4.
Il paragrafo 50 di Essere e tempo, intitolato «Schizzo della struttura ontologico-esistenziale della morte», contiene, senza vergognarsi, la proposizione: «All’Esserci, come essere-nel-mondo, sovrastano molte cose.»1 Una volta si attribuì a un autore di aforismi francofortese di rilevanza locale il detto: «chi guarda dalla finestra vede molte cose». Heidegger pone a questo livello la sua stessa concezione dell’autenticità in quanto essere-per-la-morte. Si vuole che l'essere-per-la-morte sia qualche cosa di più della mortalità, che viene svalutata in quanto empiricocosale; ma viene distinto a sua volta, in favore dell’ontologia, anche dalla riflessione soggettiva sulla morte. L’esser-se-stesso non si baserebbe su uno stato eccezionale del soggetto, separato dal Si,2 né sarebbe una forma di coscienza soggettiva; l’essere-per-la-morte autentico non è un «pensare alla morte»,3 che non è cosa gradita al filosofo monopolista: «Nell’attuale povertà del mondo questo è necessario: meno filosofia e una maggiore attenzione al pensiero; meno letteratura e più cura della lettera delle parole.»4 L’atteggiamento da lui disapprovato
consiste nella possibilità di pensare alla morte, calcolando il come e il quando della sua realizzazione. Questo scervellarsi sulla morte certo non la priva completamente del suo carattere di possibilità, poiché la morte è ancora pensata come qualcosa che verrà, ma la svuota, tentando di controllarla per mezzo di calcoli. Si vuole che la morte, come evento possibile, mostri meno che sia possibile la sua possibilità. Al contrario, nell’essere-per-la-morte, se esso deve trovare tramite la comprensione una diversa via d’accesso alla descritta possibilità come tale, la possibilità deve essere compresa senza attenuazioni come possibilità, deve essere realizzata e sopportata come possibilità in ogni comportamento.5
In maniera tipicamente antintellettuale la riflessione sulla morte viene screditata in nome di qualcosa che si presume più profondo e viene sostituita dal «sopportare», da un gesto di mu-tismo anche interiore. L’ufficiale, si potrebbe aggiungere, secondo la tradizione del corpo dei cadetti impara a morire, ma per questo è meglio che egli stesso non si occupi di ciò che nel suo mestiere, dopo l’uccisione degli altri, è la cosa più importante. L’ideologia fascista dovette per di più rimuovere dalla coscienza il sacrificio annunciato in favore del predominio tedesco, perché la chance di ottenere ciò per cui veniva richiesto era sin dall’inizio troppo piccola per reggere una tale consapevolezza. «Il sacrificio ci renderà liberi», scrisse un funzionario nazionalsocialista nel 1938,6 modificando polemicamente uno slogan socialdemocratico.7 Heidegger è d’accordo. Ancora nell’ottava edizione di Che cosa è la metafisica?, apparsa nel 1960, egli ha mantenuto, senza attenuarne opportunisticamente i toni, le seguenti proposizioni:
Il sacrificio è il prodigarsi dell’uomo nella salvaguardia della verità dell’Essere per l'essente, prodigarsi che è sottratto ad ogni costrizione, perché sorge dall’abisso della libertà. Nel sacrificio avviene quella segreta gratitudine che, sola, consente di apprezzare la gratuità con cui l’Essere nel pensiero si è consegnato all’essenza dell’uomo, affinché egli nel riferimento all’Essere ne assuma la guardia.8
Ma poiché si vuole che l’autenticità non sia il fatto empirico del dover morire e nemmeno un atteggiamento di riflessione soggettiva, essa si trasforma in uno stato di grazia, in una caratteristica per così dire razziale dell’interiorità che si ha oppure no, senza che di essa si possa asserire altro che, tautologicamente, l'esserne appunto partecipi. E infatti Heidegger è costretto irresistibilmente a fare uso di espressioni tautologiche negli excursus seguenti sulla morte: «Essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni comportamento rispetto a (...), di ogni esistenza»,9 quindi, molto più semplicemente, la possibilità di non esistere più. A chi obiettasse che la filosofia dei modi d’essere dell’Essere è in ogni caso tautologica, perché questi sarebbero proprio quello che sono, si risponderà che in tal caso la mera recitazione meccanica delle parole, rinunciando ad ogni predicazione concettuale, finirebbe per liquidare il pensiero stesso. Lo stratega si guardò bene dall’esplicitare quella conseguenza; nella sua opera il filosofo la trasse fino in fondo. L’autenticità trasforma poi di nuovo, a vantaggio della propria dignità, la carenza concettuale, l'indeterminabilità, nel Diktat di qualcosa che si deve prendere così com’è, senza porre domande. Ciò che tuttavia dovrebbe essere più che mero Esserci dissangua il meramente esistente, vale a dire quella fragilità che non è riconducibile al suo concetto puro, ma che inerisce appunto al sostrato non concettuale. La mera tautologia che propaga il concetto rifiutandosi di determinarlo, e che invece di ciò lo ripete rigidamente, è lo spirito come atto di violenza. Ciò che sta a cuore al gergo, a cui deve sempre stare a cuore qualcosa, è identificare l’essenza - «l’autenticità» - con il fatto più brutale. La coazione a ripetere è tuttavia indice di un fallimento: dell’incapacità del pensiero di penetrare ciò che dovrebbe pensare, se si vuole che resti spirito.
La violenza è insita tanto nella forma linguistica quanto nel nucleo della filosofia di Heidegger: nella costellazione in cui essa pone autoconservazione e morte. Il fatto che la morte, di cui il principio di autoconservazione si serve quale ultima ratio per minacciare coloro che vi sono sottomessi, venga trasformata nell’essenza propria di quel principio, mira a una teodicea della morte. Non senza un qualche elemento di verità. L’Io dell’idealismo, che assolutizza il suo autoporsi e la sua autosussistenza, diviene, secondo la concezione di Hegel, la negazione di se stesso e si rende simile alla morte:
L’unica opera e l’unica azione della libertà generale è perciò la morte, e più propriamente una morte che non ha alcun ambito interno né riempimento; infatti ciò che viene negato è il punto privo di riempimento del Sé assolutamente libero; essa è dunque la più fredda e più piatta morte, senza altro significato che quello di tagliare una testa di cavolo o di prendere un sorso d’acqua.10
Ciò che però Hegel, deluso, scriveva contro la Rivoluzione francese e che certamente toccava la natura violenta dell’ipseità assoluta, non diviene in Heidegger il motore della critica alla ipseità, bensì l’ineludibile e perciò un comando. La violenza è complicità con la morte, non solo esteriormente; il fatto che tutto, noi compresi, meriti di andare in rovina,11 e che con espressioni di indifferenza del tipo «e con questo?» si continui d’altra parte a fare il proprio ottuso interesse, sono cose che andarono sempre d’accordo. Come la particolarità, in quanto legge della totalità, si compie nell’annientamento, così l’auto-conservazione, che ne costituisce il lato soggettivo, ha in tutta la sua smania di vivere qualcosa di nichilistico. - A partire da Spinoza la filosofia fu consapevole, con chiarezza incostante, dell’identità del Sé e dell’autoconservazione. Ciò che si afferma nel processo di autoconservazione, l’io, si costituisce allo stesso tempo in esso, la sua identità ha origine dal non identico. Ciò riecheggia ancora nella più estrema sublimazione idealista, la deduzione kantiana delle categorie, dove i momenti nei quali appare l’identità della coscienza e l’unità della coscienza che si connette a partire da quelli, in contrasto con il proposito di dedurre, si condizionano reciprocamente, nella misura in cui sono dati semplicemente questi momenti e non altri. L’«io penso» kantiano è soltanto l’astratto punto di riferimento di un processo di automantenimento12 e non qualche cosa di autonomo nei suoi confronti; in tal senso coincide con il Sé come autoconservazione. È vero che Heidegger, a differenza della astratta unità trascendentale di Kant, con il suo concetto d’ipseità pensa a qualcosa di affine al soggetto husserliano, certo fenomenologicamente ridotto, ma - «sospesa» la sua esistenza empirica - intero, con tutte le sue esperienze vissute.13 Però l’ipseità concreta voluta da Heidegger non si può avere senza il soggetto empirico, effettivo; essa non è una mera possibilità dell’ontico, ma è sempre al tempo stesso anche ontica. Solo in relazione al suo contenuto, in esso, si può rappresentare qualcosa sotto un Sé; non si può sottrarre l’ontico e mantenere il Sé ontologico come un residuo oppure come la struttura dell’ontico in generale; è insensato affermare di una cosa così depauperata che essa «esiste autenticamente». Perciò solo in modo dogmatico e del tutto inutile Heidegger contrappone al concetto di identità il suo concetto di Esserci: di fatto, con la definizione implicita del Sé mediante la sua autoconservazione, egli continua senza interruzioni la tradizione della dottrina dell’identità. Heidegger si è imbattuto, certo contro la sua intenzione, nella preistoria della soggettività piuttosto che svelare ontologicamente l’Esserci come fenomeno originario; infatti non lo è. Ma egli rigira il rapporto intrinsecamente tautologico del Sé e dell’autoconservazione in modo tale che esso sembri, per esprimersi in termini kantiani, un giudizio sintetico; come se l’autoconservazione e la sua antitesi, la morte, concresciuta con il senso particolare di essa, fossero ciò attraverso cui l’ipseità si determina qualitativamente.
Non appena Heidegger parla apertamente, anche la sua categoria di «Esserci» è determinata, come nel pensiero borghese degli inizi, dal principio di autoconservazione e quindi dall’ente che si autoafferma. Con parole sue: «Il momento primario della cura, ‘l'avanti a sé” significa infatti che l’Esserci esiste già sempre in vista di se stesso.»14 Sebbene Heidegger non desideri che questo «in vista di se stesso» venga inteso in senso naturalistico, gli echi naturalistici di questa espressione sono oggettivi e non possono essere cancellati; né possono essere eliminati dalla categoria heideggeriana della «cura», che per lui «costituisce la totalità dell’insieme strutturale dell'Esserci».15 Egli vuole che «lo stesso essere dell’intero» venga «concepito come un fenomeno esistenziale dell’Esserci sempre proprio»,16 che l’orientamento esistenziale venga ricavato sulla base dell’Esserci sempre proprio. In questo modo si attribuisce all’autoconservazione la posizione ontologica più importante nella cosiddetta analitica esistenziale. Ma così, di necessità, anche alla morte. La morte non soltanto determina, in quanto limite, la concezione heideggeriana dell’Esserci ma, nel corso del suo progetto, viene a coincidere con il principio di quell’ipseità astratta che si ritira in se stessa e persevera nel proprio isolamento. «Nessuno può morire al posto di un altro», come nell’idealismo kantiano nessun io può avere i vissuti di un altro, le sue «rappresentazioni». Questa verità lapalissiana conferisce a ciò che è sempre mio il suo pathos indecente. La morte diviene però il nucleo del Sé, non appena questo si riduce solo a se stesso. Liberatosi di tutte le qualità in quanto fattuali-accidentali, il Sé, povero sia materialmente che concettualmente, non ha ancora da morire: è già morto. Da qui l’accento di quella proposizione «la morte è». Per l’ontologia di Essere e tempo, il fatto che nella morte non vi sia possibilità di sostituzione diviene l’elemento essenziale della stessa soggettività; da ciò dipendono tutte le altre determinazioni sino al passaggio a quella dottrina dell’autenticità che nella morte trova non soltanto il proprio criterio, ma anche il proprio ideale. La morte diviene l’essenziale dell’Esserci.17 Ogni volta che il pensiero cerca il suo fondamento nell’individualità assoluta e isolata, di fatto tra le mani non gli resta altro che la mortalità; ogni altra determinazione proviene solo dal mondo che per Heidegger, come per gli idealisti, è secondario. «Nella morte l’Esserci sovrasta a se stesso nel suo poter essere più proprio.»18 La morte si sostituisce a Dio, per il quale lo Heidegger di Essere e tempo si sentiva ancora troppo moderno. Già il solo pensare alla possibilità dell’abolizione della morte sarebbe per lui blasfemo; l’essere-per-la-morte in quanto esistenziale è espressamente distinto dalla possibilità della sua abolizione soltanto - soltanto! - ontica. La morte, come orizzonte esistenziale dell’Esserci, sarebbe assoluta; essa acquista dunque la venerabilità propria dell’assoluto. Ne risulta una regressione al culto della morte; per questo motivo il gergo sin dagli inizi ha tollerato bene il riarmo. Ancor oggi è valida la risposta data una volta da Horkheimer a una donna infatuata della filosofia heideggeriana, che sosteneva che Heidegger avrebbe avuto almeno il merito di aver posto gli uomini di nuovo di fronte alla morte: se per questo, Ludendorff19 avrebbe provveduto meglio. Morte ed Esserci sono identificati; la morte, considerata come quel che non si addice ad altri oltre che a se stessi, si trasforma in mera identità. Sull’aspetto più scontato e banale del rapporto tra Esserci e morte, sulla loro semplice non-identità; cioè sul fatto che la morte distrugge l’Esserci o che, più esattamente, lo nega - su ciò l’analisi dell’Esserci glissa, senza però sottrarsi a sua volta alla banalità: «La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell'Esserci.»20 Così parlano i professori di liceo nel Risveglio di primavera di Wedekind. La characteristica universalis di quell’ente mortale che è l’Esserci prende il posto di ciò che effettivamente muore. Così la morte ottiene illusoriamente la posizione dell’autentico, l’Esserci viene ontologicamente «distinto»21 attraverso ciò che esso comunque è, il giudizio analitico diventa un filosofema di abissale profondità, la più vuota generalità del concetto ciò che gli è particolare; alla morte, in quanto «imminenza sovrastante specifica»,22 viene conferita un’onorificenza. Poiché fu l’esperienza filosofico-storica dell’assenza di un senso ontologico a mettere una volta in moto il filosofare di Heidegger, la sua teoria della morte fa per ciò stesso di una tale assenza, della cecità dell’ineluttabile, proprio ciò che manca. In questo modo nel suo pensiero viene messo allo scoperto quel vuoto che risuona dal gergo, non appena lo si percuote.23 Tautologia e nichilismo stringono una santa alleanza. La morte può essere esperita solo come una cosa insensata. Questo sarebbe il senso dell’esperienza della morte e al tempo stesso, giacché essa costituirebbe l’essenza dell’Esserci, il senso dell’Esserci. L’irrecuperabile metafisica hegeliana, che aveva il suo Assoluto affermativo nella totalità delle negazioni, viene interiorizzata e ridotta a un punto privo di dimensioni, ma in una simile costruzione si trasforma nella hegeliana «furia del dileguare»,24 nell’immediata teodicea dell’annientamento.
Nel corso della storia il pensiero dell’identità è stato un portatore di morte, ciò che soffocava tutto. Virtualmente l’identità cerca sempre solo la totalità; l’Uno come punto privo di determinazione e l’Uno-tutto - altrettanto indeterminato giacché non ha alcuna determinazione fuori di sé - sono la medesima cosa. Ciò che non tollera nulla al di fuori di sé, è concepito in Heidegger, e da sempre nell’idealismo, come totalità. La minima traccia al di là di tale identità sarebbe altrettanto insopportabile quanto lo è per i fascisti colui che è diverso anche nell’angolo più remoto della terra. Proprio per questo motivo l’ontologia di Heidegger vuole eliminare ogni fatticità: essa infatti smentirebbe il principio di identità, non avrebbe la stessa natura del concetto che vorrebbe nascondere a vantaggio appunto del suo dominio universale di essere concetto; i dittatori incarcerano proprio coloro che li chiamano «dittatori». Ma l’identità che senza eccezioni non fosse identica a nient’altro che a se stessa si autoannienta; se non si dirige più verso un Altro, se non è più identità di qualcosa, essa, come Hegel capì, non è proprio più. La totalità dunque è il movente anche delle considerazioni di Heidegger sulla morte. Esse riguardano quel concetto di totalità,25 inteso come ciò che è costitutivamente preordinato alle sue parti, che il predecessore di Heidegger, Scheler, aveva già trapiantato dalla «psicologia della forma», che da principio aveva meno pretese, nella metafisica. Nella Germania prefascista «totalità» era lo slogan di tutti coloro che se la prendevano con il secolo xix, messo da parte sommariamente come fuori moda. In maniera particolare l’attacco era rivolto contro la psicoanalisi che era simbolo dell’illuminismo in genere. Negli anni della prima pubblicazione di Essere e tempo, la dottrina della priorità del tutto sulle parti esercitò il fascino dell’ideale su tutto il pensiero apologetico e lo esercita ancor oggi sugli adepti del gergo; Heidegger, apertamente e senza complimenti, trasse questa dottrina dai modi di pensare allora correnti. Che la filosofia abbia il compito di progettare la totalità era per lui un dogma tanto forte, quanto per un idealista lo era stato il dovere di pensare sistematicamente:
Nasce pertanto il compito di realizzare la predisponibilità dell’Esserci come totale. Il che coincide con l’esigenza di impostare una buona volta il problema della possibile interezza di questo ente. L’Esserci, finché c’è, è sempre privo di qualcosa che esso può essere e sarà. Ma di questa privazione fa parte la stessa «fine». La fine dell’essere-nel-mondo è la morte. Questa «fine», rientrando nel potere-essere, cioè nell’esistenza, delimita e determina la sempre possibile totalità dell’Esserci.26
Il modello era fornito in modo particolare dalla «forma buona» gestaltica, che era un esempio di quella concordia tra interno ed esterno che verrebbe distrutta dalla «coscienza come destino». A sua volta però tale concezione reca i segni della stessa divisione scientifica del lavoro contro cui impreca il suo orientamento antimeccanicistico. In essa l’interiorità dei singoli viene considerata intatta, indipendentemente dalla realtà sociale. Se vi sia una perfetta unità tra il soggetto e l’ambiente dipenderebbe dal soggetto. Esso diventerebbe totalità solo nella misura in cui non si pone in atteggiamento riflessivo di fronte alla realtà. In questo modo l’adattamento, la remissività sociale è già fatta scopo di una categoria in apparenza solo antropologica o esistenziale come quella di totalità. Un’aprioristica presa di posizione a favore del soggetto, che è dello stesso genere di quella esercitata poi dal gergo in nome dell’uomo, fa scomparire la domanda se la realtà, con la quale gli uomini devono concordare immediatamente per farsi essi stessi totalità, meriti l’approvazione; se non sia proprio essa alla fine, in quanto eteronoma, a non concedere loro la totalità, e se l’ideale di totalità non favorisca la loro repressione e la crescente disgregazione degli individui resi impotenti. L’atomizzazione dell’uomo, come espressione (Ausdruck) dello stato generale delle cose, è anche la verità; essa potrebbe essere cambiata solo modificando appunto lo stato generale delle cose, non è né da negare ricorrendo aU’«uomo», né da addossare all’oblio dell’Essere di coloro che la riconoscono. Il leggero disagio di Heidegger verso un ottimismo che, avendo scoperto la forma già strutturata prima di qualsiasi armatura concettuale, era segretamente convinto di aver provato in laboratorio l’esistenza di Dio, si nascose nella domanda retorica ed involontariamente comica, se a proposito della morte si potesse parlare di totalità; la tesi che vi sia una struttura immediatamente data e oggettiva gli giunse però a proposito. Con una costruzione di fortuna egli congiunse l’impegno, subito accettato, di fondare la totalità all’esperienza della vita letteralmente gracile, di cui aveva bisogno d’altra parte il volto di ciò che è tremendamente serio. Si tratta secondo uno schema hélas hegeliano, da lui per così dire rispiattellato meccanicamente, justement della gracilità dell’Esserci. La morte ne farebbe una totalità. La finitezza, la fragilità dell’Esserci lo terrebbero unito essendone il principio. Poiché la negatività, nonostante tutti i crucci esistenziali, è tabù, Heidegger non centra quello a cui egli mira. Se la filosofia potesse in qualche modo determinare la struttura dell’Esserci, essa lo considererebbe come due cose in una, come disgregato e intero, come identico con sé e non identico, e ciò porterebbe certo a una dialettica che andrebbe oltre la progettata ontologia dell’Esserci. In Heidegger però, grazie a quella dottrina, il negativo, in quanto essenza, in modo più scoperto che altrove, si trasforma semplicemente e adialetticamente nel positivo. Egli ha incorporato nella filosofia la teoria psicologico-scientifica della totalità; l’antitesi tra l’ente disgregato e l’Essere eleaticamente armonico viene tacitamente addebitata sul conto del pensiero meccanicistico - il primo capro espiatorio è Aristotele. Che questo pensiero - secondo una delle espressioni più sospette di un ritornello ripetuto a sazietà - «debba essere oltrepassato»27 era anche per Heidegger al di là di ogni dubbio; tale orientamento gli procurò la doppia aureola della modernità e della classicità. Il linguaggio irrazionalista dei lacchè degli anni venti delirava sull’«unità corpo-anima». Il nesso dei momenti dati con l’intero si vuole che sia il senso degli uomini reali, come nell’arte; seguendo l’esempio dello Jugendstil, ci si consola dell’empiria sconsolata estetizzandola. L’analitica heideggeriana della morte si contenta comunque con prudenza di riferire la categoria della totalità a quella dell’Esserci piuttosto che ai singoli individui. Il debito contratto con il teorema psicologico della totalità - su un piano linguistico, rinunciando a parlare di causalità si strappano alla natura le presunte totalità per trasferirle nella trascendenza dell’Essere - alla fine viene però saldato. Infatti questa trascendenza non è per l’appunto tale; essa non oltrepassa kantianamente la possibilità dell’esperienza, ma si presenta come se fosse la stessa esperienza ad accorgersi di essa, subito e senza possibilità di errore, per così dire a tu per tu. All’antintellettualismo giova una fittizia vicinanza corporale ai fenomeni. L’orgoglio di possederla senza deformazioni si basa, senza che lo si dica espressamente, sulla sentenza che a scomporre il mondo in elementi cosali sarebbe il pensiero analitico e non l’istituzione sociale. Secondo le vecchie regole della branca accademicofilosofica si continua a parlare di analisi, ma essa non ha più voglia di analizzare niente.
Il capitolo centrale di Essere e tempo tratta «la possibile interezza (Ganzseìn) dell’Esserci e l’essere-per-la-morte».28 In esso si pone la domanda - come poi risulta - solo retorica, se «questo ente, in quanto caratterizzato dall’esistenza in generale, possa rendersi accessibile nella sua interezza».29 La «possibile interezza di questo ente»30 potrebbe infatti contraddire apertamente l’autoconservazione ontologizzata come cura. Ma Heidegger sorvola sul fatto che nella sua determinazione ontologica della cura «quale totalità dell’insieme strutturato dell’Esserci»,31 per mezzo della trasposizione del singolo esistente in Esserci, era già stata stipulata quella totalità che egli poi svela in modo circostanziato. Immanentemente è prevedibile in Heidegger ciò che egli espone in seguito con tanta sicurezza: il fatto che si debba morire non pregiudicherebbe a priori la possibilità che la vita di un uomo, come vuole un’immagine biblica ed epica, possa farsi totalità. Heidegger può essere stato indotto allo sforzo di fondare la totalità esistenziale dal fatto innegabile che la vita dei singoli oggi ne fa a meno.32 Contro l’esperienza storica si vuole che essa sopravviva. Per questo scopo l’interezza dell’ente, verso cui va a parare la teoria di Heidegger - il gergo ne ha fatto «ciò che sta a cuore» - viene distinta, secondo uno stile già sperimentato, dall’ente che è soltanto la somma delle sue parti, «che è privo ancora di qualcosa».33 Quest’ultimo avrebbe come «modo d’essere lo stare a portata di mano»;34 ad esso viene contrapposta quell’interezza che, innalzata al di sopra della vita empirica degli individui, si trasforma in totalità esistenziale.
La completezza dell’Esserci durante il suo «decorso», sino a quando cioè non ha compiuto il suo «corso», non si costituisce per mezzo di un’aggiunta «sempre corrente» di un ente, che di per sé in qualche modo e «in qualche posto sta a portata di mano». L’Esserci non è completo solo quando il suo non-ancora si è riempito, tant’è vero che esso poi appunto cessa di esistere. L’Esserci esiste già sempre in modo che il suo non-ancora gli appartiene.35
Ciò è valido solo nella misura in cui nel concetto di Esserci è già implicita la mortalità e si presuppone la filosofia di Heidegger. Poiché per l’ontologo non è lecito che l’interezza sia l’unità dell’intero contenuto della vita reale, ma deve essere qualitativamente un terzo,36 l’unità non viene ricercata in una vita in sé armonica, articolata e continua, ma nel punto che la limita e che l’annienta insieme alla sua totalità. In quanto irreale, oppure quanto meno come realtà sui generis al di fuori della vita, questo punto sarebbe, ancora una volta, ontologico:
Questa incompletezza tipica di un tal modo di completezza, la mancanza come privazione, non è affatto in grado di determinare ontologicamente il «non-ancora» che è proprio dell’Esserci come morte possibile. Questo ente non ha per nulla il modo d’essere di una cosa intramondanamente a portata di mano.37
La morte, strappata alla fatticità, fonda ontologicamente la totalità. Ma in tal modo la morte dà senso a quella disgregazione sotto il cui titolo la topografia ontologica registra l’atomizzazione della coscienza nell’epoca tardoindustriale, secondo un costume intellettuale non messo in dubbio da Heidegger, che non esita a considerare ogni totalità strutturata come dotata di senso proprio, anche se essa è la contraddizione di ogni senso. Della morte, che è la negazione dell’Esserci, si può quindi predicare con enfasi l’Essere.38 Solo la morte, costituente ontologico dell’Esserci, gli conferisce la dignità della totalità: «La morte come fine dell’Esserci è la possibilità dell’Esserci più propria, irrapportabile, certa e come tale indeterminata e insuperabile. »39 Heidegger dà poi una risposta negativa alla domanda che egli stesso aveva posto all’inizio, al solo scopo di confutarla:
Ecco perché non è legittimo dedurre formalmente dal «non-ancora» dell’Esserci, interpretato per di più in maniera ontologicamente inadeguata come privazione, il suo non-essere intero. Il fenomeno del nonancora derivante dall’«avanti-a-sé», come del resto la struttura della cura in generale, sono così poco istanze valide contro una esistente interezza possibile, che proprio l’«avanti-a-sé» è ciò che rende possibile l’essere per la fine. Il problema della possibile interezza di quell’ente che già da sempre noi stessi siamo sussiste legittimamente solo se la cura, in quanto costituzione fondamentale dell’Esserci, «coerisce» con la morte quale possibilità estrema di questo ente.40
Da un punto di vista ontologico l’Esserci dovrebbe la sua interezza proprio a quella morte che onticamente lo distrugge. Ma essa, in quanto strappata al Si, sarebbe autentica. Per questo scopo si ricorre alla sua impossibilità di sostituzione. Disapprovando come manifestazioni del Si tutti i comportamenti reali pensabili nei confronti della morte - secondo il suo verdetto solo il Si parla «della morte come di un “caso” che ha luogo di continuo» -41 Heidegger mette a nudo il suo concetto di morte autentica, la cosa più reale di tutte e ciò nonostante al di là della fatticità. Non essendovi possibilità di sostituzione, essa diventa aconcettuale come il mero questo-qui; il suo concetto l’avrebbe già anticipata e la sostituirebbe proprio come fanno i concetti con ciò che essi sussumono. Heidegger però diffama al tempo stesso quella fatticità senza la quale non potrebbe parlare di impossibilità di sostituzione; infatti, come concetto generale, la morte denoterebbe quella di tutti e non più quella sempre propria. Si vuole che la morte come evento, quella fattuale, non sia la morte autentica; perciò la morte ontologica non fa poi tanta paura:
Il mondo pubblico con il quale si convive quotidianamente «conosce» la morte come accadimento che avviene di continuo, «come caso di morte». Questo o quel conoscente, vicino o lontano, «muore». Degli sconosciuti «muoiono» ogni giorno e ogni ora. «La morte» la si incontra come un evento intramondano noto a tutti. In quanto tale essa ha la caratteristica che è propria di tutto ciò che si incontra ogni giorno, quella di non dare nell’occhio. Il Sì ha già pronta un’interpretazione anche per questo evento. Ciò che se ne dice in modo esplicito o, più spesso, a bassa voce e di sfuggita è questo: una volta o l’altra si morirà, ma per ora si è ancora vivi.42
Nella ioga di distinguere tra la morte come evento e la morte come qualcosa di autentico, Heidegger non indietreggia spaventato davanti al sofisma:
L’analisi del «si muore» svela inequivocabilmente il modo d’essere dell’essere-quotidiano-per-la-morte. In un discorso del genere la morte è concepita come qualcosa di indeterminato, che, certamente, un giorno o l’altro finirà per accadere, ma che, per ora, non è ancora presente e quindi non ci minaccia. Il «si muore» diffonde la convinzione che la morte riguardi per cosi dire il Si anonimo. L’interpretazione pubblica dell’Esserci usa l’impersonale «si muore» affinché ciascun altro e il soggetto in prima persona possano dirsi: anche questa volta non si tratta di me. Infatti il Si è nessuno.43
L’interpretazione secondo cui la morte riguarderebbe, per così dire, il Si anonimo presuppone l’ipostasi heideggeriana degli esistenziali, il cui lato negativo è il Si, e non considera, distorcendolo, ciò che è corretto in quel discorso, sebbene sia trito e ritrito: il fatto che la morte è una determinazione generale che comprende tanto l'alter ego quanto il proprio. Chi dice «si muore» include se stesso, anche se in termini eufemistici; il rinvio, disapprovato da Heidegger, corrisponde tuttavia al vero; chi parla dev’essere effettivamente ancora vivo, altrimenti non potrebbe parlare. D’altra parte, argomentazioni di tal genere, indotte da Heidegger, si muovono per forza di cose nella sfera del non-senso, che a sua volta sbugiarda l’autenticità che dovrebbe cristallizzarsi al suo interno come pietra filosofale; se qualcosa si addice al Si, si tratta appunto di questo prò e contro. L’«avvenimento» poco apprezzato da Heidegger, che «non concerne nessuno in proprio»,44 concerne, secondo l’uso corrente del linguaggio, senz’altro qualcuno, esattamente colui che muore; solo una filosofia solipsista potrebbe attribuire alla morte «mia» un primato ontologico su quella di chiunque altro. Anche emotivamente la morte viene esperita prima nella morte altrui che in quella propria. Lo Schopenhauer del quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione non se lo è lasciato sfuggire:
Anche in lui, come nell’animale che non pensa, agisce di continuo quella certezza, sorgente dalla coscienza più profonda di essere la natura, il mondo stesso, in virtù della quale il pensiero della morte certa e mai lontana non turba in modo rilevante alcun uomo, bensì ciascuno vive senza pensieri, come se dovesse vivere eternamente; la qualcosa arriva al punto che si potrebbe dire che nessuno ha una convinzione davvero viva della certezza della propria morte, poiché altrimenti tra il suo stato d’animo e quello del malfattore condannato a morte non potrebbe esserci una differenza tanto grande; ciascuno riconosce certo quella certezza in abstracto e teoricamente, ma la mette da parte come altre verità teoriche non applicabili alla prassi, senza che la sua coscienza vivente in qualche modo la recepisca.45
Nel Si heideggeriano confluiscono torbidamente quel che è un mero derivato ideologico del rapporto di scambio, gli idola fori dei discorsi e degli avvisi funebri, e quell’umanità che identifica non gli altri, ma sé con l’Altro, che preme per superare il bando, esercitato dalla ipseità astratta e che ne coglie la mediazione. Il generico verdetto di condanna contro quella sfera che la filosofia, in modo assai dubbio, chiamò «intersoggettività» spera di conseguire una vittoria sulla coscienza reificata ricorrendo a un soggetto primario che si presume non reificato, ma che in verità è tanto poco un qualcosa di immediato e di primo quanto una qualsiasi altra cosa.
La morte - dicono le frasi chiave di Heidegger - è la possibilità più propria dell’Esserci. L’essere per essa apre all’Esserci il poter-essere più proprio, in cui ne va dell’essere dell’Esserci come tale. Nella morte si fa chiaro all’Esserci di essere sottratto al Si in questa che è la più specifica delle sue possibilità; cioè di potersi già sempre sottrarre ad esso, anticipandosi.46
La morte diviene l’essenza dell’Esserci mortale in contrasto con il dato più banale che esso appunto c’è e questo fa artificiosamente della morte una morte soprannaturale, salvata da quel Si di cui è la controfigura pregiata, l’autentico; l’autenticità è la morte. L’isolamento del singolo nella morte: il fatto che la sua «irrapportabilità» isoli «l’Esserci in se stesso»47 diventa sostrato dell’ipseità. Questo chiudersi in se stesso è l’estremo rafforzamento del Sé nell’autonegazione, l’archetipo dell’ostinazione. In realtà l’ipseità astratta, ossia in extremis lo stringere i denti che non fa altro che ripetere «io», «io», «io», è tanto insignificante quanto ciò che il Sé diviene dopo la morte; ma il linguaggio di Heidegger gonfia questo negativo facendone una sostanza. Questo è il contenuto dal quale poi è tratto lo schema per la procedura formale del gergo. La dottrina di Heidegger finisce per fornire involontariamente un’esegesi della ignobile battuta «la morte è gratis, però costa la vita». Heidegger si è entusiasmato della morte presumendo che essa sia ciò che è completamente sottratto al rapporto universale di scambio: non si accorge che essa resta prigioniera dello stesso cerchio fatale del rapporto di scambio da lui sublimato nel Si. Intesa come ciò che è assolutamente estraneo al soggetto, la morte è il modello di ogni reificazione. Solo l’ideologia la celebra come strumento di salvezza contro quello scambio da essa disprezzato come la forma di eternità più disperata, mentre lo scambio potrebbe essere redento se finalmente avvenisse in modo equo. Poiché per Heidegger l’Esserci, a causa della sua umiliante forma storica, non è in grado di autolegittimarsi, esso può allora trarre legittimazione solo dal suo annientamento, che coinciderebbe con lo stesso Esserci. Ne deriva la massima suprema che le cose stanno così, che ci si deve piegare (positivisticamente: adattare); ne deriva l’ordine meschino di ubbidire a ciò che è. Neanche di ubbidire; l’Esserci non ha comunque scelta, per questo la morte è nei suoi confronti così ontologica. Se si chiamasse non ideologico un pensiero che avvicina l’ideologia al valore limite del nulla, Heidegger sarebbe non ideologico. Ma la sua operazione, per la pretesa di dischiudere il senso dell’Esserci, diviene ancora una volta ideologica, in modo simile alle voci oggi correnti di fine dell’ideologia, che colpiscono l’ideologia ma intendono colpire la verità.
Con la proposizione «il Si non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte»,48 Heidegger smaschera effettivamente dei domini dell’ideologia, in particolare il tentativo, parodiato da Evelyn Waugh nel Caro estinto, di integrare la morte in quella stessa immanenza sociale che non ha alcun potere su di essa. Alcuni brani di Heidegger colgono molto da vicino il meccanismo di rimozione della morte: «Tentazione, tranquillizzazione ed estraneazione caratterizzano il modo d’essere della deiezione. L’essere-per-la-morte quotidiano, in quanto deiettivo, è una fuga costante davanti ad essa.»49 Ma «estraneazione» denomina un rapporto sociale: anche quello con la morte; l’uomo e le istituzioni funebri riproducono commercialmente la volontà inconscia di dimenticare ciò di cui si deve aver paura. Non v’è bisogno dell’ontologia fondamentale e della sua nomenclatura per sapere che:
Il Si procura una costante tranquillizzazione nei confronti della morte. Ma essa riguarda in fondo non solo il «morente», ma altrettanto i «consolanti». E anche in caso di decesso, la gente non deve essere turbata nella sua tranquillità e nel suo curato non prendersi cura. Non di rado si vede nella morte degli altri un disturbo sociale o addirittura una mancanza di tatto dalla quale la gente deve esser protetta.50
Infatti l’assessore Brack di Ibsen aveva già apostrofato il suicidio di Edda Gabler con la battuta finale: «cose del genere, non si fanno». Heidegger, che con la psicologia non vuole aver niente da spartire, ha colto da vero psicologo la natura reattiva dell’integrazione della morte. Tuttavia ciò che egli ha colto da psicologo in Essere e tempo viene ritradotto in codice:
Ma nella stessa fuga deiettiva davanti alla morte la quotidianità dell’Esserci testimonia che il Si è pur sempre costituito da un essere-perla-morte, anche se non prende esplicitamente la forma di un «pensare alla morte». Anche nella quotidianità media, l’Esserci si muove costantemente in questo poter-essere più proprio, irrapportabile e insuperabile, sia pure solo nel modo del procurare una indifferenza opaca contro la possibilità estrema della propria esistenza.51
Ciò nonostante egli non si spinge fino al punto di poter cogliere e rispettare la disperazione che affiora nei crampi del «godetevi la vita», oppure nello stupido detto da lui giustamente disprezzato «un giorno o l’altro si finirà per morire, ma per ora ancora no»,52 tramite cui viene rimossa appunto quella stessa disperazione. La protesta contro la rimozione della morte sarebbe al suo posto in una critica dell’ideologia liberale. Questa protesta dovrebbe ricordare quella primitività che la cultura diniega, perché essa, misconoscendosi come antitesi della natura, ne è, in quanto dominio, l’inconsapevole prosecuzione. Ma Heidegger, non diversamente dal fascismo, propugna la forma più brutale di primitività contro quella più mediata, più sublimata. L’heideggeriano essere-per-la-morte sta irrazionalmente a fronte della rimozione irrazionale della morte. Questa rimozione viene imposta da una vita convenzionalizzata, modellata secondo la forma della merce; non da una struttura delI’Essere, sia pure difettiva. È pensabile una condizione sociale nella quale gli uomini non avrebbero necessità di rimuovere la morte, dove forse potrebbero avere un’esperienza di essa che non sia di angoscia, marchio di quel brutale stato di natura eternizzato con parole soprannaturali dalla dottrina di Heidegger. La morte viene rimossa per cieca autoconservazione; tale rimozione è corresponsabile dell’orrore di essa. In una vita non più deformata, non più avara, in una vita che dà agli uomini quel che spetta loro, essi non avrebbero più bisogno di sperare invano che essa conceda ancora ciò che non viene concesso e perciò non avrebbero bisogno nemmeno di temere così tanto di perderla, nonostante che una tale angoscia sia profondamente connaturata in loro.53 Dal fatto comunque che gli uomini rimuovono la morte non si può desumere che la morte stessa sia l’autentico; e meno che mai lo si può da Heidegger, il quale si guarda bene dall’attestare l’autenticità a coloro che non la rimuovono.
Heidegger stesso, con una sorta di lapsus filosofico, contraddistingue l’ontologizzazione della morte affermando che la certezza di essa sarebbe qualitativamente preordinata a quella degli altri fenomeni; egli certo rinnega questa affermazione e la attribuisce alla quotidianità:
Attraverso la situazione emotiva tipica della quotidianità e mediante un atteggiamento di superiorità procurato «ansiosamente», anche se apparentemente privo di angoscia davanti al «fatto» certo della morte, la quotidianità tradisce una certezza «più alta» di quella puramente empirica.54
Il comparativo «più alta» ha, nonostante le virgolette, il valore probatorio di una confessione in cui si ammette che la teoria sanziona la morte. Il partigiano dell’autenticità commette il peccato di cui incolpa le minores gentes del Si. Grazie all’autenticità della morte egli scappa al suo cospetto. Né ciò che qui si annuncia nella forma di una certezza più alta di quella meramente empirica, né una morte wagneriana d’amore o di redenzione, possono purificare lo squallore e la puzza del crepare animale, ma sono piuttosto simili a quell’inserimento della morte nell’igiene che Heidegger rimprovera agli inautentici. Tramite ciò che è taciuto dall’alta stilizzazione della morte ad autenticità, egli diventa complice di ciò che c’è di ripugnante in essa.
Persino nel materialismo cinico da sala anatomica questo aspetto ripugnante è riconosciuto con maggiore onestà, è denunciato in modo oggettivamente più forte che nelle tirate ontologiche.
Il loro nucleo è la certezza metempirica della morte, intesa come esistenzialmente preordinata all’Esserci; il non recare tracce di esperienza trapassa nel suo originario significato non metaforico, nel non recare tracce di sporcizia. Ma la morte non è in nessun senso pura; e non è niente di apodittico. Altrimenti le promesse delle grandi religioni farebbero parte dell’oblio dell’Essere. Ma qui non v’è alcun bisogno di esse. Come alcuni organismi inferiori non muoiono nello stesso senso degli organismi evoluti e individuati, così, in considerazione del potenziale di controllo sui processi organici che si va profilando, non si deve a fortiorì escludere il pensiero di una abolizione della morte. Essa può essere molto inverosimile; e tuttavia si può pensare quel che, da un punto di vista ontologico-esistenziale, non è lecito nemmeno pensare. L’affermazione della dignità ontologica della morte perde comunque ogni valore già solo in considerazione della possibilità che essa si trasformi, come dice Heidegger, «onticamente». Mentre Heidegger soffoca tali speranze, come dicono gli inquisitori, «in germe», l’autentico parla per tutti coloro che, non appena sentono parlare di quel potenziale, intonano il coro che niente sarebbe peggiore che l’assenza della morte. E' lecito supporre che si tratti ogni volta di adepti del gergo. L’entusiasmo a favore dell’eternità della morte è la perpetuazione della minaccia di morte e sostiene politicamente l’inevitabilità delle guerre. Kant, che accolse l’immortalità tra le idee, non si rimise a quel tipo di profondità nella quale non prospera altro che la conferma del fin troppo abituale. Con la realizzazione del passaggio dalla materia inorganica a quella vivente l’orizzonte esistenziale heideggeriano della morte verrebbe scosso dalle fondamenta. Nulla più di una simile prospettiva risulterebbe allergico alla sua filosofia e a tutto ciò che nuota con essa, comprese anche le ultime fogne della religiosità ontologica tedesca. L’accordo con l’ente, che motiva la sua dislocazione nell’Essere, vive della complicità con la morte. Nella sua metafisica fermenta tutta la sventura alla quale la società borghese è condannata fisicamente in conseguenza del suo proprio processo di sviluppo.
Di nascosto la dottrina dell'«anticipazione», in quanto essere-per-la-morte autentico, «possibilità dell’anticipazione dell’Esserci totale, cioè possibilità di esistere concretamente come poter-essere totale»,55 si trasforma in ciò che l’essere-per-la-morte non voleva e che tuttavia deve essere, se si vuol esprimere più che una tautologia: si trasforma in un atteggiamento. Certo resta inespresso che cosa potrebbe distinguere questo atteggiamento dal fatto che si debba morire, ma a conferirgli dignità deve essere proprio l’accettazione muta e irriflessa di tale necessità.
L’anticipazione non evade l’insuperabilità come fa l’essere-per-la-morte inautentico, ma al contrario si rende libera per essa. L’anticipante farsi libero per la propria morte affranca dalla dispersione nelle possibilità che si presentano casualmente, in modo che le possibilità effettive, cioè situate al di qua di quella insuperabile, possono essere comprese e scelte autenticamente. L’anticipazione dischiude all’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinunzia a se stessa, spezzando in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali già raggiunte.56
Solo di rado le parole di Heidegger hanno tanta verità come queste ultime. L’avere consapevolezza di sé in quanto natura potrebbe costituire al tempo stesso una riflessione critica sul principio di autoconservazione; la vita retta potrebbe essere quella che non si irrigidisce «su posizioni esistenziali già raggiunte». Nel momento in cui però nella dottrina della morte di Heidegger un tale modo di comportarsi viene estrapolato dall’Esserci e lo si trasforma nel suo senso positivo; nel momento in cui persino l’autorinunzia del Sé rafforza la sua autorità, Heidegger rovina quel che gli si schiude. Il rendersi libero si irrigidisce nell’ostinazione che fa della dissoluzione del Sé il suo stesso porsi, una stoica inflessibilità; tramite la rigida identificazione con il Sé, esso diventa l'assolutizzazione del principio di negazione. Con quella di ostinazione sono concatenate tutte le categorie tramite le quali poi Heidegger delucida l’essere-per-la-morte autentico: la possibilità della morte deve «essere sopportata»;57 ciò che dovrebbe essere qualcos’altro che irrigidimento e violenza, la incrementa al massimo. Per Heidegger il soggetto non è mai così autentico come nella sopportazione, secondo il modello dell’io che sopporta l’estremo limite del dolore. Persino quel che egli oppone all’irrigidimento del Sé conserva nel linguaggio i tratti della sua violenza: infatti viene definito come uno «spezzare».58 Come per lui l’Esserci - il soggetto - in realtà è morte, così l’esser-per-la-morte è soggetto, volontà pura. A una risolutezza di tipo ontologico non è consentito domandare per cosa essa muore. L’ipseità intatta ha l’ultima parola: «L’apertura autentica ed eccellente, attestata nell’Esserci stesso dalla sua coscienza, cioè il tacito e angoscioso autoprogettarsi nel più proprio esser colpevole, è ciò che chiamiamo risolutezza. »59 Il coraggio dell’angoscia sarebbe però la vita retta e non quella ideologica, solo qualora non dovesse più prestarsi come ideologia per tutto ciò che è da temere.
Il gergo dell’autenticità è ideologia sotto forma di linguaggio ancor prima di ogni contenuto particolare. Essa conferisce senso tramite quel gesto di dignità con cui Heidegger riveste la morte. Anche la dignità è di natura idealista. Una volta il soggetto si sentiva un piccolo dio tanto nella coscienza della propria libertà quanto come legislatore dominante. La dignità di tono heideggeriano ha estirpato questi motivi:
Come potrebbe mai arrivare una umanità nel ringraziare originario, se il favore dell’Essere, attraverso l’aperto riferimento a se stesso, non concedesse all’uomo la nobiltà di quella povertà in cui la libertà del sacrificio nasconde il tesoro della sua essenza? Il sacrificio è il congedo dell’ente sulla via che salvaguarda il favore dell’Essere. Il sacrificio può essere senz’altro preparato e aiutato attraverso il lavorare e l’operare nell’ente, ma per mezzo di essi non può mai essere compiuto. La sua attuazione scaturisce solo dall’insistenza a partire dalla quale ogni uomo storico agendo - e anche il pensare essenziale è un agire - conserva l’Esserci acquisito per la salvaguardia della dignità dell’Essere. Quest’insistenza è l’impassibilità che non si lascia turbare nella sua segreta disponibilità a quel congedo che è l’essenza di ogni sacrificio. Il sacrificio è di casa nell’essenza dell’evento in cui l’Essere reclama l’uomo per la verità dell’Essere. Questa è la ragione per cui il sacrificio non tollera alcun calcolo, in base al quale ogni volta lo si conta come utile o come inutile, siano gli scopi posti in alto o in basso. Un simile calcolo storpia l’essenza del sacrificio. La brama di scopi turba la chiarezza del timore, pronto all’angoscia, dello spirito di sacrificio, che si è creduto capace della vicinanza all’indistruttibile.60
La solennità di tali proposizioni, nelle quali la dignità - quella però dell’Essere, non quella degli uomini - ha il suo peso, si distingue da quella dei funerali secolarizzati solo nell’entusiasmo per il sacrificio irrazionale: così potevano parlare gli ufficiali dell’aeronautica quando, ritornati da una città appena devastata, bevevano champagne alla salute di coloro che non avevano fatto ritorno. La dignità non fu mai molto meglio dell’istinto di autoconservazione che si finge superiore; la creatura mima il creatore. Con la categoria della dignità la società borghese fece propria una categoria feudale, che essa offre a posteriori per legittimare il suo ordine gerarchico. Essa ha sempre avuto la tendenza all’impostura, com’è messo in luce dalle arie che si danno i delegati d’animo conformista in occasioni solenni. La dignità heideggeriana è a sua volta l’ombra di tale ideologia presa in prestito; al posto del soggetto, che basava la propria sulla richiesta pitagorica, sia pur problematica, di essere un buon cittadino in uno stato buono, compare ancora soltanto il rispetto che spetterebbe al soggetto, perché deve morire come tutti gli altri. In tal senso Heidegger è involontariamente democratico. L’identificazione con l’irreparabile è, sotto forma di sacrificio, tutta la consolazione offerta dalla filosofia consolatoria: l’ultima identità. Il logoro principio dell’autoporsi dell’io, che si mantiene in vita orgogliosamente conservando la propria vita a spese degli altri, viene rivalutato grazie a quella morte che lo uccide. Davanti alla filosofia heideggeriana si chiuse ciò che una volta costituiva l’ingresso alla vita eterna; essa adora invece di questa l’imponenza e l’ampiezza del portone. Il vuoto diviene l'arcanum della permanente infatuazione per il numinoso nascosto. Anche di fronte a persone dal carattere chiuso si ha spesso il dubbio se la profondità della loro interiorità, com’esse fanno credere, ha timore di essere profanata, oppure se la loro freddezza ha tanto poco da dire, quanto poco le dice una qualunque cosa.
Il resto è rispetto dei morti; nel caso più umano esso prende la forma di quei sentimenti disperatamente instabili propri di coloro che hanno perduto una persona da loro amata, nel caso peggiore quella del convenu, che santifica la morte con pensieri rivolti alla volontà e alla grazia divina, anche laddove la teologia è svanita. Tutto ciò viene sfruttato dal linguaggio e diviene lo schema del gergo dell’autenticità. La dignità di cui fa sfoggio è una formazione reattiva alla secolarizzazione della morte; il linguaggio vuole fermare ciò che si perde senza credervi e senza nominarlo. La nuda morte si trasforma in quel contenuto del discorso che esso potrebbe avere solo in un trascendente. Ciò che vi è di falso nella donazione di senso, la trasformazione del nulla nel qualcosa, produce la mendacia del linguaggio. Cosi lo Jugendstil, alla maniera d’una negazione astratta, voleva di per sé riversare senso su una vita sperimentata come insensata. Nelle nuove tavole di Nietzsche era scolpito il suo manifesto chimerico. Nulla di simile si può ancora carpire volutamente all’Esserci tardo-borghese. Proprio perciò si riversa senso sulla morte. E infatti i drammi del tardo Ibsen, dove l’autodistruzione, compiuta per libertà, della vita imbrigliata senza via d’uscita nelle convenzioni costituiva lo sbocco dell’azione, si concludevano come se essa fosse il compimento. Ciò non differisce molto dal significato di purificazione dato alla morte nella cremazione laica. Ma la forma drammatica lasciava scoperta la vanità del gesto; il senso soggettivamente consolatorio dell’autoannientamento rimaneva oggettivamente sconfortante. L’ironia tragica aveva l’ultima parola. Quanto più cresce l'irrilevanza sociale dell’individuo, tanto più diminuisce la sua capacità di constatare con distacco la propria impotenza; esso deve pavoneggiarsi da ipseità, così come la futilità di essa da autenticità, da Essere. L’involontaria parodia di Heidegger, compiuta da un autore61 che ha pubblicato di seguito due libri dal titolo Incontro con il Nulla e Incontro con l’Essere, non va messa nel conto di questi, ma del modello che si crede superiore a tali depravazioni. Anche Heidegger incontrò il Nulla, ma solo al fine di una migliore propedeutica dell’Essere. L’accento heideggeriano viene profetizzato nella discussione di Schiller sulla dignità, intesa come un atteggiamento di chiusura o di irrigidimento in se stessi.
Mentre nei teatri o nelle sale da ballo si ha occasione di osservare la grazia affettata, nei gabinetti dei ministri e nelle stanze di studio dei dotti (in particolar modo nelle università) si può spesso studiare la falsa dignità. Mentre la dignità vera si limita a impedire il dominio dell’emotività e ostacola l’istinto naturale solo laddove esso vuole fare da maestro, cioè nei moti involontari, la dignità falsa governa con uno scettro ferreo anche quelli volontari, reprime tanto i moti morali, sacri per la dignità vera, quanto quelli sensuali e spegne l’intero gioco mimico dell’animo nei tratti del volto. Essa, che è rigida non soltanto contro la natura che fa opposizione, ma dura persino contro quella sottomessa, cerca la sua ridicola grandezza nel soggiogare e, dove un tale soggiogare non è possibile, nel nascondimento della stessa. Proprio come se avesse giurato un odio irriconciliabile verso tutto ciò che si chiama natura, essa pone il corpo in lunghi vestiti a pieghe che nascondono l’intera struttura corporea dell’uomo, limita l’uso delle membra facendo un ingombrante sfoggio di inutili ornamenti e taglia persino i capelli per sostituire il dono della natura con un cattivo lavoro dell’arte. Dove la vera dignità, che non si vergogna mai della natura, ma solo della natura rozza, resta pur sempre libera e aperta anche quando si controlla; dove una sensazione brilla negli occhi e lo spirito quieto e sereno poggia sulla fronte faconda, la dignità falsa corruga al contrario la propria, diviene taciturna e misteriosa e sorveglia accuratamente come un commediante i suoi tratti. Tutti i muscoli del volto sono tesi, ogni vera espressione naturale scompare e l’intero uomo è come una lettera sigillata. Ma la falsa dignità non ha sempre torto a far rispettare al gioco mimico dei suoi tratti una rigorosa disciplina, poiché esso potrebbe esprimere più di quel che si vorrebbe rendere noto, un’attenzione, questa, di cui la dignità vera non ha certo bisogno. La dignità vera dominerà la natura, mai la nasconderà; in quella falsa al contrario la natura, essendo all’esterno impedita, domina con tanta più violenza all’interno.62
Per il kantiano che credette alla distinzione di prezzo e dignità operata dal maestro, quest’ultima era ancora una cosa auspicabile. Ciò non gli permise di avere una comprensione piena di quello a cui il grande scrittore si era tanto avvicinato: del fatto che alla dignità è immanente la sua stessa forma di decadimento, che è riconoscibile non appena gli intellettuali cercano di cattivarsi il potere che non hanno e al quale dovrebbero fare opposizione. Nel gergo dell’autenticità alla fine crolla la dignità kantiana, quell’umanità che ha il proprio concetto non nell’autoriflessione, ma nella differenza dall’animalità repressa.