Statesman» e «The Spectator».! Venne fuori che Murray stava scrivendo un libro sulle Panthers e stava facendo quel che poteva per la causa. Sì, Masai Hewitt poteva averla messa giù troppo dura, ma non ci furono conseguenze. In men che non si dica fu dato un altro party per le Panthers. E stavolta a casa di uno dei più celebri uomini degli Stati Uniti: Léonard Bernstein.

«A chi vi rivolgete per dare un party!», dice Richard Feigen. «A chi vi rivolgete per dare un party!».

Ed ecco che di colpo la candida voce del Radical Chic, scampanellando esattamente queste parole, sembra far stramazzare Don Cox, Maresciallo Superiore delle Black Panthers, lì dov’è, accanto al piano a coda di Lenny. Guarda Feigen a occhi spalancati... il biondino stile Yale in smoking... E da quel momento in poi, la serata comincia a prendere tutta un’altra piega. Invece del ruolo del nero militante che mau-mauizza i ricchi liberali bianchi, Cox viene lentamente relegato all’angolo. Afro, barba, dolcevita e tutto il resto, è a lui che tocca essere diplomatico... A lui tocca l’eterno ruolo del perdente che fa da padrone di casa che cerca di tenere a bada un branco di agitati, frenetici e tremolanti Sanbernardo che gli fanno le feste... Una bella rottura di palle... E non c’è da meravigliarsi. Quale uomo nella Storia si è mai trovato faccia a faccia con il Radical Chic nudo e crudo e bianco che si riversa estaticamente in un duplex di Park Avenue lasciandosi andare?

Uno dei membri del Comitato di Difesa delle Panthers, un bianco, prova a risolvere la faccenda con un numero di telefono, «691-8787», ma Feigen riparte all’attacco: «C’è un solo candidato a diventare Governatore», dice - e la voce è assai solenne - «che è realmente sensibile a quanto sta accadendo qua. Sperava di essere qui stasera, ma sfortunatamente è stato trattenuto a Nord. Sto parlando di Howard Samuels. Ora, quello che voglio sapere è: se fosse disposto a venire da voi a presentare il suo programma, voi sareste disposti ad appoggiarlo? In altre parole, le Black Panthers hanno un qualche interesse ad avere un influsso politico all’interno del Sistema?». Cox spalanca di nuovo gli occhi. «Beh», dice, ed è la prima volta che cade nella vecchia tentennante abitudine di cominciare una frase con il beh, «ogni politico che sia disposto ad appoggiare il nostro programma avrebbe il nostro sostegno, ma non sapremmo che farcene della tradizionale...».

«Ma sareste disposti ad ascoltarlo?», dice Feigen.

«...della tradizionale arena politica, perché se cerchi di opporti al Sistema dall’interno della tradizionale arena politica, stai solo perdendo tempo. Guardate Powell. Appena comincia a parlare a nome della gente, la gente lo butta fuori. Non abbiamo alcun potere all’interno del Sistema, e mai lo avremo. L’unico potere che abbiamo è il potere di distruggere, il potere di rompere. Se la gente nera si arma di conoscenza...».

«Ma sareste disposti ad ascoltarlo?», dice Feigen.

«Beh», dice Cox, appena un po’ stanco, «possiamo parlarne al nostro comitato centrale, e se lui è disposto a sostenere il nostro programma, allora noi potremmo sostenere lui». Feigen nel suo smoking ci pensa su saggiamente. Raffinato. Un dandy raffinato in abito a righine e baffetti in fondo alla stanza, un nero che si chiami Rick Haynes, Presidente della Management Formation Inc., un’organizzazione che promuoveva il capitalismo nero, chiede informazioni sull’arresto dell’altra notte di Robert Bay e di un’altra Panther che si chiama Jolly.

«Esatto», dice Cox a bassa voce, alzando appena il pugno sinistro! ma solo come gesto di solidarietà... e lungo ogni corteccia cerebrale di bianco passa il pensiero-lampo di come lì il mondo sia diviso tra quelli cui spetta ammetterlo - «Esatto» - e quelli cui non spetta. 1 Esatto... Cox chiede a Robert Bay di alzarsi, e la sua figura possente e la sua feroce acconciatura afro sorgono nel bel mezzo di quella gente tra le file di sedie al centro della stanza. Fa un cenno col capo a Haynes e sorride e dice: «Esatto» - ci risiamo - e poi si rimette sedere. E Cox racconta come i tre detective abbiano malmenato e strapazzato Bay e Jolly e un altro, e come poi siano andati alla stazione radio Wins e «abbiano passato una giornata a raccontare balle»! E Lefcourt si alza e dice che quella è diventata un’abitudine, che i poliziotti danno il tormento alle Black Panthers continuamente e in tutti i modi, ovunque si trovino, spaziando dal fermarli se vanno a 52 miglia in una zona dove il limite di velocità è di 50, all’omicidio di Fred Hampton nel suo letto.

A parlare è la bella ragazza biondo cenere: «La gente come me, che sa come fino ad ora le Panthers siano state maltrattate, non sa che fare. Cioè, se non hai soldi e non hai conoscenze, che puoi fare? Quali altri programmi propone la comunità? Noi vorremmo fare qualcosa, ma che cosa possiamo fare? Esiste qualcosa tipo un comitato, o tipo... non so...». Beh, baby, se proprio... Ma Cox le dice che uno dei problemi più grossi è trovare delle chiese nella comunità nera che aiutino le Panthers con il loro programma colazione per i bambini del ghetto, e forse quelli come lei possono aiutare le panthers a contattare le chiese. «Di solito sono le chiese ad avere le grandi cucine di cui abbiamo bisogno», dice, «ma quando andiamo lì a chiedere di usarle per preparare colazioni calde per i nostri bambini affamati, ci chiudono le porte in faccia. Ecco come stanno messe le chiese nella comunità nera».

«Ci dica perché!», dice Léonard Bernstein. Quasi nessuno l’aveva notato fino a quel momento, ma Léonard Bernstein s’era spostato dal fondo della stanza per andarsi a sedere in una poltrona in prima fila. Adesso è a solo mezzo metro da Cox. Ma Cox è in piedi, accanto al piano, e Lenny è sprofondato dentro la poltrona... In verità loro stessi non sanno perché sono lì. Lenny è entrato in azione. Come molti dei presenti sanno, Lenny ha a suo vantaggio «l’arte della conversazione». Ne fa tesoro, la monopolizza, la accentra, come un Jay Gould, un Onassis, un Cornfeld della Conversazione. Chiunque abbia trascorso un fine settimana con Lenny in campagna, al mare, o prigioniero di un qualche banco di sabbia solitario nelle Isole Windward, conosce quella sensazione: attimi di adrenalina alternati a coma insulinico mentre il Grande Interruttore, il Chiarificatore del Villaggio, il Campione degli Esercizi Mentali, lo Psicoanalista Gratis, il signor Cerchiamo di Capire, guida le truppe in una marcia forzata di settantadue ore lungo il genicolato laterale e le piramidi di Betz, vietate le pause, finché ogni cervello umano non sia ridotto a un mucchietto di alghe secche dentro un guscio bruciacchiato e tracolli, si sgretoli, in un’ultima frana di noia terminale. Signor Spingi! Signor Tira! Signor Auricolaris!... Ma come faceva a saperlo il Black Panthers Party d’America? A questo punto Lenny sembra così sprofondato nella sua poltrona. È quasi ai piedi di Don Cox, lì lì per cadere dalla poltrona, con il suo dolcevita e il blazer, e il ciondolo al collo. Alla sua destra, sul divano accanto al muro, c’è Otto Preminger, e anche lui non è uno che fa tappezzeria, con il suo testone e il collo che sbucano fuori come un obice dal doppiopetto a sei bottoni, a mo’ di eterno Comandante della Zona Occupata.

«Ci dica perché!», dice Lenny.

«Beh», dice Cox, «c’è dietro tutta la storia della chiesa nella comunità nera. Ed è una lunga storia».

«Ce la racconti», dice Lenny.

«Beh», dice Cox, «quando gli schiavi vennero portati in America, a farli scendere dalla nave c’era sempre un tizio con frusta e pistola... Chiaro?... E insieme a lui c’era un prete nero che diceva: “Fintanto che siete in pace con Gesù andrà tutto bene”. È così che funzionava nella comunità nera. Il prete faceva sempre da intermediario tra padroni e schiavi, e si beccava qualche briciola extra per il servizio reso... Non so se mi spiego... E oggi funziona ancora così.

Il prete va in giro nella sua Cadillac dorata, ma funziona ancora così. Se chiedi a molte di queste chiese di cominciare a fare qualcosa per la gente invece che per l’Uomo, loro iniziano a preoccuparsi di perdere le briciole extra... Chiaro?... Perché se il prete iniziasse a fare qualcosa per il popolo, allora le strutture di potere comincerebbero a vessarlo. Come è successo a quell’unico prete che voleva farci usare la sua chiesa per il programma colazione. E così siamo d’accordo, e poi un giorno arriva, ed è terrorizzato... Chiaro?... E dice che dobbiamo andarcene e basta. Il tipo è terrorizzato... E allora diciamo ok, ce ne andiamo, ma ci dica solo che cosa le hanno detto. Ci dica in che modo l’hanno minacciata. Ma lui non vuole nemmeno parlarne, dice soltanto: “Andatevene”. E’ troppo terrorizzato anche per parlarne».

Bernstein dice: «Don, quello che più preoccupa la maggior parte di noi è l’attrito che c’è tra le Black Panthers e la comunità nera integrata».

Non c’è problema. Cox dice: «Prendiamo atto del fatto che in questo Paese non ci sia solo un conflitto razziale, ma anche una lotta di classe.! Le classi non sono strutturate allo stesso modo nella comunità nera, ma anche noi abbiamo della gente con una mentalità molto booooooorghese - e lo dice come di solito lo dicono quelli della Nuova Sinistra: booooooorghese - gente con una mentalità piccolo booooooorghese... ' Chiaro?... E hanno lo stesso tipo di mentalità booooooorghese che si trova nelle strutture di potere dei bianchi».

«Sì», dice Bernstein, «ma molti di noi sono preoccupati da cose tipo le minacce di morte contro i capi della comunità nera integrata».

Di colpo, dal fondo della stanza, si alza a parlare Rick Haynes: «Questa storia della “comunità nera” mi sta innervosendo!». E veramente seccato, ma è difficile capire perché, visto che si limita a guardare in direzione della Bellezza Biondo Cenere, che è a soli tre metri di distanza. «Questa adorabile fanciulla qui aveva solo chiesto che cosa poter fare...». Che occhiata... Se il sarcasmo potesse raggiungere i 550 gradi, la fanciulla si sarebbe essiccata tipo fetta di bacon Oscar Mayer. «Beh, le consiglio di abbandonare l’idea di andare nella “comunità nera”. Le consiglio di pensare alla comunità bianca. Potrebbe dedicarsi al “Wall Street Journal”, per esempio. Il “Wall Street Journal” ha appena pubblicato un articolo sulle Black Panthers arrivando alla sconvolgente conclusione - sconvolgente per loro - che la maggioranza dei membri della comunità nera supporta le Black Panthers. Beh, consiglio a questa adorabile fanciulla di convincere qualcuno tipo il suo paparino, che forse ha un po’ più di peso di quello che ha lei, a telefonare al “Wall Street Journal” e complimentarsi con loro per scrivere le cose in modo così diretto. Basta solo telefonare e dire: “Ci piace”. Il gioco sta nel servirsi dei media perché i media si sono serviti di noi».

«Esatto», dice Don Cox.

Stranamente la Biondo Cenere non sembra particolarmente turbata dalla cosa. Se questo damerino col suo vestito a righe pensa di riuscire a tenerla lontana dalla Panther-Commissione-Per-Ogni- Stagione, è fuori di zucca... E se gli altri pensano di far demordere Léonard Bernstein, sono tutti fuori di zucca. Più o meno cinque persone stanno parlando contemporaneamente - Quat, Lefcourt, Lenny, Cox, Barbara Walters che è in pizzo alla sedia e non sta più nella pelle per la domanda che deve fare - ma è il Gran Maestro che ha la meglio.

«Mi piacerebbe sapere qual è l’atteggiamento delle Panthers in merito alle minacce contro questi leader neri!», dice Lenny.

Salta in piedi l’avvocato Lefcourt: «Signor Bernstin...».

«STEIN!», ruggisce Lenny. È diventato una vera tigre, se non fosse che è talmente affondato tra le onde della sua poltrona Margaret I Owen, con quegli occhi che sbirciano giù dal fondo di quella soffice cavità, che tutto quel che dice sembra provenire dal ginocchio sinistro di Don Cox.

«Signor Bernstein», dice Lefcourt, «ogni volta che c’è una minaccia, ogni volta che c’è una violenza, viene sempre imputata alle Black Panthers, anche se non c’entrano nulla».

«Ne sono al corrente», dice Lenny, «ed è lì che sto cercando di arrivare. Mi piacerebbe solo avere una risposta alla mia domanda».

Lefcourt, Quat e, sembrerebbe, un’altra mezza dozzina di persone stanno parlando, stanno dicendo a Lenny che le minacce di cui parla, contro Whitney Young e Roy Wilkins, risalgono al 1967, prima che a New York ci fossero le Black Panthers, e che la gente arrestate nella cosiddetta congiura apparteneva tutta, e fu dimostrato, a un’organizzazione chiamata Revolutionary Action Movement, e che i poliziotti, i giornali, le TV, amano imputare tutto alle Panthers.

«Credo che tutti i presenti lo abbiano chiaro», dice Bernstein, «e che tutti abbiano chiara la distinzione tra quello che i media, quello che i giornali e le TV dicono delle Panthers, e quello che realmente sono. Ma questa storia delle minacce fa parte della nostra memoria! collettiva. Bayard Rustin doveva essere qui stasera, ma non c’è, e per una ragione importante. La ragione per cui non è qui stasera è che è stato avvertito che la sua vita sarebbe stata in pericolo, ed è su questo che vorrei delle spiegazioni».

Una considerazione da restarci secchi. Lefcourt e Quat iniziano a parlare, ma poi, di colpo, prima che Don Cox possa aprire bocca, Lenny allunga un braccio dai meandri della poltrona e gli passa una! mentina. Eccola lì, che sbuca dalla punta delle dita, una mentina. E una mentina tutta tonda, una mentina dopocena, di quelle che si vedono spuntare a tavola dentro coppette d’argento, come depositate dalle fatine della menta, insieme al caffè, ma prima che le signore lascino la stanza, una mentina così piccola, fragile, pallida come un angelo, e così fondente che devi prenderla con la punta dell’indice e del pollice, se non vuoi, per dire, perderla per strada, una dolce fondente mentina piperita che fa venire l’acquolina in bocca... a mezz’aria, per così dire.. Solo questo... Cox prende la mentina e fissa Bernstein con uno strano sguardo di plexiglas... Quell’omino seduto lì vicino alle sue ginocchia con i suoi fichissimi fronzoli e perline...

Finalmente Cox si riprende. «Noi non ne sappiamo niente», dice, «noi non minacciamo nessuno. Noi siamo per la violenza solo come autodifesa, perché siamo un popolo coloniale in un Paese capitalista... Non so se mi spiego... E l’unica cosa che possiamo fare è difenderci dall’oppressione».

Quat sta cercando di sviare la conversazione, ma ecco che di colpo Otto Preminger parla lì dal divano dove è seduto, che è anche a mezzo metro da Cox: «Ha usato una parola importante», e guarda Cox. «Ha tetto che qvesto è il Paese più repressifo tei monto. Io non creto a qvesto!».

Cox dice: «Mi faccia rispondere alla domanda...».

Lenny lo interrompe: «Quando lei usa il termine “capitalista” con quest’accezione negativa, mi fa pensare a Stokely. Se si va a leggere l’articolo di Stokely nella “New York Review of Books”, c’è un solo punto in cui dice veramente quello che pensa, ed è al paragrafo 28 o giù di lì, e lì si capisce che parlando del creare un governo socialista...». Preminger sta ancora parlando a Cox: «Intente tire che qvesto goferno è più repressifo tei goferno tella Nigeria?».

«Io non ne so niente del governo della Nigeria», dice Cox. «Mi faccia rispondere alla domanda...».

«Ma se non ha nemmeno sentito la tomanta», dice Preminger. «Come pvò rispontere?».

«Mi lasci rispondere alla domanda», dice Cox, e si rivolge a Lenny: «Noi crediamo che sia un dovere del Governo quello di dare a ciascuno un lavoro o garantire un reddito... Chiaro?... Ma se l’uomo d’affari bianco non assume nessuno, allora i mezzi di produzione dovrebbero essergli tolti e dati alla comunità, alla gente».

Lenny dice: «Cosa cosa? Questa sì che mi piace! Ma in che modo?».

«Esatto!».

Piace anche a qualcuno delle ultime file.

«Esatto!».

A parlare è Julie Belafonte con la sua vocetta acuta: «Questa sì che è una domanda difficile!».

«Non si può programmare il futuro», dice Cox.

«Intende dire che possiamo solo improvvisarlo?», dice Lenny.

«Nel senso che... è questo quello che vogliamo, amico», dice Cox«Vogliamo le stesse cose che vuoi tu, vogliamo la pace. Vogliamo tornare a casa la sera e starcene con le nostre famiglie... E accende-! re la televisione... E fumare un po’ di erba... Non so se mi spiego. E starcene un po’ su di giri... Anche a te piace, no?... Vorremmo solo starcene tranquilli, come il resto del mondo. Ma non possiamo... Chiaro?... Perché se mandano i Porci a tormentarci e a brutalizzare le nostre famiglie, allora dobbiamo combattere».

«Sono assolutamente d’accordo!», dice Lenny, «Ma che cosa intende...».

Cox dice: «Noi pensiamo che questo Paese stia andando sempre più verso il fascismo per opprimere tutti quelli che hanno intenzione di fare resistenza...».

«Sono d’accordo al cento per cento!», dice Lenny, «Ma la sta mettendo in termini di difesa, e non di offesa...».

«Questo è il linguaggio dell’oppressore», dice Cox, «e appena...».

«Qvesto non è...», dice Preminger.

«Mi lasci finire!», dice Cox, «Se sei una Black Panther ti abitui...».

«Qvesto non è...».

«Mi lasci finire! Se sei una Black Panther impari che il linguaggio è usato come mezzo di controllo, e...».

«Non folefa tire qvesto!».

«Mi lasci finire!».

Cox a Preminger a Bernstein a... Stanno lottando per il Grande Orecchio... Ma che bella battaglia... Cox in piedi accanto al piano coperto di chatchkas da un milione di dollari... Lenny affondato nella poltrona Margaret Owen... Preminger, l’irresistibile Coman- dante del divano... Tirano di qua e di là... A quel punto l’omino grigio, il servo della Storia, salta fuori dall’altro pianoforte e dice: «Signor Bernstein, vorreste cedere il campo alla signora Bernstein?».!

 

E di colpo Felicia, serena e impeccabile come Mary Astor, è in piedi: «Vorrei solo citare un brano tratto da un articolo di Richard Harris per il “New Yorker”», ed eccola vicino all’altro pianoforte con una copia del «New Yorker» in mano che legge un articolo di Richard Harris sul Dipartimento di Giustizia.

«È una lettera di Roger Wilkins al Segretario Finch», dice Felicia. Roger Wilkins è il nipote di Roy Wilkins, ex-Direttore del Servizio Relazioni con il Pubblico del Dipartimento di Giustizia, che adesso lavora per la Fondazione Ford. «“Un anno fa pensavo che una rivolta dei neri fosse fuori questione, perché i leader neri, anche i più attivi, sapevano che l’unica cosa che avrebbero ottenuto era farsi ammazzare insieme ai loro seguaci”» - Felicia alza gli occhi verso il pubblico, come si fa nelle letture di prim’ordine, e la voce si fa sempre più teatrale - «“Ma credo che adesso la disperazione sia molto più profonda. Non possiamo continuare ancora a lungo a vedere come vivono i bianchi, e le opportunità che hanno, ad ascoltare le promesse che fanno e a vedere quanto poco stiano dando, senza dover lottare contro una rabbia quasi incontrollabile che abbiamo dentro”» - la voce di Felicia inizia a vibrare dall’emozione. E in fondo alla stanza, in piedi accanto a Gail Lumet, c’è Roger Wilkins in persona - «“Ci sono dei bambini neri in questo Paese”», recita Felicia, «“che per non morire di fame sono costretti a mangiare cibo per cani. Non c’è uomo che possa guardare i propri figli crescere nella fame e nella miseria a queste condizioni, circondato da agi e ricchezze, e al tempo stesso continuare a considerarsi un uomo. Credo che ci siano dei neri che hanno orgoglio a sufficienza da preferire la morte alla vita che sono costretti a vivere. E credo che molti di noi moderati sarebbero in difficoltà a discutere con loro. L’altro giorno un mio vecchio amico, un nero che ha passato la vita cercando di fare qualcosa per la sua gente all’interno del Sistema, mi ha detto”» - Felicia guarda il pubblico e sferra il colpo - «“Roger, mi procurerò una pistola. Non ho scelta”».

«Faaaaaaaaaaantastico!», dice Lenny. Lo dice con profonda emozione... Sospira... E sprofonda di nuovo nella poltrona... Richard Harris... Ahura Mazda con la vera ardente rivelazione...

Cox approfitta del momento: «Il nostro Ministro della Difesa, Huey P. Newton, ha detto che se non possiamo vivere una vita che abbia un senso... Mi capite... Forse possiamo avere una morte che abbia un senso... E una delle ragioni per le quali la struttura del potere teme le Black Panthers è la consapevolezza che le Black Panthers siano pronte a morire per ciò in cui credono, e molti di noi sono già morti».

Lenny sembra un altro uomo. Guarda Cox e dice: «Quando lei è entrato in questa casa, in questo edificio...», e fa un gesto vago come a voler metterci dentro tutto, gli stucchi, i candelabri, i bocconcini di roquefort ricoperti di noci tritate, i domestici, il ragazzo dell’ascensore e i portieri giù con i loro sparati bianchi, l’atrio di marmo, i sostegni in ottone della pensilina all’ingresso, «quando è entrato in questa casa, doveva essere furente!».

Cox appare imbarazzato. «No... Riesco a controllarmi... È una faccenda personale... Un tempo cose del genere mi davano molto fastidio, ma......

«Non si sente amareggiato? Non le fanno dare di matto?».

«Noooo, amico... È una faccenda personale... Chiaro?... Non la prendo sul personale. È una cosa che ho superato».

«Beh», dice Lenny, «a me fanno dare di matto!». E Cox lo fissa, e il plexiglas gli scende di nuovo sugli occhi... Questi tizi... Se non fossi qui personalmente non ci crederei... «È una situazione decisamente paradossale», dice Lenny. «L’essere proprietario di questo appartamento ha reso possibile quest’incontro, e senza quest’appartamento non ci sarebbe stato nessun incontro. Eppure... Beh, è una situazione decisamente paradossale».

«Io non sono affatto infastidito», dice Cox. «Ci sono già passato. Sono cresciuto in campagna, in una comune agricola, e alla fine sono diventato un “negro rispettabile”... Non so se mi spiego... Mi sono mosso bene. Mi sono trovato un lavoro e mi sono comprato una macchina, e portavo un completo e avevo un buono stipendio, e fintanto che rispettavo le regole avrei potuto continuare a lavorare e a indossare il mio completo e ad avere uno stipendio. Ma poi un giorno mi sono reso conto che mi stavo solo prendendo in giro,! perché non è così che funziona. In una società come la nostra potrei pure portare l’anello al naso e i pantaloni viola, perché tanto quando cammino per strada sono solo un altro negro... Chiaro?... Solo un altro negro... Ma non mi sono lasciato prendere dall’odio. Nel senso che non riesco a provarlo, non riesco a infuriarmi. Come l’altro giorno che uscivo dal tribunale del Queens e c’era questo sbirro fuori servizio che passava di lì... Chiaro?... E fa così col dito. E il modo che hanno gli sbirri per farti capire che ti tengono d’occhio. Mi fa così col dito... E per una qualche ragione è stata una cosa che m’ha risvegliato la rabbia... Non so se mi spiego».

«Dio», dice Lenny, e gira la testa in direzione del resto della stanza, «la maggior parte della gente qui dentro ha avuto questo problema del sentirsi indesiderata!». La maggior parte della gente qui dentro ha avuto questo problema del sentirsi indesiderata. Ecco qua. È una strana sensazione. Le teste della maggior-parte-della-gente-in-questa- stanza... si stanno solo dilungando sulla faccenda. Lenny è incredibile. Un trucchetto psicologico alle tre del mattino. E c’è riuscito. È riuscito a infilare il movimento delle Black Panthers dentro un fumetto del 1955 di Jules Feiffer. Rifiuto, Sicurezza, Ansia, Edipo, Elettra, Nevrosi, Transfert, Es, Super-Ego, Archetipo e Campo di Percezione, quel fantastico gioco degli anni Cinquanta, amato da tutte le giovani e i giovani colti dell’Est cresciuti nell’Era della grande onda di Freud, Jung, Adler, Reik & Reich, quando tutti avevano l’analista o citavano Ernest Dichter che diceva a Maytag che a comprare le lava- stoviglie erano le donne con pulsioni anali. E nel suo crescente coma insulinico Lenny si tira dietro le Panthers e settantacinque celebrità e culturati assortiti in questa lunga marcia verso la giungla neurale. Per sempre 1955. In un modo o nell’altro ci sentiamo tutti insicuri, no? E fintanto che reprimiamo il nostro... Magnifico! Il signor Auricolaris! Il Chiarificatore del Villaggio! La maggior parte della gente in questa stanza ha avuto questo problema del sentirsi indesiderata...

Cox lo guarda, con il plexiglas che scende... Ma l’omino grigio, il servo della Storia, salta su di nuovo. Manda un’adorabile cosina giovane, una delle bionde della stanza, a sussurrare qualcosa all’orecchio di Lenny. «Livingston Wingate è qui», gli dice.

Non ci sono dubbi in situazioni del genere, Lenny sembra aver capito all’istante che la cosa gli è stata detta per zittirlo. «Oh, ma perché non me ne vado!», dice. Fa finta di alzarsi dalla poltrona per lasciare la stanza. «Noooo! Noooo!», dicono tutti. Parlano all’unisono, ma poi Barbara Walters, che di certo ci sta rimuginando sopra da un po’, riesce a farli zittire. Tutti riconoscono la voce, Barbara Walters del «Today Show», televisionata ogni mattina da una costa all’altra del Paese, una voce medio-atlantica, diverse miglia a Est di Newfoundland e in direzione di Blackpool, e lei si sporge in avanti, seduta in terza fila nel suo tailleur pantaloni a quadri con gran collo di pelliccia: «Faccio parte dei nuovi media, ma sono qui come individuo, perché le problematiche affrontate qui m’interessano, e sono cose di cui i media parlano tanto. L’anno scorso abbiamo intervistato la signora Eldridge Cleaver, Kathleen Cleaver, e il servizio non è stato manipolato né altro. Ha avuto la possibilità di dire tutto quello che voleva, e si è rivelata una donna molto informata, molto brillante, molto strutturata... E io le ho chiesto... Le ho detto: “Io ho un figlio, e lei ha un figlio”, e poi: “Vede qualche possibilità per i nostri figli di crescere e vivere uno accanto all’altro in pace e armonia?”. E lei ha detto: “Noi se prima non cambiano le condizioni che prevalgono nella società di oggi, no, se non rovesciamo il Sistema”. E così le ho chiesto: “Come si sente, da madre, al pensiero che suo figlio debba vivere un conflitto del genere in una Nazione in fiamme?”. E lei ha detto: “Lasciamo che bruci!”. E io ho detto: “E suo figlio?”. E lei ha detto: “Possa accendere il primo fiammifero! ”. Ed è questo che vorrei chiedervi. Sono qui sempre come individuo, e non come giornalista, ma quello di cui sto parlando, e quello di cui il signor Bernstein e il signor Preminger stanno parlando, quando vi chiedono in che modo vi relazionate al capitalismo, è se vedete una qualche possibilità di soluzione pacifica a questi problemi, una via d’uscita che non implichi violenza».

Cox dice: «Non in questo Sistema. Non riesco a vederla. Cioè, che cosa può cambiare? Ci sono settecentocinquanta famiglie che possiedono le ricchezze di tutto il Paese...».

«Qvesto non è fero!», dice Preminger. «Ci sono molte persone ricche in tutto...».

«Mi lasci finire!... E queste famiglie sono le più reazionarie del paese. Un uomo come H.L. Hunt non mi lascerebbe entrare in casa sua».

Barbara Walters dice: «Non sto parlando di...».

«Io non antrei a casa sua nemmeno se me lo chietesse», dice Preminger.

«Beh, io quasi...».

«E Ross Perot? Anche lui è texano, e spente milioni ti tollari per cercare ti mettere in contatto le mogli tei prigionieri di gverra con il Goferno tel Fietnam tel Nort...».

Cox dice: «Lo rispetterei di più se desse i suoi soldi ai bambini che muoiono di fame».

«Lo fa!», dice Preminger. «Lo fa! Lei non legge niente! È qvesto il suo problema!».

«Io non sto parlando di questo», dice Barbara Walters a Cox. «Sto parlando di quello che potrebbe succedere all’altra gente se raggiungeste il vostro obiettivo».

«Non può metterla così!», dice Julie Belafonte. «Deve spiegarsi meglio».

Barbara Walters dice: «Sto parlando da bianca sposata con un bianco, che è un capitalista, o lavora per dei capitalisti, come me del resto, e vorrei sapere se qualora riusciste a conquistare la vostra libertà noi saremmo costretti ad andarcene!».

Barbara Walters e suo marito, Lee Guber, un produttore, mani in alto e contro il muro nella prigione di Ekaterinburg13...

Cox dice: «Se una sola persona è libera, tutti quanti devono esserlo. Fintanto che ci sarà una classe oppressa, una società non potrà essere libera. Molti giovani bianchi stanno cominciando a...».

«Ma qvesto non è qvello che ha chiesto...».

«Mi lasci finire... Mi lasci rispondere alla domanda...».

«Lei non ha nemmeno sentito la tomanta...».

«Mi lasci finire... Molti giovani bianchi stanno cominciando a capire che cos’è l’oppressione. Sono piccolo borghesi. È una classe diversa rispetto alla comunità nera, ma abbiamo un oppressore comune. Loro protestano per delle libertà individuali: fare musica, fumare erba e fare sesso. Sono libertà individuali ma stanno cominciando a capire...».

«Se lei è per la libertà», dice Preminger, «mi tica qvesto: è giuste«che un ebreo lasci la Russia per antare a fifere in Israele?».

Molti dei presenti non capiscono dove diavolo voglia andare a parare Preminger, ma Leon Quat e l’omino grigio l’hanno capito benissimo. Cercano di inserirsi nel dibattito. Al diavolo le minoranze, Israele e Al Fatah e l’Uar e il Mig e l’Urss e l’imperialismo Sionista... Non in questa stanza... Quat si alza in piedi con un terrificante sorriso del tipo vogliamoci bene e dice: «Credo che siamo tutti disposti ad ammettere che la crisi attuale di questo Paese non sia determinata dalle Black Panthers ma dalla guerra in Vietnam, e...».

Ma c’è un certo trambusto nelle prime file. Barbara Walters sta dicendo qualcosa a una delle mogli delle Panthers, la signora Leel Berry, in prima fila.

«Che cosa le ha detto?», dice Lenny.

«Stavo parlando con questa simpatica signora», dice Barbara Walters, «e mi ha detto: “A sentirla sembra abbia paura”».

La signora Berry ride piano e scuote la testa.

«Io non ho paura di voi», le dice Barbara Walters, «mi spaventa l’idea che i miei figli possano morire!».

«Per favore!», dice Quat.

«Non ha ancora risposto alla tomanta!», dice Preminger.

«Per favore!».

«Posso rispondere alla domanda...».

«Lei non l’ha nemmeno sentita...».

«Così...».

«Mifaccia rispondere alla domanda! Posso farlo. Noi non crediamo che all’interno dell’attuale Sistema possa accadere, ma...».

Lenny dice: «Dunque state per cominciare una rivoluzione in un appartamento di Park Avenue!».

Esatto! Quat canticchia disperato: «C’è qui Livingston Wingate! Possiamo sentire cos’ha da dire il signor Livingston Wingate della Urban League?».

Sì, Cristo, fate entrare Livingston Wingate.

E così Livingston Wingate, Direttore Esecutivo della Urban League di New York, comincia a farsi strada verso la prima fila. Non ha la più pallida idea di quel che sta accadendo, tranne che è una serata per Black Panthers in casa Bernstein. A quanto pare crede di essere stato chiamato per via della sua arte oratoria, perché inizia con una lunga disquisizione sulla volubilità della gioventù nera.

«Stamattina ero in TV con un leader del movimento delle Panthers», dice, «e...»?

«Ero io...», dice Cox dalla sua sedia accanto al piano.

Wingate si volta di scatto. «Ah, sì...». Poi si volta di nuovo. «Non l’avevo vista... Era lei... Ah...». E poi continua, scorticando se stesso e la sua generazione di leader neri per i loro fallimenti, perché la non-violenza non funziona, e non può continuare a dire alla gioventù nera di non tirare quella pietra - nell’angolo, nel frattempo, vicino al piano, Preminger ha allungato una mano e ha acchiappato Cox per un braccio in una specie di stretta di buon augurio e solidarietà e sorride radioso come a dire: Non è successo niente, e Cox sta cercando di prendergli la mano e di stringergliela e di dire che va tutto bene, e Preminger continua a tenerlo per un braccio, e Cox continua a cercare la mano, ed eccoli persi in questo curioso, eccentrico groviglio di dita e di polsi tra il sofà e il piano a coda, tastando e strattonando - perché, dice Livingston Wingate, lui non è in grado di dimostrare alla gioventù del ghetto che c’è un’alternativa, e questo e quell’altro, «e loro sono fermamente convinti che nulla può cambiare fintanto che non si cambia il Sistema».

«Meno del cinque per cento della popolazione di questo Paese possiede il novanta per cento delle ricchezze», dice l’avvocato Lefcourt, «e il dieci per cento ne ha più del novanta per cento. La massa non potrà mai cambiare nulla seguendo il Sistema, ed è inutile continuare a parlare alla gente dei diritti costituzionalmente garantiti. Leon e io potremmo fare una Costituzione che ci dia tutto il potere, e potremmo studiarla così a fondo e renderla così legittima che sareste costretti a ucciderci per cambiarla!».

Julie Belafonte, in prima fila, si alza in piedi e dice: «E allora vi uccideremo!».

«Potere alla gente!», dice Leon Quat... E tutti si alzano in piedi. E Charlotte Curtis butta giù gli ultimi appunti sul suo taccuino... I domestici bianchi aspettano con pazienza dietro le quinte di pulire le impronte lasciate dai bicchieri sui tavolini Amboina...

Ancora stregati dal fascino del giochino a cui tutti hanno preso parte, Lenny, Felicia e Don Cox continuarono a parlare lì nel duplex parecchio tempo dopo che la maggior parte degli ospiti era andata via, fino alle dieci della sera, in effetti. Lenny e Felicia sapevano di aver vissuto un’esperienza unica, ma non avevano idea della furia che si sarebbe scatenata il giorno dopo quando il racconto del party di Charlotte Curtis sarebbe apparso sul «New York Times».

 

La storia venne pubblicata in due versioni: un primo affrettato articolo per la prima edizione, che va in strada alle 10 e 30 della sera, e uno molto più approfondito per l’ultima edizione, quella che la maggior parte dei newyorkesi legge al mattino. Nessuno dei due articoli criticava in alcun modo quanto era accaduto. Anche dopo averlo letto, Lenny e Felicia probabilmente non ebbero nemmeno il minimo presentimento di quel che sarebbe successo. La prima versione cominciava così: «La signora Léonard Bernstein, che ha raccolto fondi per le più disparate cause, tipo i cileni indigeni, la Filarmonica di New York, il Church World Service, le borse di i studio per gli studenti israeliani, i bambini disadattati, la New York Civil Liberties Union, la scuola per i bambini greci e Another Mp-J ther for thè Peace, si è ritrovata ieri in qualcosa che lei stessa ha definito assolutamente nuovo. Ha dato un cocktail party per le Black Panthers. “Non un party mondano”, ha spiegato prima che la sua trentina di ospiti arrivasse, “ma un’occasione per tutti noi per ascoltare quanto sta accadendo a queste persone. Vengono trattate in modo veramente disumano”».

La stessa Felicia non avrebbe potuto chiedere che la cosa venisse raccontata in modo migliore. Nella seconda edizione, cominciava così: «Ieri sera Léonard Bernstein e un leader delle Black Panthers hanno discusso dei meriti della filosofia del Black Panthers Party al cospetto di una novantina di ospiti nell’elegante duplex dei Bernstein in Park Avenue». E andava avanti riportando parte della discussione tra Lenny, Cox e Preminger sulle tattiche delle Panthers e i vari «Mi piace!» di Lenny. C’era anche una foto di Cox in piedi accanto al piano a coda che parlava al gruppo, con Felicia sullo sfondo. Nessuno nella Stagione del Radical Chic avrebbe potuto chiedere un servizio migliore. Prendeva tutta una pagina della sezione moda, insieme alle pubblicità di B. Altman’s, delle parrucche Edith Imre, delle pellicce, dello Sherry-Netherland Hotel e di The Sun and Surf di Palm Beach.

Quello che inizialmente sfuggì ai Bernstein era che la notizia era stata diffusa dai giornali affiliati al «New York Times». In altre città degli Stati Uniti e d’Europa apparve in prima pagina, cosa assai singolare, esponendosi a un coro internazionale di grasse risate e conati di vomito, a seconda della propria Weltanschauung. Gli inglesi, in particolare, sfruttarono il peggio della faccenda riuscendo a farne una delle storie più spassose dell’anno. Il secondo giorno, però, il venerdì, i Bernstein ebbero la certezza di essere stati fregati. Sul «Times» uscì un editoriale sul party. Il titolo era: Passo falso per le Black Panthers.

«L’apparire delle Black Panthers come romanticizzate beniamine del jet set politico-culturale è un affronto per la maggioranza degli americani neri. Il cosiddetto Partito, con il suo confondere ideologia mao-marxista e paramilitarismo fascista, ha pieno diritto alla difesa dei diritti costituzionali dei propri membri. Era proprio per accertarsi che non fossero privati di tali diritti dalla persecuzione celata sotto il diritto di applicare le leggi che si è recentemente costituito un comitato di illustri cittadini (un gruppo capeggiato da Arthur Goldberg che ha cercato di investigare sull’omicidio di Fred Hampton per mano della Polizia di Chicago). Tuttavia, la serata di terapia di gruppo e raccolta fondi a casa di Léonard Bernstein, così come descritta ieri su questo giornale, rappresenta quel genere di elegante tour dei quartieri poveri che degrada in egual misura benestanti e beneficiati. Potremmo non darle importanza definendola un divertimento-sollievo-dal-senso-di-colpa corretto con qualche goccia di coscienza sociale, se non fosse per l’impatto che ha avuto su quei neri e quei bianchi seriamente impegnati nel raggiungimento dell’assoluta eguaglianza e della giustizia sociale. Ha offeso la memoria di Martin Luther King jr., il cui compleanno è stato solennemente celebrato ieri in tutta la Nazione. Le Black Panthers su un piedistallo di Parie Avenue creano una nuova distorsione dell’immagine dei negri. La leadership nera responsabile non è disposta ad applaudire mentre la Bella Gente crea il nuovo mito della bellezza delle Black Panthers».

Elegante tour dei quartieri poveri... ha offeso la memoria di Martin Luther King... Le Black Panthers su un piedistallo di Park Avenue la Bella Gente... Una bella mazzata. E non era la voce di un qualche giornalista di Destra tipo William Buckley (anche se presto si sarebbe fatto sentire anche lui). Era un editoriale, nella pagina degli editoriali, sotto lo stemma dell’aquila «Times».

Felicia parlò con Charlotte Curtis, e Charlotte Curtis convenne anche lei che il «Times» sbagliava nel definire il party come «elegante tour dei quartieri poveri». La settimana successiva scrisse un articolo che attestava la buona fede di molte persone in vista, inclusa Felicia, che diligentemente si prendevano cura dei meno fortunati! Ma rimase fedele all’articolo originale fino all’ultimo dettaglio. Felicia sembrò accettarlo di buonagrazia. Lenny no. Tutta la faccenda gli suonava costruita. Mettiamola così: organizzano una riunione - non un party, ma una riunione - a casa sua per discutere di uno degli argomenti più importanti del momento, e il «Times» decide di fare scrivere l’articolo non a Homer Bigart né ad Harrison Salisbury, ma a una giornalista mondana che riempie l’articolo di frivoli dettagli tipo i suoi pantaloni Black Watch e un mucchio di citazioni cretine di frasi che non ha mai detto... Ci siamo? E così diventa un bersaglio perfetto raggiungibile dai posti più popolari: l’editoriale sull’«elegante tour dei quartieri poveri» e la beffa alla memoria di Martin Luther King. E come se non bastasse stavano già cominciando a farsi beffe di lui nel vecchio carnevale del pettegolezzo newyorkese. Da non crederci. Gente colta, intellettuali, iniziavano ad additarlo come «masochista» e - questa la cosa più crudele - come «il David Susskind 14 della Musica Americana».

Quello stesso giorno, venerdì, Felicia si mise alla scrivania e scrisse una lettera addolorata ma ben studiata al «Times»: «Da sostenitrice dei diritti civili, il 14 gennaio ho invitato un certo numero di persone a casa mia per ascoltare l’avvocato di Panther 21, e altra gente coinvolta nel processo, discutere del problema delle libertà civili da applicare a coloro che sono in attesa di processo, e per aiutare la raccolta fondi per le loro spese legali. Tra i presenti c’erano anche alcuni membri responsabili della leadership nera e alcuni distinti cittadini di ogni ceto sociale, accomunati tutti dall’interesse per il tema delle libertà civili e della pari giustizia garantita dalle nostre leggi. L’esito del processo Panther 21 dipenderà dal giudice e dalla giuria. E questo non è affar nostro. Ma l’abilità degli avvocati di preparare una difesa adeguata dipenderà dall’aiuto che possiamo dare prima del processo, e questo aiuto non deve venir meno per mancanza di fondi. E per questo serissimo intento che abbiamo organizzato la riunione. La superficialità con cui è stata definita “frivola” non fa onore al “Times”, ed è offensiva per tutti coloro che sono seriamente impegnati nella causa dei princìpi umanitari della giustizia».

Quel pomeriggio Felicia andò a consegnare la lettera al «Times» di persona. I Bernstein comprarono il giornale di sabato, e non c’era nessuna lettera. In effetti non uscì fino a mercoledì, dopo la pubblicazione di una lettera di un certo Porter che diceva cose tipo «assisteremo presto alla nascita di organizzazioni locali tipo Affitta- anche-tu-una-Pantera». Cosa che accreditava la teoria cospirativa, quanto meno in casa Bernstein. A quel punto tutti gli editorialisti sulla piazza misero lo zampino nella faccenda. Buckley, per esempio, ne parlò come di una lezione pratica sullo strano masochismo del bianco progressista che invita la Pantera a venire a sbranarlo nella sua «lussuosa tana».

Ma se i Bernstein pensavano che il loro principale problema fosse quello della cattiva stampa, si sbagliavano. Intorno a loro era scoppiato un dibattito di cui loro erano evidentemente ignari. La questione era l’attrito tra ebrei e neri che negli ultimi tre anni, ovvero da quando il Black Power aveva acquisito importanza, si era esasperato. Il primo sospetto i Bernstein lo ebbero quando cominciarono a ricevere lettere diffamatorie, alcune delle quali da ebrei della Jefwish Defense League del Queens e di Brooklyn. Poi il Presidente Nazionale della League, Rabbi Meir Kahane, maledisse pubblicamente Lenny per avere aderito alla «tendenza dei circoli progressisti e intellettuali a corteggiare le Black Panthers... Noi difendiamo il diritto dei neri di formare gruppi di difesa, ma loro sono andati troppo oltre formando un gruppo che odia l’altra gente. Questo non è nazionalismo, è Nazismo. E se Bernstein e altri intellettuali come lui non lo sanno, allora non sanno niente».

La Jewish Defense League si era costituita nel 1968 con lo scopo specifico di difendere gli ebrei dei quartieri poveri, molti dei quali neri.! Ma anche molti ebrei più ricchi e colti, che vedevano la Defense League come qualcosa di estremista, plebeo e rozzo, si ritrovarono essenzialmente d’accordo con le posizioni di Kahane. Una delle ironie della storia degli ebrei d’America fu il fatto che la loro lunga campagna per le libertà civili dei neri cominciò a essere brutalmente ostacolata a fine anni Sessanta. Come disse Seymour Lipset: «Il movimento integrazionista era soprattutto un’alleanza tra negri ed ebrei (questi ultimi, in larga misura, dominanti). Molte delle organizzazioni inter-razziali per i diritti civili sono state messe su e finanziate dai bianchi, e la maggioranza dei loro membri bianchi erano ebrei. Pertanto ogni sforzo da parte dei negri di riuscire a liberarsi dai legami con i bianchi, dalla dominazione dei progressisti bianchi in quella che è la battaglia per i diritti civili, comportava una vera e propria rottura con gli ebrei, poiché erano loro i bianchi più attivi all’interno dei suddetti movimenti. La leadership nazionalista nera è stata costretta a “levarsi dai piedi” i bianchi (ebrei) e a impedire le “interferenze” bianche (ebree) per non farsi più “rompere le palle” dai bianchi (ebrei)».

Intanto i gruppi del Black Power, tipo l’Sncc o le Black Panthers sostenevano a gran voce gli arabi contro Israele. Il che poteva anche sembrare solo una questione di nazionalismo nero. Dopotutto, l’Egitto era parte dell’Africa, e la letteratura nazionalista nera talvolta sembrava identificare i neri con gli arabi che combattevano contro gli israeliani bianchi. O poteva anche sembrare solo un’adesione al Socialismo Internazionale. L’Unione Sovietica e la Cina sostenevano gli arabi contro gli israeliani, servi dell’imperialismo. Ma molti leader ebrei presero le posizioni antisioniste dei gruppi come le panthers come un velato antisemitismo di stampo americano, legato a faccende meno teoriche tipo le estorsioni, le rapine e le violenze da parte dei neri contro gli ebrei nelle zone del ghetto. Citavano cose tipo il numero del 30 agosto 1969 di «Black Panther» in cui c’era un articolo dal titolo Sionismo (Nazionalismo Kosher) + Imperialismo = fascismo e parlava di «porci fascisti sionisti». L’articolo era firmato «Maresciallo Superiore D.C.» che poteva stare benissimo per Maresciallo Superiore Don Cox. Nel numero del giugno 1967 di «Black Power», una pubblicazione di un’altra organizzazione, il Black Panthers Party della California del Nord, c’era una poesia dal titolo ha Terra degli ebrei che diceva: Nella Terra degli ebrei, un pomeriggio d’estate Era troppo presto per uccidere gli ebrei E guarda che è successo.

Gli ebrei ci hanno rubato il pane Le loro luride donne si sono fatte i nostri uomini E io non avrò pace Finché gli ebrei non saranno tutti morti...

Nella Terra degli ebrei, Non fare il servo dei bianchi che sta con Israele Perché è lì che Cristo fu crocifisso.

Ma nei circoli più letterari della Nuova Sinistra... Beh, le dichiarazioni delle Panthers sulla politica estera non potevano essere prese troppo sul serio. Ideologicamente, stavano ancora tastando il terreno. Essere un sionista Uja15 in tutto e per tutto voleva dire essere antiquato, borghese, di mezza età, suburbano, cedarhurstiano, in un’epoca in cui i giovani della Nuova Sinistra avevano riprogrammato tutto quanto il circuito dell’opposizione di Sinistra all’oppressione. La cosa più importante era che le Panthers rappresentavano la legittima avanguardia della lotta nera per la liberazione, e questo tra i culturati dai quali Léonard Bernstein si aspettava notorietà e rispetto. Il che era fuori discussione, era così e basta. Il principale organo teoretico del Radical Chic, la «New York Review of I Books», chiamava regolarmente Huey P. Newton ed Eldridge Clea- ver «i Simón Bolívar e José Marti dei ghetti neri». Il 24 agosto de 1967 la «New York Review of Books» celebrò la stagione estiva de tumulti urbani pubblicando in prima pagina uno schema per far una Molotov da sé. In effetti il giornale veniva spesso chiamato i «Parlour Panther»16, con la pronuncia dell’owr di Parlour che alludeva alla sua anglofilia. Quello che sembrava in apparenza un atteggiamento contraddittorio della «Review» - la natura dei guerrieri del ghetto e il preziosismo dell’intellettualismo tradizionale inglese stile Leavis & Empson - ovviamente non aveva nulla di contraddittorio! Era solo l’essenziale mentalità a doppia pista del Radical Chic - nostalgie de la bone e rigido protocollo - nella sua forma letteraria! In ogni caso, tenuto conto di tutto questo, non ci si poteva aspettare che gente tipo Lenny e Felicia comprendessero una faccenda così complicata come il recente attrito tra neri ed ebrei.

Ad altra gente coinvolta nel Radical Chic, comunque, il quadro cominciava ad apparire chiaro come il sole. Non era tempo di ultime disperate difese alla Generale Custer. Era tempo... di panico. Altre due coppie avevano già acconsentito a dare dei party per le Panthers: Peter e Cheray Duchin e Frank e Domna Stanton. I Duchin avevano già avuto un saggio delle polemiche in corso. Peter era andato a Columbus, nell’Ohio, con la sua orchestra... e gliene avevano dette di tutti i colori! Tutto perché l’articolo di Charlotte Curtis aveva citato Cheray che diceva quanto fosse eccitata dall’idea di incontrare la sua prima Black Panther a casa di Felicia. A Colum-j bus nel fottuto Ohio, già. Gli Stanton non ci misero molto a finire sulla stessa barca. Frank Stanton, l’impresario, non quello della radio, aveva un duplex che faceva sembrare quello di Lenny una soffitta. C’erano pavimenti di marmo, tappezzeria di velluto color albicocca, trompe l’oeil in sala da pranzo, insomma, tutto al gran completo. Qualche foto delle Panthers stagliata su questo simpatico sfondo... Beh, non è difficile immaginarsi l’articolo.

Il ventiquattro sera, sabato, i Duchin, gli Stanton, Sidney e Gail Lumet, Lenny e Felicia si ritrovarono a casa Bernstein per cercare di risolvere la faccenda. Sidney Lumet era dell’idea che fosse cominciata una nuova Era di Maccartismo. Era un po’ difficile immaginare lo staff della pagina degli editoriali e della rubrica femminile del «Times» come dei nuovi Joe McCarthy, anche se, maledizione... il «Times» stava spingendo le sue organizzazioni predilette, la Naacp 17, la Urban League, la Urban Coalition, e via dicendo. Perché sembrava sempre come se il «Times» cercasse di punire gli ebrei in vista che si rifiutavano di starsene buoni buoni a interpretare il ruolo dei bravi cittadini? Chi è che aveva detto che il «Times» era un giornale cattolico manovrato dagli ebrei per ingannare i protestanti? Qualche professore della Columbia... In ogni caso, adesso erano tutti «troppo esposti» per poter fare del bene alle Panthers dando party per loro nelle proprie case. Era meglio collaborare con organizzazioni tipo il fondo per la difesa legale della Naacp.

A Lenny proprio non andava giù. A inizio serata aveva parlato con un giornalista e gli aveva detto che era «nauseato». Il cosiddetto «party» per le Panthers non era stato affatto un party. Era stata una riunione. Non aveva avuto nulla di mondano. Era dell’avviso che quel genere di riunioni si tenessero nelle case di gente socialmente in vista solo perché i soggiorni erano grandi e l’acustica era buona, ma non lo disse. In ogni caso, lui e Felicia non davano party, e non andavano ai party, e di sicuro non facevano parte del jet set. E non erano nemmeno «masochisti». Così, quattro sere dopo, Lenny in smoking e Felicia in abito nero andavano a un party nell’appartamento triplex di una delle donne più in vista di New York, con vista sull’East River, nella strada dei sogni sociali, la 52esima Est, e tutto a un tratto una donna va dritto da Lenny e gli dice: «Lenny, penso che lei sia un masochista». Da non crederci.

Ma intorno al ventiquattro, dieci giorni dopo la serata con le Panthers, l’angoscia di Lenny venne in quattro e quattr’otto raggiunta da quella di Elinor Guggenheimer. Quest’ultima aveva già mandato gli inviti per il party per gli Young Lords che avrebbe dato il giorno dopo, domenica venticinque. Gran bella situazione. Gli Young Lords erano in un certo qual modo l’equivalente portoricano d Spanish Harlem delle Black Panthers, ed erano infatti alleati con le Panthers, e il duplex di Elinor Guggenheimer era a soli dieci isolati da quello dei Bernstein in Park Avenue. Il marito di Elinor Guggenheimer era Randolph Guggenheimer dell’ufficio legale Guggenheimer & Untermyer. Lei aveva fatto parte della Commissione per la Pianificazione Urbanistica ed era stata a capo di parecchie importanti organizzazioni di beneficenza. Non solo, ma l’anno precedente aveva anche affiancato Herman Badillo nella sua campagna per la nomina a Sindaco nella lista Democratica. Alquanto improbabile che qualcuno si mettesse a scrivere con superficialità su di lei. Tuttavia, se il duplex dei Bernstein era stato definito elegante dal «Times»! il suo poteva essere considerato sontuoso. C’erano abbastanza marmo antico e stagionato, legno pregiato e tessuti orientali da illustrare uno di quei libri natalizi da 30 dollari sul décor attraverso I secoli.

I giornalisti di quotidiani e riviste, inclusa Charlotte Curtis, l’avevano già contattata per poter scrivere dell’evento. Ma la Guggen-j heimer aveva detto loro che non voleva stampa. Non per tutelare se stessa, ma per gli Young Lords. Non faceva altro che ripetere due cose. La prima era: «Non bisogna erigere una barriera sulla 96esima Strada», e con questo alludeva a Park Avenue e al fatto che la parte «bene» dell’Upper East Side finiva con la 96esima. «Se scrivete di questa serata, gli Young Lords non si fideranno mai più della gente che sta a Sud della 96esima». E l’altra era: «Non sarà un party. Sarà una riunione».

«Anzi», aveva detto a un giornalista, «se avete intenzione di scrivere della riunione, non farò nessuna riunione. La disdico. Non sarebbe onesto nei confronti degli Young Lords». Poi aveva aggiunto: «Non faccio parte del jet set, né sono una frequentatrice di party».

Si era aperta una nuova Era per la vita dei duplex di Park Avenue. Nessuno dava party. Nessuno andava ai party. Nessuno faceva parte di nessun jet set. Ellie Guggenheimer in questo era in buona compagnia, e non solo per via di Lenny. Il fatto è che c’è stata solo una persona nella storia di New York ad aver dichiarato pubblicamente di essere un membro del jet set, ed è stata una giovane signora presa alla sprovvista in quell’ora bizzarra e disarmante che sono le 10 del mattino nella Zebra Room di El Morocco il 3 febbraio del 1965.

In ogni caso il party - la riunione - si tenne il pomeriggio successivo, e la stampa non fu ammessa. Parteciparono un centinaio di persone, tra cui Felipe Luciano, leader degli Young Lords. A detta di uno degli amici della signora Guggenheimer, per precauzione venne disinvitato un certo numero di persone che sembravano essere «troppo mondane». Gli unici degni mondani presenti furono Carter e Amanda Burden, legittimati dal fatto che lui era un consigliere municipale che rappresentava parte di Spanish Harlem. Eppure il party fu una primizia per il Radical Chic di Park Avenue. Gli aiutanti della signora Guggenheimer servirono insalata mista e spaghetti. Insalata mista e spaghetti... Un vero cibo da panico Radical Chic.

Il panico si rivelò un vantaggio per gli Amici della Terra, un po’ come la recessione era stata un disastro per il ristorante Four Season e un vantaggio per Riker’s. Molte matrone, come Cheray Duchin, non appena le Panthers divennero materiale radioattivo, rivolsero l’attenzione a zibellini, ghepardi e leopardi. Gli Stanton, nel mentre, avevano abbandonato l’idea di dare un party per le Panthers e ne avevano dato uno per i buddhisti anti-Thieu & Ky del Vietnam, e Richard Feigen abbandonò l’idea di dare un party per via delle dichiarazioni rilasciate dalle Panthers su Al Fatah. Léonard Bernstein andò in Inghilterra per le prove con la London Symphony Orchestra di un concerto in programma alla Royal Albert Hall. Non era poi così dispiaciuto di dover fare quel viaggio. Continuava a essere circondato da un’incredibile ostilità. A Miami picchetti di ebrei avevano costretto un cinema a ritirare un film in cui Lenny dirigeva la Israel Philarmonic sul Monte Scopus per celebrare la vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni.

Tutto sommato il Radical Chic fece una ritirata strategica, denunciando con la fuga la «caccia alle streghe» da parte della stampa. Si accennò a tutta una serie di party per le Panthers a New York e dintorni, come per dimostrare al mondo che mondani e culturati erano pronti a scendere in strada a difendere con coraggio quanto le Panthers e, in questo caso, i Bernstein sostenevano. Ma non se ne fece niente. In effetti, se i mondani già in fila per dare dei party per le Panthers lo avessero fatto come sfida dichiarata alla nascente serie di attacchi alle Panthers e ai Bernstein, sarebbero stati colpiti da uno straordinario contraccolpo a vantaggio del Movimento. Dopotutto questo è un periodo di grande confusione tra culturati e intellettuali progressisti in genere, un periodo in cui una decisa ostentazione di convinzione e sicurezza potrebbe essere schiaccianti te. Ma per il Radical Chic essere costretti al contrattacco sarebbe stata una violazione delle proprie più intime convinzioni. In fondo il Radical Chic di radicale ha solo lo stile. In cuor suo si sente parte della Società e delle sue tradizioni. La Politica, come il Rock, il Pop o il Camp, ha la sua utilità, ma mettere a repentaglio tutto il proprio status per la nostalgie de la boue in qualsivoglia sua forma, significa non avere princìpi.

Intanto la stampa maledetta perseguitava Lenny perfino a Londra. Un giornalista della United Press International lo intervistò lì e fece uscire un articolo nel quale Lenny diceva: «É gente deviata [le Black Panthers]. Si sono comportate malissimo. Si sono scavate la tomba da sole. Sono state le stesse Panthers a rovinare tutto, perché non sanno essere razionali». Il giorno dopo Lenny disse al giornalista del «New York Times» che l’articolo della United Press International era «senza senso». Non ricordava cosa avesse detto, ma certo non era nulla del genere. Allo stesso tempo rilasciò una dichiarazione che in effetti sera già preparato a New York prima di partire. Disse che, in primo luogo, a casa sua non c’era stato alcun «party» per le Panthers. Era stata una «riunione», e l’unica cosa di cui si erano preoccupati in quella riunione erano state le libertà civili. «Se neghiamo alle Black Panthers i diritti democratici perché la loro filosofia per noi è inaccettabile, allora neghiamo la nostra stessa democrazia». Così chiariva una volta per tutte che comunque era contrario alla loro filosofia.: «Non è facile discernere tra le Black Panthers una consistente filosofia politica, ma è abbastanza chiaro che stanno sostenendo la violenza contro i loro concittadini, la sconfitta di Israele, la vittoria di Al patah e altri obiettivi pericolosi e assurdi. A tutti questi concetti io mi oppongo con forza e sono pronto a combatterli con ogni mezzo».

E tuttavia quel maledetto, nauseante furore non voleva placarsi e sparire. Voi non ci crederete, ma due giorni dopo il... beh, la riunione, proprio il giorno in cui lui e Felicia stavano ancora barcollando per la mazzata dell’editoriale del «Times», Daniel Patrick Moynihan, il rinnegato, era a Washington che scriveva a Nixon il suo celebre memorandum della «benevola indifferenza». Nel documento Moynihan presentò Lenny, Felicia e il loro party come Documento numero uno per dimostrare in che modo i rivoluzionari neri come le Panthers fossero diventati «eroi culturali» della Bella Gente.

Ma ve lo immaginate Nixon seduto nella Stanza Ovale che ghigna e si incazza e brontola cose tipo «ricchi fannulloni snob» mentre legge: «Forse non avete notato nella pagina mondana del “Times” di ieri che mercoledì la signora Léonard Bernstein ha dato un cocktail party per raccogliere fondi per le Panthers. La signora W. Vincent Astor era tra gli invitati. La signora Peter Duchin, “la ricca bionda moglie del direttore d’orchestra”, era elettrizzata. “Non ho mai incontrato una Pantera”, ha detto. “Per me è la prima volta”».

Il 29 febbraio qualcuno passò sottobanco quel maledetto memorandum al maledetto «New York Times», e fu la fine. Adesso Lenny era stato investito, insignito, insediato, istituito, inaugurato come il signor Pantera da Salotto per l’eternità. La parte sul «cocktail party» era giusto nello stesso paragrafo in cui c’era la frase della «benevola indifferenza». E non migliorò la situazione il fatto che la signora Astor si fosse affrettata a scrivere al «Times» per informarli che lei non era andata al «party». Aveva ricevuto l’invito, come un mucchio di altra gente, ma, in effetti, non era andata. Grazie mille, Brooke Astor.

Dementi, zotici, filistei, cripto-fascisti, bircheriani, membri della Lega per la Difesa, piranha dell’Hadassah Theater Party, UJA, aviatori, irlandesi da concerto, wasp ignoranti, leccapiedi, lettori di giornali... lo stavano tutti quanti fischiando, lui, Léonard Bernstein, l'egregio maestro... Buuuuuuuu. Non cerano dubbi su questo. Non si stavano schiarendo la gola. Stavano strizzati nelle loro ereditate poltrone da 14 dollari e 50, tirando fuori dal camuffato fondo delle loro pance i vecchi buuuuuuuu da vecchie case popolari del tempo che fu. Buuuuuuumm Lettori di giornali! Quello strampalato articolo sul «Times» aveva raccontato loro che lui e Felicia avevano dato un party per le Black Panthers e che lui aveva destinato un suo cachet di direttore d’orchestra ai fondi per la difesa, e ora, davanti a lui, si dispiegava un vasto pubblico dalle bianche gole inamidate di pasticcieri cripto-bigotti, fruttivendoli di Moshe Dayan con bende su tutti e due gli occhi...

...Una volta, dopo un concerto in Italia, uno di quei memorabili vecchi italiani in abito nero strinato dalla stiratura e dal colletto duro con autentici ricami-rattoppi in filo bianco nei punti in cui il colletto si ripiega, uno di quei vecchi europei che sembrano essersi macerati! invecchiati, marinati in secoli di vera Cultura in una Terra in cui la gente capiva l’arte di vivere e l’arte di ascoltare e dove non si vergognava di dire quello che aveva nel cuore...

Questo vecchio gli si era avvicinato con gli occhi traboccanti di lacrime e le oneste mani deformate che sembravano immaginarie palle di neve e aveva detto: «Egregio maestro! Egreggggggggggio maestro!». Il modo in cui l’aveva detto, l’unione di egregio con maestro... beh, il modo in cui l’aveva detto stava per direttore d’orchestra così grande, così brillante, così abbagliante, così ispirato, così trascendentale, così... sì... immortale... Beh, non c’era una sola parola in tutta l’ottusa lingua inglese in grado di descriverlo.

E in quel momento Léonard Bernstein seppe che aveva raggiunto...

...Buuuuuuuuu! Buuuuuuuuu! Da non crederci. Eppur vero. Questi fruttivendoli... Era il loro capro espiatorio, e un branco di cretini da 14 dollari e 50 e dalle bianche gole lo stava fischiando, e non era un’allucinazione nella solitudine delle tre del mattino.

E quella visione nera, quel maledetto negro accanto al piano, sarebbe sbucato dalla coda di un piano per il resto della sua vita?